mercoledì 28 marzo 2012

Quadrati magici e pensiero occulto

Un quadrato magico è una matrice quadrata di numeri interi positivi da 1 a n2, tale che la somma degli n numeri in ciascuna riga, colonna e diagonale principale sia sempre lo stesso numero, chiamato costante di magia. Questo si calcola con la formula:


Così, ad esempio, nel quadrato magico di lato (ordine) n = 3, la costante di magia vale:



Non è possibile costruire quadrati magici di ordine 2 con numeri non ripetuti, mentre quello di ordine 1 è banale, contenendo solo l’unità. Le costanti di magia per i quadrati magici costituiscono la successione A006003 dell'OEIS (Online Encyclopedia of Integer Sequences). I primi 15 elementi di questa successione sono: 1, 5, 15, 34, 65, 111, 175, 260, 369, 505, 671, 870, 1105, 1379, 1695.

Se si sottrae da n2 + 1 ogni numero di un quadrato magico, si ottiene un altro quadrato magico, chiamato quadrato magico complementare:


Un quadrato che consiste di numeri consecutivi che iniziano da 1 viene talvolta definito quadrato magico “normale”. Entrambi i quadrati sopra rappresentati lo sono, anzi, essi sono considerati lo stesso quadrato magico, perché uno si può ottenere dall’altro per rotazione o riflessione: esiste un solo esempio di quadrato magico di ordine 3.

Il quadrato magico di ordine 4 possiede la costante di magia M(4) = 34. Di esso sono possibili 880 configurazioni diverse senza rotazione o riflessione, come stabilì per primo Frénicle de Bessy nel 1693. Eccone un esempio, sul quale ritorneremo più tardi:


Il quadrato magico di ordine 5 possiede la costante di magia M(5) = 65. Di esso sono possibili 275.305.224 configurazioni diverse, come stabilito da R. Schroeppel in 1973 con l’ausilio del computer. Eccone un esempio:


Non è ancora noto il numero di configurazioni possibili per i quadrati magici di ordine superiore a 5, anche se Pinn e Wieczerkowski (1998) stimano con metodi stastistici che per n = 6 possano essere (1,7745 ± 0,0016) × 1019! Resta tuttavia irrisolto il problema più generale di trovare una regola che consenta di determinare il numero di quadrati magici di un qualsiasi ordine n.

Nel corso del tempo sono stati scoperti diversi tipi di quadrati magici oltre a quello normale, costruibili con criteri tra i più diversi. Il lettore interessato può approfondire l’argomento sulla pagina dedicata di Wikipedia.

I quadrati magici hanno una storia molto antica. Gli antichi Cinesi conoscevano l’unico quadrato di ordine 3, che chiamavano Lo Shu, al quale è associata una leggenda secondo la quale una disastrosa piena del fiume Lo, causata dall’ira dal dio del fiume contro la popolazione, ebbe fine solo la comparsa di una tartaruga con inciso sul guscio il triangolo magico, ad indicare di sacrificare a 15 divinità. La configurazione del Lo Shu era considerata simbolo di armonia e ispirava la pianta di templi e città, divisi in 3 × 3 settori.

I quadrati magici, che erano noti anche in India e in Persia, giunsero in Europa relativamente tardi, attraverso la mediazione araba. Il grande matematico Thābit ibn Qurra, attivo a Baghdad, ne parlò all’inizio del IX secolo. Una lista di quadrati magici di ordine da 3 a 9 fu fornito intorno al 990 nelle Rasa`il, un repertorio di epistole di carattere enciclopedico e ispirazione neoplatonica compilato da un gruppo di eruditi arabi di Bassora noto con il nome di Ikhwan al-safa (“fratelli di purità”). Il luogo di trasmissione dal mondo arabo all’Europa sembra essere stato la Spagna, visto che il filosofo ed astrologo ebreo Abraham ben Meir ibn Ezra (ca. 1090-1167), che visse a Granada e tradusse molte opere dall’arabo in ebraico, ne parla nelle sue opere di numerologia. Egli viaggiò molto in Italia, e potrebbe essere stato uno dei primi pionieri dell’introduzione dei quadrati magici in Europa.

Il primo riferimento ai quadrati magici nel mondo bizantino lo fornisce il retore e grammatico Manuel Moschopoulos che compilò un trattatello su di essi intorno al 1315, ma pare che l’influenza nella sua epoca sia stata minima, poiché l’opera andò persa e fu ritrovata a Parigi e tradotta dal geometra francese Philippe de la Hire solo all’inizio del Settecento. L’opera di Moschopoulos è importante perché per la prima volta sono esposti alcuni metodi per la costruzione dei quadrati magici di ordine dispari e di ordine pari purché multiplo di 4.

Cenni ai quadrati magici si ritrovano nel ms. 2433 in lingua greca (datato giugno-agosto 1339) conservato alla Biblioteca Universitaria di Bologna, che contiene i quadrati di ordine 6 e di ordine 9.

La vera riscoperta dei quadrati magici in Europa avvenne però nel Quattrocento, con la nascita in Italia del neoplatonismo rinascimentale. La caduta dell’Impero d’Oriente nel 1452 portò all’arrivo delle opere di Platone e dei neoplatonici, nuovamente rivelate all’Occidente tramite i manoscritti greci portati da Bisanzio. Il neoplatonismo rinascimentale, che ebbe il suo centro in Firenze e suo più alto esponente in Marsilio Ficino, fu un ricco amalgama di dottrine genuinamente platoniche, di neoplatonismo e di altri occultismi filosofici arcaici, come il Corpus Hermeticum attribuito al mitico Ermete Trismegisto, o l’astrologia. A questo ermetismo si associò poco dopo l’assimilazione della Kabbalah e delle tecniche numerologiche e combinatorie del misticismo ebraico, che vennero introdotte nella sintesi rinascimentale da Giovanni Pico della Mirandola, sinceramente convinto della possibile convivenza delle sue idee con il cristianesimo. La cacciata degli ebrei dalla Spagna nel 1492 diede poi nuovo linfa agli studi cabalistici in tutta Europa. Nacque così la figura del mago rinascimentale, figura di “dignità” elevata, dotata di poteri di intervento sul mondo mediante la conoscenza di saperi occulti derivanti dall’antico passato.

Le correnti numerologiche sfociarono in una rinascita degli studi matematici, persino in persone lontane da tentazioni occultistiche, come il molto concreto Luca Pacioli, che tuttavia chiamò “divina” la proporzione fra due lunghezze disuguali, delle quali la maggiore è medio proporzionale tra la minore e la somma delle due. Non sorprende pertanto che egli si occupasse di quadrati magici, nel manoscritto del De viribus quantitatis, redatto prima del 1510, nei problemi 90-96: De li numeri in forma quadrata disposti secondo lastronomi figure deli pianeti cioe ch’per lato et diametri sempre fanno tanto, dove 3 a 9. si trovano quelli di ordine da 3 a 9. Si noti come il Pacioli associ i diversi quadrati magici ai pianeti allora conosciuti, secondo una tradizione già iniziata prima del loro arrivo in Europa. Un vero e proprio mago rinascimentale era invece il medico, algebrista, inventore e astrologo milanese Girolamo Cardano, a dimostrazione della grande influenza del pensiero magico sugli intellettuali del tempo.

Ben presto il movimento di pensiero maturato in Italia si diffuse oltre le Alpi, soprattutto tra coloro che avevano avuto modo di soggiornare nel nostro paese. Tra di essi vi fu l’avventuroso intellettuale e mago Cornelio Agrippa di Nettesheim (1486-1535). La sua opera più celebre, il De Occulta Philosophia, che circolò manoscritta a partire dal 1510, è una vera e propria summa delle conoscenze indispensabili al mago rinascimentale, fortemente influenzata dal neoplatonismo, dall’astrologia e dalla Kabbalah, con velleità operative e cerimoniali. L’opera fu scritta con la revisione del dotto abate Tritemio (Johann Heidenberg), poliglotta, esoterista e crittografo, del quale era stato allievo. Per Agrippa, la matematica è arte magica per eccellenza:

“Così, quando un mago è versato nella filosofia naturale e nella matematica e conosce le scienze che ne derivano, l’aritmetica, la musica, la geometria, l’ottica, l’astronomia e quelle che si esercitano a mezzo di pesi, di misure, di proporzioni, di giunzioni, nonché la meccanica, che è la risultante di tutte queste discipline, può compiere cose meravigliose che stupiscono gli uomini più colti”.

Nel manoscritto del 1510 non compaiono tuttavia i quadrati magici, che saranno inseriti solo più tardi, nel lungo periodo di revisione dell’opera che precedette l’edizione a stampa del 1533. In questi due decenni abbondanti, Agrippa aveva viaggiato molto, in Inghilterra, in Francia, nei Paesi Bassi e in Italia. Qui studiò la tradizione ermetica e la Kabbalah con maestri che si consideravano eredi di Ficino e di Pico. E’ assai probabile che Agrippa e Pacioli si siano incontrati a Bologna nel 1507, durante il primo viaggio in Italia del tedesco. Non è escluso che da questi contatti possa aver maturato la scelta di inserire i quadrati magici nell’opera a stampa.

Nell’edizione del 1533 i quadrati magici compaiono nel secondo libro, dedicato alla magia celeste, cioè al potere delle stelle e dei pianeti. Di ogni quadrato magico, Agrippa fornisce la descrizione in chiave planetaria, secondo il seguente schema:

Ordine 3: quadrato di Saturno
Ordine 4: quadrato di Giove
Ordine 5: quadrato di Marte
Ordine 6: quadrato del Sole
Ordine 7: quadrato di Venere
Ordine 8: quadrato di Mercurio
Ordine 9: quadrato della Luna.

Ecco ad esempio la descrizione della tavola contenente il quadrato del Sole (n = 6, M = 111):

“La quarta tavola è attribuita al Sole e composta d’un quadrato a sei colonne con trentasei numeri, che danno su ogni linea un totale di centoundici e sommati insieme formano il numero seicentosessantasei. È governata dai nomi divini con una intelligenza per il bene e un demone per il male e se ne estraggono i caratteri del Sole e dei suoi Spiriti. Incisa su una placca d’oro con l’immagine del Sole trionfante, rende chi la porta con sé glorioso, amabile, piacevole, suscettibile di ottenere quanto desideri, simile ai re e ai principi. Ma, se l’immagine rappresenta un sole leso, vale a rendere tiranni, superbi, ambiziosi, incontentabili e a procacciare una cattiva fine.”

Ogni quadrato è accompagnato dal suo corrispondente in caratteri ebraici (così almeno sostiene l’autore) e da un numero variabile da 1 a 3 di Segni o Caratteri, che a me sembrano tanto dei percorsi da seguire sullo schema. Ad esempio, la tavola del Sole porta questi simboli:


Come si vede dal commento e dai simboli, ciascun quadrato planetario può esercitare un influsso benefico oppure malefico in funzione dell’immagine che lo accompagna, secondo la tradizionale ambivalenza dei simboli.

Come è noto, un quadrato magico di ordine 4 (quadrato di Giove) compare in una delle incisioni più famose del grande artista tedesco Albrecht Dürer (1471-1528), la Melencolia I, realizzata nel 1514. Esso si trova sulla parete dietro il soggetto, in alto a destra di chi guarda, sotto la campana. L’incisione è stata oggetto di diversi studi eruditi, che hanno messo in risalto come, secondo la dottrina medioevale degli umori, a ciascuno di essi corrispondono uno dei quattro elementi e quattro pianeti, secondo lo schema:

umore sanguigno – aria - Giove
umore collerico – fuoco - Marte
umore flemmatico – acqua – Luna
umore melanconico – terra – Saturno

Come scrive Frances Yates in Cabbala e occultismo nell’età elisabettiana (PBE Einaudi, 1982), “Il più sfavorito e detestabile di tutti e quattro gli umori era la melanconia abbinata a Saturno. Il melanconico era scuro di carnagione, nero di capelli e nel volto: la facies nigra o colorito livido causato dall’atrabile della carnagione dei melanconici. La sua tipica posizione fisica, espressiva di tristezza e depressione, era l’appoggiare la testa sulla mano. Anche i suoi “doni”, o attività caratteristiche, non erano attraenti: riusciva bene nella misurazione, nel calcolo e nel conto – nel misurare la terra e nel contare il denaro – ma come erano basse e terrene queste occupazioni in confronto alle splendide qualità dell’uomo sanguigno di Giove, o alla grazia e all’avvenenza dei nati sotto Venere!” La Melencolia di Dürer presenta proprio i canoni descritti, facies nigra, posizione pensosa, regge un compasso per la misurazione e il calcolo, ha una borsa per contare il denaro ed è circondata da oggetti di forma geometrica, tra i quali uno strano poliedro che ha interessato generazioni di interpreti e matematici.


Secondo il pensiero magico-astrologico rinascimentale, il temperamento malinconico derivante da Saturno poteva essere rivalutato, passare dal grado più basso degli umori a quello più alto, nel caso dei grandi pensatori, dei filosofi, dei profeti, dei veggenti. Essere malinconici poteva essere un segno di genialità (curioso che gli studi recenti abbiano sottolineato un legame tra genio e depressione) e Marsilio Ficino, nel De Triplici Vita (1489), dedicato alla magia astrale, rivolgendosi agli studiosi melanconici e saturnini, consiglia di aver cura di moderare la severità saturnina con gli influssi di Giove. Egli inoltre eleva l’accoppiata Giove-Saturno alla protezione delle attività intellettuali Ebbene, è proprio quanto avviene nell’opera di Dürer, in cui il quadrato di Giove sembra proprio avere la funzione di compensare gli effetti del dominio di Saturno.


Il quadrato di ordine 4 che compare nella Melancolia I  possiede la particolarità, di certo non casuale, che le due caselle centrali dell’ultima riga portano i numeri 15 14, che è la data di realizzazione dell’opera, e che le due caselle poste alle estremità contengono i numeri 4 e 1, che corrispondono alle lettere D e A dell’alfabeto, le iniziali di Albrecht Dürer, proprio a mo’ di firma.

Non fu di certo Ficino la fonte immediata dell’artista di Norimberga. E’ più probabile che egli abbia conosciuto il manoscritto del De Occulta Philosophia, che cominciò a circolare quattro anni prima dell’esecuzione della Melencolia e sicuramente circolava negli ambienti frequentati da Dürer. Secondo il classico studio di Klibansky, Panofsky, e Saxl, Saturno e la melanconia (Einaudi, 1964), l’opera potrebbe essere stata addirittura ispirata da un preciso passo del manoscritto di Agrippa del 1510, che i tre autori riproducono e traducono. Comunque sia andata, la presenza del quadrato di Giove nella bellissima incisione, una delle opere più conosciute del rinascimento tedesco, dimostra come la diffusione dei quadrati magici nell’Europa del Rinascimento non può essere separata dal successo del pensiero magico-ermetico che si era sviluppato a partire dalla metà del Quattrocento.

sabato 24 marzo 2012

La Regina Azteca

Gli anglosassoni designano con vanishing puzzles quelle figure che, opportunamente tagliate e risistemate, producono l’illusione che una parte sia scomparsa. Qui riporto il classico esempio del triangolo rettangolo che perde un quadratino, ma, per una galleria più approfondita, rimando all’articolo che ha loro dedicato l’amico Mariano Tomatis, matematico e illusionista di gran vaglia.


Molto bello è l’enigma dei quindici nani ("leprechaun") creato dall'artista canadese Jeanette Louise "Pat" Patterson Lyons, i quali, dopo taglio e ricomposizione, diventano 14:



Uno dei maestri di questi affascinanti rompicapi fu l’americano Sam Loyd (1841-1911), provetto scacchista e grande esperto di enigmi, che ne pubblicò alcuni diventati famosi. Quello che egli stesso definì il suo capolavoro fu il Get Off the Earth Puzzle, pubblicato nel 1896, che rappresenta tredici guerrieri cinesi che circondano il globo terrestre. Ruotando il globo, uno di essi sembra scomparire, senza che si riesca a capire chi sia e dove sia finito.


Ai vanishing puzzles e a Sam Loyd si è ispirato Claude Berge (1926-2002), matematico e oulipiano di cui mi sono occupato già alcune volte (qui e qui). Infatti Berge pubblicò nel 1983, nella Biblioteca Oulipiana (BO n. 22), l’opera La reine aztèque, ou contraintes pour un sonnet à longueur variable, un sonetto di 14 versi (A), che può essere riorganizzato in una poesia di 15 versi (B) con le stesse parole, conservando anche la metrica. L’operazione si attua dividendo il sonetto nei punti indicati con un taglio verticale e all’altezza della riga bianca tra le strofe con un taglio orizzontale. Poi si scambiano di posto i due pezzi di destra, facendo in modo che il primo verso della seconda strofa diventi il primo della prima. In realtà l’operazione comporta un trucchetto, ma lascio al lettore il piacere di scoprirlo.



La Reine Aztèque (A)


Tandis qu’en frissonnant elle | égrenait des vers
L’| Aztèque imperturbable à la touque imprécise
Serrait sa souveraine une blonde | aux yeux verts
D’un lien | libidineux que la froidure attise
Dans l’Ouest enfoui dit-elle à son amant | pervers,
C’est là que l’art | jaillit, que l’Inca prosaïse,
Et que la pyramide abolit l’univers | !
Nul n’entend le muet qui | tout doucement s’enlise…


Comme le perspicace inouï | conjecturait,
Jeune | ami présomptueux plus fou qu’il ne paraît,
N’offre pas de pactole à ton gardien | farouche
Si le verbe | à la fois oppresseur et charmant
D’un tel triomphateur ne trouble le diamant | …
Même Xipe Totec | fuit et détruit sa souche


La Reine Aztèque (B)


Tandis qu’en frissonnant elle | conjecturait,
L’| ami présomptueux plus fou qu’il ne paraît,
Serrait sa souveraine une blonde | farouche
D’un lien | à la fois oppresseur et charmant
Dans l’Ouest enfoui dit-elle à son amant | …
C’est là que l’art | fuit et détruit sa souche
Et que la pyramide abolit l’univers !|
Nul n’entend le muet qui | égrenait des vers
Aztèque imperturbable à la touque imprécise
Comme le perspicace inouï | aux yeux verts
Jeune | libidineux que la froidure attise
N’offre pas de pactole à ton gardien | pervers,
Si le verbe | jaillit, que l’Inca prosaïse,
D’un tel triomphateur ne trouble le diamant | !
Même Xipe Totec | tout doucement s’enlise…

Siccome non l’ha mai fatto nessuno, ho provato ad adattare il sonetto in italiano, cercando almeno di conservare le rime, dato che mantenere la metrica è operazione troppo problematica. Anche in lingua originale il testo è piuttosto oscuro e contiene riferimenti non facili da individuare (qualcuno ci ha visto un velato accenno alla circoncisione). In ogni caso, Xipe Totec ("Nostro Signore lo Scorticato"), era un dio azteco dell'agricoltura, omologo della greca Prosepina, che presiedeva alla morte e alla rinascita, all'occidente e alla primavera. Si tolse la pelle per dare nutrimento all'umanità, simboleggiando il seme del mais, che perde il tegumento esterno per poter germogliare. Veniva raffigurato senza pelle, come un dio dorato, oppure con una seconda pelle. A lui si dedicavano sacrifici umani con relativo scorticamento.

La regina azteca (A)

Rabbrividendo lei | sgranava il suo verso
L’| Azteca imperturbabile che all’errore tende
Stringeva la sua sovrana una bionda | d’occhio terso
D’un legame | libidinoso che il freddo accende
Nell’ovest fuggito lei dice all’amante | perverso,
È là che l’arte | fiorisce, che l’Inca prosa stende,
E che la piramide abolisce l’universo | !
Nessuno sente il muto che | pian piano discende…

Come il perspicace inaudito | supponeva,
Giovane | amico borioso matto più che pareva,
Non offre del denaro al tuo guardiano | feroce
Se il verbo | insieme oppressivo e affascinante
D’un tal vincitore che oscura il diamante / …
Persino Xipe Totec / fugge, la stirpe va in croce.

La regina azteca (B)

Rabbrividendo lei | supponeva,
L’| amico borioso matto più che pareva,
Stringeva la sua sovrana una bionda | feroce
D’un legame | insieme oppressivo e affascinante
Nell’ovest fuggito lei dice all’amante | …
È là che l’arte | fugge, la stirpe va in croce.
E che la piramide abolisce l’universo ! |
Nessuno sente il muto che | sgranava il suo verso
Azteca imperturbabile che all’errore tende
Come il perspicace incredibile | | d’occhio terso
Giovane | libidinoso che il freddo accende
Non offre del denaro al tuo guardiano | perverso
Se il verbo | fiorisce, che l’Inca prosa stende,
D’un tal vincitore che oscura il diamante / !
Persino Xipe Totec / pian piano discende…


mercoledì 21 marzo 2012

Limerick politici d’epoca romantica


Or soffre, Italia, il tuo Genio queste
reliquie estreme in liberista veste:
un fascismo educato,
dal napolitan osannato,
che predica rigor e porta tempeste.
(Ugo Foscolo)



Ei fu. Siccome immobile, privo di memoria,
da Lenin a Fornero, orbo della sua storia,
permise al bocconian
quel che non fe’ il nan:
destin d’un partito d’indole accessoria.
(Alessandro Manzoni)



A far del popol strazio con gloria impudente
venne così quel migliorista oggi presidente
(dimentico che sia,
invase l’Ungheria);
di ree vicende artefice, a’ banche obbediente.
(Vincenzo Monti)



Natura, un giorno, a contemplar discese
come l’italian non arriva a fine mese:
tornò al Ciel insonne
vedendo un tal Marchionne
ispirar l’industrial politica del Paese.
(Giuseppe Parini)

martedì 20 marzo 2012

Un inizio

Oggi non importa che questa poesia l’abbia composta il grande scienziato e poeta James Clerk Maxwell nel 1848, quando aveva solo 17 anni e da un anno frequentava la Edinburgh University. Scritta nello stile di una ballata medievale, l’opera esprime il vigore e la rabbia di un giovane, forse specchio di in un’epoca di grandi sommovimenti politici (un gran quarantotto, appunto). Oggi importa che sono pieno di rabbia verso chi fa pagare la crisi economica ai meno abbienti, contro chi dà l’assalto ai diritti conquistati in decenni di lotte, contro chi ritiene che la democrazia non sia confronto e partecipazione, ma solo ratifica formale di decisioni prese da pochi. Holloa. Hollo!

An Onset


Hallo ye, my fellows! arise and advance,
See the white-crested waves how they stamp and they dance!
High over the reef there in anger and might,
So wildly we dance to the bloody red fight.
Than gather, now gather, come gather ye all,
Each thing that hath legs and arms, come to our call;
Like reeds on the moor when the whirlwinds vie
Our lances and war-axes darken the sky;
Sharp, sharp, as the tooth of the sea-hound and shark,
They'll tear ye, they'll split ye, fly lance to the mark,
Home, home to the heart, and thou battle-axe grim,
Split, splintring and shivering through brain-pan and limb;
To-day we ask vengeance, to-day we ask blood,
We ask it; we're coming to make our words good;
The storm flinches not tho’ the woods choke its path,
We ask it; we're coming, beware of our wrath.
At home wives and children a hearth for us lay,
A savoury flesh-feast awaits us to-day;
Behind yonder mountains e’en now the smoke streams,
And the blaze of the bush fire crackles and gleams.
Long, long have we hungered and thirsted for you,
At home the dogs bark round the clean table too,
Loud shouting we'll eat you to-night every one,
Devour you clean to the white sinewy bone.
Rush, rush ye my fellows, rush on them like hail,
Soon, soon shall their roasting your nostrils regale,
The fire is flaring, the oven’s a glow,
Heave to now hew thro’ now, Holloa, Hollo.



Un inizio

Salute a voi, compagni! Alzatevi e avanzate,
guardate le onde bianco-crestate come scalpitano e danzano!
Alte là sopra la scogliera con rabbia e forza,
così all’impazzata balliamo la lotta rosso sangue.
Poi chiamiamo a raccolta, ora chiamiamo, riunitevi tutti,
ogni cosa che ha gambe e braccia, venga al nostro richiamo;
come canne nella brughiera quando i venti turbinanti fanno a gara,
le nostre lance e asce da guerra oscurano il cielo;
acute, acute, come il dente del pescecane e di squalo,
esse vi faranno a pezzi, vi spezzeranno, scaglieranno la lancia verso il bersaglio,
casa, casa per il cuore, e tu, sinistra ascia da battaglia,
fendi, frantumando e rabbrividendo attraverso il cranio e l’arto;
oggi chiediamo vendetta, oggi chiediamo sangue,
lo chiediamo, stiamo arrivando per adempiere alle nostre parole;
la tempesta non si ritira anche se le foreste soffocano il suo cammino,
lo chiediamo, stiamo arrivando, abbiate paura della nostra collera.
A casa le moglie e i figli per noi lasciano un cuore,
un’appetitosa festa di carne oggi ci aspetta;
Dietro quelle montagne anche adesso fluisce il fumo,
e la fiamma dell’incendio degli arbusti crepita e scintilla.
A lungo, a lungo per voi abbiamo patito la fame e la sete,
a casa pure i cani abbaiano attorno alla tavola vuota,
gridando forte mangeremo stanotte tutti voi,
vi divoreremo fino al bianco fibroso delle ossa,
affrettatevi, presto miei compagni, abbattetevi su di loro come grandine,
presto, presto il loro arrostire delizierà le vostre narici,
il fuoco sta divampando, il forno è incandescente,
sollevatevi ora, distruggete ora, forza, andiamo.

lunedì 19 marzo 2012

Tre stroncature scientifiche

Oceano mare, di Alessandro Baricco

Non conosco quali credenziali scientifiche possa vantare questo Alessandro Baricco, ma devo purtroppo affermare che il suo Oceano Mare mi delude profondamente. Avvezzo ai libri di oceanografia della scuola di Jacques Cousteau, pieni di dati scientifici sulla fauna e la flora marine, sugli ambienti e la geologia dei fondali, arricchiti dal racconto di entusiasmanti avventure nel sesto continente, corredati da un apparato iconografico di grande qualità, mi colpisce l’assoluta mancanza di informazioni, la totale assenza di disegni e fotografie, il racconto di vicende che nulla hanno a che fare con quanto promesso dal titolo. Anche su di esso c’è poi da discutere. Oceano o mare? Tutti sanno che gli oceani sono mari, ma non tutti i mari sono oceani. La differenza non è data soltanto dalle dimensioni, ma anche dalla natura geologica dei fondali: gli oceani presentano dorsali e fosse, i mari le hanno solo se sono residui di oceani. Con tutta evidenza, l’autore non possiede la minima cognizione di che cosa sia la tettonica a zolle.

Ogni libro scientifico che si rispetti è preceduto da un breve sunto, un abstract, che in poche righe sintetizza i contenuti principali dell’opera. Il Baricco anche qui pecca di disattenzione o di ignoranza. Dobbiamo forse considerare come indicazione dei temi principali dell’opera l’incipit «Sulle labbra della donna l’ombra di un sapore che la costringe a pensare ‘acqua di mare, quest’uomo dipinge il mare con il mare’ », che ricorda tanto una canzone di Gino Paoli? E come si fa a parlare di oceano, o di mare, se non ci si muove da una locanda? E dove sono gli oceanografi, i biologi marini, i subacquei? Una donna isterica, un’altra un po’ allegra, un matematico idiota, un pittore malato nel cervello che dipinge con l’acqua? E il prete, che cosa c’entra un prete?

Mi chiedo poi la sostenibilità scientifica di una frase come «Il mare è senza strade, il mare è senza spiegazioni». E no, caro il mio Baricco, il compito di un libro di divulgazione scientifica è proprio quello di fornire spiegazioni! Troppo comodo questo ermetismo d’accatto! Facile, troppo facile scrivere un libro sull’oceano senza muoversi dalla terraferma, facile come eseguire uno studio di funzione senza sapere le tabelline.

Quando finalmente succede qualcosa nel tedio generale dell’opera, finalmente in mare aperto, si parla di un lontano naufragio della fine del ‘700. Il nome Medusa, che per un istante induce il lettore a pensare che si parli di zoologia marina, è invece quello di una nave. Due tizi che parlano dei fatti loro su una zattera alla deriva costituiscono il punto con più pathos dell’intera opera, il che non è certo il modo migliore per esporre gli esiti di una ricerca o raccontare suggestive esplorazioni.

Non ho mai letto un libro scientifico così privo di contenuto scientifico, scritto con un linguaggio del tutto privo di precisione terminologica, così perso in chiacchiere senza senso e in banalità da cartina da cioccolatino come «Non si è mai abbastanza lontani per trovarsi». Ne sconsiglio pertanto l’acquisto, domandandomi come una tale opera abbia potuto superare anche la più benevola delle peer-review.



Perché io credo in colui che ha fatto il mondo. Tra fede e scienza, di Antonino Zichichi

Il volume, 256 pagine, presenta una copertina cartonata con la fotografia dell’autore di tre quarti, capelli bianchi lunghi pettinati all’indietro, viso sorridente abbronzato, braccia conserte, abito blu, camicia bianca, cravatta scura. Lo sfondo è una di quelle belle immagini a colori finti ottenute da un telescopio a raggi infrarossi che rappresenta una lontana galassia.

Un globo luminoso al centro emette quattro raggi, a simulare un sistema di assi cartesiani, ed è contornato dal profilo di un triangolo isoscele con base circa doppia dell’altezza, disegnato in bianco, che ricorda una di quelle rappresentazioni medievali della Trinità sulla base del credo di Nicea, probabilmente per una citazione colta. La superficie del triangolo, pur essendo trasparente, è più scura rispetto al resto dell’immagine. Le scritte di copertina sono in bianco, per meglio risaltare sul fondo; si nota che le parole “io credo” sono scritte in carattere più grande forse per un errore di composizione. Più piccolo il sottotitolo “Tra fede e scienza”. Nell’angolo in basso a destra spicca il conosciuto logo del gruppo editoriale, con la S che simula un arco nell’atto di scoccare una freccia diretta verso destra.

La quarta di copertina riporta in due colonne affiancate, con allineamento a sinistra, una presentazione del contenuto del libro e una succinta biografia dell’autore. In basso a destra è visibile l’elegante codice a barre. Il prezzo di vendita al pubblico del libro è di € 16,00, ma su Internet è possibile trovarlo anche a prezzi più bassi a seconda della libreria on line. Nel suo complesso il volume costituisce un parallelepipedo largo 13,5 cm, alto 20,5 cm e di spessore pari a 2,4 cm, per un volume complessivo di cm3 664,2. Il peso del volume (si perdoni il bisticcio di parole e di unità metriche) è di 456 grammi. Facendo il rapporto tra il prezzo di vendita e il peso si ricava il valore approssimato di 35,09 €/kg, molto più caro che il prosciutto crudo venduto in busta alla Coop. Se ne sconsiglia pertanto l’acquisto.

(Talvolta la cosa migliore di un libro è la sua mera materialità, l’unica degna di essere recensita).


Éléments de Mathematique, di Nicolas Bourbaki

Tutti nell’ambiente sanno che Nicolas Bourbaki non esiste, che era il nome di un generale francese dell’Ottocento, eroe a Tunisi, che con la matematica non c’entra niente. Allora, può un personaggio inesistente scrivere una serie di trattati matematici per cinquant’anni di fila? La matematica violata da uno pseudonimo, soprattutto invocando il sistematico rigore! Passi se uno scrive un romanzo: tanti sono stati scritti sotto pseudonimo, e molti letterati hanno adottato nomi di fantasia per tutta la vita, come Georges Sand, Italo Svevo, Aldo Palazzeschi o Alberto Moravia. Altri addirittura, pur conservando il loro vero nome, hanno finto per tutta la vita di essere romanzieri (forma ancor più raffinata e crudele di pseudonimia), come Alberto Bevilacqua, Oriana Fallaci, oppure quello dei lucchetti di cui non ricordo neanche il nome. Diciamo che nella finzione, che è matrice della letteratura, ci può stare anche un nome inventato o una fama usurpata. Ma, perdio, nella scienza no!

La matematica esige serietà, perché tratta di argomenti verificabili, coerenti anche se non completi, oggettivi anche quando sono completamente astratti. Potrebbe mai pubblicare su Science un fisico che si firma Donald Duck? O segnare un nuovo approccio nella matematica uno che si fa chiamare Galois, come una sigaretta? O vincere la medaglia Fields uno che sceglie lo pseudonimo di Perelman, come una penna stilografica? Perché allora questo finto Bourbaki, assai longevo peraltro, si è permesso di scrivere di matematica senza rivelare le sue generalità? Per provocazione? Per irrisione? Per non prendersi responsabilità?

Lasciamo perdere pure la questione dello pseudonimo, per passare a un’altra stranezza. Tutti noi abbiamo imparato la geometria attraverso le figure e, grazie alla vista, sappiamo riconoscere un quadrato, una parabola, una spirale. Com’è allora che i diversi volumi degli Éléments non ne contengono neanche una? Passi pure il rinunciare a tutto tranne riga e compasso, come fecero i Greci (che così si preclusero molte utili dimostrazioni e oggi stanno pagando la loro imperizia contabile), ma rinunciare persino alla mano libera, al punto che uno le figure è costretto a immaginarsele? Un conto è disegnare una retta nel piano cartesiano, un conto è fornire una formula astrusa come y = 5x + 2 e dire che corrisponde a una retta. Chi ce lo assicura? Il signor Bourbaki? E chi è?


Prendiamo infine in considerazione che cosa sceglie il signor Bourbaki, o chi per lui, per costruire il suo edificio matematico: la teoria degli insiemi. E in quale versione? Sì, perché di teorie degli insiemi ce ne sono molte e c’è stato anche uno che è arrivato a distinguere gli infiniti a partire dall’insieme vuoto. Si arriva così all’assurdo di scegliere come fondamento, invece dei cari e vecchi numeri, un concetto opinabile e sottoposto a discussione. Costruireste voi una casa senza essere certi che i vostri mattoni reggono lo sforzo? In realtà non c’è nemmeno accordo su come i mattoni debbano essere fatti, con quale composizione, quale forma, quali dimensioni. E infatti si rincorrono le difficoltà con acrobazie sempre più pericolose: l’ipotesi del continuo, l’assioma della scelta, ecc.

Dice l’autore nella prefazione: «Dai greci, chi dice matematica dice dimostrazione. Alcuni dubitano che al di fuori delle matematiche esistano dimostrazioni nel senso preciso e rigoroso che questo termine ha ricevuto dai greci e che si intende dare in questa opera. Si ha il diritto di dire che il significato del termine dimostrazione non è variato, poiché ciò che è stato una dimostrazione per Euclide, lo è tuttora ai nostri occhi; […]Ma a questa venerabile eredità si sono aggiunte, da un secolo, importanti scoperte. In effetti l'analisi del meccanismo di dimostrazione nei migliori testi di matematica ha permesso di liberare la struttura dal doppio punto di vista del vocabolario e della sintassi. Si arriva quindi alla conclusione che un testo di matematica sufficientemente esplicito può essere espresso in un linguaggio convenzionale comprendente solamente un piccolo numero di termini invariabili assemblati mediante una sintassi che consisterà in un piccolo numero di regole inviolabili. Un testo così concepito si dice formalizzato. [...]. La verifica di un testo formalizzato non richiede che una attenzione meccanica; le sole cause di errore saranno dovute alla lunghezza o alla complessità del testo.[...]. Per contro, in un testo non formalizzato si è esposti ad errori di ragionamento che rischiano, ad esempio, di causare un uso improprio dell'intuizione o del ragionamento per analogia». Splendido: si invoca l’utilità della dimostrazione e nei volumi queste sono lasciate al lettore, si dice di voler rinunciare ambiguità del linguaggio naturale e con che cosa lo si sostituisce? Con simboli assemblati in modo confuso! Alla ricchezza del linguaggio si sostituisce l’afasia della cifra nuda. Alla bellezza della comprensione dei passi successivi di un algoritmo si preferisce un oscuro codice enigmistico: non ci siamo!

domenica 18 marzo 2012

Il problema della longitudine

Le difficoltà legate alla determinazione della propria posizione sulla superficie della Terra erano già ben note agli antichi Greci. Determinare la latitudine, ciò la posizione rispetto ai poli o all’equatore, è una procedura astronomico-matematica abbastanza semplice, che più o meno corrisponde a quella per determinare l’ora locale. Il tempo locale si calcola basandosi sulla posizione apparente del Sole a mezzogiorno, quando l’astro si trova nella sua posizione più elevata. Non è invece facile calcolare la longitudine, cioè la posizione a ovest o a est di un determinato punto fisso sull’equatore. I Greci già sapevano che, se fosse stato possibile stabilire il tempo locale contemporaneamente in due punti diversi, allora si sarebbe potuto determinare anche la loro distanza longitudinale. Poiché l’equatore è una circonferenza divisa in 360°, e poiché la Terra compie una rotazione ogni 24 ore, allora 4 minuti di differenza nel tempo locale corrispondono a un grado di differenza nella longitudine (360° di longitudine sono equivalenti a 24 × 60 = 1440 minuti e 1440/360 = 4). Il problema è che non si può essere contemporaneamente in due punti diversi!

Nel periodo dei grandi navigatori, Amerigo Vespucci (1454-1512) fu il primo a dedicare tempo e grandi sforzi per studiare il problema durante i suoi soggiorni nel Nuovo Mondo. In una lettera del 18 luglio 1500, scritta a Siviglia al ritorno del suo secondo viaggio e indirizzata a Lorenzo di Pier Francesco de' Medici, egli descriveva un metodo per la determinazione della longitudine basato sulla congiunzione della Luna con altri pianeti, in particolare quella con Marte del 23 agosto 1499, prevista dalle tavole planetarie del Regiomontano in suo possesso tra la mezzanotte e l’ora successiva. Osservando la posizione relativa dei due corpi celesti dalla costa settentrionale dell’America del Sud e confrontandola con quella prevista per la città di Norimberga, egli poté calcolare la differenza longitudinale. Il metodo pativa però di diversi inconvenienti: richiedeva l’occorrenza di uno specifico evento astronomico, il possesso di tavole planetarie affidabili e di un metodo per determinare l’ora locale con precisione. Si aggiunga che le tavole del Regiomontano erano clamorosamente sbagliate! Il tentativo di Vespucci, per quanto fallimentare, anticipò tuttavia i metodi successivi basati sull’osservazione delle posizioni planetarie. Tra il Cinquecento e il Seicento furono infatti proposti tre metodi diversi per consentire a navigatori, cartografi e topografi di determinare la longitudine.

Il primo metodo proposto fu quello della distanza lunare, esposto dal sacerdote e matematico di Norimberga Johannes Werner (1468 – 1522) nell’opera Nova translatio primi libri geographiae Cl’ Ptolomaei … (Nürnberg 1514), vale a dire nella sua traduzione della Geographia di Tolomeo. Werner aveva studiato a Ingolstadt, che era uno dei centri più prestigiosi degli studi matematici dell’Impero. Questa procedura fu tuttavia divulgata dagli scritti di un altro membro della cerchia di Inglostadt, il matematico e astronomo sassone Pietro Apiano (Peter Apian, 1495 – 1552) che la descrisse accuratamente nella sua Cosmographia (Landshut 1524).

Il principio su cui si basa il metodo della distanza lunare è abbastanza semplice: si devono compilare accurate tavole della posizione della Luna rispetto a una o più stelle fisse per tutto l’anno in una determinata località (nella figura ad esempio la stella considerata è Regulus). Poi si determina la posizione della Luna rispetto alle stesse stelle nel luogo del quale si vuol conoscere la longitudine, prendendo nota del tempo locale. Nelle tavole è possibile stabilire il tempo di quando la Luna occupava la stessa posizione al punto d’origine e così calcolare il tempo e le differenze longitudinali. A parte i non irrilevanti problemi pratici di fare le necessarie accurate osservazioni astronomiche per calcolare la distanza lunare locale, particolarmente su una nave in movimento, questo metodo aveva un inconveniente molto importante: siccome la Luna è un corpo relativamente piccolo in un sistema gravitazionale che la coinvolge con la Terra e il Sole, la sua orbita è, diciamo, piuttosto irregolare perché il nostro satellite è costantemente sottoposto a forze che lo spingono di qua e di là.

Determinare l’orbita lunare e compilare quelle agognate tavole si dimostrò un problema insormontabile anche per i migliori astronomi, almeno fino a quando Tobias Mayer (1723 – 1762) riuscì a realizzare tavole adeguate durante la sua attività di cartografo nella sua città natale, Norimberga.

Un paio di decenni dopo la pubblicazione del metodo di Johannes Werner della distanza lunare, fece la sua comparsa il secondo metodo per determinare la longitudine, quello dell’orologio esatto. I primi orologi meccanici comparvero in Europa durante la prima metà del Trecento, ma chiunque abbia visto gli orologi nelle cattedrali gotiche sa che le loro dimensioni sono circa quelle di un soggiorno, pesano diverse tonnellate e sono alquanto imprecisi. Se si considera poi che la prima generazione di orologi medievali non era dotata di un quadrante per mostrare le ore, ma erano soprattutto concepiti per mostrare le fasi lunari o i moti dei pianeti, o addirittura solo per comandare il battere delle campane, ci si rende conto che si era assai lontani da qualsiasi possibilità di utilizzo per la determinazione della longitudine. Con il tempo tuttavia l’arte di costruire orologi si perfezionò, ed essi divennero più piccoli e precisi. All’inizio del Cinquecento comparvero i primi orologi da tasca e alla metà del secolo fu proposto di utilizzarli per determinare la longitudine.

Con questo metodo, il viaggiatore porta con sé un orologio molto preciso, per stabilire il tempo locale del suo punto di partenza e quello della sua posizione corrente. Calcolando la differenza tra i due tempi si può stabilire così la differenza di longitudine. L’unico problema, per niente da sottovalutare, è costruire un orologio in grado di affrontare vibrazioni, cambi di temperatura, lunghi viaggi per mare, ecc. e che continui a essere esatto.

Per uno strano scherzo della storia, anche questo metodo fu pubblicato nella Cosmographia di Apiano, ma non da lui stesso. Il libro fu infatti il testo di riferimento per l’astronomia di base e la cartografia per tutto il XVI secolo ed ebbe numerosi edizioni e ristampe per decenni. Solo la prima edizione del 1524 ebbe la completa paternità del matematico di Ingolstadt. Per ragioni che non è stato possibile accertare, tutte le successive edizioni, ampliate e migliorate, furono opera del Professore di Medicina all’Università di Lovanio, nei Paesi Bassi Spagnoli, il matematico Gemma Frisius (1508 – 1555). Il nome di Frisius è poco conosciuto nella storia della scienza, ma egli fu una figura importante nella storia dell’astronomia, della fabbricazione di planisferi e della cartografia. Egli fu ad esempio il primo astronomo a pubblicare commenti sul De revolutionibus di Copernico, inventò il metodo della triangolazione e fu il maestro di Mercatore. Frisius fu così in grado di aggiungere alla Cosmographia diverse appendici contenenti informazioni e aggiornamenti nelle diverse discipline di suo interesse. Una di queste appendici conteneva appunto la proposta di adottare il metodo dell’orologio per determinare la longitudine.

Il metodo dell’orologio non incontrò un grande successo presso gli astronomi. Bisogna ricordare che erano proprio loro, responsabili di tenere traccia del tempo sin dagli albori della civiltà, che avevano inventato e sviluppato l’orologio meccanico, e che i costruttori di strumenti astronomici erano i migliori fabbricanti di orologi dell’epoca. Essi perciò conoscevano davvero ciò di cui stavano parlando. Per questi grandi esperti il metodo della distanza lunare sembrava più affidabile e dava maggiori garanzie per la soluzione del problema: all’orologio meccanico continuarono a preferire l’orologio celeste, almeno fino a quando i progressi della tecnologia orologiaria non li convinsero del contrario.

L’inizio del Seicento vide la nascita del terzo metodo, che fu proposto da Galileo Galilei (1564 – 1642) nel 1612 e comportava l’uso come orologio della sua più importante scoperta astronomica, le lune di Giove. Poiché Giove è molto distante dal Sole ed è molto grande in confronto alle sue quattro lune più grandi, queste hanno orbite molto regolari e sono eclissate da Giove a intervalli molto regolari. Il metodo è molto simile a quello della distanza lunare. Un insieme accurato di tavole delle eclissi delle lune di Giove per una data località poteva funzionare come un orologio del tempo locale per quella località. Qualcuno che avesse osservato la stessa eclissi in un altro posto avrebbe potuto comparare il tempo locale dell’osservazione con quello nelle tavole e così calcolare la differenza di tempo e di longitudine.

Questo metodo è ingegnoso, ma presenta almeno un paio di grossi inconvenienti. Osservare le lune di Giove con un telescopio galileiano è molto difficile, ed è praticamente impossibile da una nave in movimento (il metodo lunare possiede il vantaggio che la Luna è un bersaglio grande). Galileo cercò di ovviare al problema progettando una coppia speciale di binocoli montati su un casco, il celatone, che doveva indossare il marinaio incaricato delle osservazioni, ma il progetto non andò mai oltre lo stato di disegno. Galileo arrivò a contrattare con il re di Spagna la fornitura ai navigatori spagnoli del suo metodo, ma il progetto fallì perché era impraticabile. 

Le difficoltà delle osservazioni comportava anche il fatto che la compilazione della tavole era tutt’altro che facile, e lo scienziato pisano abbandonò il suo stesso tentativo di farlo. Il primo apparato di tavole abbastanza accurate per lo scopo fu realizzato da Cassini (1625 – 1712) più di cinquant’anni più tardi, con ottiche assai più perfezionate. Nonostante il suo uso fosse impraticabile in mare, il metodo delle lune di Giove fu adottato con successo dai cartografi sulla terraferma e comportò un grande miglioramento della qualità delle carte geografiche alla fine del secolo. Questo miglioramento portò al celebre commento del re di Francia che disse di aver perso più territori a causa dei cartografi di quanti ne avesse mai persi in guerra: la Francia era infatti risultata nettamente più piccola di quanto si fosse pensato in precedenza.

Agli inizi del XVIII secolo l’opinione pubblica inglese fu colpita da una serie di disastri marittimi attribuibili a seri errori nella determinazione della posizione in mare, come ad esempio la perdita di quattro navi della flotta comandata da Sir Cloudesley Shovell presso le isole di Scilly nel 1707. Questi episodi indussero nel 1714 il governo inglese a fondare il Royal Board of Longitude e a stabilire un premio in denaro per chiunque avesse dimostrato un metodo pratico per determinare la longitudine su una nave in navigazione. L'istituzione fu il centro delle ricerche per più di un secolo, fino alla sua chiusura nel 1826.


I metodi che avevano resistito alla prova dei fatti erano quello della distanza lunare di Johannes Werner e quello dell’orologio di Gemma Frisius. Il problema che bisognava affrontare per determinare con esattezza la longitudine non era più metodologico, ma tecnico. Solo la creazione di telescopi più perfezionati, come il telescopio a riflessione di John Hadley (1721), l’invenzione del sestante da parte dello stesso costruttore (1731), le tavole lunari di Tobias Mayer (1752), precise fino a cinque secondi d’arco, avrebbero consentito importanti progressi nella soluzione della questione. Anche gli orologi divennero più piccoli, robusti e precisi, e parve corretto per un po’ dei tempo considerare i due metodi come complementari e non alternativi. Fu la costruzione degli straordinari orologi di John Harrison (1693-1776), tra il 1730 e il 1761, che fece pendere la bilancia in favore del metodo dell’orologio, ma questa è un’altra storia, sulla quale sarà bene ritornare un’altra volta.

mercoledì 14 marzo 2012

Carnevale della Matematica n. 47


Oggi è il Pi Day (03/14), il compleanno di Einstein e il giorno del Carnevale della Matematica n. 47. Un tale cumulo di ricorrenze meritava una degna celebrazione. L’ottimo Gianluigi Filippelli, sul blog Dropsea, è riuscito nell’impresa, conducendo un Carnevale ricco sia sul piano della quantità dei contributi giunti sia su quello della qualità. Consiglio vivamente un clic sull’immagine del Carnevale per accedere al fantasmagorico mondo dei numeri secondo il bloggerismo matematico (e non solo) italiano.



domenica 11 marzo 2012

La Canzone del Ripiglino, di James Clerk Maxwell

La filastrocca (Cats) Cradle Song, by a Babe in Knots è, a parer mio, una delle opere poetiche più belle di J. C. Maxwell per ritmo, sonorità ed efficacia delle allitterazioni. È chiaramente ispirata alle Nursery Rhymes, le filastrocche per bambini tanto importanti nella tradizione inglese, dalle quali il fisico-poeta ha anche tratto il nome di uno dei personaggi, Little Jack Horner, mentre il nome del protagonista, Peter the Repeater, è solo un comune gioco di parole.

Come le altre poesie di Maxwell, anche questa merita un piccolo apparato di note, che il lettore troverà ai piedi del mio adattamento. Non si tratta infatti di una traduzione, ma di un adattamento “a senso”, con il quale ho cercato di conservare le rime e la musicalità del testo.

Il titolo merita subito una spiegazione: Cats Cradle può significare “culla dei gatti, cuccia”, e sicuramente Maxwell ha voluto giocare sul fatto che la poesia ha il ritmo di una filastrocca per bambini (A Cradle Song è anche una poesia di William Blake), ma la locuzione indica, nel suo contesto, più propriamente la prima figura del gioco del ripiglino, che si fa tra due o più persone usando la mani ed una cordicella. Il gioco consiste nel formare figure intrecciando a turno la cordicella intorno alle proprie dita. Ciascuno dei partecipanti "ripiglia" il filo dalle mani del precedente ottenendo un nuovo intreccio a partire dalla prima figura, che si chiama appunto “culla”, in inglese Cat’s Cradle.



(Cats) Cradle Song, by a Babe in Knots

Peter the Repeater,
Platted round a platter
Slips of slivered paper,
Basting them with batter.


Flype ’em, slit ’em, twist ’em,
Lop-looped laps of paper;
Setting out the system
By the bones of Neper.


Clear your coil of kinkings
Into perfect plaiting,
Locking loops and linkings
Interpenetrating.


Why should a man benighted,
Beduped, befooled, besotted,
Call knotful knittings plighted,
Not knotty but beknotted?


It’s monstrous, horrid, shocking,
Beyond the power of thinking,
Not to know, interlocking
Is no mere form of linking.


But little Jacky Horner
Will teach you what is proper,
So pitch him, in his corner,
Your silver and your copper.

La Canzone del Ripiglino, di un Bimbo nei Nodi

Pietro l’Ostinato,
intrecciò attorno alla scodella
fettine di foglio tritato
imbastendole con pastella.

Li rovesciò, li tagliò, li intrecciò,
girò la carta a mo’ di zero;
e il sistema determinò
coi bastoncini di Nepero.

La tua spira di nodi ricama
in un perfetto tessuto,
legando ordito e trama
intrecciati dal tuo aiuto.

Perché nel buio malaccorti
truffati, frodati, inebriati
chiamiamo gli intrecci ritorti,
non intricati ma annodati?

È orrendo, brutto, da far paura,
al di là del potere del pensare
non sapere che l’annodatura
non è un mero modo di collegare.

Ma Giannino il birbone
ti dirà che cosa è onesto,
così gettagli nel suo cantone
il tuo soldo e anche il resto.

La poesia si occupa di nodi, una delle ossessioni dei fisici del tempo, soprattutto dello stesso Maxwell e di Peter Guthrie Tait, che è indiscutibilmente il Peter the Repeater al quale la poesia è dedicata. Tait, quando fu scritta l’opera, si stava occupando infatti della classificazione dei nodi, alla ricerca di una conferma dell’ipotesi degli atomi-vortice di Kelvin, cioè di una relazione tra le classi di configurazione dei nodi e le tipologie degli atomi che individuano i diversi elementi chimici e i loro composti. Nelle relazioni che egli diede delle sue ricerche, Tait aveva stabilito un nuovo vocabolario per l’ambito della sua ricerca, introducendo per esempio il termine flype dell’inglese parlato in Scozia e prima sconosciuto sotto il Vallo d’Adriano, che significa più o meno “rovesciare, capovolgere”.

Peter Tait cercava di dare alle sue ricerche una struttura matematica: è a ciò che si riferisce l’accenno ai bones of Neper, i bastoncini di Nepero, lo strumento di calcolo inventato nel 1617 da John Napier (Nepero), costituito da asticelle, spesso d’avorio (da cui il loro nome inglese di ossa di Nepero), su ciascuna delle quali erano incisi i primi multipli di un numero, con le decine e le unità divise da una barra obliqua. Accostando i bastoncini corrispondenti a diverse cifre fino a comporre un certo numero e sommando le cifre che risultavano adiacenti nelle diverse righe, si otteneva la tabellina dei multipli del numero in questione.

Era certo per chi si occupava della classificazione dei nodi che la modalità con la quale un filo si annoda in modi diversi ha importanti conseguenze di natura fisica. Non si trattava di un studio di mera natura geometrica: interlocking / Is no mere form of linking.

Fu proprio l’opera di classificazione da parte di Tait a far emergere una delle prime difficoltà della teoria degli atomi-vortice: l’enorme numero di configurazioni non equivalenti trovate rispetto alla varietà degli elementi chimici noti (con dieci intrecci si hanno 165 nodi diversi, con tredici più di diecimila). Ma, pur evidenziando uno dei limiti del modello, le ricerche in questo ambito costituirono il primo esempio dell’interesse per le possibili implicazioni fisiche di quel settore della matematica che era stato chiamato topologia da Johan Benedict Listing nel 1847 e che dalla fine dell’Ottocento avrebbe acquisito lo status di settore autonomo della matematica.

Di Little Jacky Horner ho già detto. Ma chi era nella realtà quella persona che poteva dare un giudizio competente (Will teach you what is proper) sulle ricerche in corso, tali da essere premiato con silver e copper, cioè monete d’argento e di rame? Jacky è un diminutivo di John e Jacob. Potrebbe essere l’allora giovane fisico Joseph John Thomson, che da lì a pochi anni (1883) avrebbe pubblicato A Treatise on the Motion of Vortex Rings, e più tardi avrebbe scoperto l’elettrone e vinto per questa scoperta il Premio Nobel nel 1906. Potrebbe essere anche il fisico e ingegnere William John Macquorn Rankine, anch’egli poeta dilettante, che, verso la fine degli anni Quaranta, aveva proposto una teoria della materia per interpretare le proprietà termodinamiche dei gas, nella quale le molecole erano spiegate come piccoli nuclei di atmosfere eteree rotanti nello spazio con velocità proporzionale alla temperatura. Non è tuttavia necessario trovare sempre delle corrispondenze reali. Può anche darsi che Giannino non sia altro che il bambino dell’omonima filastrocca nelle Nursery Rhymes:

Little Jack Horner
Sat in the corner,
eating a Christmas pie;
He put in his thumb,
And pulled out a plum,
And said 'What a good boy am I”.

Il piccolo Giannino
sedeva in un angolino
mangiando il panettone:
ci mise dentro un dito,
ci estrasse un candito
e disse“Sono un cannone!”