domenica 26 gennaio 2014

Il nome del fotone


ResearchBlogging.orgG. N. Lewis e l’atomo vettore di luce - Già dai tardi anni ’20 del secolo scorso, per i fisici la parola fotone (dal greco φῶς, gen. φωτός "phòs, photòs" che significa luce) è un sinonimo appropriato e più utilizzato del quanto di luce introdotto nel 1905. In quasi tutte le cronache si sostiene che il nome fu originariamente coniato nel 1926 dal fisico e chimico americano Gilbert Newton Lewis (1875-1946), anche se con un significato diverso da quello associato al quanto di luce. C’è una certa dose di verità, ma non è tutta. È difficile sapere quando esattamente fu usata per la prima volta la parola “fotone” in un contesto scientifico, ma sembra che ciò sia avvenuto nel 1916, dieci anni prima che lo introducesse Lewis. Questa primogenitura non ebbe riflessi sullo sviluppo futuro, perciò è forse comprensibile che non le sia mai stata prestata grande attenzione, eppure la prima apparizione di “fotone” nel contesto delle scienze della visione è interessante per la sua modalità e merita di essere conosciuta.

L’origine e il primo sviluppo dell’idea di fotone, nel senso di quanto localizzato di radiazione elettromagnetica, sono ben conosciuti e sono descritti in una abbondante letteratura. In sintesi, nel suo classico articolo negli Annalen der Physik del 1905, Einstein propose che la radiazione libera monocromatica di frequenza ν fosse composta di “quanti d’energia”, data da E = , un’espressione che egli stese in questa forma solo l’anno successivo. Sebbene così egli fosse in grado di spiegare in modo semplice l’effetto fotoelettrico e la regola di Stokes della fotoluminescenza, la Lichtquantenhypothese fu in genere avversata dalla maggior parte dei fisici. L’accoglienza al quanto di luce o di energia non cambiò in modo significativo anche dopo il 1917, quando Einstein sviluppò la sua teoria assegnando al quanto un momento p = hν/c. Solo allora esso possedeva le proprietà di una particella reale, e ciò è il motivo per cui si parla del “fotone di Einstein” solo a partire da quella data. Naturalmente Einstein non aveva utilizzato il termine fotone, né mai lo avrebbe fatto in seguito. 

La principale ragione per l’accettazione del quanto di luce durante gli anni 1922-23 fu la famosa serie di esperimenti sulla diffusione dei raggi X condotta da Arthur H. Compton nel 1922, che gli valsero il premio Nobel nel 1927. Tra l’altro, nei suoi due articoli del 1923 che riportavano i risultati di ciò che presto sarebbe stato conosciuto come effetto Compton, egli non faceva cenno ai quanti di luce di Einstein né menzionò il nome dello scienziato tedesco. Ciò nonostante, gli esperimenti diedero ragione alla teoria di Einstein in modo definitivo. Dal 1925-1926 i quanti di radiazione furono generalmente accettati e considerati come particelle elementari, non meno reali del protone e dell’elettrone. Con l’emergere della teoria quantistica della radiazione, sviluppata poco dopo da Paul Dirac e Pascual Jordan, i quanti di luce si inserivano perfettamente nella teoria della meccanica quantistica. Ed erano sempre più di frequente chiamati fotoni. 

L’origine del nome “fotone”, che entrò nel vocabolario dei fisici nei tardi anni ’20, fu Gilbert Newton Lewis, professore dell’Università di California a Berkeley. Tuttavia, mentre il nome di Lewis fu largamente adottato a partire dal 1926, il concetto sottostante fu totalmente ignorato, al punto che oggi molti storici della fisica lo ignorano. Lewis era un chimico-fisico stimato, noto in modo particolare per il suo lavoro innovativo nella termodinamica chimica e nella struttura di atomi e molecole. La sua teoria di una coppia di elettroni condivisi che dà luogo al legame covalente nelle molecole è considerata in genere come un’anticipazione del successivo modello della valenza basata sulla chimica quantistica. 

Oltre a essere un chimico brillante, Lewis aveva un profondo interesse per la fisica teorica, sebbene in quest’area egli preferisse seguire le proprie idee, piuttosto eterodosse, invece che quelle più comuni. Nel 1925 si interessò ai problemi concettuali della teoria della radiazione, che tentò di risolvere ipotizzando come principio fondamentale che il tempo sia simmetrico. Secondo la sua immagine del processo, l’emissione e assorbimento della luce avvenivano nella più completa simmetria: “Un atomo non emette mai luce se non verso un altro atomo”, scriveva. “È pertanto assurdo pensare alla luce emessa da un atomo prescindendo dall’esistenza di un atomo ricevente, come lo è pensare a un atomo che assorbe luce senza l’esistenza di luce che viene assorbita”. Il processo di emissione sarebbe stato l’esatto inverso di quello di assorbimento, per cui i due processi avrebbero potuto essere condensati in uno solo, la trasmissione. Fu in questo contesto che egli propose, in un articolo su Nature datato 29 ottobre 1926, che invece di un quanto di luce si doveva considerare “un nuovo tipo di atomo”, o ciò che egli chiamò fotone poichè vettore di luce. 

Diversamente dal quanto di luce di Einstein, il fotone di Lewis era una quantità conservata, nel senso che, in un sistema isolato, il numero totale di fotoni sarebbe rimasto costante. Il fotone era increato e indistruttibile, come gli atomi immutabili di John Dalton. Sostenendo che “un, e un solo, fotone si perde in ciascun processo elementare di radiazione”, Lewis scriveva: 

“Sembrerebbe inappropriato parlare di una di queste entità ipotetiche come una particella di luce, un quanto di luce, se dobbiamo pensare che essa trascorre solo una minuta frazione della sua esistenza come portatrice di energia radiante, mentre per il resto del tempo resta come un importante elemento strutturale dentro l’atomo. Inoltre causerebbe confusione chiamarla semplicemente quanto, perché (…) sarà necessario distinguere tra il numero di queste entità presenti nell’atomo e il cosiddetto numero quantico. Pertanto mi prendo la libertà di proporre per questo ipotetico nuovo atomo, che non è luce, ma gioca un ruolo essenziale in ogni processo di radiazione, il nome di fotone”. 

Il fotone di Lewis era perciò molto diverso dal corpuscolo di energia radiante che aveva introdotto Einstein. Rendendosi conto che il suo fotone era insolito e ipotetico, in un paio di articoli successivi Lewis cercò di giustificare la sua ipotesi mostrando che essa, o piuttosto il quadro di interazione diretta sulla quale si basava, portava ad espressioni corrette per la radiazione del corpo nero. Nessuno gli diede retta e, nell’arco di un anno o giù di lì, sembra che abbia abbandonato la sua idea eterodossa. 

Mentre il concetto di Lewis veniva dimenticato, il suo nome non lo fu. “Fotone” fu rapidamente accettato come un nome alternativo per il quanto di luce di Einstein. Già nel 1928, negli atti della celebre quinta conferenza Solvay dell’ottobre precedente, il nome compariva nel titolo della pubblicazione: Électrons et Photons. Tra i suoi paladini vi fu Arthur Compton, che ne diffuse l’impiego nella letteratura di divulgazione scientifica e tra la nuova generazione di fisici. Einstein, invece, non lo usò mai. In ogni caso, dalla metà degli anni ’30, “fotone” fu il termine preferito.

L. T. Troland e la misura dello stimolo visivo - Probabilmente neanche Lewis sapeva che la parola era già stata usata da altri prima di lui. Nel 1916 il fisico e psicologo americano Leonard Thompson Troland (1889-1932) l’aveva usata come unità di misura per l’illuminazione della retina. Oggi poco conosciuto, Troland era considerato in quegli anni uno degli scienziati americani più promettenti, ma morì tragicamente e prematuramente cadendo dalla cima del monte Wilson in California.

Scienziato versatile e rispettato, Troland si interessò professionalmente di fisica, psicologia e ingegneria. Con Daniel Comstock, un fisico del MIT, pubblicò nel 1917 un libro di alta divulgazione sulla moderna teoria atomica, l’elettricità e la radiazione. Una sezione riguardante la teoria quantistica dell’energia radiante conteneva una discussione sugli “atomi di luce” o “la moderna dottrina dei quanti di luce”, che egli, autore della sezione, dimostrò di conoscere bene. Inoltre, ebbe una certa formazione in biochimica, e nel 1916 aveva proposto una delle prime teorie sull’origine chimica della vita sulla Terra. Troland studiò psicologia ad Harvard, dove ottenne il dottorato nel 1915 con una tesi sul processo di adattamento visivo, un ambito di ricerca che seguì negli anni successivi. La sua opera principale fu il ponderoso Principi di Psicofisiologia, che fu edito in tre volumi tra il 1929 e il 1932. Era particolarmente interessato alle misure fotometriche della luce che colpisce l’occhio umano: fu in questo contesto che propose la parola “fotone”. 

In un articolo datato 29 marzo 1916 sull’intensità di luce che stimola l’occhio, Troland propose “fotone” come unità di misura dell’intensità dello stimolo fisiologico, definendolo come segue: 

“Un fotone è l’intensità di illuminazione sulla retina dell’occhio che accompagna la fissazione diretta, con adeguato accomodamento, di uno stimolo di piccola superficie, la cui luminosità fotometrica (…) è di una candela per metro quadrato, quando l’area della pupilla esternamente efficace (…) è di un millimetro quadrato. L’intensità fisiologica di uno stimolo visivo è la sua intensità espressa in fotoni. Il fotone è un’unità di illuminazione, pertanto ha un valore assoluto in metri-candele. Il valore numerico del fotone, in metri-candele (…) sarà ovviamente soggetto a qualche variazione da individuo a individuo”

Troland propose per la prima volta il fotone in una presentazione tenutasi a Philadelphia il 18-20 settembre 1916: “Ho trovato molto conveniente, - disse, - esprimere tutte le misure di intensità come unità di illuminazione retinale che ho chiamato il fotone. Nella discussione successiva al suo discorso, egli citò come un vantaggio della nuova unità di misura il fatto che “il fotone non richiede tanta matematica, e io mi sono interessato soprattutto a venire in aiuto agli psicologi, molti dei quali stanno studiando la visione un po’ a caso”

In un’opera successiva sulla scienza della visione, Troland promosse l’uso della nuova unità di misura. Tuttavia, anche se egli e altri autori continuarono per qualche tempo a usare “fotone”, l’unità non ebbe mai larga diffusione e alla fine cadde nel dimenticatoio. D’altra parte, il fotone di Troland diede origine, dopo qualche tempo, all’unità eponima “troland” (Td), che è legata alla candela dalla relazione 1 Td = 1 cd/m2 × 1 mm2 = 10‒6 cd, ancora usata nell’ottica fisiologica. Troland era aggiornato sul dibattito fisico riguardo all’ipotesi del quanto di luce, ma per lui il fotone apparteneva a un regno del tutto diverso.

John Joly e la visione a colori - Troland non fu il solo a proporre il nome “fotone” prima di Lewis. Anche questa seconda comparsa del nome ebbe origine nella scienza della visione, questa volta in un tentativo di spiegare la visione a colori. 

Il fisico irlandese John Joly (1857-1933), professore di geologia e mineralogia al Trinity College di Dublino, era anch’egli uno scienziato versatile. Egli è noto soprattutto perché nel 1899 stimò che l’età della Terra fosse di almeno 100 milioni d’anni, molto di più di quanto indicato da Lord Kelvin sulla base di calcoli termodinamici. Mentre la sua stima del 1899 si basava su evidenze puramente geologiche, quando furono sviluppati i primi metodi basati sulla radioattività, egli fu tra i primi a utilizzarli. Nel 1903 attirò l’attenzione sull’importanza della radioattività come fonte del calore terrestre. L’interesse di Joly per la radioattività non fu solo geofisico: egli sviluppò anche un metodo per la cura del cancro con il radio e si interessò di medicina e fisiologia in generale.

Intorno al 1920 cominciò ad interessarsi di teoria della visione, in particolare della visione a colori. Come conseguenza, sviluppò una “teoria della visione quantistica”, con lo scopo di spiegare la percezione della luce come stimolata dall’azione fotoelettrica. Secondo la sua idea, la luce sotto forma di “quanti di luce” liberava e attivava elettroni nelle fibre visive. A causa della loro energia cinetica, questi fotoelettroni avrebbero scaricato una o più unità di energia nella corteccia cerebrale, dando così origine alla percezione della luce. Ciò che egli chiamò “fotone” nel 1921 era l’unità di misura dello stimolo visivo: 

“L’unità di misura dello stimolo luminoso scaricato da una singola fibra visiva (…) non deve essere confusa con il quanto che recita la mera parte di un dito sul grilletto. Questa minuscola quantità di energia scaricata nella corteccia cerebrale provoca la nostra unità di sensazione luminosa. (…) Propongo di designarla come fotone, o, al plurale, fotoni. In simboli, gli sarà assegnata la lettera φ. Ciascuna sensazione è una conseguenza di una particolare forma di stimolo energetico, cioè di due, tre o di quattro fotoni scaricati simultaneamente”. 

Sebbene egli avesse descritto i suoi quanti di luce come pacchetti di energia radiante , Joly non sostenne e nemmeno menzionò la teoria di Einstein. In ogni caso, i suoi fotoni erano assai diversi dai quanti che producevano fotoelettroni. Il fotone di Joly ebbe ancor meno risonanza di quello di Troland. 

Quando il nome fotone fu ripreso e divenne popolare qualche anno più tardi, a nessuno venne in mente il nome del fisico irlandese o dello psicologo americano.

(Ringrazio l'amico Peppe Liberti che mi ha segnalato l'articolo originale)

Helge Kragh (2014). Photon: New light on an old name Parts of this note is included in a larger manuscript that will be submitted to European Physical Journal H. arXiv: 1401.0293v2


domenica 19 gennaio 2014

Lo spirito dell’animazione: intervista a Paolo Beneventi


Paolo Beneventi è un mio amico di Facebook da tanto tempo. È nato a Milano nel 1953 e ha vissuto quasi sempre a Brescia. Si è laureato al Dams di Bologna con una tesi sul teatro per ragazzi e poi si è inventato un mestiere di animatore pedagogico che da molti anni svolge come libero professionista, ideando e conducendo attività in collaborazione con scuole, dall'infanzia alle superiori, biblioteche, associazioni, enti pubblici e privati, scrivendo libri, realizzando video e prodotti multimediali. Gli piace soprattutto imparare e raccontare il mondo insieme con i bambini del mondo. Mi ha mandato alcune sue poesie per bambini dedicate agli insetti, davvero belle, e gli ho proposto di fare un’intervista per Popinga, incuriosito dalla sua attività nelle scuole, per parlare di pedagogia con una persona preparata, soprattutto perché la sua esperienza nasce sul campo e non solo tra i libri o, peggio, tra le circolari di qualche ufficio ministeriale. Eccola. 

Animazione è la prima parola che leggo sulla tua pagina web. Il significato originario è quello di “dare l’anima”, donare la vita alla materia inerte. Erri De Luca, biblista per passione, ha sostenuto che la parola più bella dell’ebraico è proprio ruah, spirito, respiro, o soffio vitale. Si tratta di un’etimologia interessante. Già in latino, animatio aveva tuttavia acquisito anche il significato figurato di ‘risveglio dell’interesse’ nell’uditore o nell’alunno per facilitare l’insegnamento, con una forte accezione pedagogica. Oggi si intende l’animazione culturale e pedagogica come indirizzata ad ottenere la partecipazione attiva dei componenti di un gruppo. Questa definizione ti soddisfa? E che ne è dell’iniziale spirito che vivifica? Animatori si nasce o si diventa?

Dire “partecipazione attiva” non rende completamente l’idea. Molti oggi pensano che un gesto attivo sia mettere un “mi piace” su Facebook, mentre la stessa parola animazione è usata abitualmente in contesti come i villaggi turistici e le discoteche, dove spesso assume un significato addirittura opposto. Lì le persone fanno e ripetono i giochi e i gesti dell’animatore, mentre in una situazione educativa il bravo animatore è quello che non fa e non mostra quasi nulla, ma mette i partecipanti nelle condizioni di tirare fuori da se stessi, dall’ambiente in cui si trovano, dagli strumenti che hanno a disposizione, dal rapporto con il resto del gruppo, le risorse per fare le cose. Ognuno partecipa per quello che è e che sa, possibilmente senza obiettivi e traguardi prefissati esterni all’esperienza che si sta vivendo, e spesso emergono potenzialità, abilità, capacità di osservazione e di pensiero che non si sospettavano. Da cui sorpresa, piacere di scoprire, di sentirsi attivi in qualcosa che si fa nascere insieme e a cui ogni singolo porta il suo contributo originale. Torna in questo senso lo “spirito che vivifica”, che si alimenta di un rapporto reale tra le persone, piacevole, facilmente intenso e tendenzialmente armonico e collaborativo, dato che gli altri sono percepiti come risorse. E i risultati, quale che sia l’attività, sono di solito notevoli, così come ne guadagna l’autostima dei singoli. 

Con un tale atteggiamento un po’ si nasce, ma soprattutto lo si impara dal piacere di incontrare e conoscere le persone, di vivere insieme con semplicità esperienze che fanno crescere dentro. 

Il coinvolgimento suscitato dall’animatore non è solo emotivo e mentale, ma implica anche la dimensione corporea. Qual è il ruolo del teatro nella tua attività? È vero che i bambini dimostrano una predisposizione naturale alla recitazione? Che cosa intendi quando tra gli obiettivi dell’animazione indichi il loro divenire “attori consapevoli” dell’attività pedagogica? 

Una volta si metteva in risalto come non a caso in diverse lingue europee i due concetti “giocare” e “recitare” si possano rendere con una sola parola: spielen, jouer, to play. Il tipico gioco di finzione dei bambini, in gruppo, a volte anche da soli, spesso si svolge proprio “interpretando” personaggi e usando oggetti, con cui i bambini rielaborano in modo immaginativo ciò che conoscono dalla vita reale, dalla televisione, dai videogiochi, dalle fiabe, e ricostruiscono, “recitandolo” il proprio mondo e la propria cultura. Oltre il vero e il falso, per i bambini è importantissimo il per finta. E la psicologia dell’età evolutiva ci insegna che il fare finta, con l’immaginazione, il gioco, la voce, il corpo è per loro un atto fondamentale di conoscenza. 

Per questo il gioco teatrale è particolarmente congeniale ai bambini e, insieme con il disegno (che però spesso l’adulto travisa, “interpretandolo”), permette a loro di tirare fuori e agli educatori di osservare aspetti della loro personalità, pensiero, visione del mondo, che non emergerebbero attraverso la parola, parlata o scritta. 

Diverso il discorso dello spettacolo, della recita, che non appartiene naturalmente alla cultura dei bambini e può risultare una esperienza negativa o positiva, a seconda di come la si organizza. Quando l’espressione dei bambini si libera, anche gli educatori possono imparare moltissimo. Importante è comunque che l’adulto mostri un interesse sincero per quello che i bambini sono e fanno, valorizzando, quali che siano, le risorse di ognuno, e li incoraggi ad affinare in senso coscientemente espressivo la loro capacità di giocare. Esprimersi nel teatro con corpo, intelletto, emozioni aiuta a crescere più sereni e sicuri di sé, meno bisognosi di conferme esterne e di mascherarsi nel gruppo, “attori consapevoli” della propria educazione.

Qual è il ruolo dell’immagine nella tua attività? Grazie all’informatica tutti hanno scoperto la verità della massima “Un'immagine vale più di mille parole” (basta pensare al “peso” di un file immagine rispetto a uno di testo!). Pensi che l’uso della fotografia, della pittura, le attività di disegno debbano essere maggiormente valorizzate nella scuola? Qual è il loro ruolo nella tua attività? 

I bambini, prima di venire addestrati alle “grammatiche”, hanno la naturale propensione a passare con disinvoltura da un linguaggio espressivo e comunicativo all’altro, e la capacità di scegliere di volta in volta quello più adatto: disegno e pittura, “teatro” spontaneo, a volte anche canto, oltre che la parola. Oggi, spesso sanno armeggiare con disinvoltura con mezzi tecnologici accattivanti e istintivi come il video, la fotografia, i computer, i telefonini, i tablet. 

Fondamentale, per i bambini come per gli adulti, perché un linguaggio o uno strumento vengano appresi con naturalezza, è che li si impari scoprendoli, nella vita vissuta, e non per imposizione dall’esterno. Questo spiega perché nella scuola tanti bambini fanno fatica a imparare la matematica e la grammatica e tanti docenti sono a disagio con i computer! 

Intervenendo nelle classi da esterno e di solito per un tempo limitato, non curo direttamente l’uso per esempio del disegno, ma lo incoraggio comunque come una verifica di come i bambini vivono le esperienze. La fotografia, se non la si deprime con certe “decodifiche” scolastiche, è un mezzo formidabile di osservazione della realtà, ingigantito dalle possibilità di proiezione e ingrandimento che esaltano i particolari. La visione macro dei piccoli animali, in particolare, potentissima estensione dei sensi, spalanca mondi meravigliosi e inaspettati che letteralmente cambiano il rapporto con la realtà. E nel disegno “dal vero” (cioè dalle foto ingrandite) i bambini non solo copiano quello che vedono, ma apprendono, interiorizzano, stabiliscono in modo permanente le osservazioni all’interno della propria cultura.

Dalle mie domande avrai capito che sono abbastanza d’accordo con la teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner, che distingue diverse manifestazioni fondamentali dell'intelligenza, localizzate in parti differenti del cervello, delle quali quella logico-matematica è solo una di una decina almeno. Non ritieni che la scuola, soprattutto quella primaria, debba, diversificando l’approccio didattico, valorizzare maggiormente le capacità e le predisposizioni degli alunni? Ma come si può fare?

Ho sempre considerato con diffidenza i discorsi sul QI, i test, i quiz, che quando escono dal campo dei profili attitudinali (per cui possono essere senz’altro utili) e pretendono di comprendere la complessità dell’intelligenza umana, vedo istintivamente (ma la consuetudine di decenni con i bambini me lo conferma) come una faccenda soprattutto di ideologia e di controllo sociale, per quanta “scienza” i ricercatori cerchino di metterci. 

In una qualsiasi esperienza didattica, se si lasciano i bambini liberi di rispondere agli stimoli utilizzando i mezzi, i linguaggi, l’intelligenza che preferiscono, con l’adulto che all’inizio non spiega ma si pone come fulcro, moderatore, o anche solo osservatore attento, si ha di solito una pluralità di risposte che, dopo l’iniziale apparente disordine, converge in modo “naturale” e collettivo verso la “verità scientifica” (es. suggestivi i commenti “in diretta” al video della locusta). Non si verifica solo il raggiungimento di obiettivi prestabiliti e già conosciuti (che comunque si ottengono con facilità), ma si fa cultura, all’interno di un processo in cui anche l’educatore impara sempre qualcosa che prima non sapeva. Dalla scuola del sapere trasmissivo a una sorta di accademia della condivisione, probabilmente il modo più naturale e immediato di apprendere e subito produrre per umani nati e cresciuti tra radio, televisione, computer, videogiochi, aggeggi digitali vari (cioè, i bambini, ma anche tutti noi!), e che corrisponde al contesto culturale descritto per esempio da Pekka Himanen nel libro L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione. Basarsi sulle predisposizioni e le risorse di ognuno, sulla ricchezza e ridondanza di risposte individuali inizialmente divergenti che poi convergono verso un ordine collettivo, è anche forse il modo migliore per sviluppare un pensiero e un atteggiamento culturale adeguati all’era del web, in cui sapersi districare tra innumerevoli informazioni è ormai una questione di alfabetizzazione di base. Ed è proprio forse ritornando come bambini che possiamo trovare la strada per “entrare nel regno dei Cieli”!

Tutti concordano con l’introduzione delle tecnologie multimediali nella scuola. Purtroppo, a mio giudizio, molti confondono lo strumento con il fine e certi entusiasmi sono dettati da un “nuovismo” che deriva dal fatto di non aver mai messo piede in un’aula. Il tablet, la LIM necessitano di lezioni programmate ad hoc, e che agli allievi siano trasferite competenze tecniche che non possiamo dare per acquisite, senza contare il pericolo degli usi impropri dello strumento informatico. Tu che ne pensi? Che ruolo giocano le nuove tecnologie nell’animazione pedagogica? 

Il sottotitolo del mio primo libro sull’animazione, 1993, era “il corpo, le macchine, i ragazzi”. Nel 1999 ho pubblicato Come usare il computer con i bambini e i ragazzi e con I bambini e l’ambiente, per una ecologia dell’educazione (2009) ho cercato di sottolineare il collegamento tra le pratiche di animazione, applicate in particolare all’incontro con la natura, e un utilizzo attivo delle nuove tecnologie. La questione sta tutta in quella parola: attivo! Dagli anni Ottanta, con la videoregistrazione casalinga e i personal computer, chiunque, nella società dell’informazione, è potenzialmente produttore e, dopo il web 2, anche distributore di informazione. Il cittadino medio però si considera ancora sempre e solo un consumatore, fuorviato dalla retorica di una “tecnologia” che si identifica piattamente nel mercato, da leggende come quella dei “nativi digitali” che non trovano riscontri nella realtà, ma che acchiappano l’opinione pubblica, dalla confusione tra uso istintivo e “competenze” per esempio dei bambini (ma anche di anziani, gatti, gorilla!) nell’uso degli aggeggi “digitali”.

Nella scuola, si tende a imporre dal di fuori una “digitalizzazione” a tappe forzate, con le LIM, i tablet, il registro elettronico, le iscrizioni “on line” (probabilmente incostituzionali!), in un contesto in cui la maggior parte dei docenti ancora non sa tagliare una fotografia! Prendo l’esempio di questo gesto minimo, che si impara in pochi minuti, ma che se non lo sai fare, nella società dell’immagine, sei praticamente analfabeta, come emblema di un rapporto mai risolto con risorse tecnologiche ormai “storiche” (macchine fotografiche, videocamere, registratori audio, proiettori, computer) che, con un semplice cambio di atteggiamento, sono utilizzabili con facilità, ai livelli di base, all’interno di attività naturalmente multimediali di didattica viva, che attingano anche alla comune cultura “latente” extrascolastica di bambini, ragazzi e adulti, per fare, conoscere, produrre insieme. 

Hai fatto cenno ad alcuni tuoi contributi teorici, che il lettore curioso potrà trovare sul tuo sito. Recentemente hai anche pubblicato tre e-book per bambini, ricchi di fotografie e filastrocche, ma anche di informazioni scientifiche, curiosità, link a siti specializzati e video dedicati agli insetti. Perché questa scelta? Quale può essere l’utilità di simili prodotti per l’insegnamento delle scienze in generale? Ci dai un piccolo assaggio di un tuo libro?

Cercando e fotografando per anni gli insetti con i bambini, non solo ho raccolto, pur non disponendo di attrezzature professionali, molte immagini belle e interessanti, ma ho avuto modo di verificare modi efficaci di trasformare la loro curiosità e stupore immediatamente in “metodo scientifico”. Dopo la mostra Concittadini inaspettati e il Museo virtuale dei piccoli animali, ho pensato di mettere insieme scienza e didattica con la mia finora poco espressa vena poetica, provando a raccontare gli insetti rigorosamente in rima. Un libro stampato, coi tempi che corrono, era un impresa ardua e così, ma non solo per questo, ho deciso per agli ebook, trovando il supporto della casa editrice Mammeonline. Un ebook permette link immediati a contenuti multimediali in rete (riferimenti enciclopedici, pagine proprie o altrui di approfondimento, video che in un libro non ci starebbero), consente immediate correzioni di eventuali errori e periodiche riedizioni a costo zero, in questo caso in particolare sollecitando i piccoli lettori a mandare anche loro delle foto, per aggiornare la pubblicazione insieme. Trovo a proposito curioso che, nelle discussioni ricorrenti su libri stampati ed elettronici, questo aspetto di possibile produzione di base, collaborazione, democrazia intrinseche agli ebook sia tutto sommato così poco messo in rilievo. 

La mia speranza è che questi miei libri in rete non vengano solo “consumati” come opere d’autore, ma facciano venire voglia ad altri, in particolare bambini ed educatori, di fare anche loro qualcosa di simile.

Dal lavoro, ancora non pubblicato, sugli emitteri, una filastrocca: 

Pidocchi al pascolo 

Li portano le formiche come mucche 
li allevano li curano li mungono 
li sorvegliano tra e il sedano le zucche 
che pascolano e succhiano non pungono. 
Di melata di linfa succulenta 
è ghiotta la formica ed è contenta! 

Carinissima! Quali sono i tuoi progetti futuri? 

Con gli ebook sugli insetti si va avanti, cogliendo l’occasione per risistemare il materiale fotografico e video raccolto duranti tanti anni e migliorare il Museo dei piccoli animali di cui sopra, con l’inserimento anche di documenti freschissimi da attività in corso con i bambini. 

Sto poi lavorando alla documentazione video di esperienze varie di educazione ambientale e di educazione al risparmio, dove l’attenzione è posta non tanto sui contenuti didattici in quanto tali, ma sul processo della comunicazione e sulle risposte dei bambini. Si vogliono pubblicare documenti rivolti non solo agli addetti ai lavori o ai genitori, ma alla comunità sociale e all’opinione pubblica più in generale, oltre le tradizioni educative che sfidano i secoli e i nuovi luoghi comuni dell’era digitale. 

Una parte significativa di queste attività sta per confluire in una nuova imminente associazione, che riunisce professionalità antiche, illustri e consolidate e giovani energie, e si propone come fulcro e motore di altre attività e associazioni, per eventi, progetti, proposte, riflessioni meta cognitive sui processi dell’apprendimento, dell’educazione, della comunicazione e produzione di cultura nel villaggio globale, con attenzione alla contaminazione e collaborazione tra le aree dell’esperienza e i diversi linguaggi, artistici e scientifici, in particolare quello matematico. Tra qualche giorno comunque tutti i riferimenti di questa nuova cosa saranno ufficialmente in rete.


mercoledì 15 gennaio 2014

Immagini della matematica


Fino a qualche tempo fa era impensabile che un libro di matematica, anche se di divulgazione, potesse essere pieno di figure. Ciò avveniva per due ragioni principali. La prima era culturale: la matematica, materia astratta e mentale per eccellenza, era considerata difficilmente “percepibile” dai sensi, pertanto molto era affidato alle capacità “immaginative” del lettore a partire dalle rappresentazioni simboliche. Facevano eccezioni solo alcuni settori come la geometria (limitatamente allo spazio euclideo) o la teoria dei grafi. La seconda ragione era puramente tecnica: solo con l’introduzione di programmi sempre più sofisticati di computer graphics è stato possibile rappresentare, in modo efficace ed esteticamente valido, forme e strutture impossibili da realizzare (e da vedere”) con i tradizionali mezzi del disegno. 

Da qualche anno la situazione è completamente mutata, e finalmente anche la matematica, come le altre discipline scientifiche, può giovarsi dello strumento dell’immagine, valorizzandone tutta la potenzialità esplicativa e didattica. La matematica smette così di apparire come un noioso elenco di formule, o, per molti, un incomprensibile geroglifico di simboli, e mostra i suoi colori con rappresentazioni davvero affascinanti, che rendono accessibili o avvicinabili anche i concetti complessi emersi negli studi più recenti. Iniziata sugli schermi dei computer, la matematica per immagini si è diffusa in pochi anni a livello planetario ed è approdata recentemente sulla carta. 

Funzione zeta di Riemann

Un esempio è fornito da Immagini della matematica, edito congiuntamente da Springer e Raffaello Cortina nella seconda metà del 2013. Il libro è la traduzione italiana (di Daniela Della Volpe) di un testo pubblicato originariamente in tedesco nel 2010, curato dall’austriaco Georg Glaeser e dal tedesco Konrad Palthier. Il volume rappresenta un meritorio tentativo, da parte di matematici attivi nella ricerca, di sperimentare canoni di comunicazione diversi da quelli usuali. In 15 capitoli, esso consente un’esperienza visiva di tutti i principali temi della matematica antica e moderna, dai modelli di poliedri alle curve e nodi, dalla geometria e topologia delle superfici alle pavimentazioni e agli impacchettamenti, ecc. L’ultimo capitolo, Forme e processi in natura e nella tecnologia, fornisce alcuni esempi di applicazione della matematica nelle scienze naturali, nella fisica dei fluidi, ecc. 

Sezioni di un toro che sono ovali di Cassini
Ogni immagine è accompagnata da un breve testo esplicativo e dall’indicazione della fonte originale (cartacea o elettronica) alla quale è possibile risalire per eventuali approfondimenti. Forse è proprio nei testi che si può ravvisare l’unico punto di debolezza dell’opera, in quanto talvolta appaiono troppo “tecnici” per un pubblico non specialista. Poiché ogni argomento-scheda può essere letto in modo indipendente, Immagini della matematica costituisce un validissimo strumento di consultazione e di ausilio per chi, come divulgatore, insegnante o studente, si occupa a vari livelli di questa fantastica e sempre nuova disciplina. 

Superficie minima di Costa

Mi piace segnalare che l’edizione italiana è stata proposta e sollecitata agli editori dal mondo accademico e della ricerca, principalmente dal Centro matematita, il Centro Interuniversitario di Ricerca per la Comunicazione e l'Apprendimento Informale della Matematica, al quale fanno riferimento ricercatori delle Università di Milano, Milano Bicocca, Pisa e Trento. Il Centro è noto presso insegnanti e divulgatori per l’utile progetto Immagini per la Matematica, nato con lo scopo di raccogliere e mettere a disposizione in rete immagini per la matematica e suggerire percorsi che consentano il loro utilizzo per raccontare argomenti della disciplina. 

Glaeser Georg, Polthier Konrad 
Immagini della matematica 
ISBN: 978-88-6030-619-7 
Raffaello Cortina Editore 
Pagine: XIII-338 p., ill., brossura 
Anno: 2013 
Prezzo di copertina: 36 €

Superficie Breather


mercoledì 8 gennaio 2014

Il diavolo e Simon Flagg

Premessa

Non conoscevo questo splendido racconto matematico di Arthur Porges (1915-2006) prima che me ne parlasse l’amico Antonello Musiani qualche giorno fa, dicendo che  “io, bambino, [lo] trovai su Linus dei miei fratelli maggiori. me ne innamorai all'istante”. Dopo la sua segnalazione, ho scoperto che l’autore, matematico di formazione, è stato un prolifico autore di racconti brevi, soprattutto nei due decenni tra il 1950 e il 1970. Il racconto fu pubblicato nel 1954 con il titolo The Devil and Simon Flagg, e ho trovato l’originale sul sito del divulgatore e scrittore Simon Singh (autore tra l’altro, de L’ultimo teorema di Fermat). In italiano comparve su Linus n. 41 dell'agosto 1968. Adesso si può trovare in I numeri nel cuore di Ciliberto, Saleri e Strickland (Springer, 2008), testo che non posseggo ed è al di fuori delle mie possibilità economiche (l’e-book costa 23,80 €).

Mi è piaciuta l’idea di tradurlo da solo e di sottoporlo ai miei lettori, sicuro che la versione italiana che si trova in commercio sarà senz’altro migliore. D’altra parte, la diffusione della conoscenza è uno degli obiettivi del mio blog, e di sicuro da questo lavoricchio non trarrò alcun beneficio economico (oltretutto Popinga è sotto licenza Creative Commons).


Il diavolo e Simon Flagg

Il Diavolo è un grande esperto di indovinelli. Talvolta appare e, senza neanche fare una decente offerta, comincia a farti domande, e, se non sei capace di rispondere, ti porta via.
Una delle prime ballate inglesi è The False Knight on the Road (Il finto cavaliere sulla strada), che è un dialogo a domanda e risposta che comincia:

 “O dove stai andando?”
Disse il finto cavaliere sulla strada.
“Sto andando a scuola”,
Disse il ragazzino, e stette fermo lì.

Gli studiosi ci dicono che il finto cavaliere è il Diavolo, ma il risoluto ragazzino lo supera. In molte leggende scandinave e baltiche, il Diavolo compra un’anima, ma concede di liberarla se è in grado di rispondere a certe domande, per esempio: “Quanto dista il cielo dalla terra?”. Ci sono due risposte a questa domanda, “Dovresti saperlo tu, perché sei caduto per tutto il tragitto”, una risposta che apparentemente soddisfa il Diavolo, e l’altra “Un passo, perché mio nonno ha un piede nella fossa e uno in cielo”.
Un’altra situazione è il contrario di questa: il mortale è liberato se è capace di fare al Diavolo una domanda alla quale egli non sa rispondere, o di affidargli un compito che non è capace di eseguire.

Dopo diversi mesi della più ardua ricerca, che comportava lo studio di innumerevoli manoscritti sbiaditi, Simon Flagg riuscì – a evocare il diavolo. Come medievista competente, sua moglie si era dimostrata preziosissima. Egli, un semplice matematico, era a stento preparato a decifrare grafie latine, soprattutto quando erano rese più complicate da rari termini della demonologia del decimo secolo, così era fortunato che ella avesse un talento speciale per questi documenti.

Terminate le schermaglie preliminari, Simon e il diavolo si sedettero per negoziare lealmente.  Il diavolo era di cattivo umore, in quanto Simon aveva ingegnosamente aggirato diversi dei suoi più sicuri stratagemmi, individuando facilmente gli ami mortali nascosti in ciascuna esca tentatrice.
“Immagina di ascoltare una mia proposta per uno scambio”, suggerì alla fine Simon. “Almeno, è senza trucchi”.
 Il diavolo fece girare nervosamente con la mano la punta della sua coda, più di quanto un uomo possa giocherellare con il suo mazzo di chiavi.
Naturalmente, si sentì colpito.
“Bene” accettò con voce irritata: “Non può fare alcun male. Ascoltiamo la tua proposta.”
“Ti farò una certa domanda, “cominciò Simon, e il diavolo si animò, “alla quale bisogna rispondere entro ventiquattr’ore. Se non sei capace di farlo, dovrai pagarmi centomila dollari. Si tratta di una richiesta modesta paragonata a quanto puoi ottenere. Non miliardi, non Elena di Troia, o una pelle di tigre. Naturalmente non ci dovranno essere ritorsioni di sorta se vinco io”.
“Di sicuro!” grugnì il diavolo. “E qual è la tua posta?”
“Se perdo, sarò tuo schiavo per un certo periodo di tempo. Nessun tormento, nessuna perdita dell’anima, non certo per soli centomila dollari. Né metterò in pericolo parenti o amici. Sebbene,” osservò pensosamente, “ci siano delle eccezioni”.
Il diavolo aggrottò le sopracciglia, tirando stizzito la coda forcuta. Infine, con un violento strattone che gli fece fare una smorfia di dolore, smise.
“Scusa”, disse piattamente, “io mi occupo solo di anime. Nessuna riduzione in schiavitù. La quantità dello spontaneo, appassionato servizio che ricevo dagli uomini ti sorprenderebbe. Tuttavia, ecco quel che farò. Se non sarò capace di rispondere alla tua domanda nel tempo stabilito, non riceverai centomila miserabili dollari, ma qualsiasi somma ragionevole mi chiederai. In più, ti offro salute e felicità per il resto della tua vita. Se risponderò… bene, conosci le conseguenze. Questo è il massimo che posso offrire”. Prese dall’aria un sigaro acceso e sbuffò in vigile silenzio.

Simon guardava senza vedere. Piccole gocce di sudore gli spuntarono sulla fronte. Nell’intimo del suo cuore sapeva che cosa significavano i termini perentori del diavolo. Allora i muscoli della mascella si strinsero. Avrebbe dovuto giocare la sua anima, in modo che nessuno, uomo, bestia o demonio, potesse rispondere alla sua domanda in ventiquattro ore.
“Includi mia moglie in quella fornitura di salute e felicità, e sono d’accordo,” disse “andiamo avanti”.
Il diavolo fece un cenno d’assenso. Tolse il mozzicone di sigaro dalla bocca, lo guardò con disgusto, e lo toccò con l’artiglio dell’indice. Di colpo si trasformò in una grande mentina rosa, che succhiava con rumoroso piacere.

“Riguardo alla tua domanda,” disse, “deve avere una risposta, o il nostro contratto viene annullato. Nel Medio Evo, la gente amava porre indovinelli. Alcuni mi giunsero come paradossi, come quello del villaggio con un solo barbiere che rade tutti quelli, e solo quelli, che non si radono da soli. “Chi rade il barbiere?” chiedevano. Ora, come ha messo in evidenza Russell, quel “tutti” rende tale domanda priva di significato e perciò senza risposta”.
“La mia domanda è proprio una domanda, non un paradosso”, lo assicurò Simon.
“Molto bene. Risponderò. Che cos’è quel sorrisetto?”
“Niente,” rispose Simon, che cambiò espressione.
“Hai buonissimi nervi,” disse il diavolo, approvando seriamente, mentre prendeva dall’aria una pergamena. “Se avessi scelto di comparire come un mostro che unisce le migliori caratteristiche del vostro gorilla con quelle del Grande Kleep Venusiano, un animale (presumo che ciò si possa chiamare il fascino di un occhio solo), mi stupirei del tuo autocontrollo.“
“Non hai bisogno di fare alcuna prova,” disse frettolosamente Simon. Prese il contratto che gli era stato porto, concesse che era tutto in ordine e aprì il suo coltellino da tasca.
“Solo un momento”, protestò il diavolo. “Lascia che lo sterilizzi; potresti essere infettivo.” Tenne la lama tra le labbra, soffiò delicatamente, e l’acciaio avvampò rosso ciliegia. “Eccoti. Ora un tocco della punta con un po’ di ahh…inchiostro, e siamo pronti. Seconda riga dal fondo, prego, l’ultima è la mia”.
Simon esitò, fissando l’umida punta rossa.
“Firma,” lo sollecitò il diavolo, raddrizzando le spalle, e Simon lo fece.

Quando la sua firma fu aggiunta con uno svolazzo, il diavolo si fregò le mani, diede a Simon un’occhiata apertamente di possesso, e disse allegramente: “Che mi si ponga la domanda. Non appena avrò risposto, dovrò corre via. Ho giusto il tempo per un altro cliente stasera”.
“Benissimo” disse Simon. Prese profondamente fiato. “La mia domanda è questa: è vero l’Ultimo Teorema di Fermat?”
Il diavolo deglutì. Per la prima volta la sua aria di sicurezza si indebolì.
“L’ultimo cosa di chi?” domandò con voce sorda.
“L’Ultimo Teorema di Fermat. È una congettura matematica che Fermat, un matematico francese del diciassettesimo secolo, disse di aver provato. Tuttavia, la sua dimostrazione non fu mai messa per iscritto, e ad oggi nessuno sa se il teorema è vero o falso”. Le sue labbra si contrassero brevemente mentre guardava l’espressione del diavolo. “Bene, ecco,  a te la risposta”.

“Matematica!” Esclamò il diavolo con orrore, “Pensi che io abbia tempo da perdere per imparare quella roba? Ho studiato il Trivium e il Quadrivium, ma per quanto riguarda l’algebra – diciamo”, soggiunse risentitamente, “che genere di domanda da farmi è questa?”
Il viso di Simon era stranamente rigido, ma i suoi occhi brillavano. “Tu piuttosto correresti 75 mila miglia per riportare qualche cosa delle dimensioni della Diga di Hoover, immagino!” lo derise “Il tempo e lo spazio sono inezie per te, vero? Bene, mi dispiace, io preferisco questo. È un argomento semplice”, aggiunse con voce piatta. “Solo una questione di numeri interi positivi”.
“Che cos’è un numero intero positivo?” esplose il diavolo. “O un numero intero, per quale questione?
“Per dirla più formalmente”, disse Simon ignorando la domanda del diavolo, “Il Teorema di Fermat afferma che non esistono soluzioni razionali non banali dell’equazione Xn + Yn = Zn per n positivo intero maggiore di 2”.
“Che cosa vuol dire?”
“Sei tu che dai le risposte, ricorda”.
“E chi deve giudicare, tu?”
“No” rispose Simon gentilmente. “Dubito di esser qualificato, anche dopo aver studiato il problema per anni. Se tu arrivi a una soluzione, la sottoporremo a ogni buona rivista di matematica, e i loro referee decideranno. E tu non puoi tirarti indietro – il problema ovviamente ha una soluzione: o il teorema è vero, o è falso. Nessun nonsenso di logica polivalente, bada bene. Determina solamente quale dei due, e provalo in ventiquattr’ore. Dopo tutto un uomo, scusami, un demonio della tua intelligenza e vasta esperienza di sicuro può imparare un po’ di matematica in questo lasso di tempo”.
“Mi ricordo ora del brutto periodo che ho passato su Euclide  quando studiavo a Cambridge,” disse tristemente il diavolo. “Le mie dimostrazioni erano sempre sbagliate, e ciò nonostante era comunque tutto così ovvio. Lo potevi vedere direttamente dai disegni”. Indurì la mascella. “Ma ce la posso fare. Ho fatto anche cose più difficili. Una volta andai su una stella distante e portai indietro un quarto di gallone di neutronio giusto in sedici…”
“Lo so,” lo interruppe Simon. “Sei molto bravo in certi trucchetti”.
“Trucchi, nient’affatto!” fu la replica stizzita. “È una tecnica così difficile, ma .. non importa, mi affretto alla biblioteca. A domattina a quest’ora”.
“No,” lo corresse Simon. “Abbiamo firmato mezz’ora fa. Torna esattamente entro ventitré ore virgola cinque. Non farti mettere fretta,” aggiunse ironicamente mentre il diavolo dava un’occhiata sorpresa alla pendola.
“Bevi qualcosa e conosci mia moglie prima di andar via”.
“Non bevo mai sul lavoro. E non ho tempo di fare conoscenza con tua moglie… ora”. E scomparve.


Nello stesso istante entrò la moglie di Simon.
“Sempre a sbriciare alla porta?” La riprese Simon, senza rancore.
“Naturalmente,” disse con la sua voce roca. “E, caro, vorrei sapere, quella domanda, è davvero difficile? Perché, se non lo è… Simon sono così preoccupata!”
“È difficile, va tutto bene”. Simon era piuttosto spavaldo. “Ma la maggior parte della gente a prima vista non se ne rende conto. Vedi,” continuò, cadendo automaticamente nel suo atteggiamento da  professore di matematica, “tutti possono trovare due numeri interi i cui quadrati sommati danno un altro quadrato. Per esempio, 32+42=52, cioè 9+16=25, giusto?”
“Uh huh.” Lei gli sistemò la cravatta.
“Ma quando provi a trovare due cubi che si sommano per dare un altro cubo, o potenze più alte che si comportano allo stesso modo, non sembra che ce ne sia alcuno. Tuttavia,” concluse con enfasi, “nessuno è stato capace di provare che non esistono tali numeri. Capito ora?”
“Naturalmente”. La moglie di Simon aveva sempre capito le definizioni matematiche, per quanto astruse. D’altra parte, la spiegazione fu ripetuta finché non lo capì, il che lasciava pochissimo tempo per le altre attività.
“Vado a fare del caffè per entrambi”, disse, e si svincolò.

Quattro ore più tardi, mentre sedevano assieme ad ascoltare la Terza di Brahms, ricomparve il diavolo.
“Ho già imparato i fondamenti di algebra, trigonometria e geometria piana!” annunciò trionfalmente.
“Lavoro rapido”, si complimentò Simon. “Sono sicuro che non avrai alcuna difficoltà con le geometrie sferiche, analitiche, proiettive, descrittive e non-euclidee”.
“Il diavolo trasalì. “Ce ne sono così tante?” domandò con voce flebile.
“Oh, quelle sono solo alcune”. Simon aveva l’aria allegra adatta a un latore di buone notizie.
“Ti piaceranno le non-euclidee,” disse bugiardo. “Là non hai da preoccuparti dei disegni: non dicono nulla! E poiché odiavi Euclide, comunque…”
Con un grugnito il diavolo svanì come un vecchio film. La moglie di Simon ridacchiò.
“Caro,” canticchiò, “Sto cominciando a pensare che lo hai messo con le spalle al muro”.
“Shh,” disse Simon, “L’ultimo movimento. Magnifico!”

Sei ore più tardi, ci fu un lampo fumoso, e il diavolo era tornato. Simon notò le borse cresciute sotto i suoi occhi. Trattenne un gran sorriso. “Ho imparato tutta quella geometria,” disse il diavolo con soddisfazione simulata. “Sta diventando più facile, ora. Sono quasi pronto per il tuo piccolo enigma”.
Simon scosse la testa. “Stai cercando di andare troppo in fretta. Pare che tu abbia ignorato basi tecniche quali il calcolo, le equazioni differenziali, e i metodi delle differenze finite. Allora… ecco…”
“Mi serviranno tutti quelli?” si lamentò il diavolo. Si sedette e fregò le sue palpebre gonfie, soffocando uno sbadiglio.
“Non te lo so dire,” rispose Simon con voce inespressiva. “Ma su questo “piccolo enigma” si è tentato praticamente ogni tipo di matematica esistente, ed è ancora irrisolto. Ora, secondo me…” Ma il diavolo non era dell’umore di ricevere consigli da Simon. Questa volta fece persino una distratta scomparsa mentre era seduto.
“Penso che sia stanco,” disse la signora Flagg. “Povero diavolo.” Non c’era alcuna visibile compassione nei suoi toni.
“Lo sono anch’io,” rispose Simon. “Andiamo a letto. Non sarà di ritorno fino a domattina, immagino”.
“Forse no,” concordò lei, aggiungendo con contegno, “ma indosserò il pizzo nero, nel caso che…”

Era il pomeriggio seguente. Bach sembrava in qualche modo appropriato, così avevano messo su un disco della Landowska.
“Ancora dieci minuti,” disse Simon. “Se non sarà di ritorno con una soluzione, abbiamo vinto. Gli renderò merito; poteva ottenere un dottorato nella mia scuola in un giorno, con lode! Tuttavia…”
Ci fu un sibilo. Nuvole sulfuree rosate spuntarono come funghi. Il diavolo era in piedi sul tappeto di fronte a loro, circondato da un vapore disgustoso. Le spalle flosce, gli occhi erano iniettati di sangue, e le zampe artigliate, ancora ghermenti un fascio di carte, si agitavano violentemente per la fatica e la tensione.
Silenziosamente, con una specie di rabbiosa dignità, scagliò le carte sul pavimento, dove le calpestò brutalmente con gli zoccoli fessi. Poi, il suo aspetto inquieto a poco a poco si rilassò e un sorriso sarcastico gli contorse la bocca.

“Hai vinto, Simon,” disse, quasi un sussurro, guardandolo con rispetto ammirato. “Neanch’io posso imparare abbastanza matematica in così poco tempo per un problema così difficile. Più mi ci addentravo e peggio diventava. Fattorizzazione non unica, ideali… Baa!! Sai che,” confidò, “neanche i migliori matematici di altri pianeti, tutti molto lontani dal tuo, lo hanno risolto? Perché, c’è un tizio su Saturno (sembra qualcosa come un fungo sui trampoli) che risolve mentalmente le equazioni alle derivate parziali; e persino lui si è arreso.” Il diavolo singhiozzò. “Addio.” Scomparve con una specie di sfiancata precisione.


Simon baciò con passione la moglie. Dopo un bel po’ di tempo lei si ritrasse dalle sue braccia.
“Caro,” disse corrucciata, osservando il suo viso assente, “che cosa c’è adesso che non va?”
“Niente, tranne il fatto che mi sarebbe piaciuto vedere il suo lavoro, sapere quanto vicino è andato alla soluzione. Ho lottato con questo problema per…” Si staccò stupito non appena il diavolo ricomparve come un fulmine. Satana sembrava stranamente in imbarazzo.

“Mi sono dimenticato,” mormorò. “Ho bisogno di… ah!” Si chinò verso le carte sparpagliate, raccogliendole e accarezzandole delicatamente. “Ti interessa di sicuro,” disse, evitando lo sguardo di Simon. “Impossibile fermarsi proprio ora. Perché, se potessi provare solo un semplice piccolo lemma”.
Vide l’interesse avvampante in Simon, e fece sfoggio della sua aria apologetica. “Diciamo,” grugnì, “hai lavorato su questa cosa, ne sono certo. Hai provato con le frazioni continue? Fermat deve averle usate, e… spostati un attimo, per favore”. Ciò bastò alla signora Flagg, Egli si sedette di fronte a Simon, ripiegò la sua coda, e indicò una giungla di simboli.

La signora Flagg sospirò. Improvvisamente il diavolo sembrò una figura famigliare, di poco diversa dal vecchio professor Atkins, il collega di suo marito all’università. Tutte le volte che due matematici si riuniscono su un problema stuzzicante… Rassegnata lasciò la stanza, con la tazza del caffè in mano. C’era di sicuro in vista una lunga sessione. Lo sapeva. Dopo tutto, era la moglie di un professore.

sabato 4 gennaio 2014

Il cinico inganno di Domenico Nizzola


A torto considerato un tardo seguace delle idee e delle poetiche del Gruppo ’63, Domenico Nizzola, morto ieri sera a Parma dopo lunga malattia, ne fu il più accanito critico. Solo recentemente, in una lunga intervista a Maria Clara Bottoni comparsa su “Il Murri”, aveva confessato la sua indifferenza per le tematiche sociali, che aveva trattato per solo cinico gioco letterario, e soprattutto l’insofferenza per il “verso lungo” alla Pagliarani, che aveva trasfigurato il testo poetico fino a trasformarlo in un racconto frammentato e discontinuo. Così, nel dire che le sue opere vere, del tutto sottovalutate dalla critica ancora imbevuta di strutturalismo e di ideologia politica, erano comparse con lo pseudonimo di Giovanni Casella (si tratta delle raccolte di sonetti e ballate Chiesina di campagna, 1975, Inverno dai nonni, 1979, e Dietro il vecchio canterano, 1991, dalle atmosfere decisamente pascoliane e surrealiste), ha sostenuto che la cosiddetta neoavanguardia aveva ridotto la poesia italiana “a un gran circo di sperimentazioni, di acrobati del verso libero e della prosa zoppicante scambiata per poesia, di giocolieri della lotta di classe in salsa poetica”. 

Due anni fa, nel breve saggio Smontare il giocattolo (neoavanguardista) (Chiodini, Pisa, 2012), prendendosi gioco della critica, aveva rinnegato il poema Roberto resiste (1988), che gli aveva dato fama e premi letterari, rivelandone le banali modalità di costruzione, definite “un gioco dalle regole tanto semplici da essere sfuggite agli ingegneri meccanici della critica”. Così iniziava l’opera, con un doppio sonetto alquanto irregolare che aveva fatto innamorare migliaia di lettori sprovveduti e fatto gridare al miracolo più di un critico militante: 

Mi dice lo scrittore che il lavoro è faticoso, e concede, generoso, 
che lavorare seduti al caldo è un bel vantaggio, – che coraggio! – 
ma anche per loro ci sono le giornate nere, un cielo ombroso, 
e che è più affidabile un manufatto, cui rende omaggio, 
di un’opera che non sai, anche se hai scritto appassionatamente, 
se piacerà al lettore, tardiva misura di valore, e che la pagina 
accoglie tollerante ogni delirio e non protesta indifferente 
mentre è più leale l’armatura di miniera, che geme e, immagina, 
scricchiolando se caricata troppo, avverte del crollo rovinoso. 
Non c’è allarme – assicura – nella sua attività, e non si sente 
se il lavoro non è fatto con grazia, se non è armonioso. 
Tutto ciò causa angoscia, l’intellettuale soffre di sovente, 
e si dà al bere, al fumo e non dorme per il nervoso, 
al punto che per il dolore molti muoiono precocemente. 

Roberto ascolta muto, Roberto resiste, ma sale presto di pressione, 
aspetta che lo scrittore abbia finito il suo sfogo, forse sincero, 
per dire che quelli che parlano tanto non sanno la situazione, 
che il nervoso viene a chi lavora, che fa fatica per davvero. 
Provi il lamentoso, un giorno solo, magari per un capriccio, 
a stare tutto solo in cima a un traliccio, e tira forte il vento 
che pare una barchetta dentro la tempesta, e in quell’impiccio 
vede le persone a terra come formiche e vorrebbe per portento 
non aver due mani, ma dieci cento, per reggersi e serrar la vite 
e tenere il disegno e fissare il moschettone della cintura: 
non è certo situazione rilassante. E poi, se anche ci riuscite, 
rifarlo il giorno dopo, e per anni, con la stessa paura, 
sempre che prima non cedete e tra i poveracci finite 
che per incidente misurano quanto la terra è dura. 

Così Nizzola commentava nel primo capitolo del pamphlet: 

«Si trattava di costruire un testo poetico che si rivelasse “sociale e democratico”, come ancora andava di moda, e che allo stesso tempo fosse abbastanza elitario per compiacere la critica, che amava ed ama chi parla del popolo in maniera accessibile solo agli intellettuali. Se poi qualche parte fosse stata incomprensibile e avesse sollevato interpretazioni contrapposte, allora tanto meglio: avrei mantenuto più gente nelle riviste d’avanguardia. (…) 

Mi piaceva un brano de La chiave a stella di Primo Levi, quando il protagonista, alter ego dello scrittore, conversa con il tecnico montatore Faussone sulle differenze e le analogie tra le loro professioni: 

(…) Gli ho risposto che fare confronti è difficile; che tuttavia, avendo fatto anche mestieri simili al suo, gli dovevo dare atto che lavorare stando seduti, al caldo e a livello del pavimento, è un bel vantaggio, ma (…) le giornate balorde capitano anche a noi. Anzi: ci capitano più di sovente, perché è più facile accertarsi se è in “bolla d’aria” una carpenteria metallica che non una pagina scritta; così può capitare che uno scriva con entusiasmo una pagina, o anche un libro intero, e poi si accorga che non va bene e (…) mediti di cambiare mestiere, aria, e pelle; e magari di mettersi a fare il montatore. (…) la carta è un materiale troppo tollerante. Le puoi scrivere sopra qualunque enormità, e non protesta mai: non fa come il legname delle armature nelle gallerie di miniera, che scricchiola quando è sovraccarico e sta per venire il crollo. Nel mestiere di scrivere la strumentazione e i segnali d’allarme sono rudimentali (…) Ma se una pagina non va se ne accorge chi legge, quando ormai è troppo tardi, e allora si mette male (…) 

(…) i nervi degli scrittori tendono a essere deboli: ma è difficile decidere se i nervi si indeboliscono per causa dello scrivere, e della prima accennata mancanza di strumenti sensibili a cui delegare il giudizio sulla qualità della materia scritta, o se invece il mestiere di scrivere attragga preferenzialmente la gente predisposta alla nevrosi. È comunque attestato che diversi scrittori erano nevrastenici (…) e che altri sono addirittura finiti in manicomio (…); parecchi, poi, senza arrivare alla malattia conclamata, vivono male, sono tristi, bevono, fumano, non dormono più e muoiono presto”. 

Tali considerazioni portano Faussone a questa risposta: 

“Il fatto è che di lavorare si parla tanto, ma quelli che ne parlano più forte sono proprio quelli che non hanno mai provato. Secondo me, il fatto dei nervi che saltano, al giorno d’oggi, capita un po’ a tutti (…) A proposito di nervi: non creda mica che quando uno è lassù in cima, da solo, e tira vento, e il traliccio non è ancora controventato e è ballerino come una barchetta, e lei vede a terra le persone come le formiche, e con una mano sta attaccato e con l’altra mena la chiave a stella e le farebbe comodo di avere una mano numero tre per reggere il disegno e magari anche una mano numero quattro per spostare il moschettone della cintura di sicurezza; bene, le stavo dicendo, non creda mica che per i nervi sia una medicina. A dirle la verità, così sui due piedi non le saprei dire di un montatore che è finito in manicomio, ma so di tanti, anche miei amici, che sono venuti malati e hanno dovuto cambiare mestiere”. 

Lo scrittore, ammettendo che nel suo settore le malattie professionali sono poche, concede la vittoria dialettica al suo interlocutore, il quale, non volendo un successo di misura, conclude affermando che “Uno non può mica ammalarsi a forza di scrivere. Tutt’al più, se scrive con la biro, gli può venire un callo qui. E anche per gli infortuni, è meglio lasciar perdere”


Era senza dubbio il brano che serviva per iniziare la mia opera. Con qualche semplice parafrasi lo trasformai, e così divenne famoso, senza che nessuno si accorgesse della mediocre parodia che avevo deliberatamente congegnato, senza che qualche poeta laureato o professore si fosse preso la briga di notare le analogie evidenti con Primo Levi, che era morto suicidandosi l’anno prima e non poteva certo protestare. Il resto del poema, per i rimanenti 392 versi, fu costruito in modo analogo utilizzando brani di altri autori. Era come giocare a Lego usando mattoncini che si chiamano Pratolini, Cassola, Pessoa, Pavese, Zavattini, Guattari, Campanile, Deleuze, Vamba e molti altri. Mi divertii moltissimo». 

L’ultima opera poetica di Nizzola compare a chiusura del saggio di autodenuncia, a voler sancire in modo ironico il cinico e metodico inganno che aveva perpetrato ai danni di gran parte del mondo letterario italiano: 

‘63 + ‘77 = ‘48! 

Colto da ebete straniamento. 
da illusionistica epifania, 
con rizomatico travestimento, 
m’inabissai nella poesia. 
Con Bachtin sul comodino 
e mise en abyme cognitiva, 
gustai Celati con Arbasino, 
e Balestrini appena usciva. 
Fumata Malerba con gli Indiani, 
tergendo un po’ di Sanguineti, 
mi risvegliavo l’indomani 
territorializzando i miei secreti. 
Farsesco nonsenso della vita 
e sbeffeggiante batter d’ali, 
decisi un giorno di farla finita 
con siffatte seghe mentali.