mercoledì 22 marzo 2017

Le stelle nere di Michell


I primi buchi neri

Detto in parole semplici, un buco nero è una regione dello spazio-tempo dove il campo gravitazionale è così forte che nulla, neanche la luce, può allontanarsi. L’idea di questi strani oggetti del cielo è diventata popolare nella seconda metà del secolo scorso, ma era già contemplata nella relatività einsteniana.

Ciò che invece non è noto a tutti è che essa fu proposta per la prima volta più di due secoli fa, nella seconda metà del Settecento, dal reverendo inglese John Michell (1724-1793), che fu un geologo, fisico e astronomo educato a Cambridge e membro della Royal Society. Egli, che viene considerato il “padre della sismologia” per lo studio dei terremoti, fu anche il primo a immaginare le stelle doppie, a dimostrare che il magnetismo segue una legge quadratica inversa, a inventare la bilancia di torsione. Inoltre concepì l'esperimento poi realizzato da Cavendish che misurò la forza di gravità fra due corpi in laboratorio e consentì la prima valutazione accurata della massa della Terra e della costante gravitazionale.



In una memoria redatta nel 1783 e ritrovata negli anni Settanta del secolo scorso, Michell per primo pensò a un corpo celeste in cui la velocità di fuga può essere superiore a quella della luce. A quei tempi si pensava, con Newton, che la luce avesse natura corpuscolare e fosse in qualche modo simile al nostro concetto di fotone. Era pertanto ritenuto possibile che essa potesse essere influenzata dalla gravità, come accade alla materia ordinaria.

Già un secolo prima, Giovanni Cassini, impegnato nello studio della rivoluzione dei satelliti di Giove, aveva scoperto delle discrepanze nelle sue misure che aveva attribuito al fatto che la luce dovesse avere velocità finita. Nel 1672 l’astronomo danese Ole Rømer, che si trovava a Parigi come assistente di Cassini, si accorse che i tempi tra le eclissi (in particolare di Io) diventavano più brevi quando la Terra si avvicinava a Giove e più lunghi quando la Terra si allontanava. Nel 1675 Rømer stimò che il tempo impiegato dalla luce per percorrere il diametro dell'orbita terrestre, una distanza di due unità astronomiche, fosse di circa 22 minuti, un valore eccessivo rispetto a quello che oggi è stimato in circa 16 minuti e 40 secondi. La sua scoperta venne presentata alla Académie Royale e riassunta più tardi in una pubblicazione del 7 dicembre 1676. Nella memoria, Rømer affermava «che per una distanza di circa 3000 leghe, valore molto prossimo al diametro della Terra, la luce impiega meno di un secondo di tempo».



Le osservazioni sull’aberrazione stellare condotte da James Bradley nel 1728 diedero un’ulteriore conferma dell’ipotesi di Cassini e un valore più accurato per la velocità della luce, stimata in 295.000 Km/s. Il concetto newtoniano di velocità di fuga intesa come la velocità minima necessaria per sfuggire dalla superficie di un pianeta era ben noto. Per una massa sferica di massa M di raggio R, è semplicemente:



Dove G è la costante gravitazionale. La velocità di fuga perciò aumenta proporzionalmente se la massa dell’oggetto cresce oppure se la massa rimane la stessa ma diminuisce il raggio.

Torniamo a Michell: egli prese in considerazione un corpo di massa così grande che la velocità di fuga alla sua superficie era uguale alla velocità della luce. Nella sua memoria per la Royal Society scriveva:
4. Supponiamo ora che le particelle di luce siano attratte allo stesso modo di tutti gli altri corpi che conosciamo; cioè da forze che portano la stessa proporzione della loro vis inertiae, di cui non ci può essere alcun ragionevole dubbio, essendo la gravità, per ciò che sappiamo, o abbiamo qualche ragione di credere, una legge universale di natura. Sulla base di questa supposizione, quindi, se qualcuna delle stelle fisse, la cui densità è nota tramite i metodi sopra menzionati, sia grande abbastanza sensibilmente da influenzare la velocità della luce che esce da essa, dovremmo avere il modo di conoscere la sua reale magnitudine, ecc. (...)
16. Di conseguenza (...), Se il semidiametro di una sfera della stessa densità del Sole eccedesse quello del Sole in proporzione di cinquecento a uno, un corpo che cade da un’altezza infinita verso di esso, dovrebbe aver acquisito alla sua superficie una velocità maggiore di quella della luce, e, di conseguenza, supponendo che la luce sia attratta dalla stessa forza in proporzione alla sua [massa] con altri corpi, tutta la luce emessa da tale corpo dovrebbe tornare verso di esso, a causa della sua stessa gravità.


Michell immaginò l’esistenza di una stella con un raggio 500 volte quello solare e con la stessa densità. Per tale oggetto egli calcolò che il campo gravitazionale sarebbe stato così forte sulla superficie che la velocità di fuga era superiore a quella della luce. Dalla sua ipotetica stella neanche la luce poteva sfuggire, e la stella sarebbe stata invisibile. Sebbene egli lo ritenesse improbabile, egli considerò che molti di tali oggetti potessero essere presenti nel cosmo senza che noi li possiamo vedere.

Nel 1796, tredici anni più tardi, il grande matematico, fisico e astronomo francese Pierre Laplace sviluppò idee simili a quelle di Michell nella sua famosa opera Exposition du Systeme du Monde:
“Un astro luminoso, della stessa densità della Terra, e il cui diametro sia 250 volte quello del Sole, non permetterebbe, a causa della sua attrazione, ad alcuno dei suoi raggi di giungere fino a noi; è pertanto possibile che i più grandi corpi luminosi dell’universo possano, a causa di ciò, essere invisibili”.

Laplace presentò la sua tesi davanti all’Accademia delle Scienze, ma i fisici e gli astronomi, entusiasti dell’opera in generale, restarono scettici sulla possibile esistenza di un tale oggetto. Era nato il concetto di buco nero, ma la sua dimostrazione matematica sembrava appartenere al campo della fantasia agli occhi dei contemporanei.

Nei primi anni dell’Ottocento, gli esperimenti sull’interferenza ottica di Young e Fresnel portarono al maggior successo dell’ipotesi ondulatoria rispetto a quella corpuscolare, che finì nel dimenticatoio. Poiché si riteneva che le onde luminose non possano essere influenzate dalla gravità, finì l’interesse per le ipotetiche “stelle nere”. Lo stesso Laplace tolse il suo accenno a queste stelle senza luce a partire dalla terza edizione della Exposition du système du Monde.

Solo un secolo dopo, tra il 1900 e il 1905, si riconobbe che la luce possiede anche natura particellare e il “quanto di luce” (più tardi fotone) fu introdotto come costituente elementare delle radiazioni luminose da Max Planck e Albert Einstein.

Nel 1915 Albert Einstein pubblicò la rivoluzionaria Teoria Generale della relatività. Una delle sue predizioni più importanti era l’effetto della gravità sulla luce. Secondo la teoria, la materia provoca delle curvature nello spazio-tempo. Il cammino dei raggi luminosi è determinato dalla curvatura provocata dalle masse dei corpi celesti, come fu provato da Arthur Eddington nel 1919. Se la densità di un corpo è talmente elevata da curvare lo spazio-tempo in modo molto accentuato, neanche la luce riesce a sfuggire dal “buco” che si crea. Ciò fornì una prova scientifica in chiave moderna dell’ipotesi di Michell e Laplace.

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