lunedì 23 aprile 2018

La moltiplicazione delle geometrie (2): la geometria proiettiva


Oggi la geometria proiettiva non gioca un ruolo importante in matematica, ma, alla fine del diciannovesimo secolo, divenne sinonimo di geometria moderna. La geometria proiettiva ha le sue origini nelle regole della prospettiva, che gli artisti del Rinascimento studiarono e utilizzarono in modo sistematico per rappresentare il mondo reale il più fedelmente possibile. Ciò portò subito al problema di rappresentare un mondo tridimensionale su una superficie piana (la tela). I primi artisti che dedicarono la loro attenzione al problema della prospettiva furono Filippo Brunelleschi (1377-1446) e poi Leon Battista Alberti (1404-1472) con l'opera Della pictura del 1435. Degli stessi argomenti si occuparono poi Leonardo da Vinci (1452-1528), autore del Trattato della pittura (opera perduta nella sua versione originale), e Piero della Francesca (1410-1492), autore del De prospectiva pingendi (scritto nella tarda maturità dell'autore, tra gli anni sessanta e ottanta del Quattrocento) e Albrecht Dürer (1471-1528), il grande artista tedesco che favorì la diffusione delle teorie sulla prospettiva nell'Europa centro-settentrionale.

La prospettiva centrale fu inventata intorno al 1415 a Firenze da Filippo Brunelleschi; si diffuse in Europa durante il XV e XVI secolo, dando origine a un numero considerevole di trattati e capolavori artistici. Essa consiste di una proiezione centrale, da un punto di vista o origine O, su un piano P (il piano della tela): l'immagine di un punto dello spazio M diverso da O è l'intersezione della retta (OM) con P.

La proprietà principale di questa proiezione è di preservare l'allineamento dei punti e di trasformare un fascio di rette parallele, di direzione non parallela al piano del dipinto, in un fascio di rette concorrenti. L’Alberti chiamò l'insieme di questi M’ una “sezione". La cosa interessante è che guardare la sezione crea a O l'illusione di guardare l'oggetto scelto, perché dalla sezione provengono all'occhio gli stessi raggi luminosi che provengono dall'oggetto. Alberti sollevò inoltre una domanda molto importante: se si cambia la posizione dello schermo davanti all'occhio, si ottiene una sezione differente dalla precedente; tuttavia le due sezioni "provengono" dallo stesso oggetto; quali proprietà geometriche hanno in comune queste due sezioni, che sono figure piane?

La geometria proiettiva nasce proprio come lo studio delle "proprietà delle figure che rimangono inalterate (invarianti) nella proiezione". I primi geometri proiettivi trovarono che nella proiezione, mentre le lunghezze, le aree e gli angoli non erano conservati, c'erano delle proprietà di punti e linee che erano inalterate o invariate.

Il primo invariante proiettivo è il rapporto incrociato (birapporto) di quattro punti collineari. Il birapporto è una quantità fondamentale nella geometria proiettiva ed è paragonabile alla nozione di "distanza" nella geometria tradizionale. La distanza tra due punti è un valore numerico che descrive una relazione significativa tra quei punti, perché la "distanza" è invariante nella geometria metrica. Tuttavia, nella geometria proiettiva, questa quantità non rimane invariante ed è quindi inutile. Il birapporto è un'alternativa che descrive una relazione tra quattro punti collineari e rimane invariata anche nella proiezione.

Il birapporto di una quaterna di punti distinti sulla retta reale, con coordinate z1, z2, z3, z4 è dato dalla relazione:


Se A, B, C e D sono punti collineari, il birapporto si può indicare in modo analogo con:



In cui ciascuna delle lunghezze è assegnata in riferimento a una determinata orientazione della retta. Questa grandezza è una invariante proiettiva, nel senso che non viene modificata dalla proiezione centrale (e, banalmente, parallela), che invece non conserva le distanze, o il rapporto di due distanze. In particolare, se quattro punti giacciono su una retta r nel piano reale, allora il loro birapporto è una quantità ben definita, in quanto non dipende dalla scelta dell’origine o dell’unità di misura.

Come scrissi in un limerick:

Quattro punti ordinati su una retta
stabiliscono tra loro un’intesa perfetta, 
un birapporto di vicinato, 
che rimane immutato 
per qualsiasi proiezione che li riassetta.

Non è certo chi sia esattamente il responsabile della scoperta dell'invarianza del birapporto, ma è noto che Pappo d'Alessandria (IV sec.), considerato da molti come l’artefice dei primi teoremi veramente proiettivi, sapeva della sua esistenza. Se in realtà l'abbia scoperto proprio lui non è sicuro. Pappo ha scritto un commento sul libro perduto di Euclide sui porismi [teoremi incompleti] ed è in quel commento che è nota la prima registrazione dell'invarianza del birapporto.

Altre proprietà invarianti per proiezioni e sezioni sono, ad esempio: per tre punti, l’appartenenza ad una retta (essere allineati), oppure, per quattro punti non allineati, l’appartenenza ad uno stesso piano (individuato da tre di essi).

Dopo gli architetti e pittori italiani, un nuovo impulso allo studio delle proiezioni venne dal francese Gérard Desargues (1591-1661), che è considerato da molti il vero fondatore della geometria proiettiva. Desargues era un ingegnere e architetto militare che si interessò al concetto di proiezione durante il suo lavoro di progettista di piazzeforti. Il suo lavoro più notevole fu il Brouillon projet d'une atteinte aux evenemens des rencontres du Cone avec un Plan, (“Bozza di un saggio su quello che si ottiene sezionando un cono con un piano), un originale studio sulle coniche in cui queste, anche quelle aperte come la parabola e l'iperbole, sono in sostanza considerate come trasformazioni proiettive del cerchio. L’opera fu pubblicata nel 1639 solo in una cinquantina di copie, distribuite tra colleghi e amici. Desargues aveva studiato l’opera di Apollonio sulle coniche e si sforzò di semplificare le sue idee, elaborando nuovi metodi per dimostrare molti teoremi sulle attraverso l'uso della proiezione. Proprio in virtù di quest'opera, Fermat, suo contemporaneo considerava Desargues “il vero fondatore della teoria delle sezioni coniche". Desargues fu l’autore del teorema sui triangoli omologici che prende il suo nome.

Ciò che vediamo è la proiezione del triangolo ABC su un triangolo A'B'C’ in un altro piano. Per comprendere questa figura, bisogna pensarla in tre dimensioni. Il punto O è il punto di prospettiva. Un osservatore nel punto O non vedrebbe entrambi i triangoli. Da quel punto, il triangolo A'B'C 'è esattamente nascosto dietro l'ABC. Chiamiamo P1 il piano in cui giace ABC e P2 il piano in cui si trova A'B'C. Il lato AB si trova in P1 mentre A'B' si trova in P2, ma sappiamo che si intersecano perché entrambi giacciono nel piano di BOA. Il punto in cui si intersecano è chiamato Q. Questo punto Q deve trovarsi sulla linea di intersezione dei piani P1 e P2. Con logica simile, i punti R e P sono contrassegnati come le intersezioni delle linee AC con A'C' e di BC con B'C'. Proprio come Q, questi punti devono trovarsi sulla linea di intersezione dei due piani. Quindi tutti e tre giacciono su una singola linea retta, e sono collineari. Ciò che è ancora più affascinante di questa configurazione è che ognuno dei dieci punti della figura può essere scelto come punto di vista. Con alcune manipolazioni attente, questa configurazione può essere ricostruita in base a quale di essi sia il punto di vista.


Nonostante il giudizio positivo di Fermat, l’opera di Desargues non ebbe l’apprezzamento della comunità matematica del tempo, che ne criticò il linguaggio colloquiale, privo di formule e di tecnicismi. Solo dopo cento anni la grandezza del Brouillon sarebbe stata riconosciuta.

Desargues non era l'unico geometra proiettivo del Seicento. Altri due matematici che scrissero opere sull'argomento erano Blaise Pascal (1623-1662) e Philippe de La Hire (1640-1718). Pascal, influenzato da Desargues, si concentrò sulla semplificazione delle proprietà delle sezioni coniche. Egli produsse un saggio che purtroppo è andato perduto, ma era stato letto da Leibniz, che lo definì "così brillante che non poter credere che fosse stato scritto da un uomo così giovane". L’opera conteneva un risultato che da Pascal prese in seguito il nome: il Teorema di Pascal, cioè: "Le tre coppie di lati opposti di un esagono inscritto in una conica si tagliano in tre punti situati su una stessa retta." Sebbene la dimostrazione esatta di Pascal di questo teorema non sia nota, la figura seguente illustra una delle molte prove che sono state proposte da allora, cioè quella che diede Charles Brianchon nel 1806.


I dettagli di questa dimostrazione comportano spiegazioni più complicate di quanto sia conveniente qui. Per riassumere, il blu è la "conica" in cui è inscritto l'esagono ABCDEF. R, P e Q sono i tre punti collineari. Il lato AF si interseca con CD nel punto R, AB con DE in P, e BC con EF in Q.

Anche Philippe de la Hire fu influenzato da Desargues. Egli è noto soprattutto per l’opera Sectiones Conicae ("Sezioni coniche"), in cui manifestò l’opinione che i metodi di proiezione fossero molto più potenti dei metodi di Apollonio. Tentò così di dimostrare tutti i 364 teoremi del grande matematico greco, arrivando vicino a questo obiettivo, arrivando a 300.

È piuttosto curioso, guardando la storia della geometria proiettiva, vedere che, dopo i grandi progressi di Desargues, Pascal e La Hire, passò circa un secolo durante il quale l’argomento fu praticamente ignorato, probabilmente perché l’opera di Cartesio sulla geometria analitica distolse l'attenzione dalla "pura geometria" della proiezione verso modelli più analitici. La geometria analitica consentiva la costruzione di curve per rappresentare dati che era molto più adatta alla scoperta di "leggi" della natura.

L’interesse per le proiezioni si rifece vivo in epoca napoleonica, quando un altro costruttore di fortezze, Gaspard Monge (1746 - 1818) sviluppò la geometria descrittiva per l’insegnamento nelle scuole militari (e affrontò per primo il problema del trasporto ottimale per il materiale di scavo e di costruzione). L’idea fondamentale della geometria descrittiva è il metodo della doppia proiezione ortogonale, ancora in uso nel disegno geometrico, che consente di rappresentare su un piano un oggetto tridimensionale, per cui da due proiezioni su due piani ortogonali (pianta e alzata), uno dei quali ribaltato sull'altro, si ottengono le proprietà della figura spaziale e viceversa. Mostrando come questa tecnica consentiva di risolvere numerosi problemi di geometria piana, Monge riconsegnava alla geometria pura un proprio valore all'interno della cultura matematica del tempo, largamente dominata dai metodi dell’analisi.


Nelle sue opere, Monge pose inoltre le basi della teoria delle superfici sviluppabili, cioè di quelle superfici che si possono distendere su un piano senza tagli, né piegature, come avviene nel caso di un cilindro o di un cono.

L’opera di Monge fu proseguita dal suo allievo Jean-Victor Poncelet (1788-1867), considerato il fondatore della moderna geometria proiettiva, che dimostrò che le proprietà proiettive delle figure fornivano fondamenti di dimostrazione che erano almeno altrettanto potenti e certamente più intuitivi e apparentemente convincenti della procedura cartesiana di impostazione e risoluzione di equazioni tra numeri che rappresentano punti.

Prigioniero dei Russi dopo la disastrosa ritirata dell’Armata di Napoleone, Poncelet trascorse quasi due anni nel carcere di Saratov, durante i quali cominciò a ripensare agli insegnamenti di geometria ricevuti da Monge e dallo studio della Géométrie de position (1803), il libro in cui Lazare Carnot aveva sostenuto che si potesse fare geometria senza “i geroglifici dell’analisi”. Si chiese allora se esistesse un metodo per conferire la necessaria generalità ai metodi geometrici, in modo che le proprietà e le relazioni trovate per un sistema di figure restassero applicabili ai successivi stati del sistema, facendo attenzione alle particolari modificazioni che si sarebbero potute verificare. La sua risposta fu la cosiddetta “legge di continuità”, per la quale è possibile conservare le proprietà descrittive di una figura attraverso una serie di trasformazioni continue, almeno fino a un certo punto. Per Poncelet le proprietà interessanti non erano solo quelle descrittive, ma più in generale quella proiettive, che sono indipendenti dalle misure.

Tornato in Francia nel 1814, solo nel 1820 Poncelet presentò all’Académie una lunga memoria in cui esponeva sistematicamente il frutto delle sue ricerche e rivendicava ai metodi geometrici la stessa generalità e la stessa dignità di quelli analitici. Cauchy, pur riconoscendo l’originalità dell’opera di Poncelet, contestò aspramente il principio di continuità, che poteva condurre a “errori manifesti”. In realtà si trattava dello scontro tra due concezioni radicalmente opposte della matematica: in quegli anni Cauchy si stava sforzando proprio di eliminare dall'analisi ogni ricorso all'intuizione geometrica.

La memoria di Poncelet fu pubblicata nel 1822 con il titolo Traité des proprietés projectives des figures. Si trattava di un’esposizione della geometria proiettiva in cui l’autore ordinava non solo i suoi risultati, ma anche quelli dei geometri del passato, da Pappo, a Desargues, ai loro più recenti continuatori.

Poncelet, per eliminare quei paradossi geometrici che sembrano derivare dall’analisi algebrica, in conseguenza del suo principio di continuità, faceva uso di enti geometrici impropri, cioè del gruppo degli elementi che danno origine alle figure geometriche quando se ne considera la posizione all'infinito anziché a distanza finita.

Vi fu chi rabbrividì di fronte a questa apparentemente sfrenata moltiplicazione di enti, che, tuttavia, era stata praticata in aritmetica per secoli, come l’insieme iniziale di numeri naturali 1, 2, 3, ..., era stato integrato con zero, gli interi negativi, i razionali non integrali, gli irrazionali, i numeri immaginari e così via. Così, ai concetti consueti di punto, retta e piano si affiancarono quelli corrispondenti di punto improprio, retta impropria e piano improprio.

Il punto improprio è il punto all'infinito di una retta, che determina la sua direzione. Dato che due o più rette parallele fra loro hanno la medesima direzione, ne deriva che esse hanno in comune lo stesso punto improprio; in altre parole si dice che rette parallele fra loro si incontrano all'infinito nel loro punto improprio.


Analogamente, una retta impropria è la retta all'infinito di un piano, che determina la giacitura del piano stesso; due o più piani paralleli fra loro hanno in comune la stessa retta impropria, ovvero piani paralleli fra loro si incontrano all'infinito lungo la loro retta impropria.

Nel suo Traité, Poncelet studiò poi le proprietà generali delle coniche, che riconduceva a quelle dei cerchi, in quanto esse si possono pensare come ottenute dalle proiezioni dei cerchi. In questo contesto introduceva i due concetti di polo e polare di una conica. Per un punto P esterno a una conica (polo), la sua polare p rispetto ad essa è la retta passante per i punti di contatto delle tangenti condotte da P alla conica. Se P è interno alla conica, Poncelet chiamava “immaginari” questi punti di intersezione di una secante ideale, dove ciò che è ideale “è pensato provenire dalla prima figura con un movimento progressivo e continuo, senza violare le leggi del sistema.”


Le idee di Poncelet fecero da stimolo per il lavoro di altri importanti geometri, tra i quali Michel Chasles (1793-1880) e Jacob Steiner (1796-1863), che portarono la geometria proiettiva a livelli di grande potenza e complessità, con significative applicazioni nella meccanica. Nel corso dell’Ottocento, la geometria proiettiva contribuì con il suo approccio allo sviluppo delle matematiche in generale. Secondo molti storici delle matematiche, la geometria proiettiva ha costituito una rivoluzione molto più profonda e di vasta portata nel pensiero umano rispetto alla semplice negazione del postulato di Euclide.

domenica 15 aprile 2018

La moltiplicazione delle geometrie (1): Gauss, Lobacevskij, Bolyai


I dubbi sul quinto postulato - Euclide (III sec. a. C.) pose all'inizio dei suoi Elementi una serie di "definizioni" (es.: "Un punto è ciò che non ha parti") e "nozioni comuni" (es.: "Aggiungendo (quantità) uguali a (quantità) uguali le somme sono uguali") e cinque "richieste” (postulati). Questi enunciati dovevano fornire tutte le informazioni necessarie per inferire i teoremi e risolvere i problemi della geometria: essi dovevano essere in ogni caso essere accettati, o le dimostrazioni non sarebbero state valide.

Tuttavia, il quinto postulato sembra più un atto di fede che un fatto evidente. Il testo di Euclide può essere reso come segue: "Se una linea retta [c] che cade su due linee rette [a e b] rende gli angoli interni sullo stesso lato meno di due angoli retti, le due linee rette [a e b], se prolungate indefinitamente, si incontrano su quel lato su cui si trovano gli angoli inferiori ai due angoli retti"). La frase sembra oracolare, tuttavia può essere facilmente parafrasata come una ricetta per costruire triangoli, (Figura 1). Ogni triangolo è formato da tre linee rette complanari che si incontrano, a coppie, in tre punti. Dato qualsiasi segmento PQ, si traccia una linea retta a che passa per P e una linea retta b che passa per Q, in modo che a e b giacciano sullo stesso piano; si verifica che gli angoli che a e b formano con PQ su uno dei due lati di PQ hanno una somma inferiore a due angoli retti; se questa condizione è soddisfatta, dovrebbe essere garantito che a e b si incontrano in un punto R sullo stesso lato di PQ, formando così il triangolo PQR. Se il postulato viene rifiutato, diciamo, perché crediamo che il mondo sia finito, e che non ci sia spazio per accogliere il vertice R se gli angoli interni in questione si sommano a poco meno di due angoli retti, allora gran parte del sistema di Euclide della geometria non sarà valido.


Nelle epoche che seguirono, il senso di libertà matematica di Euclide andò perduto e i matematici si aspettavano che la geometria poggiasse su basi evidenti. Le ricerche sul postulato delle parallele iniziarono già al tempo dei greci antichi, continuarono nel mondo islamico e furono riprese in Occidente agli inizi dell’era moderna. Ora, se a è perpendicolare e b è quasi perpendicolare a PQ, a e b si avvicinano molto lentamente su un lato di PQ e non è scontato che alla fine si incontrino da qualche parte su quel lato. Dopo tutto, l'iperbole si avvicina indefinitamente ai suoi asintoti e tuttavia, in modo dimostrabile, non li incontra mai. Nel corso dei secoli, diversi autori hanno tentato una dimostrazione del postulato di Euclide. John Wallis (1616-1703) la derivò dicendo che, dato un triangolo qualsiasi, si può sempre costruirne un altro simile (cioè con gli stessi angoli), di grandezza arbitraria, ma questa ipotesi ha bisogno a sua volta di una prova. Girolamo Saccheri (1667-1733), dalla negazione del postulato di Euclide dedusse una lunga serie di proposizioni, finché non ne raggiunse una che giudicò "ripugnante alla natura della linea retta". Ma la comprensione di Saccheri di questa "natura" era radicata nella geometria euclidea e il gesuita ligure dovette ammettere il suo insuccesso. Anche il matematico alsaziano Johann Heinrich Lambert (1728–1777), dopo aver dimostrato l’irrazionalità di π, aveva affrontato il problema delle parallele e aveva pensato a una specie di geometria sferica, ma era rimasto sconcertato da un concetto che faceva a pugni con l’intuizione comune e con l’ombra dello spazio unico e a priori dell’amico e corrispondente Kant, che bloccò ogni sua possibile speculazione su possibili geometrie non euclidee.

Fu solo agli inizi dell’Ottocento che diventò più facile immaginare che gli Elementi potessero non essere il solo possibile sistema di geometria metrica. Tra i fattori che possono essere indicati per spiegare come l’impensabile divenne pensabile anche al di fuori della comunità dei matematici, fu l’accumularsi di sfortunati tentativi basati su assiomi diversi dal quinto postulato per tentare di dimostrarlo. Il loro fallimento portò alcuni a prendere in considerazione l’idea che in effetti potesse esserci una geometria diversa da quella di Euclide.

Il segnale di questo mutamento fu ad esempio il professore di legge Ferdinand Karl Schweikart (1780-1859), il quale, nel 1818, tramite Gerling, suo collega all'Università di Marburgo, inviò a Carl Friedrich Gauss (1777-1855) una nota su una geometria molto diversa da quella euclidea. Lo scritto di Schweikart fu approvato da Gauss, che rispose che tutte le proprietà della nuova geometria potevano essere derivate una volta che fosse stato assegnato un valore a una costante che compariva nella relazione di Schweikart. Ma ciò che Gauss aveva accettato, e su quali basi, è meno chiaro. Egli aveva già trovato errori in numerose difese degli Elementi di Euclide (compreso quello contenuto negli Eléments de Géométrie del “mostro sacro” Legendre) e, con il passare degli anni diventò completamente fiducioso che esistesse una nuova geometria bidimensionale diversa da quella piana euclidea. Questa geometria poteva essere descritta da formule che egli doveva aver considerato simili a quelle della geometria sferica. Tuttavia non descrisse una geometria tridimensionale di questo tipo, lasciando aperta la possibilità che la geometria bidimensionale che si delineava fosse un qualche tipo di stranezza formale senza senso.

D’altra parte, nella corrispondenza con l’amico Heinrich Olbers, chiarì di non poter attribuire alla geometria euclidea la stessa certezza dell’aritmetica, che considerava un a priori, mentre la geometria era piuttosto come la meccanica, cioè una scienza sperimentale. In altri scritti, vedeva nell'impossibilità di decidere se la geometria euclidea fosse un a priori “la più chiara dimostrazione che Kant aveva torto ad affermare che lo spazio è solo una forma della nostra intuizione”. Anche il nipote di Schweikart, Franz Taurinus (1794-1874), pubblicò nel 1825 un’opera, Theorie der Parallellinien, che contribuì ad alimentare una diffusa incertezza sulla necessità a priori della geometria euclidea.

Il Theorema egregium - Molte di tali questioni epistemologiche ebbero uno sviluppo accelerato con l’opera Disquisitiones generales circa superficies curvas, vera pietra miliare nella storia della geometria differenziale, che Gauss pubblicò nel 1828. Gauss rifletté profondamente su cosa significasse definire una superficie, e scoprì che sono possibili tre definizioni di generalità successive. Si può supporre che almeno localmente la superficie possa essere data nella forma, z = f (x, y) per alcune funzioni f di x e y. Questo è vero per le regioni della sfera, ma non per tutte. Più in generale, si può assumere che la superficie sia costituita da quei punti (x, y, z) che soddisfano un'equazione della forma f (x, y, z) = 0, come la sfera.

L’oggetto principale dell’indagine di Gauss era tuttavia lo studio delle proprietà che sono indipendenti dalle varie forme che può assumere la superficie (oggi diremmo che cercava le proprietà invarianti per trasformazioni isometriche). Più generalmente, sosteneva Gauss, potrebbe essere che una superficie sia data localmente da tre funzioni, ciascuna di due variabili curvilinee u e v. Queste due variabili devono essere pensate come le coordinate dei punti di un piano e le funzioni x (u, v), y (u, v) e z (u, v) insieme danno le coordinate dei punti sulla superficie nello spazio. A questo punto era fondamentale definire l’elemento ds, cioè la lunghezza di un arco infinitesimo di linea di superficie. Essa si poteva esprimere nella forma:


deove E, F e G sono determinati dalle funzioni di u e v e dalle loro derivate parziali prime e seconde, e soddisfano EG ‒ F2 > 0. Questa formula, detta oggi prima forma fondamentale della superficie permise a Gauss di definire una misura della curvatura della superficie in un punto, e dimostrava che la misura della curvatura dipende solo da E, F e G e dalle loro derivate rispetto a u e v, ma non direttamente dalle funzioni x (u, v), y (u, v) e z (u, v).

L'implicazione, come lo stesso Gauss sottolineò, è che la sua misura della curvatura di una superficie in un punto è intrinseca, perché è interamente determinata dalle misurazioni nella superficie e non coinvolge in alcun modo una terza dimensione normale ad essa. Così le superfici non andavano più considerate come immerse nello spazio tridimensionale, ma piuttosto “non come contorni di corpi, ma come corpi di cui una dimensione è infinitamente piccola”, una specie di velo “flessibile ma inestensibile”.

Per definire la curvatura di una superficie, Gauss si avvalse della rappresentazione sferica. Egli associava a ciascun punto di una superficie S un punto di una superficie sferica di raggio unitario e centro nell’origine di un sistema di assi cartesiani ortogonali. Per ogni regione U di S, egli definiva la “curvatura integrale” come l’area della corrispondente regione f(U) sulla sfera. La misura della curvatura k della superficie in un punto P di U era allora il limite del rapporto:


Sulla figura 2, la regione f(U) sulla sfera è più grande della regione U sulla superficie, anche quando quest’ultima si restringe attorno a P. Ne deriva che il quoziente delle aree e il suo limite sono superiori a 1: la superficie è in effetti “molto curva”. Come si può constatare, più la superficie è “curva” o “appuntita” nell'intorno di P, più l’area di f(U) è maggiore in rapporto all'area U. La maggior parte delle superfici hanno una curvatura non nulla, maggiore o minore di 1. Al contrario, se la superficie S è un piano, tutti i vettori ad esso ortogonali sono paralleli tra di loro; la regione f(U) si riduce allora a un punto, quindi la sua area è nulla e il denominatore della formula è sempre nullo. Di conseguenza, la curvatura di un piano è nulla in tutti i suoi punti P.


Si davano allora tre diversi tipi di punti, a seconda che k fosse maggiore, uguale o minore di zero. La curvatura positiva era quella di un colle, quella negativa quella di una sella, quella nulla corrispondeva al piano.

Fondamentalmente, per definire la curvatura di una superficie in uno dei suoi punti, usiamo l'applicazione di Gauss che trasporta i vettori ortogonali alla superficie fino a una sfera ausiliaria di raggio uguale a 1. Così come ci vogliono solo due coordinate per localizzare qualsiasi punto sul piano euclideo, bastano due coordinate (u, v) per localizzare qualsiasi punto Q della superficie vicino a P. Tuttavia, è anche necessario avere una terza coordinata per rappresentare i vettori ortogonali sulla superficie e definire la regione f(U) che entra nella definizione geometrica della curvatura. Sembra impossibile parlare di curvatura limitata a due soli gradi di libertà interna di cui gode la superficie; la terza dimensione e l'immersione della superficie nello spazio sembrano assolutamente indispensabili; un supporto esterno sembra necessario sia per la comprensione intuitiva della curvatura sia per la sua definizione. Quindi, a prima vista, la curvatura è una nozione "estrinseca", cioè esterna alla superficie, non appartenente alla sua essenza interna e sembra dipendere fondamentalmente dalla sua forma nello spazio. Ma la grandezza di Gauss sta nell’aver saputo intuire la natura "intrinseca" nascosta in questa nozione di curvatura: infatti, grazie alla formula egregia (*), la curvatura della superficie S, i cui punti arbitrari sono identificati da due coordinate (u, v), può essere colta intrinsecamente e bidimensionalmente, senza sfera ausiliaria, senza vettori normali sulla superficie, senza terza dimensione: tale è il notevole paradosso. Ci volle tutta la perseveranza del “principe dei matematici” per compiere la scoperta della curvatura delle superfici sviluppando una formula complessa come (*), attraverso la quale il concetto di curvatura è possibile senza ricorrere a una terza dimensione spaziale.

Gauss studiò anche quando una superficie può essere mappata su un'altra in modo tale che le distanze non siano alterate: se due punti P e Q su una superficie sono distanti una distanza d, allora lo sono anche le loro immagini sull'altra superficie. Egli fu in grado di dimostrare che una condizione necessaria affinché ciò accada è che le curvature nei punti corrispondenti siano le stesse. Ad esempio, il cilindro e il piano sono localmente isometrici; sebbene curvo, il cilindro ha una curvatura zero nel senso di Gauss, proprio come il piano, ed è per questo che è possibile stampare da un tamburo rotante. Si tratta del Theorema egregium, che, detto con le parole di Gauss è:
Se si trasforma una superficie S in un'altra superficie S’ in modo che le lunghezze infinitesime di tutte le curve tracciate sulle superfici siano conservate, allora la curvatura in un punto P della prima superficie, S, è uguale a quella nel punto P’ che corrisponde ad essa sulla seconda superficie S'.
Non si capì subito che l'approccio di Gauss consentiva di definire superfici come regioni del piano con una particolare metrica, che non necessariamente devono essere ottenute dalle superfici nello spazio tridimensionale euclideo. Naturalmente, se si definisce una superficie come l'immagine di una mappa da una regione di R2 a R3, ovviamente essa è in R3. Ma se si definisce una superficie come una regione di R2 con una particolare metrica, allora non ci può essere superficie in R3 a cui corrisponde. La prima persona ad apprezzare questo fatto sembra essere stato Riemann, che, come vedremo, estese questa idea a qualsiasi numero di dimensioni.

L’opera di Gauss si conclude con un’analisi dei triangoli sulle varie superfici, in cui consegue un risultato che esporrà più tardi e che è diventato uno dei suoi teoremi più famosi:
La somma degli angoli di un triangolo formato da linee geodetiche su qualsiasi superficie, è maggiore di 180° se questa superficie è concavo-concava, e meno di 180° se questa superficie è concavo-convessa, di una quantità che ha come misura l'area del triangolo sferico corrispondente ad esso, secondo le direzioni delle normali, contando l'area totale della sfera come 720°.
La geometria iperbolica - Le prime descrizioni completamente matematiche dello spazio in termini diversi da quello di Euclide furono opera di János Bolyai in Ungheria (Appendix scientiam spatii absolute veram exhibens, 1832) e, indipendentemente, da Nicolai Ivanovich Lobacevskij in Russia (Neue Anfangsgründe der Geometrie, 1835, e Geometrische Untersuchungen, 1840).

Dal 1790 Gauss aveva lavorato sull'argomento nella stessa direzione, ma si astenne dal pubblicare i suoi risultati per paura delle reazioni (“le strida dei beoti”) e, forse, perché non si era mai accorto della portata delle sue scoperte finché non venne a conoscenza delle opere di Bolyai e Lobacevskij.

Bolyai cancellò il postulato dal sistema di Euclide; la rimanente parte è la "geometria assoluta", che può essere ulteriormente specificata aggiungendovi il postulato di Euclide o la sua negazione. Tra il 1820 e il 1823, egli preparò, ma non pubblicò immediatamente, un trattato su un sistema completo di geometria non euclidea, che chiamò "geometria immaginaria" (ora conosciuta come geometria iperbolica), la geometria degli spazi curvi su una superficie a forma di sella, dove la somma degli angoli di un triangolo è inferiore a 180° e le rette apparentemente parallele non sono in realtà parallele. Nello spazio curvo, la distanza più breve tra due punti a e b è in realtà una curva, o geodetica, e non una linea retta. Pertanto, gli angoli di un triangolo nello spazio iperbolico sommano a meno di 180° e due linee parallele nello spazio iperbolico divergono effettivamente l'una dall'altra. Sebbene sia facile visualizzare una superficie piatta e una superficie con curvatura positiva (ad esempio una sfera, come una Terra), è impossibile visualizzare una superficie iperbolica con curvatura negativa, a meno che si tratti di una piccola area localizzata. Quindi il concetto stesso di superficie iperbolica sembrava andare contro ogni senso della realtà. In una lettera a suo padre, Bolyai si mostrava meravigliato di se stesso: "Dal nulla ho creato uno strano nuovo universo". Il suo lavoro fu pubblicato solo nel 1832, solo come una breve esposizione (26 pagine) nell'appendice al libro di suo padre intitolato Tentamen, quindi viene spesso chiamato semplicemente Appendice. Leggendolo, Gauss riconobbe chiaramente il genio delle idee del giovane Bolyai, ma rifiutò di incoraggiarlo, e tentò persino di rivendicare le sue idee come proprie. Sebbene avesse un'eccellente educazione nei fatti di base della matematica, la familiarità di Jànos Bolyai con la letteratura specialistica era scarsa, e egli aveva solo una conoscenza piuttosto incompleta delle conquiste contemporanee. Anche dei risultati di Gauss gli era nota solo una piccola parte; per esempio, non aveva mai sentito parlare delle indagini di Gauss sulla teoria delle superfici contenute nelle Disquisitiones generales circa superficies curvas. Né era a conoscenza del lavoro svolto da Saccheri, Lambert, Schweikart e Taurinus. Conobbe le idee di Gauss solo dopo la pubblicazione dell'Appendice, e lesse una (singola) opera di Lobacevskij molto più tardi, nel 1848. Inoltre, scoraggiato dalla notizia che Lobacevskij aveva pubblicato qualcosa di molto simile due anni prima, Bolyai si isolò dal mondo matematico e non pubblicò più nulla. Anche se in vita pubblicò solo le 24 pagine dell'appendice, Bolyai lasciò più di 20.000 pagine di manoscritti matematici quando morì (compreso lo sviluppo di un rigoroso concetto geometrico di numeri complessi come coppie ordinate di numeri reali).

Anche Lobacevskij costruì sulla negazione del postulato di Euclide un sistema alternativo di geometria, che egli soprannominò "immaginario" e tentò vanamente di verificare su scala astronomica calcolando la somma degli angoli interni dei triangoli formati da tre corpi celesti (in particolare la Terra, il Sole e Sirio). Questo tentativo di verifica sperimentale era coerente con le sue idee: la “verità” sulla geometria poteva “essere controllata in modo simile alle atre leggi fisiche, soltanto da esperienze”. Egli sosteneva che “nella natura noi abbiamo cognizione, propriamente, soltanto del movimento, senza il quale le sensazioni sensoriali sono impossibili”, perciò i concetti geometrici non sono altro che “creazioni artificiali della nostra mente, tratte dalle proprietà del movimento; ecco perché lo spazio in sé, separatamente per noi non esiste”: da far rabbrividire Kant! Da queste premesse traeva un’idea di sorprendente modernità: “talune forze della natura seguono una geometria, altre un’altra loro particolare geometria”.

Lobacevskij sosteneva che “Le linee che escono da un punto, o intersecano una data retta nel medesimo piano, oppure non si incontrano mai con essa, per quanto vengano prolungate”. Tra queste figuravano le parallele alla retta data, che costituivano così il passaggio tra le rette secanti e quelle divergenti. Poi introduceva il concetto di angolo di parallelismo μ relativo a un segmento p di perpendicolare, definito come “l’inclinazione di una linea rispetto alla perpendicolare a un’altra, parallela alla prima”.

La costruzione presentata sopra per spiegare il quinto postulato di Euclide può anche essere usata per chiarire la sua negazione. Si disegna la retta a attraverso il punto P ad angolo retto con il segmento PQ. Se il postulato di Euclide viene negato, ci sono innumerevoli linee rette che passano per Q, complanari con a, che formano angoli acuti con PQ ma che non incontrano mai a. Consideriamo l'insieme di numeri reali che corrispondono alla grandezza di questi angoli acuti. Lasciamo che il massimo limite inferiore di questo insieme sia μ. Evidentemente, μ>;0. Ci sono esattamente due linee rette attraverso Q, complanari con a, che formano un angolo di dimensione μ con PQ. (Figura 3) Chiamiamole b1 e b2. Né b1b2 incontrano a, ma a incontra ogni retta che passa per Q che è complanare con a e forma con PQ un angolo inferiore a μ. Gauss, Lobacevskij e Bolyai, all'insaputa l'uno dell'altro, concordarono nel chiamare b1 e b2 le parallele ad a passanti per Q. μ l’angolo di parallelismo per il segmento PQ. La sua dimensione dipende dalla lunghezza di PQ e diminuisce all'aumentare di quest’ultimo.



Supponiamo che l'angolo di parallelismo per PQ sia di mezzo angolo retto. In questo caso, b1 e b2 formano un angolo retto in Q e quindi abbiamo due linee rette reciprocamente perpendicolari sullo stesso piano di a, che non incontrano a.

L’angolo di parallelismo era fondamentale: se era retto, si aveva l’ordinaria geometria; se invece era minore di un retto si aveva la geometria “immaginaria”. In questa seconda ipotesi, “possiamo rappresentarci una curva, che chiameremo oriciclo, per la quale due parallele qualsiasi a una retta data sono inclinate dello stesso angolo rispetto a una corda. In pratica, l’oriciclo può essere considerato come una curva ortogonale a un fascio di rette parallele: nella geometria ordinaria tale curva è una retta, mentre in quella “immaginaria” si può pensare come il limite di un cerchio quando il suo centro si allontana all'infinito lungo la direzione delle rette del fascio (Figura 4). Allora, per due oricicli relativi al medesimo fascio di parallele, “il rapporto di loro due archi s e s’, compresi tra due parallele, dipende dalla loro distanza, in modo che s = s’ex. Se e=1 abbiamo la geometria euclidea, dove le parallele sono equidistanti in quanto s = s’; nella geometria lobacevskiana invece vale e maggiore di 1. Con queste considerazioni, egli poteva definire in modo puramente geometrico un’unità di misura assoluta dei segmenti, che corrisponde alla distanza x tra due oricicli relativi allo stesso fascio di parallele, con il rapporto tra s e s’ uguale alla base e dei logaritmi naturali.


In modo analogo, Lobacevskij introduceva la nozione di orisfera come "il limite al quale tende la sfera all’aumentare del suo raggio”. Se gli angoli di parallelismo sono retti (come nel caso euclideo), l’orisfera è un piano, altrimenti essa è una superficie curva, sui cui la geometria è tuttavia una geometria sferica standard. Basandosi su questo, Lobacevskij sosteneva che ogni contraddizione che fosse sorta nella sua geometria sarebbe inevitabilmente stata accompagnata da una contraddizione nella geometria euclidea.

La geometria di Lobacevskij abbonda di teoremi sorprendenti (molti dei quali erano già stati trovati da Saccheri). Eccone alcuni: i tre angoli interni di un triangolo si sommano a meno di due angoli retti. La differenza o "difetto" è proporzionale all'area del triangolo. Quindi, nella geometria lobacevskiana, triangoli simili sono congruenti (Figura 5). Inoltre, se un triangolo è diviso in triangoli più piccoli, il difetto dell'insieme equivale alla somma dei difetti delle parti. Poiché il difetto non può essere maggiore di due angoli retti, l'area dei triangoli ha un limite finito. Se un quadrilatero, per costruzione, ha tre angoli retti, il quarto angolo è necessariamente acuto. Quindi, nella geometria lobacevskiana, non ci sono rettangoli. Tutta la teoria euclidea della similitudine decadeva.

Naturalmente è vero che nessun insieme di deduzioni consistenti nella nuova geometria escludeva la possibilità che esistesse una contraddizione, ma l’affascinante relazione della nuova geometria con quella euclidea sferica, e l’esistenza di formule trigonometriche per i triangoli, suggeriva con forza che la nuova geometria fosse come minimo consistente.

Non c’era solo il fatto che esistevano le formule della geometria sferica, ma esse implicavano una formulazione alternativa della geometria, della quale quella descritta da Euclide negli Elementi avrebbe potuto essere un caso particolare. Se ci potesse essere stato un altro modo di definire la geometria, che portava a queste formule in diversi casi, si sarebbe aperta la via a ripensare tutte le domande sulla geometria sollevate dall'esame critico. La persona più adatta per far ciò negli anni ‘30 e ‘40 era Gauss. Egli conosceva benissimo l’opera di Bolyai e Lobacevskij, e la sua geometria differenziale gli forniva i mezzi per procedere, ma, curiosamente, egli non lo fece. Nei primi anni ‘40 scrisse alcune note che mostrano che poteva mettere in relazione la nuova geometria bidimensionale con la geometria di una superficie a curvatura negativa costante, ma egli non trasse nulla di questa osservazione, o almeno non la pubblicò.

La nuova geometria poneva una sfida radicale a quella euclidea, perché negava ad essa la sua miglior pretesa di certezza, cioè che era l'unico sistema logico per discutere della geometria in generale. Essa sfruttò anche la tensione nota agli esperti tra i concetti di più diretto e di più breve. Ma per altri versi era convenzionale. Non offriva nuove definizioni di concetti familiari come rettilinearità o distanza, concordava con la geometria euclidea sugli angoli, offriva semplicemente un'intuizione diversa sulle linee parallele basata su un’idea differente del comportamento su lunghe distanze delle linee rette. I suoi sostenitori non offrirono una conclusione scettica. Bolyai e Lobacevskij non dissero: "Esistono due geometrie logiche ma incompatibili, quindi non potremo mai sapere cosa è vero". Mantennero invece la speranza che gli esperimenti e le osservazioni avrebbero dato una risposta. Il prezzo epistemologico che si sarebbe dovuto pagare se le osservazioni astronomiche fossero state a favore della nuova geometria sarebbe stato, in un certo senso, lieve: sarebbe stato necessario dire che le rette hanno una proprietà dopo tutto inaspettata, ma rilevabile solo su lunghe distanze o con potenti strumenti, non disponibili allora, per ridurre gli errori di misurazione. Sicuramente molti dei teoremi della geometria bidimensionale avrebbero dovuto essere rielaborati, e le loro familiari controparti euclidee sarebbero apparse solo come ottime approssimazioni. Ma ciò è ampiamente paragonabile alla situazione in cui la meccanica newtoniana si trovò dopo l'avvento della relatività speciale.

La geometria descritta da Gauss, Lobacevskij e Bolyai ricevette poca attenzione prima della fine degli anni '60 del XIX secolo. Quando i filosofi se ne accorsero, le loro opinioni furono divise. Alcuni la consideravano un esercizio formale di deduzione logica, senza alcun significato fisico o filosofico, che impiegava parole ordinarie (come "retta" o "piano") con un significato nascosto. Altri la accolsero come una prova sufficiente che, contrariamente alla tesi allora dominante di Kant, la geometria euclidea non fornisce alcun pre-requisito dell'esperienza umana e che la struttura geometrica dello spazio fisico è aperta alla ricerca sperimentale. Altri ancora concordavano sul fatto che le geometrie non euclidee fossero alternative legittime, ma sottolinearono che la progettazione e l'interpretazione degli esperimenti fisici presuppongono generalmente una geometria definita e che questo ruolo era stato anticipato dal sistema di Euclide. Per i matematici la nuova geometria sarebbe probabilmente stata solo una strana curiosità, se non si fosse trovata una nicchia all'interno delle geometrie proiettiva e differenziale, le due correnti principali della ricerca geometrica del diciannovesimo secolo.

mercoledì 11 aprile 2018

Poesie d’amore per matematici

Matchmaking as a Combinatorial Exercise

I’ve browsed the combinations:
seven billion choose two.
That’s 24 quintillion –
It took some time to do.

The brute-force search was worth it, though,
to prove my theorem true:
“No couple in the space compares
to pairing me with you”.

Favorire incontri come esercizio combinatorio

Ho dato un’occhiata alle combinazioni:
sette miliardi sopra 2 (il binomiale).
Fa 24 milioni di milioni di milioni:
ci è voluto del tempo mica male.

La dura ricerca è convenuta, tuttavia,
per provare che il teorema si regge da sé:
“Nello spazio non c’è coppia, cara mia,
che uguaglia la combinazione tra me e te”

+++

The Limitations of Proof

I cannot prove I love you.
I don’t meant to be rude.
But I cannot prove I love you --
Not with any certitude.

There’s no good proof I love you,
and I know that sounds phlegmatic.
It’s not that I don’t love you –
Just, the love is axiomatic.

Limiti della dimostrazione

Non posso dimostrare che ti amo,
non voglio sembrare privo di dolcezza
Ma non posso provare che ti amo
senza un margine di incertezza.

Non c’è una buona prova che ti amo,
e capisco di sembrar flemmatico.
No, non è che non ti amo,
solo che l’amore è assiomatico.

+++

Roses Are Roses

Roses Are Roses:
logic is logical;
I love you so plainly
It’s just tautological.

Le rose sono rose

Le rose sono rose;
la logica è logica;
ti amo così semplicemente
che è cosa tautologica.


(da Math with Bad Drawings)

martedì 10 aprile 2018

La dimostrazione matematica come dramma


Dennis Guedj ha usato la bella metafora del "dramma dell'assiomatica" per descrivere il fatto che, in una teoria matematica assiomatizzata, i contenuti di un teorema sono impliciti negli assiomi e che, nella derivazione di un teorema dagli assiomi, c'è un'inesorabilità del tipo che caratterizza un dramma. Forse possiamo chiederci quali siano i dettagli del percorso dagli assiomi al teorema (cioè i dettagli della trama), ma non vi è alcuna via di fuga da un possibile epilogo della storia.

In realtà, Guedj sembra riferirsi a ciò che viene definito “dramma chiuso”, tipico della tradizione greca antica, in cui l'azione, condotta in modo disciplinato, segue uno sviluppo continuo e le singole scene sono legate da rapporti di causalità: la scena C deve seguire per forza la scena B e deve precedere la scena D. Nel dramma greco (e in quelli successivi che ne hanno adottato lo schema fondamentale) vigono i vincoli di azione, tempo, luogo, personaggi e linguaggio.

Per fortuna esiste anche un “dramma aperto”, moderno, da Shakespeare in poi, dove il filo conduttore dell'azione non è riconoscibile in modo univoco. La successione delle azioni si può ricostruire solo mediante la coesione delle scene complementari. Gli episodi si susseguono in modo abbastanza autonomo e si collegano tra loro più per affinità di contesto che per consequenzialità temporale o di azione. Ogni scena si rifà all'intera problematica del dramma (quasi una “ricapitolazione”), in modo da sembrare autonoma e permutabile. Nel dramma aperto anche i livelli stilistici e i registri espressivi vengono mescolati.

Nella matematica moderna, e penso a una dimostrazione come quella di Andrew Wiles della congettura di Fermat, nella dimostrazione si cerca la perfetta complementarità delle tecniche usate (analitiche e geometriche), anche se a prima vista lontane: un risultato di per sé di enorme valore, che costituisce una parte innovativa della dimostrazione del teorema stesso. L'enorme lavoro interessa in maniera approfondita diverse branche della matematica, con un utilizzo e un perfezionamento originali di strumenti potenti ed inediti, e con l’uso di una commistione di vari linguaggi specialistici.

Il “dramma” della dimostrazione moderna, che contempla anche strumenti un tempo impensabili come l’enorme capacità di calcolo del computer, consiste tuttora della necessità del rispetto degli assiomi di partenza, ma lo sviluppo dell’azione può fare a meno, superandoli e integrandoli, dei vincoli “aristotelici” dati dall'ambito e dal linguaggio settoriale, o da un’impostazione schematicamente rigorosa, direi bourbakista. È questo che rende la matematica moderna difficile, appassionante e sempre più articolata grazie alle continue estensioni e generalizzazioni. Come ha scritto il matematico brasiliano-canadese Paulo Ribenboim:
“Non c’`e alcun epilogo. La ricerca continua. Nuovi metodi verranno inventati per risolvere nuovi problemi. O, al contrario, nuovi problemi motiveranno la ricerca di nuovi metodi. Ciò è quanto di meglio possa accadere, poiché è proprio il provare e riprovare, alla ricerca delle risposte alle sue questioni più profonde, che nutre la matematica.”

giovedì 5 aprile 2018

I tristi matematici di Enzensberger

I matematici

Radici radicate in nessun luogo,
illustrazioni per gli occhi chiusi,
sezioni, fasci, pieghe, fibre:
questo mondo di tutti il più bianco
con i suoi fasci, tagli e coperture
è la tua terra promessa.

Altezzoso ti perdi
nel soprannumerario, in quantità
di vuoti, magri, estranei
in sé densi e oltre le moltitudini.

Conversazioni spettrali
tra scapoli:
la congettura di Fermat,
l'obiezione di Zermelo,
il Lemma di Zorn.

Da illuminazioni fredde
già abbagliato da bambino,
ti sei allontanato
scrollando le spalle,
dai nostri sanguigni piaceri.

Incappato senza parole,
inconsapevolmente,
guidato dall'angelo dell'astrazione,
sui campi di Galois e le aree di Riemann,
in ginocchio nella polvere di Cantor,
attraverso le stanze di Hausdorff.

Poi, a quarant'anni, ti siedi
o teologo senza Geova,
calvo e con il mal di montagna
in abiti stagionati
di fronte alla scrivania vuota,
bruciato, o Fibonacci,
o Kummer, o Godel, o Mandelbrot,
nel purgatorio della ricorsione.

In: Hans Magnus Enzensberger: Zukunftsmusik. Suhrkamp Verlag, Frankfurt / M. 1993

Che cosa ha Enzensberger contro i matematici? Persi in astrazioni definite spettrali, altezzosi, sradicati fin da bambini, sciatti, vecchi prima del tempo, raggrinziti dal sole della loro passione, privi di moglie, di parola e di Dio? Che cos’è questa litania ripetuta di nomi di matematici antichi e moderni, creatori di paesaggi che sembrano gironi di un Purgatorio (della ricorsione)? Eppure Enzensberger, instancabile costruttore di ponti tra le due culture, proprio a Gödel aveva dedicato un omaggio, e sulla matematica aveva scritto un pregevole e fortunato libro, Il Mago dei Numeri. Viene il dubbio che lo scrittore tedesco stia parlando anche di altri, consanguinei nello spirito, vicini nell'immaginazione: i poeti come lui stesso. Nel Purgatorio che li ha chiamati, e che si sono scelti, il fuoco brucia con fiamma che non consuma.



Die Mathematiker

Wurzeln, die nirgends wurzeln,
Abbildungen für geschlossene Augen,
Keime, Büschel, Faltungen, Fasern:
diese weißeste aller Welten
mit ihren Garben, Schnitten und Hüllen
ist euer gelobtes Land.

Hochmütig verliert ihr euch
Im Überabzählbaren, in Mengen
Von leeren, mageren, fremden
In sich dichten und Jenseits-Mengen.

Geisterhafte Gespräche
Unter Junggesellen:
Die Fermatsche Vermutung,
der Zermelosche Einwand,
das Zornsche Lemma.

Von kalten Erleuchtungen
schon als Kinder geblendet,
habt ihr euch abgewandt,
achselzuckend,
von unseren blutigen Freuden.

Wortarm stolpert ihr,
selbstvergessen,
getrieben vom Engel der Abstraktion,
über Galois-Felder und Riemann-Flächen,
knietief im Cantor-Staub,
durch Hausdorffsche Räume.

Dann, mit vierzig, sitzt ihr,
o Theologen ohne Jehova,
haarlos und höhenkrank
in verwitterten Anzügen
vor dem leeren Schreibtisch,
ausgebrannt, o Fibonacci,
o Kummer, o Gödel, o Mandelbrot,
im Fegefeuer der Rekursion.

domenica 1 aprile 2018

Il sonetto illustrato di Giovanni Battista Palatino, alle origini del rebus

Il rossanese Giovanni Battista Palatino (ca. 1510 – ca. 1575), insigne calligrafo, antiquario e letterato, pubblicò tra il 1540 e il 1545 un celebre testo sui tipi di modelli calligrafici (oggi li chiameremmo font) più usati nella sua epoca. Il libro è considerato uno dei più belli e completi del suo genere. In suo onore, alla fine degli anni ’40 del secolo scorso, si inventò il font Palatino Linotype, considerato da molti uno dei più leggibili ed eleganti. 

Diventato cittadino romano attorno al 1538, Palatino, pubblicò nel 1540 il “Libro nuovo d'imparare a scrivere tutte sorte lettere antiche et moderne di tutte nationi, con nuove regole misure et essempi, con un breve et utile trattato de le cifre”, che apparve a Roma, editore Benedetto Giunti, tipografo Francesco Cartolari, che ebbe presto altre edizioni rivedute e ampliate. Oltre a una bella rassegna dei caratteri alfabetici e numerici, il volume conteneva anche un curioso sonetto illustrato, uno dei primi, ingenui e tuttavia sagaci, esempi di rebus in lingua italiana. Il sonetto tratta del rimpianto per una bella e intelligente donna morta precocemente. La metrica pare zoppicare e lo stile non è dei migliori, ma l’idea è senza dubbio geniale.


Dove son gli occhi, et la serena forma,
del santo alegro, et amoroso aspetto?
Dov’è la man eburna, ov’è ‘l bel petto
Ch’appensarvi hor in fonte mi trasforma?

Dov’è del fermo pié, quella sant’orma
col ballar pellegrin pien di diletto?
Dov’è ‘l soave canto, et l’intelletto,
che fu d’ogni valor prestante norma?


Dov’è la bocca e l’aure viole,
l’abito vago, et l’alme treccie bionde,
che facean nel fronte un nuovo sole?

Lasso che poca terra hoggi l’asconde
non la retruova il mondo, amor si duole
ch’ardendo io chiami ogn’hor chi non risponde.