La realtà come processo
Forse l'esposizione più influente della modernità scientifica è stata Science
and the Modern World (1925) del filosofo, logico e matematico Alfred North
Whitehead (1861-1947), che concepiva la realtà come un processo nel quale non è
possibile operare una distinzione tra soggetto e oggetto; e ciò in rapporto
all'insieme di collegamenti dati dagli oggetti esterni che costituiscono il
campo del possibile e dell'esistente.
“Il progresso della scienza ha ora raggiunto un punto di svolta. Le fondamenta stabili della fisica sono andate in pezzi: così per la prima volta la fisiologia si sta affermando come un effettivo corpo di conoscenza, distinto da un cumulo di rottami. I vecchi fondamenti del pensiero scientifico stanno diventando incomprensibili. Tempo, spazio, materia, materiale, etere, elettricità, meccanismo, organismo, configurazione, struttura, schema, funzione, tutti richiedono una reinterpretazione. Che senso ha parlare di una spiegazione meccanica quando non si sa che cosa voglia dire meccanica?
Nella stessa opera, Whitehead parlava della necessità di “ampliare lo schema scientifico in un modo che sia utile alla scienza stessa”:
“Il punto di fronte al quale ci troviamo è che il campo del pensiero scientifico è ora, nel ventesimo secolo, troppo ristretto per analizzare i fatti concreti che gli stanno davanti. Questo è vero anche in fisica, ed è particolarmente urgente nelle scienze biologiche. Quindi, per comprendere le difficoltà del pensiero scientifico moderno e anche i suoi riflessi sul mondo moderno, dovremmo avere in mente un’idea di campo di astrazione più ampio, un'analisi più concreta, che si avvicini di più alla completa concretezza della nostra esperienza intuitiva”.
Whitehead sosteneva che la realtà consiste di processi piuttosto che di oggetti materiali, e che i processi sono meglio definiti dalle loro relazioni con altri processi, rifiutando così la teoria secondo cui la realtà è fondamentalmente costituita da pezzi di materia che esistono indipendentemente l'uno dall'altro.
Per la filosofia del processo di Whitehead, sviluppata in Process and reality (1929) "è urgente vedere il mondo come una rete di processi interconnessi di cui siamo parti integranti, in modo che tutte le nostre scelte e azioni abbiano conseguenze per il mondo che ci circonda".
Il suo pensiero (per molti aspetti influenzato dal suo amore per i Romantici, in particolare per The Prelude di Wordsworth) fu da molti poeti interpretato come legittimazione di una poesia di processo, che riflette un nuovo mondo quasi caotico, di difficile interpretazione.
Anche il matematico, filosofo, semiologo, logico e scienziato statunitense Charles Sanders Peirce (1839-1914), uno dei padri del pragmatismo, fu un punto di riferimento. Secondo Peirce, nel mondo non esiste alcuna necessità, e anzi esso è immerso nel dominio del caso (del clinamen epicureo e lucreziano). Solamente il metodo scientifico può accogliere la correzione e perciò accetta la sua fallibilità. Il fallibilismo fu un elemento prioritario del pensiero di Peirce, anticipando quello di Karl Popper, allo stesso modo del concetto dell'evoluzione, tipico della sua epoca. Non solo argomentò contro il determinismo in The Doctrine of Necessity Examined (1892), ma per scrittori successivi, come la poetessa, attivista, femminista americana Muriel Rukeyser (1913-1980), funse da pensatore fondamentale in relazione alla nozione di un campo interpretativo in cui il poeta, la poesia e il lettore interagiscono tutti insieme. Nel saggio The Life of Poetry (1949), vero e proprio inno d’amore per la poesia, Rukeyser illustrò questa poetica della connessione, affermando che il poeta, lo scienziato e il matematico cercano "un sistema di relazioni" e che lo scambio di energie è centrale sia per la poesia che per la scienza (Secondo Henri Poincaré, i matematici non studiano oggetti, ma relazioni fra oggetti; per loro, dunque, è indifferente sostituire alcuni oggetti con altri, a condizione che le relazioni non cambino. A loro non importa la materia, importa solo la forma).
Poesia come campo d’azione
Nell'opera di altri poeti questa idea diventa una teoria della poesia completamente elaborata. William Carlos William (1883-1963) riteneva che la fisica einsteiniana avesse aperto la strada a una nuova concezione della forma poetica, oltre che dello spazio-tempo. Nella conferenza The Poem as a Field of Action tenuta all’Università di Washington nel 1948, ne formalizzò il fondamento teorico: anche se i poeti hanno aperto l'immaginario del loro lavoro per includere i paesaggi industriali e altri nuovi soggetti, sostiene Williams, è lo stesso modo di far poesia che deve essere rivoluzionato.
“Come possiamo accettare la teoria della relatività di Einstein, che influenza la nostra stessa concezione dei cieli intorno a noi di cui i poeti scrivono così tanto, senza incorporare il suo fatto essenziale – la relatività delle misurazioni – nella nostra categoria di attività: il poema. Pensiamo di stare al di fuori dell'universo? O che fa la Chiesa d'Inghilterra? La relatività vale per tutto, come l'amore, se vale per qualunque cosa al mondo”. (...)
Applicando la teoria della relatività di Einstein alla "relatività delle misurazioni", Williams sostiene che "le nostre poesie non sono realizzate in modo abbastanza sottile, la struttura, il modo posato della poesia non è in grado di far passare i nostri sentimenti".
Spring and All, "La primavera e tutto il resto" (1923) composta più di vent'anni prima di questa conferenza, è stata vista dalla critica come la prima raccolta di Williams a illustrare la sua idea del poema come campo d'azione. La raccolta è la precoce testimonianza di una fra le più inesauste e febbrili esperienze di poesia del Novecento, e mostra quanto l'esperienza di destrutturazione dell'arte cubista e la violenza inaudita della grande guerra appena conclusa avessero destrutturato la parola poetica, rendendo necessaria l'apertura di un inedito, incognito approccio. Cosi in By the road to the contagious hospital (Sulla strada per l’ospedale infettivologico):
Lifeless in appearance, sluggishdazed spring approaches—
In apparenza senza vita, pigra
la primavera stordita si avvicina—
Come Williams, Olson vide lo spazio non euclideo della scienza moderna come
una giustificazione delle sue procedure, suggerendo che il reale può in effetti
essere una questione di forma: una disposizione dinamica di forze o percorsi.
Il suo saggio del 1957, Equal, That Is, to
the Real Itself, spiega l'implicazione di questa visione della poesia in termini di un
campo metrico "riemanniano" in cui lo spazio testuale si piega
intorno alla realtà.
Grovigli infiniti
In Italia queste idee sono giunte con considerevole ritardo, con una sola eccezione, rappresentata non da un poeta (casomai occasionale e non proprio modernista), ma da un saggista, prosatore e filosofo laureato in ingegneria. Pur essendosi nutrito di una solida cultura positivistica, Carlo Emilio Gadda (1893-1973) non accettava la purezza denotativa della lingua, inadeguata a rappresentare i sistemi complessi e il pluralismo delle concause destinate a tessere continue trame relazionali. All’immagine deterministica della «catena crudamente obbiettivante» egli contrappone «quella di una maglia o rete: ma non di una maglia a due dimensioni […] o a tre dimensioni […], sì di una maglia o rete a dimensioni infinite. Ogni anello o grumo o groviglio di relazioni è legato da infiniti filamenti a grumi o grovigli infiniti» (in Meditazione milanese, scritta alla fine degli ‘20 ma pubblicata solo nel 1974). Secondo Gadda, nessun oggetto esiste isolatamente, ma solo come punto nodale ove confluisce il complesso infinito delle relazioni di detto oggetto con innumerevoli altri:
Non è possibile pensare un grumo di relazioni come finito, come un gnocco distaccato da altri nella pentola. I filamenti di questo grumo ci portano ad altro, ad altro, infinitamente ad altro.
L’oggetto non è un'isola inaccessibile in una realtà composta di tanti elementi contigui, bensì «un nucleo o groviglio di relazioni attuali». Non può essere pensato indipendentemente dalle relazioni in cui è coinvolto, poiché non si può sceverare il nocciolo duro del suo essere, la parte immutabile che potesse entrare o meno in relazione con il mondo, e ne restasse comunque incolume. Non ci sono gli oggetti da un lato, le relazioni fra gli oggetti dall’altro. Le apparenze ottiche e la pigrizia mentale – «i grossi e bovini occhî imbambolati dalla luce del giorno e dalla sua falsa dialettica», – ci fanno vedere l’oggetto come se fosse definito nel recinto dei propri contorni, mentre esso è raggiunto ininterrottamente da altri oggetti, anzi da tutti gli altri oggetti, così come viceversa esso raggiunge loro: sicché l’essere reale dell’oggetto sta nella totalità di tutte le sue implicazioni. Discendono da queste premesse i principi più saldi della poetica gaddiana: la tensione enciclopedica del «pasticcio», espressione di una realtà caotica, ovvero della «baroccaggine» del mondo, e l’ostinata avversione alla tesi dell’unicità dell’io, «il più lurido dei pronomi», ancora in vita nonostante che la scienza abbia chiarito che «il cosiddetto ‘uomo normale’ è un groppo, o gomitolo o groviglio o garbuglio, di indecifrate (da lui medesimo) nevrosi» (I viaggi la morte, 1958).
La continuità, o addirittura l’equivalenza fra dentro e fuori è un pilastro centrale della poetica di molti artisti del Novecento. Si pensi all’errabondo e schizofrenico Dino Campana (1885-1932) di Pampa, per il quale la confusione fra oggettivo e soggettivo, la nevrosi, non fu una mera formula stilistica, bensì una intuizione vissuta sulla propria pelle.
Relazioni intertestuali
Un risultato della teoria dei campi applicata alla poesia è un senso accresciuto delle relazioni intertestuali. Da Pound in poi, i poeti hanno prodotto testi in cui sono disseminate le parole di altri, lasciando al lettore una relazione dinamica tra i frammenti così dispersi, come nelle molteplici fonti di Pound nei Cantos, legate insieme nel vortice della storia o nei testi sparsi di Melville in Melville's Marginalia della poetessa visuale e pittrice americana Susan Howe (n, 1937). In Italia, la stessa tecnica sarà adottata da Balestrini, Sanguineti e Pagliarani. Una pratica così diffusa solleva domande fondamentali sui limiti dell'originalità nell'arte (e come non ricordare le considerazioni di Walter Benjamin sulla sua riproducibilità tecnica?).
Il californiano Robert Edward Duncan (1919-1988) fu, per educazione familiare, un esponente della tradizione esoterica occidentale. Sebbene associato a diverse scuole letterarie, Duncan fu influenzato soprattutto dalla tradizione modernista di Pound, Williams e Lawrence. Omosessuale dichiarato e precursore della cultura hippy, fu una figura chiave nel cosiddetto Rinascimento di San Francisco dei primi anni ‘50 che anticipò la Beat Generation e la controcultura del decennio successivo.
Duncan ottenne un notevole successo artistico e critico soprattutto con la raccolta The Opening of the Field (L'apertura del campo, 1960). La sua poesia è modernista nella sua preferenza per l'impersonale, mitico e ieratico, ma romantica nel privilegiare l'organico, l'irrazionale e il primordiale, il non ancora articolato che si fa strada nel linguaggio come un salmone che risale la corrente:
Altrove Fisher impiega anche la teoria delle catastrofi e il
"cambiamento di fase". Il risultato è un'estetica della
frammentazione e del disordine che non cerca né un ordine superiore implicito
che potrebbe organizzare il testo, né semplicemente rimane disperso. In Winging Step, il “Passo alato”, scrive con competenza
di capillarità e della parte dell’ippocampo cerebrale connessa con la memoria
del sé.
Opera aperta
Ma in questa epoca di indeterminatezza, che senso ha l’opera di un autore, se è possibile darle mille interpretazioni diverse? Forse la domanda non è posta correttamente, come scrisse Umberto Eco in Opera Aperta (1962):
“Si potrebbe benissimo pensare che questa fuga dalla necessità sicura e solida e questa tendenza all'ambiguo e all'indeterminato, riflettano una condizione di crisi del nostro tempo; oppure, all'opposto, che queste poetiche, in armonia con la scienza di oggi, esprimano le possibilità̀ positive di un uomo aperto ad un rinnovamento continuo dei propri schemi di vita e conoscenza, produttivamente impegnato in un progresso delle proprie facoltà̀ e dei propri orizzonti. Ci sia permesso di sottrarci a questa contrapposizione così facile e manichea (...)
Avviene ad esempio che mentre apertura e dinamicità di un'opera richiamano le nozioni di indeterminazione e discontinuità, proprie della fisica quantistica, al tempo stesso i medesimi fenomeni appaiono come immagini suggestive di alcune situazioni della fisica einsteiniana. Il mondo multipolare di una composizione (...) in cui non esistano punti privilegiati ma tutte le prospettive sono egualmente valide e ricche di possibilità̀ appare molto vicino all'universo spazio-temporale immaginato da Einstein, in cui " tutto ciò̀ che per ciascuno di noi costituisce il passato, il presente, il futuro, è dato in blocco, e tutto l'insieme degli eventi successivi (dal nostro punto di vista) che costituisce l'esistenza di una particella materiale è rappresentato da una linea, la linea d'universo della particella (...) Ciascun osservatore col passare del suo tempo scopre, per così dire, nuove porzioni dello spazio-tempo, che gli appaiono come aspetti successivi del mondo materiale, sebbene in realtà̀ l'insieme degli eventi che costituiscono lo spaziotempo esistesse già̀ prima di essere conosciuto” [De Broglie].
Quello che differenzia la visione einsteiniana dalla epistemologia quantistica è in fondo proprio questa fiducia nella totalità̀ dell'universo, un universo in cui discontinuità̀ ed indeterminatezza possono in fondo sconcertarci con la loro improvvisa apparizione, ma che in realtà, per usare le parole di Einstein, non presuppongono un Dio che gioca a dadi, ma il Dio di Spinoza, che regge il mondo con leggi perfette. In questo universo la relatività è costituita dalla infinita variabilità̀ dell'esperienza, dalla infinità̀ delle misurazioni e. delle prospettive possibili, ma l’oggettività̀ del tutto risiede nell’invarianza delle descrizioni semplici formali (delle equazioni differenziali) che stabiliscono appunto la relatività̀ delle misurazioni empiriche. (...) Il Dio di Spinoza che nella metafisica einsteiniana è soltanto un dato di fiducia extra sperimentale, per l'opera d'arte diviene una realtà di fatto e coincide con l'opera. ordinatrice dell'autore. Questi, in una poetica dell'opera in movimento, può̀ benissimo produrre in vista di un invito alla libertà interpretativa, alla felice indeterminazione degli esiti (...), ma questa possibilità̀ cui l'opera si apre è tale nell'ambito di un campo di relazioni. Come nell'universo einsteiniano, nell'opera in movimento il negare che vi sia una sola esperienza privilegiata non implica il caos delle relazioni, ma la regola che permette l'organizzarsi delle relazioni. L'opera in movimento, insomma, è possibilità̀ di una molteplicità̀ di interventi personali ma non è invito amorfo all'intervento indiscriminato: è l'invito (...) ad inserirci liberamente in un mondo che tuttavia è sempre quello voluto dall'autore. L'autore offre insomma al fruitore un'opera da finire, non sa esattamente in qual modo l'opera potrà̀ essere portata a termine, ma sa che l'opera portata a termine sarà̀ pur sempre la sua opera, non un'altra, e che alla fine del dialogo interpretativo si sarà̀ concretata una forma che è la sua forma, anche se organizzata da un altro in un modo che egli non poteva completamente prevedere: poiché egli in sostanza aveva proposto delle possibilità̀ già̀ razionalmente organizzate, orientate e dotate di esigenze organiche di sviluppo”.
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