Mi chiamo Don Pedro Velasquez. Discendo dall'illustre casata dei marchesi di Velasquez, che, dall'invenzione della polvere da sparo in poi, hanno tutti servito nell'artiglieria, e hanno dato alla Spagna i migliori ufficiali che ha avuto in quest'arma. (...)
Quando il debole individuo che sono vide la luce del giorno, mio padre [Enrique] mi prese tra le sue braccia e, alzando gli occhi al cielo, disse questa preghiera: “O potenza incommensurabile che ha l'immensità per suo esponente! Ultimo termine di tutte le progressioni divergenti, oh! mio Dio, ecco un altro essere senziente che hai lanciato nello spazio. Se deve essere miserabile come lo è suo padre, possa la tua bontà segnarlo con il segno della sottrazione”. Dopo questa preghiera mio padre mi strinse al cuore e disse: “No, povero figlio mio, non sarai infelice come me. Giuro sul santo nome degli dèi che non ti insegnerò mai la matematica, ma conoscerai la Sarabanda, il balletto di Luigi XIV e tutte le futilità che verranno a mia conoscenza”. Poi mio padre mi bagnò con le sue lacrime e mi restituì alla levatrice. Ma vi prego di prestare attenzione alla stranezza del mio destino. Mio padre giurò che mai mi avrebbe insegnato la matematica e di darmi una conoscenza approfondita della Sarabanda. Beh, è il contrario che succede, perché mi capita di avere una grande conoscenza delle scienze esatte, e non ho mai potuto imparare non dico la Sarabanda, che non è più di moda, ma nessun altro ballo. In verità, vedendo danzare le contredanses inglesi, ne trovai due le cui figure potevano essere rappresentate da formule, ma non riuscivo a ballarle io stesso. (...)
Trascorsero quindici anni, senza che nulla turbasse l'uniformità della nostra vita, che tuttavia era molto varia per mio padre e per me, per le nuove conoscenze di cui ci arricchivamo ogni giorno. Mio padre aveva persino abbandonato con me la sua vecchia riserva. In effetti, non mi aveva insegnato la matematica. Al contrario, aveva fatto tutto il possibile per assicurarsi che conoscessi solo la Sarabanda. Perciò non aveva nulla da rimproverarsi e si arrese senza rimorsi a chiacchierare con me su tutto ciò che aveva a che fare con le scienze esatte. Conversazioni di tal sorta avevano sempre l'effetto di ravvivare il mio zelo e di raddoppiare la mia applicazione.
Nulla sarebbe mancato alla mia felicità, se avessi avuto ancora mia madre, L'anno scorso una violenta malattia l'ha sottratta alla nostra tenerezza. Mio padre prese poi in casa una sorella della sua defunta moglie, di nome Donna Antonia de Poneras, di vent'anni e rimasta vedova sei mesi fa.
Questa giovane e graziosa zia s’impossessò quindi dell'appartamento di mia madre, e della gestione della nostra casa, che svolgeva discretamente bene. Soprattutto, aveva molte attenzioni per me. Veniva nella mia stanza venti volte al giorno, mi chiedeva se volevo cioccolato, limonata o simili.
Queste visite spesso mi erano molto sgradevoli, perché interrompevano i miei calcoli. Quando per caso Donna Antonia non veniva, prendeva il posto la sua cameriera. Era una ragazza della stessa età della sua padrona e dello stesso umore. Il suo nome era Marica. Tuttavia, non sono sempre stato il loro piccione. Avevo preso l'abitudine di sostituire i miei valori non appena una delle due donne entrava nella mia stanza, e riprendevo i miei calcoli non appena se n’era andata.
Un giorno, mentre stavo cercando un logaritmo, Antonia entrò nella mia stanza e si sedette su una poltrona accanto al mio tavolo. Poi si lamentò del caldo. Si tolse il fazzoletto che aveva sui seni, lo ripiegò e lo mise sullo schienale della poltrona. A giudicare da tutti questi accorgimenti, sarebbe stata una lunga seduta. Interruppi il mio calcolo, chiusi le tavole, e cominciai a fare delle riflessioni sulla natura dei logaritmi e sull'estrema fatica che la preparazione delle tavole doveva essere costata al famoso Don Nepero. Allora Antonia, che voleva solo darmi fastidio, si mise dietro la mia sedia, mi mise le mani sugli occhi e mi disse: “Allora calcola, signor geometra."
Questa affermazione di mia zia sembrava contenere una vera sfida. Avendo recentemente fatto un ottimo uso delle tavole, molti logaritmi mi erano rimasti impressi. Li conosco, come si suol dire, a memoria. Improvvisamente mi venne in mente di scomporre il numero di cui stavo cercando il logaritmo in tre fattori [loga(xy) = loga(x) + loga(y)]. Ne trovai tre i cui logaritmi mi erano noti. Li sommai nella mia testa, poi liberandomi improvvisamente dalle mani di Antonia, annotai tutto il mio logaritmo senza perdere una cifra decimale. Antonia ci rimase male. Uscì dalla stanza dicendomi in modo piuttosto scortese: “Stupido d’un geometra”. Forse voleva rimproverarmi che il mio metodo non si può applicare ai numeri primi che non hanno divisori se non l'unità. In questo aveva ragione, ma ciò che avevo fatto mostrava comunque una grande abitudine al calcolo e non era certo il momento di dire che ero uno sciocco. Subito dopo venne la solita Marica, che voleva pizzicarmi e solleticarmi, ma aveva nel cuore l'intenzione della sua padrona, e l'ho mandata via un po' rudemente.
Una sera stavo lavorando dopo cena e avevo calcolato un’equazione differenziale molto delicata. Vidi entrare mia zia Antonia in camicia da notte. Mi disse: “Mio caro nipote, non posso dormire finché vedo la luce nella tua stanza e poiché la tua geometria è una cosa così bella, voglio che tu me la insegni. "
Non avendo di meglio da fare, acconsentii alla richiesta di mia zia. Presi la mia lavagna e gli mostrai le prime due proposizioni di Euclide. Stavo per passare alla terza quando mia zia, strappandomi la lavagnetta, mi disse: “Nipote mio sempliciotto. La geometria non ti ha insegnato come si fanno i bambini?"
Le osservazioni di mia zia all'inizio mi sembravano assurde, ma pensandoci pensavo di aver capito che forse mi chiedeva un'espressione generale che rispondesse a tutti i modi di riproduzione impiegati dalla natura, dal cedro al lichene, e dalla balena agli animali microscopici. Ricordavo nello stesso tempo le riflessioni che avevo fatto sul più o meno, cioè sul numero delle idee di ogni animale, di cui avevo trovato la causa prima risalendo alla generazione, alla gestazione, all'educazione. Finalmente mi era venuta l'idea di una notazione particolare, che avrebbe designato per tutto il regno animale, le azioni della stessa specie ma di valori superiori. La mia immaginazione si era improvvisamente accesa. Pensavo di aver intravisto il luogo geometrico delle nostre idee e l'azione che ne risultava. In una parola, la possibilità di applicare il calcolo all'intero sistema della natura. Soffocato dalla folla dei miei pensieri, sentivo il bisogno di respirare più aria libera. Corsi sui bastioni e li girai tre volte senza sapere davvero cosa stessi facendo. (...)
Vi ho detto come, mentre facevo le mie riflessioni sull'ordine che regna in questo universo, avevo creduto di trovare applicazioni del calcolo che prima di me non erano state percepite. Vi ho poi raccontato come mia zia Antonia, con un'osservazione indiscreta e fuori luogo, fece confluire come in un focolare le mie idee sparse e formarsi in un Sistema. Alla fine vi ho detto come, avendo saputo che passavo per un pazzo, ero caduto da un'estrema esaltazione dello spirito in un estremo scoraggiamento. Vi ho accennato che questo stato di sconforto fu lungo e doloroso Non osavo alzare gli occhi su nessuno; i miei simili mi sembravano in lega per respingermi e degradarmi. I libri che erano stati la mia gioia mi provocarono un disgusto mortale. Non vi vedevo altro che un confuso mucchio di inutili verbosità. Non ho più toccato una lavagna e non avevo più fatto un calcolo. Le fibre del mio cervello si erano rilassate, avevano perso la loro primavera, non pensavo più.
Mio padre si accorse del mio scoraggiamento e mi esortò a scoprire la causa. Ho resistito a lungo. Alla fine gli (... ) confessai di sfuggita il dolore che provavo per aver perso la ragione.
Mio padre abbassò la testa sul petto e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Dopo un lungo silenzio, mi rivolse occhi compassionevoli e disse. “Oh figlio mio, quindi passi per pazzo e io lo sono stato davvero per tre anni [durante i quali si era ritirato in un convento di Camaldolesi]. Le tue distrazioni e il mio amore per Blanca [colei che aveva amato in gioventù e poi si era sposata con Carlos, il fratello minore vanesio diventato Duca per un malinteso] non sono le cause primarie dei nostri dolori. Il nostro male viene da più lontano.
La natura è infinitamente fertile e varia nei suoi mezzi. Viene vista infrangere le sue regole più coerenti. Ha fatto dell'interesse personale il motivo di tutte le azioni umane. Ma nella folla degli umani ne produce alcuni dalla forma strana, tra i quali l'egoismo è appena percepibile, perché mettono i propri affetti al di fuori di se stessi: Alcuni sono appassionati di scienza, altri per il bene pubblico. Amano le scoperte degli altri come se le avessero fatte loro, e le istituzioni benefiche per lo stato come se un qualche vantaggio fosse loro maturato. Questa abitudine di non pensare a se stessi influenza tutto il loro destino. Non sanno come volgere gli uomini a loro vantaggio. La fortuna si offre e loro non si sognano di fermarla.
In quasi tutti gli uomini l'azione dell'io non è mai sospesa: ritrovi il loro ego nei consigli che ti danno, nei servizi che ti rendono, nelle connessioni che cercano nelle amicizie che creano. Appassionati del loro più remoto interesse, indifferenti a tutto il resto. E quando trovano sulla loro strada un uomo, indifferente all'interesse personale, non riescono a capirlo. Lo sospettano di motivi nascosti, affettazione, follia. Lo respingono dal loro seno, lo degradano e lo relegano su una roccia in Africa [il geometra e suo padre abitavano a Ceuta].
Oh! figlio mio, apparteniamo entrambi a questa razza proscritta. Ma abbiamo anche i nostri piaceri e devo farteli conoscere. Ho provato di tutto per renderti un vanesio e uno sciocco: il cielo non ha coronato i miei sforzi, ed eccoti qui con un'anima sensibile e una mente illuminata. Quindi devo insegnarti che anche noi abbiamo i nostri piaceri, sono ignorati e solitari, ma gentili e puri.
Qual è stata la mia soddisfazione interiore, quando ho visto il Signor Isaac Newton approvare uno dei miei scritti anonimi e il desiderio di conoscerne l'autore. Non mi manifestai, ma, incoraggiato a nuovi sforzi, arricchii la mia intelligenza con una miriade di nuovi pensieri. Ne ero pieno, non potevo contenerli. Sono uscito per rivelarli alla roccia di Ceuta. Li ho affidati alla natura, li ho offerti in omaggio al mio carattere". (...)
Circa quattro settimane fa Diego Alvarez, figlio dell'altro Alvarez, venne a Ceuta per consegnare a mio padre una lettera della Duchessa Blanca, che diceva quanto segue:
Signor Don Henrique!
Queste righe sono per annunciarvi che forse Dio presto chiamerà vostro fratello il duca Velasquez. La costituzione particolare del nostro maggiorato non vi permette di ereditare da un fratello minore e la dignità deve passare a vostro figlio. Mi trovo felice di poter compiere quarant'anni di penitenza, restituendogli i beni che la mia imprudenza vi ha tolto. Quello che non posso restituirvi è la gloria dove il vostro talento vi avrebbe condotto. Ma siamo entrambi alle porte della gloria eterna, e quella del mondo non può più toccarci. Perdonate la colpevole Blanca un'ultima volta. e mandateci il figlio che il cielo vi ha dato. Per due mesi sono stata la badante del Duca. Vuole conoscere il suo erede.
Blanca di Velasquez
[Il geometra Pedro Velasquez partì così per Madrid]. Al calar della notte, giunsi ad un edificio vasto e ben costruito ma abbandonato e deserto. Misi il mio mulo nella stalla, e salii in una stanza, dove trovai gli avanzi di una cena, vale a dire un paté di pernice, pane e una bottiglia di vino di Alicante. Non avevo mangiato da Anduhar, e credevo che quella necessità mi desse dei diritti su questo paté che, peraltro, non aveva padrone. Ero anche molto alterato, perché il vino di Alicante mi dava alla testa, e me ne accorsi troppo tardi.
Nella stanza c'era un letto abbastanza pulito, mi sono spogliato, mi sono sdraiato e mi sono addormentato, ma poi non so cosa mi abbia svegliato di soprassalto. Ho sentito una campana suonare la mezzanotte. Ho immaginato che ci fosse qualche convento nei dintorni e mi sono proposto di andarci il giorno dopo.
Subito dopo ho sentito un rumore nel cortile. Pensavo fosse arrivata la mia parentela. Ma qual è stata la mia sorpresa quando ho visto entrare mia zia Antonia con la sua serva Marica. Questa portava una lanterna con due candele e mia zia aveva un taccuino in mano. “Mio caro nipote - mi ha detto- tuo padre ci ha mandato a darti questo foglio che dice importante"
Ho preso il foglio e ho letto sulla busta: Dimostrazione della quadratura del cerchio.
Sapevo che mio padre non si era mai preoccupato di questo problema ozioso. Ho aperto il taccuino. Ho scoperto che il problema considerato nel modo più generale includeva l'intero ordine di curve la cui equazione è y esponente m uguale a due a x, meno x esponente m. Questo era abbastanza alla maniera di mio padre, e non avevo dubbi che, anche quando la quadratura lì non si sarebbe dimostrata, si trovavano in questo quaderno tante abili e nuove approssimazioni. Mi parve però, attraverso molte trasformazioni, di riconoscere la quadratrice di Dinostrato.
Tuttavia mia zia osservò che, avendo preso l'unico letto che c'era nella locanda, dovevo dargliene metà. Ero così impegnato con il mio taccuino che non sentivo bene quello che mi diceva e le aprii il posto meccanicamente. E Marica si sdraiò ai miei piedi appoggiando la testa sulle mie ginocchia.
Ho ripreso la mia dimostrazione. Ho perso di vista il difetto che all'inizio credevo di averci visto, e che c'era davvero. Sono passato alla terza pagina. Vi trovai una serie dei più ingegnosi corollari che tendevano a quadrare e rettificare tutte le curve, infine il problema delle isocrone risolto dalle regole della geometria elementare. Felice, sorpreso, stordito credo dall'effetto del vino di Alicante, esclamai “Sì, mio padre ha fatto la più grande delle scoperte”.
“Ebbene,” disse mia zia, “baciami per la pena che ho patito per attraversare il mare e portarti questo scarabocchio." L'ho baciata.
“Quindi (ha detto Marica) non ho attraversato il mare anche io?“ Ho dovuto baciare anche lei.
Volevo riprendere il problema ma le due compagne nel mio letto mi abbracciarono così forte che mi fu impossibile liberarmene. Non lo volevo più. Ho sentito inestimabili sentimenti affiorare dentro di me. Un nuovo senso si formò su tutta la superficie del mio corpo, in particolare nei punti in cui toccava le due donne, il che mi ricordava alcune proprietà delle curve osculanti. Volevo dare un senso a ciò che provavo ma la mia testa non riusciva più a seguire il filo di nessuna idea. Alla fine le mie sensazioni si svilupparono in una serie divergente all'infinito, seguita dal sonno e poi da un risveglio molto spiacevole (...)
Per fortuna avevo in mano il mio quaderno, ripresi i miei calcoli. Intanto mi avevano messo su una lettiga e un monaco montato su un mulo mi ha asperso di acqua santa. L'ho lasciato fare, ho preso le mie tavolette e la matita in mano, sono tornato alla presunta integrazione, che conteneva tutto il parallelismo, mi sembrava che mio padre non potesse essere l'autore del taccuino, anche se ho riconosciuto la sua mano nel modo di scrivere i numeri.
Ecco tutta la storia della mia vita, dubito che potesse interessarvi, ad eccezione di questa bella signora che mi sembra avere per le scienze esatte un gusto che raramente si trova nel suo sesso.
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da: François Rosset, Dominique Triaire. Jean Potocki. Manuscrit trouvé à Saragosse (1810).: Manuscrits et imprimés originels. 2019. ffhal-02083167ff. Traduzione mia.