mercoledì 2 agosto 2023

Elio Pagliarani, tra fisica e poesia

 


Quasi sessant’anni fa, nel 1964, il poeta Elio Pagliarani pubblicò l’opera Lezione di fisica, smentendo i profeti della separazione tra le “due culture”.

La guerra fredda e l’atomica

La cronaca degli anni in cui il poeta riminese Elio Pagliarani (1927-2012) raggiunse la maturità artistica era dominata dalla guerra fredda e dalla minaccia di un conflitto nucleare. All’inizio degli anni ’60 del Novecento, si accavallavano infatti le notizie allarmanti di test nucleari sovietici, statunitensi e britannici, e la minaccia atomica era sentita come una realtà da entrambi i lati della cosiddetta “cortina di ferro”.

Poeta, critico teatrale, saggista, Pagliarani rappresenta un caso particolare dell’esperienza delle avanguardie italiane. La sua opera è libera dal lirismo o dall’ermetismo; la sua vocazione è piuttosto cronachistica (si è parlato di poesia-racconto), con particolare interesse al quotidiano del mondo proletario. Esponente del Gruppo ‘63 con Eco, Sanguineti, Balestrini, Arbasino, Guglielmi e altri intellettuali, Pagliarani scrisse Lezione di fisica [1] come compimento della sua esperienza di giornalista maturata sulle pagine dell’Avanti, che sarebbe poi continuata su Paese Sera.

Proprio sul quotidiano socialista pubblicò il 21 maggio 1957 i versi che per la prima volta legavano il tema “atomico” e quello amoroso.

È difficile amare in primavere 
come questa che a Brera i contatori 
 Geiger denunciano carica di pioggia 
 radioattiva perché le hacca esplodono 
 nel Nevada in Siberia sul Pacifico 
e angoscia collettiva sulla terra 
non esplode in giustizia. 
Potrò amarti 
dell’amore virile che mi tocca, e riempirti 
 se minaccia l’uomo 
sé nel suo genere? O trasferisco in pubblico stridore
che è solo nostro, anzi tuo e mio?

Lo sperimentalismo del poeta romagnolo è la presa di coscienza di una nuova funzione dello scrivere versi. Pagliarani cerca una proiezione, appunto sperimentale, verso un futuro che rinnovi la fiducia nell’atto poetico. Il ruolo del poeta è difficile perché la pressione della realtà moderna è ampia e complessa, contraddittoria, e in definitiva violenta. Tutte le grandi “verità assodate” sono state negate e viviamo in un intrico di mitologie nuove e locali, politiche, economiche, sociali, che si affermano con un’incoerenza sempre più ampia.

Il poeta è in questo contesto chiamato a dare un significato al nostro “rimanere umani”, anche attraverso l’esposizione, la negazione e la denuncia delle finzioni della dimensione culturale dell’epoca, senza contribuire a comporle.


Il corpo nero

Lezione di fisica, uno dei capolavori di Pagliarani, unisce temi privati e pubblici utilizzando materiali estratti dal linguaggio scientifico, e rapidi scorci psicologici o sociopolitici, attraverso una tecnica in cui l’accavallarsi di linguaggi e inserti provenienti da vari ambiti è volutamente, come scrisse lui stesso, “stridente”. Il testo, nella forma di una lettera alla donna amata («a Elena»), inizia come se fosse l’incipit di una biografia. L’avvio è contrassegnato dallo straniamento del dialogo amoroso tramite continui riferimenti alla meccanica quantistica: «Cominciò studiando il corpo nero / Max Planck all’inizio del secolo [...] / le radiazioni del corpo nero nella memoria del 14 dicembre 1900».

Lo studio del corpo nero è stato cruciale per lo sviluppo della meccanica quantistica. In fisica un corpo nero è un oggetto ideale che assorbe tutta la radiazione elettromagnetica incidente senza rifletterla. Assorbendo tutta l’energia incidente, per la legge di conservazione dell’energia, il corpo nero è comunque in grado di emettere radiazione elettromagnetica. Lo “spettro di corpo nero” (cioè la distribuzione dell’irradiamento, che è funzione della lunghezza d’onda o della frequenza) dipende unicamente dalla sua temperatura e non dalla materia che lo compone.

Negli esperimenti in laboratorio, un corpo nero è costituito da un oggetto cavo mantenuto a temperatura costante, le cui pareti assorbono ed emettono con tinuamente radiazioni su tutte le possibili lunghezze d’onda dello spettro elettromagnetico. Tuttavia, applicando le equazioni di Maxwell alle radiazioni emesse e assorbite dalle pareti, risulta che, al diminuire della lunghezza d’onda, si ottengono valori di intensità di irraggiamento che tendono all’infinito, in contraddizione con i dati sperimentali, secondo cui per lunghezze d’onda inferiori a un valore massimo, la potenza irradiata dal corpo nero scende rapidamente a zero.

Lo spettro di un corpo nero venne correttamente interpretato per la prima volta da Max Planck, il quale ipotizzò che gli atomi delle pareti interne del corpo nero assorbissero ed emettessero energia in maniera discreta, cioè che gli scambi di energia con il campo elettromagnetico avvenissero attraverso il passaggio di “pacchetti di energia”, da lui chiamati “quanti”. La data citata da Pagliarani si riferisce al giorno in cui Planck presentò la dimostrazione della formula E = hν della radiazione elettromagnetica (dove E è l’energia scambiata, h è la costante di Planck e ν è la frequenza della radiazione). Introducendo l’ipotesi dei quanti, Planck verificò che i calcoli teorici combaciavano con i dati sperimentali.

Durante gli anni immediatamente successivi, non si ottennero risultati significativi in ambito quantistico. Quanto alla proprietà cruciale che l’energia non varia con continuità, ma secondo valori discreti, Planck stesso credette per lungo tempo che fosse un artificio matematico che non si riferiva ai reali scambi di energia tra materia e radiazione.

Fu poi Albert Einstein nel 1905 a riprendere la teoria dei quanti nell’ambito dei suoi studi sull'effetto fotoelettrico, per spiegare l’emissione di elettroni dalla superficie di un metallo colpito da radiazione elettromagnetica (un altro effetto non spiegabile con la teoria ondulatoria di Maxwell). Secondo Einstein, non solo gli atomi emettono e assorbono energia per “pacchetti finiti” (come aveva proposto Planck), ma è la stessa radiazione elettromagnetica a essere costituita da quanti di luce, poi denominati fotoni nel 1926: «la luce / è una gragnuola di quanti» scrive Pagliarani. In altri termini, poiché la radiazione elettromagnetica è quantizzata, l’energia non è distribuita in modo continuo sull’intero fronte dell’onda elettromagnetica, ma concentrata in pacchetti di energia, i fotoni.

Fisica dei quanti e particelle elementari

Pagliarani prosegue con altri riferimenti alla meccanica quantistica, quello alla “scuola di Copenaghen”, a de Broglie e al principio di indeterminazione di Heisenberg: «Se si vuol sapere se A è causa dell’effetto di B / se il microggetto in sé è in conoscibile / se l’onda di Broglie per i fisici di Copenaghen / non è altro che l’espressione fisica della probabilità posseduta».

Nel 1924, il fisico francese Louis de Broglie pensò che, se la luce può comportarsi sia come onda sia come corpuscolo, allora una particella, ad esempio l’elettrone, potrebbe comportarsi anche come un’onda. Egli propose dunque la relazione: λ = h/p, dove p è la quantità di moto della particella considerata e λ prende il nome di lunghezza d’onda di de Broglie.

Sulla scia di tali risultati, Erwin Schrödinger andò alla ricerca di un’equazione che descrivesse il propagarsi dell’onda di materia, e nel 1925 propose un’equazione differenziale le cui soluzioni, le funzioni d’onda, restituivano quei numeri quantici cruciali per la risoluzione della struttura atomica di un elemento. L’equazione di Schrödinger era inoltre in grado di descrivere l’evoluzione di una particella libera.

Nel 1925, infine, Max Born, con Werner Heisenberg e Pascual Jordan, elaborò la prima formulazione completa della meccanica quantistica. L’evoluzione di un sistema quantistico, descritta da Schrödinger con la funzione d’onda, non è deterministica, bensì probabilistica, cioè dice qual è la probabilità di trovare l’elettrone in una certa posizione intorno al nucleo di un atomo, ma non offre alcuna certezza assoluta su dove trovarlo.

Nel 1927, Werner Heisenberg dimostrò che non è possibile conoscere con precisione assoluta due parametri accoppiati, come la quantità di moto e la posizione di una particella: è il principio di indeterminazione. In sostanza, non possiamo conoscere i dettagli di un sistema senza perturbarlo, e l’atto stesso di misura influenza il risultato, o nelle parole di Pagliarani, «non si può aver studio di un oggetto / senza modificarlo / la luce che piomba sull’elettrone per illuminarlo».

Su queste basi nacque e si affermò una corrente predominante tra i fisici quantistici, la cosiddetta "interpretazione di Copenaghen”, che ebbe in Niels Bohr il suo principale esponente. Albert Einstein, lo stesso Schrödinger e de Broglie erano scettici sulla validità di questa interpretazione. Essi pensavano che la meccanica quantistica, per quanto di straordinaria precisione, fosse incompleta, e che ci fossero delle “variabili nascoste” in grado di portare a una visione meno problematica, più vicina alla fisica classica. Einstein decise, allora, di scrivere una lettera a Bohr nella quale compare la famosa frase su Dio che «non gioca a dadi» con l’Universo: «Poi la teoria dell’onda pilota e quella, così cara al nostro tempo / della doppia soluzione, e se esiste il microggetto in sé, se la materia può risponderci con un comportamento statistico / Dio gioca ai dadi / con l’universo? E se la terra / ne dimostrasse il terrore?» scrive ancora Pagliarani nella Lezione di fisica.

La lettera di Einstein

Pagliarani abbandona temporaneamente il lungo riferimento alla storia della teoria dei quanti (cronologicamente si ferma all’inizio degli anni ’30) per introdurre il problema di stretta attualità all’epoca in cui scriveva: la questione delle armi atomiche («Perciò l’atomica / per la legge dei grandi numeri la probabilità tende alla / certezza / Perciò l’atomica»).

La lezione di fisica diventa lezione di storia. Lo scenario è la lettera che Albert Einstein inviò al Presidente americano Franklin Delano Roosevelt per sottolineare il pericolo della ricerca nucleare nazista: «te lo immagini quando dovette prendere la penna / scrivendo a Roosevelt “Caro presidente facciamola / l’atomica, sennò i nazi”».

La notizia, all’inizio del 1939, che gli scienziati tedeschi Otto Hahn e Fritz Strassmann avevano scoperto la fissione nucleare fece temere che la Germania potesse sviluppare una bomba atomica. Il fisico Leó Szilárd presto si mise in contatto con i colleghi Edward Teller ed Eugene Wigner per pianificare una risposta appropriata. Come ricordò Szilárd, la loro principale preoccupazione era «cosa sarebbe successo se i tedeschi si fossero impossessati di grandi quantità di uranio che i belgi stavano estraendo in Congo».

I tre fisici decisero che, poiché Albert Einstein conosceva la regina del Belgio, sarebbe stato la persona ideale per avvertire della minaccia tedesca. Szilárd e Wigner incontrarono Einstein all’inizio di luglio a Long Island, dove era in vacanza. Sebbene lui non fosse disposto a contattare direttamente la regina, accettò di scrivere una lettera all’ambasciatore del Belgio e stese una prima bozza.

Poco dopo, Szilárd parlò anche con l’economista Alexander Sachs, il quale si raccomandò che scrivessero pure al Presidente Roosevelt, suo intimo amico.

Finalmente, l’11 ottobre 1939 (nel frattempo era iniziata la guerra in Europa), Sachs incontrò il Presidente Roosevelt per consegnargli la lettera che Einstein, noto pacifista, preoccupato però dai possibili sviluppi della ricerca nazista, aveva scritto. Eccone il passaggio saliente:
“Nel corso degli ultimi quattro mesi è stata dimostrata, attraverso i lavori di Joliot in Francia e di Fermi e Szilárd in America, la possibilità e la probabilità di innestare in una ingente massa di uranio reazioni nucleari a catena attraverso le quali sarebbero generate notevoli disponibilità di energia e vaste quantità di elementi radioattivi nuovi. Ora, appare quasi certo che ciò potrebbe essere ottenuto nel futuro immediato. Questo nuovo fenomeno condurrebbe anche alla costruzione di bombe ed è concepibile – benché assai meno certo – che in questo modo si possano costruire bombe di tipo nuovo estremamente potenti [...].”
La lettera a Roosevelt cambiò il corso della storia, stimolando il coinvolgimento del governo americano nella ricerca nucleare. Essa portò alla creazione del Progetto Manhattan. Nell’estate del 1945, gli Stati Uniti avrebbero costruito la prima bomba atomica del mondo e l’avrebbero utilizzata per distruggere due città giapponesi, con centinaia di migliaia di vittime.

Einstein non lavorò mai al Progetto Manhattan a causa delle sue convinzioni pacifiste. In seguito, ebbe dei dubbi sul suo ruolo, affermando: «Se avessi saputo che i tedeschi non sarebbero riusciti a sviluppare una bomba atomica, non avrei fatto nulla».


L’equilibrio del terrore

Sconfitti i nazisti, inizia la guerra fredda tra le potenze vincitrici sulla Germania, e l’energia atomica diventa la minaccia universale. La bomba atomica crea una nuova realtà politica, nella quale due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, avevano la capacità di annichilire tutta la vita sulla Terra.

Vi fu chi, tuttavia, studiò l’ipotesi di un attacco preventivo, per valutarne i pro e i contro. Edward Teller, nel frattempo diventato il “padre della bomba all’idrogeno” (il primo test fu effettuato nell’atollo di Bikini nel luglio 1954), sosteneva, durante la presidenza di Eisenhower, che sarebbe stato impossibile mantenere e monitorare un divieto di test nucleari con un nemico subdolo come i sovietici.

Meno “politico” e più tecnico fu il ruolo del fisico Herman Kahn, che durante la guerra fredda sviluppò diverse strategie per contemplare l’ipotesi della guerra nucleare, utilizzando applicazioni della teoria dei giochi e di quella dei sistemi all’economia e alla strategia militare. Queste considerazioni erano contenute nell’articolo del 1960 La natura e la fattibilità della guerra e della deterrenza [2]

Lo studio conteneva, asetticamente, anche stime del numero di vittime sul suolo americano, dirette e indirette, di un’eventuale guerra nucleare. Continua Pagliarani: «Herman Kahn ha già fatto la tabella / delle possibili condizioni postbelliche, sicché 160 milioni di decessi in casa sua / non sarebbero la fine della civiltà [...], egli scrive un ulteriore problema, / quello cioè se i sopravvissuti avranno buone ragioni / per invidiare i morti».


La possibilità della gioia

In questo scenario, Pagliarani analizza la possibilità della gioia. Il cortocircuito è dato dall’accostamento al panorama, terrificante e immobile, di un soprassalto vitalistico, ludico ed erotico: «Quanta gioia mi dai quando ti stufi / di me, quando mi dici se scriverai di me dirai di gioia / e che sia gioia attiva, trionfante [...] L’odore delle erbe di campagna [...] / vino rosso / capriole con lancio di cuscini / nella mia stanza». È una reazione istintiva, quella rappresentata da questa gioia; le capriole sono segni della «voglia / di riassuefarci alla gioia, affermare la vita col canto» che però l’autore considera vana. L’io narrante della lettera non lo può fare.

Pagliarani sa che con l’innovazione costante della conoscenza e dei suoi paradigmi anche il nulla è rimosso: «e invece non ci basta nemmeno dire no che salva solo l’anima». Bisogna, con difficoltà, convivere con la propria faccia e testimoniare la propria differenza etica irriducibile attraverso la poesia: «ci tocca vivere il no misurarlo coinvolgerlo in azione e tentazione / perché l’opposizione agisca da opposizione e abbia i suoi testimoni», conclude.

Nel 1965, anno successivo alla pubblicazione di Lezione di fisica, Elsa Morante, in Pro e contro la bomba atomica, si chiederà allora: «Ma infine, che razza di romanzo o di poesia dovrà scrivere il Nostro per fare, come dicono i giornali, la sua lotta? La risposta è semplice: scriverà, onestamente, “resta da fare la poesia onesta”».

Riferimenti bibliografici

[1] E. Pagliarani, Lezione di fisica, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1964. 
[2] H. Kahn, The Nature and Feasibility of War and Deterrence, The Rand Corporation, Santa Monica (CA) 1960.

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Questo articolo è stato pubblicato sul numero 2/2023 di Sapere, la più antica rivista di divulgazione scientifica in Italia, da anni edita dalle Edizioni Dedalo di Bari. 

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