domenica 21 giugno 2009

Parole inventate 1: dal quark alle fànfole


“Poor, poor, little Alice! She has not only been caught and made to do lessons;
she has been forced to inflict lessons on others”.
(G. K. Chesterton, 1932)



Il quark

Una parola inventata, scriveva Giampaolo Dossena (Il Dado e l’alfabeto, Nuovo dizionario dei giochi con le parole, Zanichelli, Bologna, 2004), “è una parola che s’era mai sentita, verbum inauditum: nel momento stesso in cui la si inventa, si inventa anche cosa potrebbe voler dire; oppure non indica proprio niente, sfuma nel nonsense (…) Una parola inventata che entra nell’uso e viene registrata dai vocabolari si chiama neologismo. Chi l’ha inventata si chiama onomaturgo. A dir la verità, tutte le parole, all’inizio, sono parole inventate, perché deve esserci stato per forza un momento in cui si è cominciato a indicare un oggetto o un’azione con un suono, un fonema, che prima non c’era.

I bambini sono grandi onomaturghi, seguiti a ruota dagli scrittori e dai poeti. D’Annunzio inventò parole come velivolo, che è entrata nell’uso comune, e arzente, tentativo meno fortunato di sostituire il francese cognac o l’inglese brandy per indicare le acquaviti raffinate.

Una delle parole inventate diventate più famose è senz’altro quark. Murray Gell-Mann e George Zweig, prima di presentare il modello dei quark nel 1964, si trovarono a dover decidere quale nome assegnare a questi costituenti fondamentali degli adroni. Gell-Mann aveva inizialmente pensato a qualcosa che ricordasse lo starnazzare di un’anatra, tipo quack, ma era incerto. Era però un appassionato lettore di James Joyce e si ricordò di aver letto nel Finnegan’s Wake la seguente terzina:

Three quarks for Muster Mark!
Sure he has not got much of a bark
And sure any he has it's all beside the mark.

La parola quark non esisteva ed era stata inventata da Joyce per creare un’assonanza con Mark e bark. Gell-Mann spiegò successivamente che la prima riga gli sembrava la storpiatura del comando di un cliente di un pub: “Three quarts for Mister Mark!” (un quart è un enorme boccale di birra da due pinte). Egli aveva comunque trovato il nome che gli piaceva, rafforzato nella decisione dalla presenza del numero tre, che corrisponde ai numero in cui i quark si trovano nei barioni (protone e neutrone).


Il sarchiapone

La parola inventata più nota della lingua italiana deve il suo successo al teatro di rivista e alla televisione. Si tratta di sarchiapone. Il termine comparve nel 1955 nella dodicesima scena del primo tempo della rivista O quante belle figlie madama Doré, di Terzoli e Vaime, con protagonisti Walter Chiari e Carlo Campanini. La scena s’intitolava Il sarchiapone americano e mostrava Carlo Campanini che faceva fuggire gli altri viaggiatori in modo da tenere per sé un intero scompartimento ferroviario, fingendo di avere in una cesta sulla reticella il misterioso sarchiapone. Walter Chiari dava uno straordinario saggio della sua abilità, interpretando uno dei passeggeri che si vantava di conoscere il sarchiapone tra titubanze, smorfie e versacci. Ripresa più volte in contesti cinematografici e televisivi, la scena sancì il successo della parola.


A lungo si è creduto di attribuire l’invenzione del sarchiapone a Terzoli e Vaime, ma in realtà il termine ha origini più antiche, comparendo per la prima volta nella raccolta di novelle Cunto de li cunti del napoletano Giambattista Basile, comparsa postuma nel 1635. Nell’opera compare non certo per indicare un misterioso animale trasportabile, ma un contadino zotico e ignorante (forse dal verbo “sarchiare”, smuovere e rompere il terreno):

“Aveva na magna femmina de Casoria chiamata Ceccarella no figlio nommenato Peruonto, lo quale era lo chiù scuro corpo, lo chiù granne sarchiopio e lo chiù solenne sarchiapone c’avesse creiato la Natura”. (Peruonto, trattenemiento tierzo della Giornata Prima)

Successivamente Sarchiapone diventò il nome proprio di uno dei personaggi principali della Cantata dei Pastori, opera teatrale scritta da Andrea Perrucci nel 1698.


Jabberwocky

Dicevo dei bambini e dei poeti come inventori di parole Se poi un poeta o uno scrittore scrive per un pubblico giovanile, l’onomaturgia esplode ai massimi livelli: il più grande di tutti è stato Charles Lutwidge Dodgson, che si firmava Lewis Carroll. Fu il logico inglese, fotografo e scrittore, che inventò per le tre figlie del pastore Henry Liddell il personaggio di Alice, uno dei più noti della letteratura mondiale, protagonista di Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie (1865) e di Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò (1871). Entrambi i libri sono una fantasmagoria di giochi verbali di tutti i tipi: anagrammi, palindromi (“Was it a cat i saw?”), parole inventate, ecc.. Nel secondo libro di Alice compare anche un’intera poesia fatta con parole inesistenti, che porta il lettore nel regno del più completo nonsense: il Jabberwocky. Alice la trova scritta all’incontrario su un libro deposto sul tavolo mentre sta osservando il Re Bianco.

Inizialmente non capisce gli strani caratteri, ma poi riconosce che si tratta di un libro scritto allo specchio, come è normale che sia nel posto in cui si trova.

Jabberwocky

'Twas brillig, and the slithy toves
Did gyre and gimble in the wabe;
All mimsy were the borogoves,
And the mome raths outgrabe.

"Beware the Jabberwock, my son!
The jaws that bite, the claws that catch!
Beware the Jubjub bird, and shun
The frumious Bandersnatch!"

He took his vorpal sword in hand:
Long time the manxome foe he sought—
So rested he by the Tumtum tree,
And stood awhile in thought.

And, as in uffish thought he stood,
The Jabberwock, with eyes of flame,
Came whiffling through the tulgey wood,
And burbled as it came!

One two! One two! And through and through
The vorpal blade went snicker-snack!
He left it dead, and with its head
He went galumphing back.

"And hast thou slain the Jabberwock?
Come to my arms, my beamish boy!
O frabjous day! Callooh! Callay!"
He chortled in his joy.

‘Twas brillig, and the slithy toves
Did gyre and gimble in the wabe:
All mimsy were the borogoves,
And the mome raths outgrabe.

Questi versi sono considerati l’esempio più importante di poesia nonsenical mai scritta in lingua inglese. Nonostante la gran profusione di parole inesistenti, essa rispetta perfettamente le regole compositive e la metrica dell'idioma originale. Per quanto praticamente intraducibile, è stata tradotta in numerose lingue. Riporto la versione italiana che ne fece Adriana Crespi negli anni ’70:

Il Ciarlestrone

Era brillosto, e gli alacridi tossi
succhiellavano scabbi nel pantúle:
Méstili eran tutti i paparossi,
e strombavan musando i tartarocchi.

«Attento al Ciarlestrone, figlio mio!
Fauci che azzannano, fauci che ti artigliano,
attento all'uccel Giuggio e attento ancora
Al fumibondo chiappabana!»

Afferò quello la sua vorpi da lama
a lungo il manson nemico cercò...
Cosí sostò presso l'albero Touton
e riflettendo alquanto dimorò.

E mentre il bellico pensier si trattenea,
il Ciarlestrone con occhiali brage
venne sifflando nella fulgida selva,
sbollentando nella sua avanzata.

Un, due! Un, due! E dentro e dentro
scattò saettante la vorpida lama!
Ei lo lasciò cadavere, e col capo
Se ne venne al ritorno galumpando.

«E hai tu ucciso il Ciarlestrone?
Fra le mie braccia, o raggioso fanciullo!
O giorno fragoroso, Callò, Callài!»
stripetò quello dalla gioia.

Era brillosto, e gli alacridi tossi
succhiellavano scabbi nel pantúle:
Méstili eran tutti i paparossi,
e strombavan musando i tartarocchi.

Nella poesia compare quello che in inglese è divenuto l’omologo del nostro sarchiapone: il tove (che la Crespi rende con tosso). Nel successivo dialogo con Alice, l’uovo antropomorfizzato Humpty Dumpty così descrive questi animali: “Beh, i toves sono una specie di tassi… sono un po’ come le lucertole… e un po’ come i cavatappi”. “Devono essere creature molto curiose a vedersi”. “Sì, - disse Humpty Dumpty – e fanno il nido sotto le meridiane… e si nutrono di cacio”.


Humpty Dumpty spiega poi ad Alice il significato di molte delle strane parole della poesia. Alcune di queste, come chortle e galumphing entreranno nel vocabolario della lingua inglese, a ulteriore dimostrazione del potere onomaturgico dei poeti. Lo stesso personaggio, nella sua surreale esposizione, illustra come molte di queste parole siano delle portmanteau words (parole valigia), formate dalla fusione di due parole esistenti. Se il risultato può essere spesso comico o surreale (galumphing è il prodotto di to galop e di triumphant), il procedimento è tutt’altro che fantasioso: molte parole sono nate proprio così, in tutte le lingue. Sono parole valigia, ad esempio, brunch (da breakfast e lunch), Tanzania (da Tanganika e Zanzibar), eliporto (da elicottero e aeroporto), il recente italiota (da italiano e idiota). Tornando ai quark, c’è chi contesta l’origine della parola così come l’ha raccontata Gell-Mann. Essa sarebbe invece una parola valigia, creata fondendo question mark (punto interrogativo), proprio per indicare la natura misteriosa che caratterizzava queste particelle.



La Gnòsi delle Fànfole

Non si può disquisire di parole inventate senza citare Fosco Maraini (1912-2004). Letterato, alpinista, viaggiatore, naturalista, etnologo, orientalista, insegnante di lingua e letteratura giapponese, (e padre della scrittrice Dacia), Maraini è stato in Italia il primo scrittore di quella che lui stesso ha definito “poesia metasemantica”, “composta di termini privi di senso se non per quello, obliquo, conferito ad essi dal loro stesso suono”. Le sedici poesie contenute nella Gnòsi delle Fànfole (Baldini, Castoldi e Dalai, 1994, ripubblicato nel 2007) costituiscono un piacere dello scherzo e dell’immaginazione, per l’invenzione continua di parole di origine sia dotta sia popolaresca, che si adattano perfettamente alla metrica pur lasciando al lettore il piacere di scoprire nuovi significati ad ogni lettura. Il diletto del lettore è accresciuto dalle note al testo le quali, invece di soddisfare la sua domanda di spiegazioni, lo confondono e lo divertono con commenti decisamente assurdi e fuorvianti. Così, dopo aver letto che “Il lonfo non vaterca né gluisce e molto raramente barigatta”, si viene informati dalla nota che “non esistono testimonianze dirette che possano suffragare la teoria che ogni lonfo - in gioventù o nell’età matura - sia solito barigattare. Vittoria Contini Serpieri, nel suo Tutto quello che avreste voluto sapere sul barigatto ma non avete mai osato chiedere! (Edizioni La Lanterna, Genova, 1937), tratta ampiamente l’argomento ma nel pur esauriente testo non fa alcun cenno né al lonfo né ai lonfoidi in genere”. Per questioni di spazio riporto solamente le due poesie che più mi sono piaciute, ma sulle Fànfole ci tornerò:

Il lonfo

Il lonfo non vaterca né gluisce
e molto raramente barigatta,
ma quando soffia il bego a bisce bisce
sdilenca un poco, e gnagio s’archipatta.
È frusco il lonfo! È pieno di lupigna
arrafferia malversa e sofolenta!
Se cionfi ti sbiduglia e t’arrupigna
se lugri ti botalla e ti criventa.
Eppure il vecchio lonfo ammargelluto
che bete e zugghia e fonca nei trombazzi
fa lègica busìa, fa gisbuto;
e quasi quasi, in segno di sberdazzi
gli affarfaresti un gniffo. Ma lui zuto
t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.

Il giorno ad urlapicchio

Ci son dei giorni smègi e lombidiosi
col cielo dago e un fònzero gongruto
ci son meriggi gnàlidi e budriosi
che plògidan sul mondo infragelluto,
ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi
un giorno tutto gnacchi e timparlini,
le nuvole buzzillano, i bernecchi
ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;
è un giorno per le vànvere, un festicchio
un giorno carmidioso e prodigiero,
è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio
in cui m’hai detto “t’amo per davvero”.

Continua...


12 commenti:

  1. strepitose queste di maraini, non resisterò a citarle prima o poi, intanto, approfitto per dire la mia, Tanzania è la valiga di Tanganica, Zanibar e Niassaland.;-)

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  2. Enrico, sei sicuro che il Niassaland non sia diventato l'attuale Malawi? Se non fosse impegnato con i ballottaggi, telefonerei a Veltroni per conferma...

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  3. Ostia di un'ostia, Pop... che ce l'ho sulla punta della lingua il nome del Pezzo Grosso dell'Enologia Italiana che propose come Denominazione d'Origine ante litteram pei distillati di vino autoctoni (sull'origine della tecnologia, sopravvolava, mi pare...) il neologismo radicalmente culturato di "Arzente"; visto che nei primi anni '50 i Francesi si stavano attizzando per "tutelare" l'Appelattion o quelchelè controlè del Cognac.
    Poi tutelarono il Metòd Ciampenuaise e innescarono tutto il resto, mentre gli Inglesi piazzavano in giro il Brandy, e malgrado Stella (chissà se la vedremo mai da queste parti...?), non si può negare creassero un'atmosfera diversa mentre i polli si beccavano...
    Ma son storie che potrebbero portare troppo lontano, con una boccia di Falerio quasi terminata...

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  4. qui il quark é il formaggio!
    saluti dalla germaGna!
    ps: mi "autocito"... ne avevo parlato
    qui

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  5. Lucia, magari i "pipponi" di fisica fossero tutti così! Abbasso il quark inteso come (pseudo)formaggio, viva Menocchio! Saluti dalla vergoGNosa PadaGNA!

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  6. interessant e divertentissimo, questo pezzo. Grazie, Popinga!
    Graziella

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  7. hai scelto le due fanfole che preferisco anch'io :)

    bellissimo post, grazie

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  8. Non conoscevo Maraini
    sorprendente grazie !!
    Xesko Chef

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  9. Solo ora leggo il post. Scusa il ritardo.
    Volevo segnalarti, se non lo conosci già, il glíglico inventato da Julio Cortázar nel suo romanzo Rayuela (capitolo 68).
    E per quanto riguarda le invenzioni dei bambini, noi tuttora usiamo una parola inventata da mio figlio all'età di 7 anni.
    Definizione:"le strisce di luce che trapelano dalle fessure che si formano tra una stecca e l'altra di una persiana avvolgibile che non sia stata abbassata completamente". La parola: i cambulacci.
    Saluti dalla Perfidanera

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  10. Cara Bruna, Rayuela è sul mio comodino in attesa che smaltisca le letture arretrate. Delle parole inventate dai bambini mi occuperò prossimamente, a partire dal linguaggio farfallino. Ciao!

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  11. Prendendo spunto dal testo citato di Fosco Maraini e giocando a tradurre parole inventate, costruire un testo narrativo semplice e ritradurre il risultato, mia figlia -all'età di 8 anni - ha prodotto il seguente raccontino...

    Il cirà al lonco

    C’era una volta un cirà che doveva chiocciolare al lonco con una tranza, ma non sapeva scamuflare!
    Il giuraccoso del lonco, il cirà criciò la tranza sciverlata da un senzone e girandolò il morando.
    Una rudellina arieggiò alla montese del cirà un gragliano tirigato dall’ariello con in crugno un cartogigio.
    Il cirà sbuciò il cartogigio e ci curinzò inturo uno zepilo.
    Con lo zepilo il cirà ricciò ranti e ranti rumelli e nece una radutissima fondura che larettò al niroso.
    Un giuraccoso, con il suo zepilo chiocciolò dal senzone e gli scarutò la scara.
    Così si girandolò in corese la tranza e criondini miressero merandi e camillosi.

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  12. Grazie, anonimo. E brava tua figlia. In effetti non tutti sanno chiocciolare al lonco con una tranza. Cartogigio e camillosi sono bellissime!

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