mercoledì 8 aprile 2009

La fertile bufala dell’albero del veleno



I legami tra scienza e letteratura in epoca romantica furono più stretti e fecondi di quanto si è generalmente portati a pensare. Gli sviluppi nella conoscenza del mondo naturale e il contemporaneo progresso delle scienze sperimentali ebbero un forte impatto sulle opere dei letterati, così come i naturalisti utilizzavano con una certa frequenza immagini letterarie e metafore poetiche nelle loro relazioni e nelle pubblicazioni scientifiche.

William Wordsworth era in corrispondenza costante con il chimico Humphry Davy, mentre questi faceva le sue importanti scoperte sull’elettrolisi, il magnesio, l’azoto e il suo protossido (il gas esilarante). Gli effetti di questo composto furono sperimentati dallo scienziato anche su Samuel Taylor Coleridge, che di ricerche simili era ghiotto. Contemporaneamente Davy scriveva e pubblicava alcuni poemi lirici nello stile dei due poeti. Anche naturalisti come Erasmus Darwin, il nonno di Charles, mostrarono interesse per la letteratura, sia come lettori sia come autori. Nel frattempo Coleridge frequentava pressoché tutte le conferenze di fisiologia che si tenevano a Londra in quel periodo. Quando gli fu chiesto del perché, rispose “Per aumentare il mio bagaglio di metafore”. Percy Shelley fece esperimenti di chimica e “macchine elettriche” nella sua casa di Oxford, e sua moglie Mary si interessava ai lavori di Luigi Galvani nel periodo in cui ebbe l’idea di scrivere di Frankenstein e del suo mostro. Come loro, molti poeti e scrittori cosiddetti “Romantici” nutrivano seri interessi scientifici.

Persino il mistico e visionario William Blake, che si considerava ostile alla natura “vegetale” in tutte le sue forme, fu influenzato dai resoconti dei naturalisti. Da un lato egli considerava il mondo naturale come il segno della nostra caduta originaria, mentre d’altro canto faceva uso di vigorose immagini naturali in tutta la sua opera poetica e artistica. Il celebre accenno che Blake fa a un albero apportatore di morte nelle sue Songs of experience (1794) è esemplare dell’uso di immagini provenienti dal mondo naturale applicate a scopi poetici:

The poison-tree

I was angry with my friend:
I told my wrath, my wrath did end.
I was angry with my foe:
I told it not, my wrath did grow.

And I watered it in fears
Night and morning with my tears,
And I sunned it with smiles
And with soft deceitful wiles.

And it grew both day and night,
Till it bore an apple bright,
And my foe beheld it shine,
And he knew that it was mine,--

And into my garden stole
When the night had veiled the pole;
In the morning, glad, I see
My foe outstretched beneath the tree.


Ero adirato col mio amico,
dissi la mia ira, la mia ira finì;
ero adirato col mio nemico,
non la dissi, la mia ira crebbe.

E l'ho bagnata di timori,
notte e giorno con le mie lacrime,
e le ho dato il sole di sorrisi
e dolci ingannevoli astuzie.

Ed è cresciuta giorno e notte,
finché ha generato una mela splendente;
e il mio nemico la vide brillare,
e seppe che era mia.

E penetrò nel mio giardino
quando la notte aveva velato il cielo;
al mattino vidi lieto il mio nemico
sotto l'albero, morto stecchito..

L’albero che ispirò Blake é noto come “albero del veleno” ed è oggi classificato come Antiaris toxicaria, una Moracea che cresce nel sud-est asiatico e può raggiungere i 40 metri d’altezza. Mentre i suoi frutti sono commestibili, il lattice che si estrae dalla corteccia e dalle foglie è velenoso per l’alto contenuto di antiarina, un glicoside che provoca inibizione del funzionamento della pompa potassio-sodio delle cellule muscolari cardiache, disturbi neuropsichici e vomito. Per questo motivo era utilizzato per avvelenare le frecce dalle popolazioni dell’arcipelago indonesiano e della Malesia, che lo chiamavano Upas (“veleno”).

In realtà l’Antiaris conosciuta da Blake non era l’albero reale, ma il prodotto di un’invenzione letteraria orientalizzante diffusa in occidente attraverso una bufala scientifica: una delle più grandi, a giudicare dalle sue conseguenze letterarie (non a caso il New Scientist l’ha classificata tra le sette più riuscite della storia).

Tutto ha inizio con la pubblicazione sul numero di luglio-dicembre 1783 del London Magazine di un articolo dall’anodino titolo DESCRIPTION OF THE POISON-TREE, IN THE ISLAND OF JAVA (qui l’originale, in fondo alla pagina 511), in cui un certo N. P. Foersch, chirurgo olandese della Compagnia delle Indie Orientali, racconta dell’esistenza nell’isola di Giava, “a 27 leghe da Batavia”, di un immenso Bohon-Upas (albero del veleno), i cui vapori nocivi sono tali da rendere sterile tutto il terreno circostante per un raggio di 10 o 12 miglia: “Non si può vedere un albero, né un cespuglio, né la più piccola foglia d’erba”. Ad esso si avvicinano, con la massima fretta e in favore di vento, soltanto i malfattori condannati a morte, che scelgono di tentare di raccogliere un po’ della gomma tossica e preziosa che scaturisce sotto la sua corteccia affinché sia loro risparmiata l’esecuzione. Di essi solo uno su dieci fa ritorno vivo, ma la clemenza dell’Imperatore è ampiamente ripagata dalla rendita considerevole che egli ottiene dalla distillazione della gomma velenosa utilizzata per intingervi le punte delle armi.

Gli effetti del veleno sono minuziosamente descritti da Foersch: un uomo colpito da una freccia avvelenata nel giro di pochi minuti è colto da un tremore crescente, al culmine del quale muore tra le più atroci sofferenze. I cadaveri di coloro che sono morti a causa dell’Upas sono pieni di pustole livide, la pelle è bluastra e gli occhi diventano gialli. Con spirito “scientifico”, l’olandese si procura qualche grano del veleno e sperimenta i suoi effetti su alcuni animali, di cui descrive le convulsione e la morte miserabile. Questo grand-guignol gli consente di concludere che “l’Upas è il veleno vegetale più pericoloso e violento; e sono portato a credere che contribuisce fortemente all’insalubrità di quest’isola”.

Il falso resoconto suscitò subito interesse e polemiche, ma fu considerato veritiero dalla maggior parte dei naturalisti. Nel 1791 Erasmus Darwin magnificò in versi nel suo Botanical Gardens le terribili proprietà dell’albero del veleno:

Fierce in dread silence on the blasted heath
Fell Upas sits, the Hydra tree of death.
Lo! From one root, the envenom’d soil below,
A thousand vegetative serpents grow;
(. . . )
A thousand tongues in quick vibration dart;
Snatch the proud eagle towering o’er the heath,
Or pounce the lion as he stalks beneath;
Or strew, as marshalled hosts contend in vain,
With human skeletons the whiten’d plain.

Spietato nel terribile silenzio sull’erica distrutta
Siede l’Upas, l’Idra albero di morte.
Guarda! Da una radice, dal suolo avvelenato
Crescono mille serpenti vegetali,
(…)
Mille lingue dardeggiano in rapida vibrazione;
afferrano l’aquila coraggiosa che sorvola la brughiera
o ghermiscono il leone che sotto si muove
o disseminano, come truppe schierate che lottano invano,
il piano biancheggiante di scheletri umani.

Nonno Darwin in una nota è esplicito sulla sua fonte: ”Esiste un albero del veleno nell’isola di Giava, che si dice abbia spopolato il paese con i suoi effluvi in un raggio di 12 o 14 miglia: la superficie del terreno è sterile e rocciosa, popolata solo da scheletri di uomini e animali”. Fu dal libro di Darwin che Blake derivò la sua immagine dell’albero della vendetta.

L’eco poetica e letteraria della bufala scientifica del London Magazine perdurò a lungo, anche dopo che fu smascherata dal naturalista francese Leschinault e dall’americano Thomas Horsfield dopo il 1811. George Byron, nel quarto canto del suo poema narrativo Pellegrinaggio del giovane Aroldo (1812-1818), utilizzò la metafora del l’albero del veleno per descrivere l’eredità corrotta del peccato originale:

This uneradicable taint of sin,
This boundless upas, this all-blasting tree,
Whose root is earth, whose leaves and branches be
The skies which rain their plagues on men like dew –
Disease, death, bondage – all the woes we see –
And worse, the woes we see not – which throb thought
The immedicable soul, with heart-aches ever new.

Questa inestirpabile macchia del peccato
Questo Upas sterminato, quest’albero che tutto inaridisce,
la cui radice è terra, le cui foglie e rami sono i cieli
che piovono le loro calamità sull’uomo come rugiada –
malattia, morte, schiavitù – tutti i dolori che vediamo –
e peggio, i dolori che non vediamo – che fan battere il pensiero,
l’anima incurabile, con cardiopalmi sempre nuovi.

Al di fuori dell’ambito inglese, Alexander Pushkin scrisse nel 1828 una poesia intitolata Anchar, che significa proprio “L’albero del veleno”. Nell’opera il grande scrittore romantico russo rielabora il racconto di Foersch in termini poetici, descrivendo il terribile vegetale, evitato dagli uccelli e dagli animali terrestri, ma pur sempre utilizzato dai potenti come fonte di veleno da usare come arma.

Anche Charlotte Brontë utilizzò l’immagine dell’albero del veleno. Il tenebroso Rochester, in Jane Eyre (1848), così dice alla protagonista del tentativo di celarle l’esistenza di sua moglie Bertha Mason: “Nascondervi la vicinanza della pazza, tuttavia, fu qualcosa come coprire un bimbo con un mantello e lasciarlo nei pressi di un albero del veleno: la prossimità di quel demonio è ed è sempre stata avvelenata” .

Che l'albero del veleno renda sterili i dintorni è falso. Di certo la sua metafora in campo letterario è stata assai fertile.

2 commenti:

  1. qual'è il difetto della piantaa

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  2. Il suo lattice è assai velenoso, come per tanti altri vegetali, del resto. Un peccato veniale, tipo scrivere qual è con l'apostrofo.

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