domenica 5 luglio 2009

Parole inventate 2: pazzi veri e pazzi letterari



Nella prefazione dell’imperdibile Aga Magéra Difùra – Dizionario delle lingue immaginarie (Zanichelli, 1994), Paolo Albani e Berlinghiero Buonarroti cercano di mettere un po’ d’ordine nello sterminato panorama dell’invenzione linguistica. Nel loro documentatissimo repertorio, Albani e Buonarroti distinguono innanzitutto le lingue inventate di carattere sacro, il cui scopo è di «“comunicare” con il divino o comunque di dar voce ad un mondo spirituale non rappresentabile con il linguaggio ordinario», dalle «lingue di carattere non sacro, tipologia che comprende da un lato i progetti di comunicazione a scopo sociale e dall’altro le sperimentazioni più o meno artistiche».

Tralascio le lingue inventate di carattere sacro (glossolalie religiose, lingue iniziatiche, linguaggio dell’estasi, linguaggi magici, divinatori, sciamanici, ecc.) per concentrare l’attenzione sull’invenzione linguistica “profana”. Di questa, una parte cospicua è costituita dalle lingue inventate con lo scopo di essere in qualche modo utili, come le centinaia di lingue ausiliarie internazionali di cui l’esperanto è solo l’esempio più conosciuto, ma anche i linguaggi logico-matematici, quelli dei segnali, i linguaggi abbreviati (stenografie), le crittografie, ecc. A una seconda specie possono essere ricondotte le lingue nate in determinati contesti sociali, come i gerghi, i linguaggi ibridi (pidgin, spanglish), i linguaggi settoriali (di cui nel nostro paese sono tipici esempi il politichese o il sindacalese), la cui utilità non è intenzionale, almeno all’inizio.

Esiste infine la serie delle lingue e delle parole inventate a scopo di gioco o con intento puramente espressivo, alle quali ho fatto cenno nel mio precedente articolo. Su queste mi piace tornare. Innanzitutto per fare una doverosa aggiunta: non sono solo i poeti e i bambini a inventare parole e linguaggi, perchè grandi onomaturghi sono anche i pazzi e gli alienati. Di loro mi occupo in questo articolo.

La tendenza a creare parole con gradi diversi di artificialità è assai comune tra i malati di mente o dai medium. Lo psicologo Eugenio Tanzi, secondo il quale almeno il 30% dei paranoici sono inventori di parole, raccolse nel 1889 una serie di 239 neologismi di pazzi ricoverati nei manicomi italiani, da dominusmotspherifateur a pitroskoi marabiska patomba lemba zagamba strapùlika!, che sembra una specie di scongiuro. Sigmund Freud studiò il caso di Daniel Paul Schreber (1842-1911), Presidente della Corte d’Appello di Dresda, inventore di una “lingua fondamentale”, lingua parlata da Dio e appreso dalle anime beate durante il loro processo di purificazione. Si tratta di un tedesco arcaico, caratterizzato da un’abbondanza di eufemismi, paralogismi e antifrasi, per cui per cibo si dice “veleno” e per sacro si dice “empio”. Lo psichiatra Jaroslav Stuchlìk, in un saggio del 1960, si sofferma invece sul caso di un medico ceco creatore di 17 lingue totalmente inventate, ciascuna con una sua propria grafia. Allo studioso non sfugge l’aspetto ludico di questa megalomania onomaturgica. In un altro suo studio, Stuchlìk analizza il caso di un operaio di circa sessant’anni che disegna strane figure unendo sempre gli stessi sei elementi: un pesce, una ragazza, un succhiotto, una vacca, una macchina e un bruco. Il nome di questo ibrido grafico è un ibrido verbale, una mega parola-valigia resa in francese con poisucevamachenille (poisson, pucelle, sucette, vache, machine, chenille).

Tragico è invece il caso di Friedrich Hölderlin (1770-1843). Quando, intorno al 1822, il diciottenne Wilhelm Waiblinger comincia a frequentarlo, il grande poeta tedesco è malato di mente e vive ormai da quindici anni recluso nella "Torre" della casa del falegname Ernst Zimmer in riva al Neckar, confuso, isolato dal mondo. Non è più, insomma, "da considerarsi tra i vivi". Va su e giù come "le fiere ... nelle loro gabbie", suscitando in Waiblinger un brivido di orrore, recita giorno e notte un monologo incessante. Scrive Waiblinger: “«Si esita dubbiosi prima di bussare a quella porta, dominati da un interiore inquietudine; infine si bussa e una voce forte e veemente invita ad entrare. Si entra e al centro della stanza appare una magra figura che si inchina profondamente e si produce in complimenti eccessivi, con gesti che sarebbero pieni di grazia se non esprimessero un che di spasmodico. Le poche espressioni di circostanza vengono accolte con le più cortesi riverenze e con discorsi del tutto privi di senso, che sconcertano l’estraneo. L’estraneo si sente apostrofare "Sua Maestà", "Sua Santità", "Gentile signor Padre". Hölderlin non uscirà più da quella stanza fino alla sua morte, nel giugno 1843.

Un sintomo psicotico noto agli psichiatri è la verbigerazione (o catafasia o “insalata di parole”), che consiste nella ripetizione di parole o frasi sprovviste di senso, sebbene i sintagmi, presi isolatamente, siano per lo più intellegibili. Un esempio di questo fenomeno è la logorrea di Madame Ch., citata da André Breton nel suo Dictionnaire abregé du surréalisme (1938):

Je suis le devoir du Tri-Mistère, tri mystère du Finistère, des Trelendious et de trédious, des trébendious. Le gim de l’air de l’erme, le giderme, le citerme, le cimeterme de l’arterme, le gim de l’air de l’airme, le citerme, le cin de terme de la terme en terme, le gim de l’air en trème.


Una categoria assai interessante di inventori di neologismi è costituita dai foux litteraires, i folli letterari, cioè quelle persone che pubblicano, di solito a loro spese, vaneggiamenti scientifici, storici o religiosi che non rimandano a dottrine anteriori e che non hanno eco alcuna nella società in cui vivono. Tecnicamente immuni da patologie certificate, i pazzi letterari non hanno né maestri né discepoli. Di loro, e in particolare dei compilatori di lingue universali si è occupato Raymond Queneau in una sua “Enciclopedia delle scienze inesatte” compilata negli anni ’30, rifiutata dall’editore e uscita poi in forma romanzata (Les Enfants du Limon, 1938). Tra i folli neologisti di Queneau ricordo Sèbastien-François Drojat, che nel 1857 sosteneva di aver trovato la Chiave maestra della Torre di Babele nella lingua degli antichi galli Voconti, «lingua contubernale [cameratesca, NdR] di tutte le razze umane», e il sedicente Le Quen d’Entremeuse che nel 1852 sosteneva che le parole più importanti e le principali radici della lingua dei primi uomini sono una riproduzione dei rumori del tuono e dei latrati del cane.

Lo stesso poliedrico e geniale Queneau può essere fatto rientrare nella categoria, se si pensa al suo tentativo di inventare il neo-francese, una lingua basata sulla sintassi e il lessico del linguaggio parlato e su un’ortografia più o meno fonetica. Di queste sue idee si trova testimonianza in alcuni saggi raccolti in Bords (1963) e in Bâtons, chiffres et lettres (1965, in italiano “Segni, cifre e lettere e altri saggi”, Einaudi, 1981). Questa sua divertita stravaganza è testimoniata dal linguaggio con il quale è scritto Zazie nel metrò (1959) e si esprime la sua protagonista (si è parlato di “zazismi”). Ecco alcuni esempi: Singermindépré (Saint-Germain des Prés), pour moi zossi (pour moi-s-aussi) e il geniale Apibeursdè touillou (Happy birthday to you). E’ evidente che la grafia storpiata ha anche lo scopo di rendere la velocità del linguaggio parlato.

Un altro antologizzatore di folli onomaturghi è stato il belga André Blavier, nel libro Les fous littéraires (Parigi, 1982). Egli parla ad esempio del notaio francese Jacob-Abraham Soubira (1788-1842), inventore di un alfabeto numerico. Nella poesia intitolata 666, pubblicata nel 1828, egli profetizza il destino dei continenti prima della fine del secolo. Eccone un estratto:

Le 19me siècle hissera de l’orage!
Son mondain zéphir
En altérera le paysage
Et déracinera le vizir!

Le 19me siècle dégradera le paganisme,
Fera mourir l’Alcoran,
Marteler le vandalisme
Et rogner le Vatican!


(Il diciannovesimo secolo alzerà della tempesta! / Il suo vento mondano / ne muterà il paesaggio / e sradicherà il Visir! [nel senso lato dell’Impero Ottomano]. // Il diciannovesimo secolo degraderà il paganesimo, / farà morire il Corano, / martellare il vandalismo / e potare il Vaticano!).

Soubira afferma che la somma delle lettere di ciascuno dei 37 versi della sua opera corrisponde a 666. Il suo alfabeto è privo della lettera J, iniziale di Judas, che così viene scritto Geudas. Secondo questo alfabeto cabalistico ogni parola cela un significato numerico. Il destino di questo profeta di provincia non fu glorioso: finì i suoi giorni vendendo le sue profezie scritte su foglietti volanti nelle fiere di paese.

Un altro caso preso in considerazione da Blavier è quello del poliglotta, matematico, cabalista e umanista francese Guillaume Postel che, in una pubblicazione del 1538, cercò di dimostrare che tutte le lingue moderne hanno una radice comune nell’antico ebraico, identificato con il “samaritano” o con il “fenicio”. Tale ipotesi, con numerose varianti, era abbastanza comune ai suoi tempi, e Postel non si discosta molto da figure contraddittorie eppure geniali di maghi-scienziati come Paracelso o Johann Valentin Andreae. Ma nel 1553 Postel sostenne in un altro scritto che il secondo redentore dell’umanità sarebbe stata una donna, la quale avrebbe instaurato il regno di Sophia, la Sapienza. Non contento, affermava di aver trovato la nuova Eva, rigeneratrice del mondo, identificata in una vecchia italiana, chiamata “la madre Giovanna” o “Zuana”, fondatrice dell’Ospedaletto di Venezia. Due anni dopo l’Inquisizione lo definì non malus, sed amens (non colpevole, ma pazzo).

A dir la verità, aggiungo io, anche un’altro personaggio illustre cadde nell’errore di Postel, cioè il teorico del socialismo Pierre-Joseph Proudhon, che nell’Essai de grammaire générale del 1837 sosteneva che “tutte le lingue derivano da una lingua comune e prima”, parlata dal genere umano al tempo in cui la nostra specie era costituita da qualche centinaio d’individui. Queste sue tesi suscitarono poi l’ironia di Marx, che parlò di “scritto da scolaretto” che prova la “disinvoltura” del francese in questa come in altre questioni.

Curiosa è poi la riforma proposta dall’ingegnere belga Falkenburg, che verso la fine del XIX secolo presentò all’Accademia delle Scienze di Bruxelles una proposta di “sconvolgimento completo” dell’ortografia, basata su una “tavola dei suoni semplici” (25 vocali e 26 consonanti) delle sette lingue prese in considerazione. Su questa base, "quartier" diventa kàartyé e "foi" viene scritta fwa.

Uno dei casi più noti di invenzione linguistica è quello della medium ginevrina di origine ungherese Catherine-Èlise Mueller (1861-1929), nota con lo pseudonimo di Hélène Smith. Nel corso di una serie di sedute spiritiche organizzate da un gruppo teosofico locale, si immaginò protagonista di tre “romanzi” ambientati rispettivamente nell’India del XV secolo, sul pianeta Marte e nella Francia dei libri di Dumas padre. Nei primi due si immaginò la conoscenza della lingua indù e di quella marziana. I testi di queste pseudolingue, raccolti da Théodore Flournoy in un saggio del 1900, furono fatti analizzare dagli esperti dell’Università della città svizzera e in particolare dal grande linguista Ferdinand de Saussure, che analizzò testi come questo “indù”:

... goya vayayâni prityiya kriya gayâni i gôya mamata goya mama nara moma patii si goya gandaryâ gaya itiyami vasanta...

concludendo che si trattava di pura invenzione. I testi marziani, scritti in un alfabeto vagamente simile ai segni che indicano i pianeti, vanno da sinistra a destra, possiedono 21 segni e sono privi di accenti e punteggiatura. All’analisi dei linguisti, la lingua marziana della medium rivelò una base francese con lessico comprendente parole ungheresi e tedesche deformate. Rimproverata per questo da Flournoy, la Smith inventò allora un’altra lingua, detta neo-marziana, parlata dagli abitanti di un pianetino presso Marte e anche una lingua uraniana. Ecco un esempio del neo-marziano:

Vanem sebim mazak tatak sakam:
(nome di animale) nascosto malato triste piange

Hélène Smith divenne in seguito la musa della “scrittura automatica” dei surrealisti, che videro in lei la prova del potere conoscitivo della trance ispirata. Chi vuole praticare la scrittura automatica può ancora oggi farlo con la guida di qualche maestro spirituale, prenotando uno dei tanti weekend new-age in un agriturismo, tra incensi e campane tibetane, a prezzi accessibili ai più abbienti. Aum!

4 commenti:

  1. Adesso mi leggo il tuo post precedente ma quanta roba!
    Io nel mio piccolo faccio come Falkenburg e ogni tanto per gioco scrivo così: "ojji eh una bella jornata, kwasi kome qwando ke c'eh da festejjare". Sarà perché sono ingegnere? O pazzo?

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  2. Injenhere? Oh, mi dispiatche. E kome ti è sutchesso? Perkè patzo? :D

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  3. Ti ho inviato un commento, ma al post più vecchio, forse non lo leggerai...
    Sei sempre il più grande!
    la perfida nera

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  4. Adoro i complimenti transoceanici!

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