mercoledì 30 marzo 2011

Carnevale della Fisica n. 17


Sulle frequenze dei Maghimatici Laboratori Scientifici va da oggi in onda il Carnevale della Fisica n. 17. Presentazione sintetica e ritmo per una carrellata dei successi e delle novità del mese di Marzo 2011. Il tema principale, non vincolante, è Nucleus (che, se non ricordo male, era anche il nome del gruppo jazz-rock di Ian Carr). C'è anche il mio brano su Laputa. Buon ascolto.

mercoledì 16 marzo 2011

Laputa, o gli astronomi tra le nuvole


I turned back and perceived a vast Opaque Body between me and the sun,
moving forwards towards the island; it appeared to be about two Miles high,
and hid the Sun six or seven minutes.

Si sa che Jonathan Swift conosceva molte lingue, tra le quali lo spagnolo, e di certo non è casuale che abbia scelto di chiamare Laputa (la puta, “la puttana”) l’isola volante degli astronomi e dei matematici che il capitano Lemuel Gulliver incontra nella terza delle quattro parti in cui è suddiviso il romanzo. L’autore si diverte con le false etimologie: “Lap, in the old obsolete language, signifies high; and untuh, a governor; from which they say, by corruption, was derived Laputa, from Lapuntuh. But I do not approve of this derivation, which seems to be a little strained.”

Questa avventura, come si vedrà, non è certo una condanna senza appello della scienza e della tecnologia, delle quali l’autore si teneva aggiornato, ma una critica abbastanza feroce di quei filosofi naturali che sembravano voler dimenticare la vita quotidiana e vivere con gli occhi costantemente rivolti verso il cielo, a tal punto che gli abitanti di quello strano posto sono descritti con il capo chino a destra o a sinistra, un occhio rivolto in dentro e l’altro fisso verso lo zenit ("Their heads were all reclined, either to the right, or the left; one of their eyes turned inward, and the other directly up to the zenith"). Oggi quello dello scienziato distratto e un po’ arrogante è un luogo comune radicato, ma si converrà che l’argomento è trattato da Swift con grande maestria.


Laputa volteggia sopra la terra di Balnibarbi, governata dallo stesso re, ed è di forma circolare, con un diametro di 7837 iarde e una superficie di quarantamila ettari. Il fondo dell'isola è un disco liscio e regolare di diamante, dell'altezza di circa duecento iarde. Su di esso vi sono rocce stratificate coperte da un rivestimento di fertile terriccio, profondo dieci o dodici piedi. Il pendio della superficie superiore, dalla circonferenza al centro, fa sì che tutte le piogge e le rugiade che cadono sull'isola siano convogliate in tanti rivoli verso il centro, dove sfociano in quattro larghi bacini. La loro acqua evapora al calore del sole, impedendo che straripino. Quando le eccessive precipitazioni fanno temere un allagamento, il sovrano fa innalzare l'isola al di sopra delle nuvole.

I fianchi di Laputa sono cinti da vari ordini di logge, con scale a dati intervalli per poter passare dall'una all'altra, e che rendono l'isola accessibile dal di sotto. Le comunicazioni con Balnibarbi e con la sua città principale, Lagado, sono assicurate da messaggi calati o innalzati a mezzo di funi. Cibo e bevande vengono issati con carrucole. Dalla loggia più bassa si può praticare la pesca.

Al centro dell'isola si apre una depressione di circa cinquanta iarde di diametro, da cui gli astronomi laputiani scendono in una vasta cavità chiamata Flandona Gagnole, Grotta degli Astronomi. Essa è situata un centinaio di iarde sotto la superficie, e illuminata da venti lampade che ardono senza posa. Riflettendosi sul diamante, la luce rischiara tutta la caverna, che è piena di sestanti, quadranti, astrolabi e altri strumenti astronomici (“The place is stored with great variety of sextants, quadrants, telescopes, astrolabes, and other astronomical instruments”). L'oggetto più curioso di questo posto già di per sé assai strano è un magnete di prodigiose dimensioni, simile per forma a una navetta da tessitore, lungo sei iarde. Questa calamita è sostenuta da un robustissimo asse di diamante che passa per la sua parte mediana, e gira su di esso, così ben librata che la mano di un bambino potrebbe farla ruotare. Nessuna forza potrebbe rimuovere la calamita dal suo sostegno, perché il cilindro e gli zoccoli sono tutt’uno con il blocco di diamante che costituisce il fondo dell'isola.

Per mezzo della calamita l'isola è fatta salire e scendere, ed è mossa da un luogo all'altro al di sopra di Balnibarbi. Infatti, rispetto a quella parte della Terra su cui regna il sovrano di Laputa, la calamita possiede a una delle sue estremità una forza d'attrazione, e di repulsione all'altra. Mettendola in posizione verticale, con l'estremità che attrae rivolta verso terra, l'isola scende; se invece si abbassa l'estremità che respinge, l'isola sale. Quando la calamita è messa in posizione obliqua, obliquo è il movimento dell'isola, perché la forza del magnete agisce in linea parallela alla sua direzione. Quindi, mutando la posizione della calamita ogni volta che è necessario, Laputa è sollevata e abbassata obliquamente, e con questo alternarsi di ascese e discese (la pendenza è appena sensibile) è condotta da una parte all'altra del regno. L'isola non può tuttavia muoversi oltre i confini del territorio sottostante, né sollevarsi oltre l'altezza di quattro miglia, perché la forza magnetica non si estende oltre questo limite, e i minerali che agiscono sulla calamita sotto la terraferma e nella profondità del mare fino a sei leghe dalla costa non sono diffusi in tutto il globo, ma limitati entro i confini dei domini del re.

Dato l'enorme vantaggio fornito da queste circostanze, è assai facile ridurre all'obbedienza tutte le regioni che si trovano nella sfera d'attrazione del magnete. Se una città si ribella o si rifiuta di pagare i tributi, il re può intervenire facendo fluttuare l'isola sulla città e sulle campagne circostanti, privandole così del sole e della pioggia, e tormentandone gli abitanti con carestie e pestilenze. Se invece la rivolta è più grave, i ribelli vengono bersagliati dall'alto con grosse pietre, dalle quali non hanno altra difesa che rintanarsi nelle cantine o nelle grotte mentre i tetti delle loro case vanno in frantumi [Gulliver dà qui la prima notizia di un bombardamento aereo]. In caso estremo, il re può persino far scendere l'isola sulle loro teste, distruggendo così uomini e beni, anche se tale punizione è assai rara, sia per paura di danneggiare il durissimo ma fragile fondo adamantino di Laputa, sia perché gli astronomi possiedono di solito dei patrimoni in terraferma, che non intendono distruggere.

Sono infatti gli astronomi che manovrano la calamita secondo i comandi del re. Essi passano la maggior parte della loro vita a osservare i corpi celesti, con l'aiuto di telescopi assai più perfezionati di quelli europei. Le loro uniche preoccupazioni sono la musica, la matematica e l'astronomia. I laputiani hanno catalogato l'esistenza di diecimila stelle fisse e scoperto due satelliti gemelli di Marte [esattamente 150 anni prima della scoperta di Demos e Phoibos nel 1877]. Le loro osservazioni li mettono in grado di calcolare con esattezza il moto di novantatre comete.

Questa disposizione teorica si associa alla totale mancanza di senso pratico. Nella vita quotidiana gli abitanti di Laputa sono estremamente imbranati: le loro case hanno i muri tutti fuori squadra e i loro abiti sono completamente sformati, perché gli artigiani sono incapaci di comprendere i progetti fatti con l’ausilio di compassi e astrolabi invece che ricorrendo a delle semplici misure fatte con il metro. Essi si rivelano “espertissimi di fronte a un foglio di carta e armati di righe, matite e compassi”, ma incapaci in ogni occasione pratica, “goffi, inetti, impacciati nelle comuni azioni di tutti i giorni”, “torpidi e lenti di fronte ad argomenti che non siano quelli di musica e di matematica”, “pessimi ragionatori”, con “un senso spiccato della contraddizione, salvo quando sono nel giusto, il che capita di rado”. Ciò non li turba: essi si dedicano interamente alla musica, allo studio della natura, al comportamento dei corpi celesti e alla loro influenza sulla Terra. Una delle loro più grandi paure è che il Sole o una delle comete possano avvicinarsi troppo alla terra, bruciandola.

Si vede in questi passi che la satira di Swift è fondata su informazioni senza le quali non sarebbe stata possibile. La maggior parte delle idee che egli porta all’iperbole sono presenti nella letteratura scientifica dei suoi tempi, in particolare su articoli pubblicati dalle Philosophical Transactions della Royal Society durante l’ultimo quarto del XVII secolo e il primo quarto di quello successivo, compreso del materiale pubblicato nel 1726, cioè l’anno in cui compose la parte dei Viaggi di Gulliver dedicata a Laputa. Uno dei bersagli dell’autore irlandese è la fusione di geometria e musica, con l’esclusione di tutto il resto, che era stata teorizzata dal celebre scienziato olandese Christiaan Huygens. Questi aveva scritto nel 1677 che ”non importa come gli abitanti di altri mondi possano essere diversi dall’uomo in altre maniere: essi devono concordare sulla musica e la geometria, perché esse sono dovunque immutabilmente le stesse, e così sarà sempre”. Il riferimento alle comete è chiaramente ispirato dalla Synopsis Astronomia Cometicae di Edmond Halley (1705), nel quale l’astronomo aveva esposto il suo convincimento che gli avvistamenti cometari del 1456, 1531, 1607 e 1682 erano chiaramente relativi alla stessa cometa, predicendone il ritorno per il 1758. Quando ciò accadde Halley era già morto, ma quella cometa prese il suo nome. Le leggi che governano il moto dei due satelliti Marte, “indovinati” da Swift per analogia con quelli che si erano recentemente scoperti attorno ad altri pianeti, sono decisamente kepleriane: “The squares of their periodical times are very near in the same proportion with the cubes of their distance from the centre of Mars; which evidently shows them to be governed by the same law of gravitation that influences the other heavenly bodies”.

La preoccupazione che il Sole potesse avvicinarsi alla terra era assai viva in quel periodo, e lo stesso Newton, nei Principia, aveva scritto che l’equilibrio tra la velocità orbitale della Terra e la sua caduta verso la nostra stella era estremamente precario. Ogni piccola perturbazione avrebbe potuto avere, secondo il grande fisico, conseguenze catastrofiche. Sebbene Newton avesse concluso che ogni rallentamento della Terra nel suo moto di rivoluzione attraverso un qualsiasi mezzo sarebbe stato molto piccolo, altri non erano così sicuri. La paura era legata alle discussioni apparentemente distanti riguardo alla natura della luce. Se la luce fosse stata in qualche modo legata a un moto ondulatorio, essa avrebbe avuto bisogno di un qualche mezzo per giungerci dal Sole. Se invece la luce fosse stata composta da corpuscoli, come Newton li chiamava, non era necessario alcun mezzo. Newton sosteneva la natura corpuscolare e pensava non ci fosse alcun mezzo, Robert Hooke era invece un sostenitore della teoria ondulatoria. Se avesse avuto ragione Hooke, la Terra era immersa in un mezzo che a lungo andare avrebbe rallentato il suo moto facendola infine precipitare nel Sole. La storia ha poi dimostrato che entrambi avevano torto e ragione e in ogni caso la luce non abbisogna di alcun mezzo entro il quale propagarsi.


“Sempre immersi nelle loro elucubrazioni”, i laputiani non parlano e non ascoltano le parole degli altri se non dietro uno stimolo esterno. Per questo motivo tutti i ricchi hanno dei servi, chiamati dimenale o scacciapensieri, dotati di bacchette alla cui estremità è legata una vescica gonfia che contiene dei piselli secchi o dei sassolini che usano per toccare la bocca o le orecchie del padrone quando questi dovrebbe parlare o ascoltare ("It seems the minds of these people are so taken up with intense speculations, that they neither can speak, nor attend to the discourses of others, without being roused by some external taction upon the organs of speech and hearing; for which reason, those persons who are able to afford it always keep a flapper (the original is climenole) in their family, as one of their domestics; nor ever walk abroad, or make visits, without him"). Lo scacciapensieri deve poi badare attentamente al suo signore quando questi passeggia, dandogli leggere bacchettate sugli occhi, perché egli è sempre così preso dalle speculazioni teoriche che corre il pericolo di cadere in qualche precipizio o di batter la testa contro ogni ostacolo.

Molto permalosi, i laputiani non sopportano di essere contraddetti. Non hanno alcuna idea di cosa siano la creatività, la fantasia o l'invenzione, parole che non esistono neppure nella loro lingua. La critica di Swift è stavolta indice del fatto che egli non è, come direbbe Roberto Zanasi, un “Vero Matematico”: la scoperta di un nuovo teorema o una nuova dimostrazione sono invece atti creativi del più alto grado, paragonabili a quelli degli artisti. L'interesse speculativo degli ottusi matematici di Laputa si ritrova in tutto, anche nel cibo. Gli ingredienti non hanno nulla di eccezionale, ma ogni vivanda viene servita in forme matematiche o musicali. La spalla di montone viene generalmente tagliata a forma di triangolo equilatero, il manzo a forma di rombo e lo sformato a forma di cicloide (“there was a shoulder of mutton cut into an equilateral triangle, a piece of beef into a rhomboides, and a pudding into a cycloid”). Le anatre arrosto vengono sistemate in modo da sembrare un violino, le salsicce sembrano flauti, il petto di vitello un'arpa. Il pane viene tagliato in coni, cilindri, parallelepipedi e altre figure geometriche.

In una società completamente dominata dai maschi, le donne di Laputa, di grande “vivacità”, disprezzano i mariti e vanno matte per i forestieri, di cui c'è grande abbondanza, venendo essi dal continente sottostante per servizi di corte o per affari. A poco valgono i complimenti geometrici dei loro mariti e fidanzati: “Their ideas are perpetually conversant in lines and figures. If they would, for example, praise the beauty of a woman, or any other animal, they describe it by rhombs, circles, parallelograms, ellipses, and other geometrical terms, or by words of art drawn from music, needless here to repeat”. Spesso le laputiane fanno richiesta di lasciare l’isola per visitare la terra sottostante, ma difficilmente vengono accontentate perché esse quasi mai ritornano volontariamente. I viaggiatori saranno stupiti da ciò che può fare una laputiana col suo amante in presenza del marito, quando questi è fornito di carta, penna e calamaio e privo dell'assistenza di uno scacciapensieri (“they act with too much ease and security; for the husband is always so rapt in speculation, that the mistress and lover may proceed to the greatest familiarities before his face, if he be but provided with paper and implements, and without his flapper at his side”).

(Jonathan Swift, Trauels Into Several Remote Nations Of The World. In Four Parts. By Lemuel Gulliver, First a Surgeon, and then a Captain of several Ships, Londra, 1726)

domenica 13 marzo 2011

Harry's Bar Ballad



È sempre imbarazzante per un tedesco chiedere
zwei dry martini
potrebbe chiedere
zwei martini dry
ma se chiede
zwei martini dry
gli danno i martini senza il gin.
È costretto a berseli?
No
perché lui e sua moglie
vogliono zwei dry martini
e NON zwei martini dry.
Potrebbe chiedere
zwei mahl dry martini
che tradotto in italiano diventa
due volte tre martini.
Allora gliene danno sei.
Sei un bevitore di dry martini?
Fanno diciotto.
Sei, sei dry martini?
Sei più sei dodici
sei per sei trentasei?
Non voglio né dodici né trentasei martini
voglio del gin perché sono G.N.
Giulia Niccolai.
Des dry martini! Neuf!
Pas des vieux bien sûr madame...
Anche un americano che chiede
nine dry martini
corre il rischio di non riceverne neanche uno
se il barman lo prende per un tedesco.
Dix dix dry martini!
Non je dis pas je dis pas je dis pas!

Giulia Niccolai, settembre 1977

Da Giulia Niccolai, Harry's Bar e altre poesie 1969 – 1980, Milano, Feltrinelli, 1981

domenica 6 marzo 2011

giovedì 3 marzo 2011

Seconda stella a destra: questo è il cammino

Purtroppo i tempi di un lettore non sono gli stessi del mercato editoriale e solo in questi giorni, con mesi di ritardo sulla sua uscita, ho letto Seconda stella a destra di Amedeo Balbi, anche se in parte già conoscevo le sue narrazioni perché sono un frequentatore del blog Keplero e ho seguito le Vite semiserie di astronomi illustri sin dalla loro nascita sulle pagine elettroniche, attraverso la loro prima raccolta in un e–book autoprodotto, fino al meritato approdo editoriale presso De Agostini nello scorso settembre.

Nel frattempo le dieci brevi biografie sono maturate e cresciute di numero, arrivando a 29 e perdendo, ma forse è solo una mia impressione dovuta a un dispetto della memoria, un po’ della rugosità iniziale e diventando più scorrevoli e rotonde. Preciso subito che a me piacevano tantissimo già alla prima stesura, perché in un certo qual modo mi hanno ricordato, come scrissi in un commento, le Vite brevi di uomini eminenti di John Aubrey, strano capolavoro di letteratura biografica del seicento inglese, per il gusto di raccontare una vita anche attraverso l’aneddoto, come se si ascoltasse la conversazione brillante e sfrontata di qualcuno che parla di una terza persona “così come l’ha conosciuta”, non omettendo anche i particolari imbarazzanti. Il libro ha conservato questa leggerezza della scrittura, questa abilità di parlare di concetti scientifici raccontando delle vite reali, lontana parsec (mi si concederà questa unità di misura in tema con l’argomento) dalle noiose e agiografiche note di certa divulgazione tutta a tesa a spiegare un uomo attraverso le sue opere e non viceversa. Le grandi conquiste dell’astronomia a partire dall’antichità fino a oggi emergono così come un percorso di individui immersi nella società del loro tempo, con i loro pregi e i loro difetti, con il loro ingegno e i loro errori talvolta ostinati.

Seduto di fronte a noi, come ricorda Alessandro Bonino nella gustosa postfazione, magari con una birra in mano, Amedeo Balbi possiede il dono affabulatorio del linguaggio concettualmente rigoroso e allo stesso tempo semplice, con riferimenti alla realtà odierna, “con un occhio alla cultura pop, e (sporadiche) divagazioni personali”, come recita l’esergo del suo blog. Secondo il mio parere Seconda stella a destra, anche per gli “spiegoni” della sua seconda parte, che ne conservano inalterato lo stile, è un’ottima opera di narrazione della scienza, fatta per essere letta, ripresa, manipolata, discussa anche a scuola. Questo è un libro di scienza che non fa paura.

mercoledì 2 marzo 2011

Racconti di scuola (1) – Condoglianze



Questa è la cronaca, scritta da mia moglie Anna, di un fatto realmente accaduto una ventina d’anni fa nella scuola dove insegnamo. Naturalmente il nome del protagonista passivo di questa storia è stato cambiato.


“E’ morto il papà di Giulio Passerini!”
La voce, prima dubbiosa e sussurrata, era corsa per tutta la scuola fino a diventare un annuncio ufficiale in bocca all’insegnante decana.
“Vi assicuro che è lui!” affermò con la voce resa stridula dall’eccitazione. E per rompere quel muro d’incredulità e prevenire le inevitabili ed inutili domande delle colleghe, si armò degli occhiali e sventolò sotto i loro occhi lo striminzito giornale di cronaca locale, additando una piccola fotografia in bianco e nero sulla pagina dei necrologi.
“Vedete, è lui!” esclamò soddisfatta, quasi avesse scoperto l’oro nelle acque del Lambro.
Le colleghe, pur stentando a ravvisare in quei lineamenti le fattezze di un padre che raramente si era fatto vedere e ancor meno quelle del figlio dal viso smunto, sempre nascosto dietro un gran paio d’occhiali, si arresero all’evidenza del nome stampato sulla carta e assentirono. Subito si diedero un gran da fare a stendere un accorato e pietoso telegramma a nome della scuola intera, dal Preside fino alle bidelle, anche loro straziate dal dolore che colpiva il caro Giulio.

Tutta la I C, la classe del Passerini, si recò ai funerali e non fu cosa facile far partire in orario una trentina di persone sul piccolo bus di linea che portava alla frazione in cui viveva il compagno.
Scesero in silenzio, abbagliati dall’ingannevole luce di un primo pomeriggio ancora invernale, e si avviarono in fila ordinata verso la chiesetta circondata dai campi. In testa camminava l’insegnante di sostegno, tenendo per mano due suoi allievi, due creature fragili e spaesate che non sapevano se piangere per il disagio di trovarsi fra gente sconosciuta o ridere per la felicità imprevista per quella scampagnata; sapevano solo che avrebbero dovuto dare a Giulio il mazzo di fiori che avevano portato fin lì.
Il brusio che di solito accompagna i funerali svaporò in un attimo, non appena si vide arrivare quel piccolo corteo inaspettato.
“Condoglianze… Condoglianze…” mormoravano le insegnanti. Condoglianze, ripetevano imbarazzati gli allievi che usavano quel termine per la prima volta.

Soffocato dai baci e dagli abbracci, dal polline dei fiori e dalla gioia per tutte quelle manifestazioni d’affetto cui non era abituato, Giulio piangeva e non sapeva dire altro che grazie. Tra i compagni di classe era tutto un tirar su di nasi e un luccichio di moccio, asciugato di nascosto col dorso della mano. Quando ormai tutti i presenti stavano singhiozzando, si fece avanti un uomo talmente somigliante al Passerini che sembrava di veder lui da grande.
“Grazie, grazie! – continuava a ripetere l’uomo, stringendo le mani dell’insegnante decana. - Quanto bene dovete volere a mio figlio, al mio Giulio… Venire fin qui, disturbarvi tutti così! Anche il mio povero fratello – era malato da tempo, sapete? - anche lui sarebbe contento di vedervi qui”. I parenti in lutto assentivano e quasi parevano felici.
Nessuno della scuola osò fiatare, né in quel momento né mai. Certo è che tutta la famiglia Passerini non scordò mai quel fatto: ancora oggi, incontrando le vecchie insegnanti, Giulio e suo padre sorridono con riconoscenza.