Su William Ford Stevenson la rete è avara di informazioni. Sappiamo che nacque nel 1811 e morì il 3 febbraio 1852. Fu Fellow della Royal Society (ma il sito della veneranda istituzione si limita a fornire le date di nascita e di morte) e si occupò di chimica, elettricità e magnetismo. Fu autore di un pamphlet, di cui è ancora facile trovare qualche esemplare dagli antiquari e che è stato ristampato più volte, anche recentemente, che consegna ai posteri, in un testo di una cinquantina di pagine, uno degli esempi più eclatanti del pensiero di retroguardia che si oppose con forza ai progressi della chimica moderna. Il volumetto Most Important Errors in Chemistry, Electricity, and Magnetism, Pointed Out and Refuted: And the Phenomena of Electricity, and the Polarity of the Magnetic Needle Accounted for and Explained, by a Fellow of the Royal Society, che uscì nel 1846 a Londra presso James Ridgway, tipografo ed editore a Piccadilly, fa appello a tutto lo scetticismo possibile sull’oggettività degli esperimenti intrapresi dai chimici dell’epoca (in particolare Humphry Davy, con il quale sembra quasi trasparire una questione personale), con un non trascurabile ricorso all’autorità delle Scritture. L’autore si propone di confutare quelli che ritiene i più comuni e perniciosi errori che affliggono la nuova chimica, e cioè ritenere che l’acqua possa essere decomposta, che l’idrogeno sia un elemento chimico e che esistono due stati di elettricità e magnetismo, argomentando sulla “vera modalità di azione” di questi “fluidi”.
Un’occhiata alle due pagine finali di Addenda che chiudono il testo induce a classificare lo Stevenson come un folle letterario. I foux litteraires, secondo la definizione data da Raymond Queneau, sono quelle persone che pubblicano, di solito a loro spese, vaneggiamenti scientifici, storici o religiosi che non rimandano a dottrine anteriori e che non hanno eco alcuna nella società in cui vivono. Tecnicamente immuni da patologie certificate, i folli letterari non hanno né maestri né discepoli. Che, tecnicamente, Stevenson sia un folle letterario è egli stesso a darcene ampia prova:
«La Teoria dei Fenomeni dei Fluidi Elettrici e Magnetici, e le loro modalità d’azione, si suggerì da sola nella mente dell’Autore durante una malattia a Aix-les-bains in Savoia e fu poi da lui comunicata alla Royal Society in un articolo trasmesso al suo eccellente Segretario, Dr. Roget, nell’agosto 1834 e in seguito al Dr. Faraday nel gennaio 1838. L’argomento fu riferito dalla Società a un comitato, ma non si fece alcuna relazione.
Nel dicembre 1834 la stessa Teoria fu comunicata dall’autore all’Istituto Francese in una memoria presentata dal Signor Arago, quando l’argomento fu trasmesso ai Signori Ampére e Bequerel, ma essi non fecero alcuna relazione.
(…) All’inizio del 1844, dopo aver visto nel Philosophical Magazine di Sir David Brewster del giugno 1843 la notizia dell’esperimento di Faraday, l’Autore indirizzò un’altra memoria alla Royal Society, spiegando il fenomeno e mostrando come esso derivasse e fosse in accordo con la sua Teoria. La stessa comunicazione fu inviata nel marzo 1844 allo stesso Philosophical Magazine, ma non fu mai pubblicata, almeno a quanto consta all’Autore.
La Teoria della Non-Decomposizione dell’Acqua, e che l’Idrogeno sia composto di Elettricità e Acqua, fu comunicata alla Royal Society in una memoria presentata dal continente dal Dr. Roget nell’aprile 1840, e che fu riferita dal Consiglio al Comitato di Chimica che non vi fece tuttavia alcuna relazione. Un articolo simile fu inviato al Marchese di Northampton nel maggio 1840.
Nel dicembre 1841, l’autore indirizzò un’altra memoria sullo stesso soggetto alla Royal Society, accompagnata dalle citazioni di Cavendish, Priestley e Watt, sul fatto che l’Idrogeno è un corpo composto, che fu anch’essa riferita al Comitato di Chimica, ma senza alcun risultato».
William Ford Stevenson è insistente, non si perde d’animo e non ha alcun timore di scomodare alcuni tra i più importanti scienziati del tempo (Arago, Faraday, Ampére, Bequerel) convinto com’è della sua teoria, rafforzato nelle sue convinzioni dal fatto che essa è il frutto di una illuminazione, in quanto “suggested itself to his mind”. Egli è inoltre un loro pari, essendo, come si è visto, anch’egli membro della Royal Society, onore riservato a pochi. E qui chi scrive queste note si chiede come ciò possa essere accaduto: errore, raccomandazione, dolo? La stima che merita la Royal Society induce a pensare che Stevenson, forse un promettente giovane scienziato, a un certo punto della sua vita possa essere stato vittima di un episodio traumatico o di una grave malattia (“an illness”) che ne hanno minato l’equilibrio.
La più importante “vittima” degli strali di Ford Stevenson è il grande chimico, poeta ed inventore Humphry Davy (1178-1829), considerato nel Regno Unito come un eroe nazionale. Egli aveva scoperto e isolato i metalli alcalini, fatto esperimenti di elettrochimica, isolato alcuni gas, scoperto, smentendo Lavoisier, che non tutti gli acidi contengono ossigeno, ma sempre l’idrogeno, che è rimpiazzabile interamente o parzialmente da un metallo per dare origine a un sale. Pioniere dell’elettrolisi, aveva isolato il cloro dall’acido muriatico e infine inventato la lampada di sicurezza per i minatori. In Elements of Chemical Philosophy (1811) aveva affrontato la questione allora spinosissima della nomenclatura di elementi e composti, accogliendo le idee di Lavoisier e dei francesi:
«Molti filosofi, in particolare l’illustre Bergman, avvertirono che era necessario un miglioramento della nomenclatura chimica e, nel 1787, i Signori Lavoisier, Morveau, Berthollet e Fourcroy presentarono al mondo un piano per un quasi completo cambiamento nella denominazione delle sostanze chimiche, basato sull’idea di chiamare i corpi semplici con nomi che richiamassero le loro qualità più evidenti; e di denominare i corpi composti dagli elementi che li componevano».
Davy, nell’introduzione al volume, dava conto anche dei primi esperimenti di elettrochimica:
«Quando si stabilì la teoria antiflogistica, l’elettricità aveva poca o nessuna relazione con la chimica. I grandi risultati di Franklin, riguardo alla causa dei fulmini, avevano portato molti filosofi a ipotizzare che certi cambiamenti chimici nell’atmosfera potevano essere messi in relazione con fenomeni elettrici; - e scariche elettriche erano state usate da Cavendish, Priestley e Vanmarum per decomporre e incendiare corpi; ma fu solo con l’era della meravigliosa scoperta di Volta, nel 1800, di un nuovo apparato elettrico, che ogni grande progresso nell’investigazione chimica fu realizzato tramite combinazioni elettriche».
Contro questo monumento nazionale, senza alcun preliminare, così parte l’incipit del primo capitolo del trattatello di Ford Stevenson:
«Nonostante l’elogio fatto a Sir Humphry Davy dal suo ammirevole biografo, il Dr. Paris, non ci sembra, con esclusione [dell’invenzione] della lampada di sicurezza, di essere molto indebitati con i suoi lavori come è generalmente considerato, né che la chimica sia stata da lui lasciata in uno stato soddisfacente. Si dice che egli abbia rovesciato la teoria della combustione di Lavoisier, e che abbia provato che l’ossigeno non è il principio dell’acidità; ma che cosa ha messo al loro posto? Invece di luce e calore come proprietà dell’ossigeno, che questa sostanza (secondo il chimico francese) condivide o sviluppa nel momento della sua unione con un corpo combustibile, Davy ci dice che la luce e il calore sono meri effetti del movimento o, come lui la chiama, di intensa azione chimica e, con riferimento alla causa dell’acidità, la lascia totalmente inspiegata. Si dice anche che egli abbia arricchito la scienza con alcuni metalli evanescenti che si pensa siano le basi delle terre alcaline, ma che con ogni probabilità si riveleranno solamente come corpi composti, come ha sostenuto il signor Curadon in una memoria letta all’Istituto Francese.
(…) Ora, di che cosa sono fatte queste sostanze elementari, e che cosa conoscono i chimici dei corpi elementari? Se siamo portati a pensare che è una delle eccellenze della Saggezza Divina giungere ai risultati più incredibili con il più semplice dei mezzi, ne seguirebbe naturalmente che per fare qualsiasi progresso degno di nota in chimica si dovrebbe adottare un simile metodo. Invece, ora siamo fino a cinquanta corpi elementari; così, senza giudizio, abbiamo moltiplicato i quattro elementi semplici giunti a noi dall’antichità.
(…) Prima di esaminare gli esperimenti relativi alla “decomposizione dell’acqua”, consideriamo, per qualche istante, su quale autorità, indipendentemente dalla chimica, questo fluido può essere considerato un corpo elementare: non voglio minimamente dire che l’autorità scritturale, o qualsiasi altra autorità, porti a una conclusione in contrasto con l’evidenza diretta, ma solo che se un forte dubbio debba essere elevato sul soggetto, si consenta al peso leggero del Vecchio Testamento, delle parole degli antichi filosofi e della dottrina delle probabilità di essere posto sulla bilancia della questione e indurre i chimici ad adottare quell’idea sul soggetto fino a che prova contraria non sia mostrata da esperimenti inconcepibili (…)
Troviamo allora, nel primo capitolo del Genesi, che “Dio creò il cielo e la terra” e nel seguito che “lo spirito di Dio aleggiò sopra la superficie delle acque”. E poi, che “Dio disse, siano le Acque sotto il cielo riunite in un unico posto, e che appaia la parte asciutta, E dio chiamò terra la parte asciutta”. Da questi passaggi sembrerebbe (…) che l’acqua deve essere creata in precedenza, e non al tempo in cui si parla di cielo e di terra. Pare anche che all’inizio le acque coprissero interamente la terra”. Così troviamo in un altro passaggio (…) queste parole: “E Dio disse: Che ci sia un Firmamento tra le acque e che divida le acque dalle acque”. Ora, è una circostanza curiosa che la parola ebraica che è tradotta con “Firmamento” significhi “Espansione”, da cui si deve concludere che la terra era un nucleo in fusione, circondato dal fluido acquatico dal quale si liberò parzialmente per espansione, facendo in modo che apparissero le terre emerse. (…)
(…) Consideriamo infine questa questione sul terreno della probabilità. Ho già osservato che la più alta concezione che possiamo avere del Potere Divino è quella che esso possa produrre i risultati più splendidi a partire dai mezzi più semplici; e ogni qual volta siamo in grado di comprendere uno qualsiasi dei processi naturali, ci troviamo invariabilmente in questo caso. È probabile, allora, che l’acqua del nostro globo, ora tre volte più estesa che quella della terra, e che, al momento della creazione, doveva essere ancora più vasta, volatilizzò a formare l’atmosfera. È allora probabile, mi chiedo, che un corpo così importante per l’esistenza e l’agio degli abitanti della terra, e così abbondantemente elargitoci, possa essere un composto di sostanze gassose, le cui quantità necessarie per formare un tale corpo eccedono di molto l’estensione dell’immaginazione umana, per quanto essa sia elastica abbastanza da adottare i calcoli del Signor Arago, che la velocità della luce è 77 mila leghe al secondo di tempo? »
Qui i vaneggiamenti scritturali e paraprobabilistici dell’autore, che più volte adotta il rasoio di Occam per contrastare l’ipotesi che l’acqua sia un composto, sfiorano un altro vero e grande scienziato della prima metà dell’Ottocento: il francese François Arago (1786–1853), matematico, fisico, astronomo, divulgatore scientifico e uomo politico, che ideò l’esperimento per misurare sperimentalmente la velocità della luce realizzato da Fizeau e Foucault nel 1850, quando egli era già divenuto cieco.
Finalmente (ma con i folli, soprattutto con i verbosi folli letterari, bisogna aver pazienza) sembra che William Ford Stevenson si decida ad entrare nel merito della questione sulla natura dell’acqua, o almeno che ci provi. La sua prima obiezione è infatti di natura processuale, quasi a invocare una perizia di parte:
«Voglio solo premettere che l’investigazione di un importante processo, e la ripetizione di tale processo da parte di un avvocato della dottrina, è un affare molto differente dallo scrutinio e la ripetizione dello stesso esperimento da parte di un oppositore, e ciò anche se non esiste il più remoto dubbio sulla buona fede dell’operatore. Non posso sottolineare questa osservazione meglio che citando le idee di Sir Humphry Davy su questo punto, nel quinto dialogo del suo Last Days of a Philosopher. “Ripetendo spesso – egli dice – un processo o un’osservazione, gli errori connessi con operazioni approssimative od osservazioni imperfette sono eliminati, e, purché l’assistente non abbia proprie idee preconcette o sia ignorante dello scopo del suo superiore nel fare l’esperimento, la sua mera e semplice relazione dei fatti sarà spesso la miglior base per un opinione.
(…) Credo che queste osservazioni siano necessarie, in quanto le riflessioni di Davy si applicano fortemente al processo di decomposizione dell’acqua, sul quale egli non poteva assolutamente, perciò, che implicitamente contare. Tanto più che esiste una oggettiva difficoltà nel condurre gli esperimenti, come prestò si vedrà.
L’esperimento consiste nel mettere acqua pura in un recipiente di vetro ermeticamente chiuso, e con l’introduzione del fluido galvanico attraverso l’applicazione della pila di Volta, decomporre l’acqua in questione, in modo tale che alla fine del processo non si trovi più acqua nel recipiente, ma, al suo posto, i gas idrogeno e ossigeno, nella proporzione di due parti del primo per una del secondo, secondo Davy; ma, secondo Cavendish, solo una parte di idrogeno e cinque o sei di ossigeno.
Si dice che ciò sia stato realizzato prima da Cavendish, e in seguito da Lavoisier, Wollaston, Davy, ecc., e tutti, si osservi, glorificati per la scoperta; e, in verità, gli ultimi due, in comune con molti altri celebrati personaggi, considerano che Cavendish abbia aggiunto raggi addizionali allo splendore che Newton aveva già sparso su questo nostro paese molto fortunato».
In realtà, ma è difficile che Ford Williamson potesse saperlo, la prima elettrolisi dell’acqua non è merito di alcuno degli scienziati citati. Essa fu realizzata, ancor prima dell’invenzione della pila, dagli olandesi Deiman e van Troostwijk, i quali nel 1789 utilizzarono una macchina elettrostatica per produrre elettricità che fu inviata a degli elettrodi d’oro posti in una bottiglia di Leida contenente acqua. Nell’anno 1800, dopo l’invenzione di Volta, la prima elettrolisi fu realizzata qualche settimana più tardi da William Nicholson e Anthony Carlisle. Henry Cavendish (1731–1810) invece aveva per primo isolato l’idrogeno e ne aveva riconosciuto la natura di elemento nel 1766. Ma continuiamo a seguire il nostro autore:
«Per rendere decisivo il processo in questione sono necessarie due cose, cioè che al suo inizio l’acqua deve essere completamente priva di ossigeno [disciolto] e che, durante l’operazione, l’ossigeno non entri nel recipiente. Ora, io ritengo che apparirà chiaro come nessuno degli esperimenti intrapresi sull’acqua sia esente da tali obiezioni; in questo caso essi sono privi di valore come evidenze che una qualsiasi decomposizione abbia avuto luogo.
Per mostrare l’estrema difficoltà, anzi, la quasi impossibilità di ottenere acqua pura, e che, qualora sia parzialmente ottenuta, di impedire l’ingresso di ossigeno (entrando esso o con il fluido galvanico o in qualche maniera ancora sconosciuta), citerò il seguente esperimento, preso dalla Bakerian Lecture tenuta da Davy il 26 novembre 1806.
Il Signor Sylvester ha asserito che, se due porzioni di acqua erano elettrizzate, lontane dal contatto di sostanze contenenti materia alcalina e acida, nonostante ciò si producevano acidi e alcali. “Alcune persone – dice il Dr. Paris – pensarono che i sali contenuti nei fluidi dei cavi della pila voltaica potevano, attraverso qualche via inaspettata, trovare la strada per entrare nell’acqua sotto esame. Altri, che essi erano generati dall’unione del fluido elettrico con l’acqua, o con uno o entrambi i suoi elementi”. L’ansioso desiderio di Davy era, tuttavia, di ripetere e smentire i risultati dell’esperimento di Sylvester. A questo scopo, e per evitare qualsiasi impurità nell’acqua, Davy utilizzò [come elettrodi] due piccole tazze d’agata che erano state bollite per alcune ore in acqua distillata e costruì un pezzo di amianto bianchissimo e trasparente (una sostanza proposta per primo dal Dr. Wollaston), purificato nello stesso modo, per collegare assieme i recipienti.
Così si osserva, dice Davy, che ogni apparente sorgente d’errore era stata rimossa; ma, tuttavia, dopo che la più pura acqua distillata era stata esposta nelle coppe d’agata alla corrente voltaica per 48 ore, l’acqua nella coppa positiva dava indicazioni di acido muriatico e quella nella coppa negativa di soda. Allora, o l’ossigeno era già presente nell’acqua e formava l’acido, o doveva essere risultato dalla mistura acida nel cavo, o da materia ossidata trasmessa dai poli della batteria voltaica. L’esperimento fu pertanto ripetuto da Davy una seconda, una terza e una quarta volta, avendo accuratamente posto le coppe d’agata in recipienti di vetro, fuori dal contatto., dice Davy, con qualsiasi aria circolante, e tutti materiali erano stati ripetutamente lavati con acqua distillata, e nessuna loro parte era stata in contatto con il fluido tramite le dita, ma si ottenne sempre lo stesso risultato».
Davy, nel racconto di William Ford Stevenson, riprovò sostituendo le coppe d’agata con conetti d’oro zecchino, ottenendo una presenza ancor maggiore di acido al polo positivo, mentre gli alcali al polo negativo rimanevano stabili. L’acido, secondo Davy, era acido nitrico. Davy era ancora insoddisfatto.
«Ora, si noti in modo particolare, avete qui un chimico che usa tutte le sue energie per rovesciare una teoria che egli pensa possa opporsi alla sua, mentre, in tutti gli esperimenti di decomposizione dell’acqua, avete tutti i chimici che si adoperano per confermare una teoria con la quale essi ritengono di acquisire due elementi addizionali per arricchire i magazzini della scienza chimica. Ciò dimostra con forza l’acredine delle osservazioni di Davy, sulla necessità che l’operatore non abbia idee preconcette sul risultato, che sia esente da qualsiasi pregiudizio o desiderio riguardo al soggetto».
Dopo altri esperimenti ancora più rigorosi, sempre con lo stesso risultato, Davy arriva alla conclusione che l’ossigeno e l’idrogeno nascenti dell’acqua possano combinarsi con l’aria comune, che è costantemente dissolta in quel fluido. La conclusione di Ford Stevenson è che, al contrario, in nessuno degli esperimenti intrapresi da Cavendish in poi l’acqua potesse essere pura e che, in realtà, mai nessuno ha ottenuto la decomposizione dell’acqua.
In conclusione della parte dedicata alla natura dell’acqua, Ford Stevenson affonda il dito nella piaga aperta e sanguinante di Davy utilizzando la sua stessa riflessione che il processo di dissoluzione dell’acqua non può avvenire senza l’applicazione di elettricità e che esso è comunque lungo e difficile. In realtà Davy ha ragione, perché l’elettrolisi dell’acqua in condizioni standard è una reazione sfavorita in termini termodinamici: i cationi H3O+ si accumulano catodo e gli anioni OH- si accumulano all'anodo: l'acqua vicino all'anodo è acida mentre l'acqua vicino al catodo è basica. Queste cariche elettriche si repellono ed impediscono il passaggio di corrente nel circuito finché non sono diffuse lontano dall'elettrodo, il che è un processo lento. Questa è la ragione per cui l'acqua pura è un cattivo conduttore di elettricità e l'elettrolisi dell'acqua pura è un processo molto lento, quasi "impossibile" senza l'aggiunta di un elettrolita nella soluzione.
«È evidente che Davy, nell’ardore della sua ricerca, e l’esultanza di una vittoria immaginaria (perché nessuna persona imparziale può ritenere che essa sia stata conseguita), mai una volta ha riflettuto che stava fornendo egli stesso la testimonianza della fallacia degli esperimenti nei quali si è pensato che l’acqua fosse decomposta. Egli parla infatti , come si è visto, che ci dovrebbero essere ossigeno e idrogeno nascenti, dimenticando totalmente che, secondo Cavendish, Lavoisier, Wollaston, ed egli stesso, tutta l’acqua in ciascuno di questi esperimenti avrebbe dovuto trasfomarsi in aria sottile». (…)
E perché, chiede, c’è disaccordo tra i chimici sulle proporzioni reciproche dell’ossigeno e dell’idrogeno prodotti. Uno a due? Uno a sei? Uno a otto?
«E’ allora eccessivo affermare che, quando un processo chimico è lasciato in uno stato come questo, si deve dargli scarsissimo credito?»
wow! che splendido lavorone, Pop!!
RispondiEliminacomplimenti!
Giulia