"Dei miei compagni d’infanzia una figura ancora mi sfugge, una figura che ho cercato sempre di acciuffare tra le tante così dolcemente arrendevoli che si sono impigliate nelle mie pagine. È Giuseppe, il piccolo mostro, figlio di Rosa Mangialupini. Chi me lo avrebbe detto che nella forma dei lupini, ingrandita convenientemente, io avrei visto un giorno realizzato il sogno di Gauss, il sogno di una geometria non euclidea, una geometria barocca come mi piace chiamarla, una geometria che ha orrore dell’infinito? Ma proprio l’altro ieri, in una delle mie visite settimanali al professor Fantappiè, titolare di Analisi al Seminario di Alta Matematica, ho fatto la conoscenza di un simulacro molto più complesso della forma dei lupini, la superficie romana di Steiner. È una superficie chiusa del quarto ordine a variabile complessa. È una curiosa forma, quella che io ho visto, un tubero grande quanto un sasso, con tre ombelichi. Il matematico tedesco Steiner la trovò al Pincio meditando, una mattina del 1912, al Pincio, proprio seduto su una di quelle panchine dove io, ragazzo, andavo a leggere I canti di Maldoror. Anche i geometri hanno lasciato quell’aggettivo davanti alla forma, l’hanno chiamata romana. T. S. Eliot, nel canto di Simeone, evoca i giacinti romani: “I giacinti romani fioriscono nei vasi...” ha tradotto Montale. E chi sa perché nella mia mente ho sposato le due immagini: i giacinti e questo strano frutto matematico, un frutto degli orti mediterranei, una specie di pomodoro singolare, un pomodoro - per intenderci - con tre uncini. Pensate a quei pasticci che fanno oggi i frutticoltori, quando piantano un seme dentro l’altro o tre semi, legati in uno, quando sposano il giglio o la rosa; pensate al cedro, con spicchi interni di limone e di arancia, della bizzarria di cui scrisse Redi al Principe Leopoldo. Ebbene questa forma fa pensare ai fratelli e alle sorelle siamesi. Il professor Conforti, il professor Severi, il professor Fantappiè, tre luminari – Severi alto e ricciuto, Fantappiè tondo e piccolo, Conforti magro e mezzano – che erano vicini a me, a guardare quella forma, sembravano commossi, commossi tanto quanto Linneo allor che seppe della Lacerta faraglionis, la lucertola azzurra che vive soltanto sui Faraglioni di Capri, nel minimo habitat che si conosca sulla terra. “Questa superficie” io dicevo “è un frutto romano, come il carciofo”. Ma Severi, Conforti e Fantappiè ne enumeravano invece tutte le mirifiche proprietà: quattro cerchi generatori, tre poli tripli, un’area calcolabile per integrali razionali, e poi non so che altre diavolerie. A me pareva di sentire Linneo parlare dei carciofi: carciopholus picassianus, carciopholus guttusii, carciopholus pipernensis aut romanus. (...) Ma la superficie romana di Steiner più che dell’humus del Testaccio e degli orti gianicolesi, più che del fertile ferro del suburbio sembrava lavorata dall’aria e dalla luce di Roma, come un bel ciottolo di travertino: era una spugna di calcare con tre buchi, tre acciaccature, tre cavità. Una forma con tre gobbe, una borrominata, ecco tutto. Immaginate una sfera elastica, pressata dalle punte di tre coni. Doveva avere speciali virtù acustiche, doveva avere un udito finissimo, perché davvero era tutta orecchi, sembrava una sonda acustica calata nello spazio. Anche i gobbi hanno i padiglioni auricolari assai ricettivi. Sono lì continuamente all’erta dietro le tende, dietro le porte delle favorite dei Re. Questi mostri maledetti non perdevano una sillaba che uscisse fuori dalla bocca delle concubine regali, non uno sbadiglio, non uno starnuto. E così il mio amico d’infanzia Giuseppe Mangialupini. Andava a riferire tutti i nostri discorsi all’Arciprete". (...)
Leonardo Sinisgalli, Carciopholus Romanus. In Furor Mathematicus, Milano, Mondadori, 1950
Leonardo Sinisgalli (1908-1981), poeta, prosatore, saggista nonché ingegnere, tecnico, pubblicitario, fondatore e direttore di riviste come il Pirelli o Civiltà delle Macchine, con studi matematici di prim'ordine è stato uno degli intellettuali più brillanti del secolo scorso, uno dei pochi in Italia, con Gadda e Calvino, che ha considerato con lo stesso interesse la cultura umanistica e quella scientifica, assegnando loro pari dignità o non considerandole separate. Prima di laurearsi in ingegneria industriale, nel 1931, aveva frequentato la facoltà di matematica a Roma, vivendo il fervore intellettuale di un ambiente animato da alcuni tra i più grandi matematici italiani, come egli stesso ricorda nel Carciopholus.
Il racconto è incentrato su una superficie algebrica nota come romana di Steiner, scoperta dal matematico svizzero Jakob Steiner (1796 – 1863) durante un soggiorno a Roma, nel 1836 (e non nel 1912 come indicato erroneamente da Sinisgalli). Si tratta di una quartica con infiniti punti singolari il cui insieme forma tre rette doppie che si intersecano in un punto, punto triplo per la superficie. Il modello di tale superficie, che assomiglia a un tetraedro con le facce schiacciate al centro fino ad incontrarsi, doveva essere presente presso l’Istituto, come usava allora a scopo didattico. La curiosa forma, e il nome che la caratterizza, hanno ispirato a Sinisgalli l’accostamento con l’umile lupino, poi con il pomodoro (immagino un “cuore di bue” degenere), infine con un tipico e celebrato prodotto degli orti laziali, il carciofo romano, quello tondeggiante, protagonista della cucina della capitale (che personalmente ho conosciuto grazie a un matematico).
Del grande fascino operato dai modelli delle superfici algebriche sulle avanguardie artistiche del ‘900 mi sono occupato in un precedente articolo. Negli anni ’30 del secolo scorso due diversi movimenti artistici, i surrealisti e i costruttivisti, scoprirono più o meno contemporaneamente il valore estetico dei modelli delle superfici cubiche e quartiche, tuttavia il rapporto tra i modelli delle superfici algebriche e il mondo dell’arte fu temporaneo e superficiale. Non ci fu mai un dialogo tra i matematici che avevano costruito quei modelli e gli artisti che li usarono come fonte d’ispirazione. Il mondo dell’arte li considerò come oggetti dei quali i costruttori non avevano saputo cogliere la qualità estetica. Leonardo Sinisgalli, forte della sua competenza matematica, non solo ne colse il valore estetico, ma giunse a proporli per l’ispirazione di “architetti, ingegneri e disegnatori industriali”. Così scriveva nel saggio Geometria barocca, pubblicato sul Pirelli del giugno 1950, lo stesso anno del Furor Mathematicus:
Quei piccoli corpi, poco più grandi di un pugno chiuso o di una pigna, erano stati costruiti col metodo cartesiano punto per punto partendo da un’equazione di x, y, z, e attribuendo a x e y una doppia serie di valori. È un metodo ormai familiare ai tecnici costruttori di velivoli o di motori, un metodo rappresentativo che trasforma una espressione algebrica in una forma – linea o superficie – piana o sghemba, continua o discontinua. La figura che risulta da queste operazioni rende visibili tutte le singolarità algebriche dell’equazione. Chi non sa che un’equazione di primo grado in x e in y è l’immagine di una retta e che i coefficienti della x e della y (il loro rapporto anzi) determinano l’inclinazione della retta?
Come ho detto, dunque, un geometra legge nelle equazioni quello che noi leggiamo sulle figure. Un geometra sa che una differenza di scrittura si tramuta in una caratterizzazione somatica della forma. (…)
Quale utilizzazione può fare la nostra cultura di queste forme superiori? Io mi rivolgo specialmente agli architetti e ai disegnatori di macchine e di oggetti utili. Mi pare che la spinta verso un plasticismo matematico di contenuto quasi trascendentale potrebbe giovare contro la brutalità di uno standard incontrollato e casuale. Tanto più che la ricchezza di questi prototipi è veramente inesauribile e inesauribile è l’impiego che ne fa la natura dai semi ai frutti, dalle uova ai sassi, alle conchiglie.
Quando Einstein parla di spazi curvi quadridimensionali (e che purtroppo, da un lato, restano per noi invisibili), sottintende da parte nostra una partecipazione che non potrà mai manifestarsi se prima non sia stata sollecitata un’attitudine in noi a beneficiare di questi messaggi e di questi stimoli delle nuove geometrie barocche.
Sulla stessa rivista, esattamente un anno dopo, avrebbe scritto parole che è difficile non sottoscrivere in pieno:
La Scienza e la Tecnica ci offrono ogni giorno nuovi ideogrammi, nuovi simboli, ai quali non possiamo rimanere estranei o indifferenti, senza il rischio di una mummificazione o di una fossilizzazione totale della nostra coscienza e della nostra vita. (...) Scienza e Poesia non possono camminare su strade divergenti. I Poeti non devono aver sospetto di contaminazione. Lucrezio,
Dante e Goethe attinsero abbondantemente alla cultura scientifica e filosofica dei loro tempi senza intorbidare la loro vena. Piero della Francesca, Leonardo e Dürer, Cardano e Della Porta e Galilei hanno sempre beneficiato di una simbiosi fruttuosissima tra la logica e la fantasia
Che io sappia al Pincio ci si va (o almeno ci si andava) a far dell'altro, non a leggere I canti di Maldoror ;)
RispondiElimina"Per tutti questi motivi, quando un lettore si stupisce del
RispondiEliminafatto che io chimico abbia scelto la via dello scrivere, mi
sento autorizzato a rispondergli che scrivo proprio perché
sono un chimico: il mio vecchio mestiere si è largamente
trasfuso nel nuovo.""Per tutti questi motivi, quando un lettore si stupisce del
fatto che io chimico abbia scelto la via dello scrivere, mi
sento autorizzato a rispondergli che scrivo proprio perché
sono un chimico: il mio vecchio mestiere si è largamente
trasfuso nel nuovo." (Ex chimico - da AM - Primo Levi)