La crisi di creatività del vostro blogger e la maledizione della pagina bianca rese efficacemente dal bellissimo quadro “Gli spasmi della creatività” del pittore russo Leonid Pasternak (1862-1945), amico e illustratore di Tolstoj e padre dello scrittore Boris. Alla fine degli anni ’20 aveva fatto un bel ritratto di Einstein e un disegno a carboncino che lo ritrae mentre suona il violino.
domenica 29 settembre 2013
martedì 24 settembre 2013
I numeri nella Piccola cosmogonia portatile
Pubblicata nel 1950, la Petite cosmogonie portative di Raymond Queneau fu un ambizioso tentativo di risvegliare il genere da lungo tempo assopito della cosmogonia in versi, introducendo le più recenti scoperte scientifiche del tempo e impiegando uno stile ludico e surreale caratterizzato da numerosi giochi di parole, calembour, argot, bisticci verbali e fonetici.
Come dichiara il titolo, l’opera è una cosmogonia, cioè un racconto delle origini dell’universo e della sua storia, dalle origini secondo le teorie cosmogoniche più recenti, fino all'invenzione dei computer. L’ossimoro è evidente: il nome cosmogonia implica un intento totalizzante che è contraddetto dagli aggettivi piccola e portatile. Si tratta in effetti di un’ironica presa di distanze, in quanto il poeta si mostra piuttosto scettico sulla sua impresa: nell'epoca della specializzazione delle ricerche e della frammentazione dei saperi, ogni velleità di spiegazione universale deve essere interpretata in modo parodistico e beffardo. Inoltre, per quanto l’opera non sia breve per gli standard contemporanei, i suoi 1388 versi non raggiungono la lunghezza di un singolo canto del suo grande precursore, il De Rerum Natura di Lucrezio. L’opera del poeta latino è presente in tutto il poema di Queneau, che la indica costantemente come fonte d’ispirazione, sia in forma esplicita, sia in forma implicita e irriverente, come nella parodia che fa dell’invocazione a Venere, dove l’incipit lucreziano “Aeneadum genetrix, hominum divumque voluptas” diventa “Aimable banditrix des hommes volupté”. Ma Lucrezio non è il solo riferimento, in quanto Queneau dichiarava di rifarsi a quella corrente minoritaria e tuttavia antichissima di poesia scientifica che, partendo dai presocratici come Senofane ed Empedocle, ha lasciato traccia di sé in tutte le letterature europee, seppure con alterna fortuna.
La struttura scelta da Queneau è quella dell’hexameron, poema cosmogonico di antica tradizione suddiviso in sei canti, ciascuno dei quali preceduto da una presentazione sinottica in prosa, con l’indice delle materie e l’indicazione dei versi corrispondenti, secondo lo schema adottato dai commentatori di Lucrezio.
In questa struttura antica è tuttavia inserito un testo di evidente, persino impetuosa, modernità, che infrange continuamente le regole della pronuncia, della grammatica e del lessico, per non parlare del decoro poetico (molte metafore sono volutamente volgari). I versi alessandrini di Queneau utilizzano le più recenti scoperte, le teorie scientifiche e le invenzioni dell’epoca in cui furono scritti, come ad esempio la tettonica a zolle o l’idea di Georges Lemaître dell’atomo primordiale (che anticipò la teoria del big-bang).
La combinazione di licenze linguistiche e di riferimenti a largo spettro al sapere scientifico moderno rendono la Cosmogonie un’opera piuttosto ostica, quasi certamente la meno letta tra quelle di Queneau, di sicuro la meno tradotta. La maggior parte dei lettori che la affrontano sono ben presto colpiti dalla scoraggiante abbondanza di parole strane e inusitate. Alcune sono pure invenzioni, altre sono termini scientifici specialistici, altre sono prese dal gergo della strada, con l’intento manifesto di accostare lessici diversi in un divertito, e solo a tratti divertente, guazzabuglio linguistico. Ma il rovescio della medaglia è che finalmente la terminologia scientifica trova diritto di cittadinanza nella poesia. Allontanandosi risolutamente dai canoni del lirismo, Queneau si impegna a estendere il campo lessicale della sua opera a termini che in precedenza non erano mai stati utilizzati in un simile contesto.
Un tale obiettivo non ha alcuna finalità didattica, come Queneau fa dire a un certo punto a Mercurio-Ermete: per il poeta, che ringrazia, “le parole hanno un sapore volatile”, la violetta e l’osmosi hanno lo stessa profondità, anima (âme) e volframio (wolfram) sono suoni che fanno combutta, “sofferente e solforoso sono solo due aggettivi”. Si tratta di un’opera poetica dove l’autore si prende la libertà dell’accostamento, dell’allitterazione, del neologismo secondo la sua ispirazione, dove il gioco di parole, il calembour, può rivelare legami e vicinanze inaspettati. Una dichiarazione che sembra esprimere una retorica di tipo surrealista, un’apologia della “scrittura automatica”, tutt'altro che scientifica. Ma il flusso di coscienza del poeta, a guardare bene, non è affatto l’abbandono di ogni forma di controllo razionale sulla scrittura. Al contrario, egli pone molta cura a dotare il testo di un sistema di lettura particolare ed esclusivo, quasi iniziatico. Un jeu savant, dunque, in cui il lettore è invitato a decifrare metafore e crittografie per scoprire informazioni di una correttezza scientifica incontestabile, nascoste sotto una sorta di deformante lente linguistica.
La narrazione, se di essa si può parlare in un’opera così congegnata, inizia con la nascita della Terra e segue all'incirca la scala dei tempi geologici, anche se numerosi sono i salti in avanti o all'indietro: l’anacronismo nel poema è speculare alle discontinuità del processo di evoluzione della materia e della vita. François Naudin ha fatto notare come il numero totale di versi dedicato alle diverse ere geologiche (Archeano, Paleozoico, ecc.) corrisponde esattamente alla loro durata, così l’uomo compare direttamente in pochi, a significare la presa di distanza di Queneau da ogni forma di antropocentrismo e la sua conoscenza di quanto poco la storia umana sia cronologicamente rilevante rispetto alla durata dell’universo. Non c’è progressione lineare, né qualsiasi forma di quieto finalismo: nella Petite cosmogonie portative lo sviluppo dall'esplosione iniziale dell’atomo primordiale attraverso le successive organizzazioni dell’inorganico e dell’organico è dominato, nella forma, nello stile e nei contenuti, dal caos e dal caso. L’uomo compare solo alla fine di un lungo processo naturale e culturale, e la sua asserita discendenza dalla scimmia che compare nella prima edizione (1950) sarà emendata nella seconda (1969), a ulteriore dimostrazione dell’attenzione di Queneau alla correttezza scientifica:
[La singe sans effort le singe devint l’homme (1950)]
La singe (ou son cousin) le singe devint l’homme (1969)
lequel un peu plus tard désagrégea l’atome.
che Italo Calvino così tradusse nel 1971:
La scimmia (o suo cugino) la scimmia si fa uomo
il quale un po’ più tardi disgregherà l’atomo.
Lo spazio ridotto di un articolo per un blog non consente un’analisi completa dell’opera, sulla quale avrò comunque l’opportunità di ritornare. In questa occasione mi limito alla trattazione di un solo argomento, che spero riesca a dare un’idea dell’umore dell’intero poema. Si tratta della nascita dei numeri, che sono una presenza quasi costante in Queneau, matematico competente per diletto e amico di matematici importanti. I numeri e le operazioni compaiono a metà del primo canto, ai versi 99-129, generati dall'esplosione dell’atomo primitivo e dall'espandersi della nebulosa primordiale. E' evidente in questa scelta la posizione platonista dell'autore: la matematica esiste indipendentemente dall'uomo. Nella postfazione all'edizione italiana, uscita presso Einaudi nel 1982 (nella traduzione di Sergio Solmi), Italo Calvino ha scritto che
“Nell'atomo primitivo sono contenuti già i numeri (le cifre viste come ami che pescano gli zeri), quei numeri che si dispiegheranno nel calcolo dell’età della terra. L’esplosione dei numeri, dopo l’esplosione dei vulcani (o prima?) diventa un inno trionfale in cui la matematica e la biologia si sovrappongono, dando forma a tutte le operazioni dell’aritmetica e alle molteplicità del mondo”.
In questo registro biologico, Calvino cita lo stesso Queneau, “Il 4 [è] paragonato a uno spermatozoo che va a unirsi (accostarsi) all’ovulo aritmoide (lo zero)”.
Fornisco qui una mia traduzione letterale, e senza alcuna velleità artistica, dei versi indicati: ho preferito non utilizzare la pur meritoria versione di Sergio Solmi, resa in endecasillabi liberi, “sul registro illustre della tradizione poetica italiana” (sempre Calvino), perché non sono pienamente convinto dell’efficacia di questa scelta per rendere l’atmosfera e il “contenuto teorico” dell’opera originale. Lo stesso Calvino, in una lettera al traduttore Franco Quadri nel 1965 aveva ipotizzato per questo motivo una traduzione letterale e, quando nel 1971 intraprese la traduzione della prima parte del sesto canto, scelse un metro assai più simile all’alessandrino francese di quello che avrebbe poi utilizzato Solmi. Ciò perché l’endecasillabo è troppo “corto” e costringe il traduttore a spezzare ogni verso originale, che corrisponde anche a una unità di contenuto (per questo in francese non sono presenti segni di punteggiatura). Ne soffre soprattutto la cadenza, e, spesso, la resa del contenuto. Sergio Capello (che ha scritto un lungo saggio sugli anni parigini di Calvino) ha sostenuto che “La frase è ritmata dal verso e dal suono delle parole. Chiaramente si tratta di poesia scritta per essere letta a voce alta”. Una metrica più fedele all'originale sarebbe senza dubbio più consona “al carattere declamatorio della scrittura poetica di Queneau”. Per la traduzione mi sono avvalso del testo della prima versione, quello utilizzato da Solmi nell’edizione pubblicata da Einaudi.
(…) Una volta le cifre, ami di zeri
infinitamente diversi, lentamente bollivano nell'atomo,
indefinitamente nude, indefinitamente insulse,
ma il loro conto era buono, ed eccole valorose
a cavalcare l’esplosione. Oh gioventù, oh gioventù,
quando il grafo era un bel solco tra le tue chiappe,
nebulosa ostinata, e il tuo scoppio erompeva
da un punto primevo della possibilità dei mondi,
tutti ancora implumi, tutti ancora fanciulli,
e i numeri si azzuffavano nella loro solitudine;
ed eccoli vincitori a cavallo dell’ampiezza
del bubbone forato del germe che sgorga
dalla crosta sconnessa, e dal fuoco magistrale
della piaga spurgata e del seme verticale,
ed eccoli coglioni nella loro soddisfazione
unirsi babbei nelle loro addizioni
e ritirarsi stupidi nelle loro sottrazioni
e riprodursi nelle moltiplicazioni
e ben sprofondarsi in ogni divisione
e ingrandirsi molto nell'elevamento a potenza
e gingillarsi in semplici logaritmi
e ben compiacersi in cumuli di algoritmi.
Gioventù, oh gioventù, oh quando l’uno corteggiava il due
senza sapere che il suo fottere ne avrebbe estratto il terzo,
quando i segni dell’algebra addolcivano i loro giochi,
quando le uguaglianze riposavano nel fegato
allora analcolico dell’atomo adiposo
e che l’informe quattro, piccolo spermatozoo,
tentava di accostare l’ovulo aritmoide,
quando il pus degli errori non gocciolava
dalla prova del nove o dall'orgoglio contabile.
mercoledì 11 settembre 2013
Il modo corretto di scrivere 4
4 o4 ? Matematica o caso?
Depertmento de Matemática Aplicada a los Recursos Natureles
Universidad Politécnica de Madrid
Il lettore può non essere informato sulla relazione tra le proprietà di divisibilità dei numeri e le proprietà topologiche delle cifre usate per rappresentarli. Si utilizzi qui la parola numero sia per il concetto che per la cifra. Dato un numero n, un divisore primo proprio di n è un numero primo, diverso da n, che divide n in parti uguali. Si noti il seguente:
TEOREMA. Si consideri l’insieme di numeri S = {1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9}. Per a, b ∈ S sono equivalenti le seguenti proposizioni:
i.) a e b hanno lo stesso numero di divisori primi propri (contando le molteplicità);
ii.) a e b hanno lo stesso tipo di omotopia;
iii) a e b tagliano un foglio nello stesso numero di pezzi se si scrivono con un punteruolo.
COROLLARIO. Un numero in S (diverso da 1) è primo se, e solo se, possiede un tipo di omotopia banale e, in modo equivalente, non taglia il foglio in pezzi separati.
Rispondiamo ora alla prima domanda nel nostro titolo:
COROLLARIO. Il simbolo corretto per il numero quattro è 4 e non 4 .
Sebbene l’equivalenza tra (ii) e (iii) nel teorema dipende dalla dualità di Alexander-Pontryagin, la presente nota, in spirito, appartiene alla cosiddetta Teoria della Forma introdotta da K. Borsuk. Il lettore interessato può fare riferimento a: K. Borsuk, Theory of Shape, Monografie Matematyczne Tom 59, Polish Scientific Publishers, Warsaw, 1975.
(NOTA DEL REDATTORE: Per coerenza topologica, cioè di forma, se i numeri primi più piccoli di 10 non hanno buchi, i numeri composti li devono avere. Il 4 non può fare eccezione, pertanto deve essere scritto come 4, con il buco).
lunedì 9 settembre 2013
Matematica applicata e filosofia
In questi giorni MaddMaths!, su Facebook, e Maurizio Codogno, con un articolo su Il Post, hanno parlato delle polemiche suscitate dall'articolo Is mathematics an effective way to describe the world? dell’australiano Derek Abbott, docente di ingegneria elettrotecnica ed elettronica ad Adelaide. Abbott sostiene che la matematica dà l’illusione di funzionare nella descrizione del mondo perché è un prodotto dell’immaginazione umana, che adattiamo alla realtà fisica in modo da comprenderla, focalizzando la nostra attenzione sui suoi successi e dimenticando i suoi fallimenti. La matematica sarebbe insomma una costruzione umana, che ci sembra funzioni nella descrizione del mondo fisico perché è un riflesso della nostra mente, ma in realtà non esiste al di fuori di noi, e non sempre è efficace. Si tratta di una posizione fortemente anti-realistica, peraltro non nuova, e, a quanto pare, non sufficientemente argomentata dall'autore.
La discussione sulla natura della matematica, che avevo trattato di sfuggita tempo fa parlando delle idee in proposito di Jorge Luis Borges, mi ha ricordato un articolo di Paul Wilson, che è professore associato di matematica all'Università di Canterbury, in Nuova Zelanda. Wilson, che si occupa di matematica applicata al campo biologico, medico, industriale e al mondo naturale, ha pubblicato nel 2011 su Plus Magazine, la rivista elettronica di divulgazione della matematica applicata dell’Università inglese di Cambridge, una interessante riflessione, The philosophy of applied mathematics, che non solo cerca di rispondere alla domanda “Perché possiamo usare la matematica per descrivere il mondo?”, ma ne pone un’altra, che si fa meno di frequente: “Perché è possibile la matematica applicata?” Le idee di Wilson mi sono sembrate meritevoli di essere sintetizzate e parzialmente tradotte (il lettore converrà che contrapporre un neozelandese a un australiano è una vera perfidia).
Prima di ogni altra considerazione è bene chiarire che cosa si intende per matematica applicata. Wilson prende a prestito una definizione data da un importante matematico applicato, Timothy Pedley, professore a Cambridge di meccanica dei fluidi, secondo il quale “Applicare la matematica significa usare una tecnica matematica per ottenere una risposta a una domanda posta da fuori la matematica”. Si tratta di una definizione deliberatamente lasca, proprio perché la domanda sul perché la matematica sia così efficace è LA grande domanda nella filosofia della scienza e della matematica, in quanto riguarda la loro natura.
La lunga storia della matematica ha generalmente sottovalutato la differenza tra matematica pura e applicata. Negli ultimi due secoli abbiamo assistito a una quasi esclusiva attenzione verso la filosofia della matematica pura. In particolare, si è data importanza ai cosiddetti fondamenti della matematica, che ha visto la formazione di quattro schieramenti diversi:
1) Formalisti, come David Hilbert, che hanno considerato la matematica come fondata su una combinazione di teoria degli insiemi e logica, e che vedono nel processo di fare matematica nient’altro che una manipolazione di simboli nel rispetto di certe regole stabilite;
2) Logicisti, che considerano la matematica come un’estensione della logica. Russel e Whitehead, ad esempio, scrissero centinaia di pagine per provare (logicamente) che uno più uno fa due;
3) Intuizionisti, come Brouwer, del quale si è detto che “non credeva che stesse piovendo oppure no fino a che non aveva aperto la finestra”. La battuta stigmatizza una delle idee centrali dell’intuizionismo, cioè il principio del terzo escluso. La loro regola più comune afferma che una proposizione (come “sta piovendo”) è vera oppure falsa: non ci sono altre possibilità eccetto queste due. Non solo: gli intuizionisti ritengono che se non si è provata la proposizione in modo definitivo oppure non si è costruito un controesempio, essa non possiede un oggettivo valore di verità. Inoltre, essi pongono uno stretto limite alla nozione di infinito che accettano. Essi sostengono che la matematica sia totalmente un prodotto della mente umana, che essi pensano sia capace solo di cogliere l’infinito come estensione di un processo algoritmico del tipo un-due-tre. Di conseguenza, essi ammettono come prova solo le operazioni numerabili, cioè le operazioni che possono essere espresse utilizzando i numeri naturali.
4) Ci sono infine i Platonisti, o realisti, i membri del più antico dei quattro partiti, che credono nella esistenza reale dei numeri e degli altri oggetti della matematica. Per un platonista, come Kurt Gödel, la matematica esiste indipendentemente dalla mente umana, magari senza bisogno dell’universo fisico, eppure esiste un legame misterioso tra il mondo mentale degli uomini e il regno platonico della matematica.
È ancora oggetto di dibattito se una qualsiasi di queste quattro alternative possa servire come fondamento della matematica. Sembrerebbe che queste acute discussioni non abbiano niente a che fare con la questione dell’applicabilità, ma qualcuno ha sostenuto che questa incertezza sui fondamenti abbia influenzato la pratica dell’applicazione della matematica. In The loss of certainty, Morris Kline ha scritto nel 1980 che “Le crisi e i conflitti su quanto sensata sia la matematica hanno anche scoraggiato l’applicazione della metodologia matematica in molte aree della nostra cultura come la filosofia, le scienze politiche, l’etica e l’estetica [...] L’era della Ragione è finita”. Grazie al cielo, la matematica sta ora cominciando ad essere applicata in questi campi, ma abbiamo imparato una lezione importante: riguardo alla scelta di applicare la matematica esiste una dimensione sociologica che è sensibile alle discussioni metamatematiche (e filosofiche) sulla sua natura.
Il passo successivo, per il metamatematico o il filosofo che si interessa dell’applicabilità della matematica, sarebbe di chiedersi che cosa ognuna delle quattro visioni fondamentali abbia da dire su tale questione. Analisi di questo aspetto sono state intraprese da un certo numero di matematici e scienziati, come Roger Penrose nel libro La strada che porta alla realtà o Paul Davies nel suo La mente di Dio.
Paul Wilson preferisce un approccio diverso, rovesciando il passo “logico” successivo. Egli si chiede “Che cosa ci dice l’applicabilità della matematica riguardo ai suoi fondamenti?” Nel porre questa domanda egli dà per acquisito che non esiste alcun serio disaccordo sul fatto che la matematica sia applicabile: l’intero edificio della scienza e della tecnologia moderne, che dipendono considerevolmente dalla matematizzazione della natura, sono testimoni di ciò (nonostante le provocazioni dell’ingegner Abbott).
Allora, che cosa può dire un formalista per spiegare l’applicabilità della matematica? Se la matematica non è nient’altro che mescolare simboli matematici nel più praticato e duraturo gioco al mondo, perché dovrebbe descrivere la realtà? Che cosa privilegia il gioco della matematica nel descrivere il mondo rispetto a qualsiasi altro gioco? Ricordiamo, il formalista deve rispondere all’interno della visione del mondo formalista, quindi non sono consentiti richiami platonici a un significato più profondo della matematica o a una connessione profonda con il mondo fisico. Per motivi analoghi dovrebbero essere in difficoltà i logicisti, poiché, se dicono “l’universo è un’incarnazione della logica”, essi stanno tacitamente ammettendo l’esistenza di un regno platonico della logica che si incarna in qualche modo. Ciò trasforma il logicismo in una semplice branca del platonismo, che, come si vedrà, ha già tanti problemi per conto suo. Dunque, sia per i formalisti sia per i logicisti non platonisti, l’esistenza stessa della matematica applicata pone problemi insolubili alla loro posizione.
La terza via proposta, l’intuizionismo, non ha mai ottenuto molto favore tra i matematici, poco attirati dall’idea che una proposizione non sia né vera né falsa fino a che non sia stata costruita una prova in una maniera o nell’altra. Tuttavia, l’idea centrale di una natura numerabile dei processi dell’universo sembra essere dedotta dalla realtà. Il mondo fisico, almeno per quanto di esso può essere percepito dagli uomini, sembra consistere di oggetti che possono essere contati e ogni infinito che possiamo raggiungere è il risultato dell’estensione di un processo di conteggio. Da questo punto di vista, forse l’intuizionismo deriva dalla realtà. Sembra che l’intuizionismo offra una risposta non ambigua alla domanda sull’applicabilità della matematica: è applicabile perché è scaturita dal mondo. Tuttavia questa risposta può essere invalidata da un esame più ravvicinato. Per incominciare, nella moderna fisica matematica, ad esempio nella teoria quantistica, ci sono molte cose che richiedono il concetto di infinito oltre il numerabile. Questo aspetto può perciò rimanere per sempre al di là del potere esplicativo della matematica intuizionista. Ma, soprattutto, l’intuizionismo non ha risposte per la domanda del perché la matematica non intuizionista sia applicabile. Potrebbe anche darsi che un teorema matematico non intuizionista sia applicabile al mondo naturale solo quando esiste anche una prova intuizionista dello stesso teorema, ma ciò non è stato stabilito. Inoltre, sebbene la matematica intuizionista possa sembrare derivata dal mondo reale, non è sicuro che gli oggetti della mente umana debbano rappresentare fedelmente gli oggetti dell’universo fisico. Le rappresentazioni mentali non sono state selezionate durante l’evoluzione per la loro accuratezza, ma per il vantaggio che fornirono ai nostri antenati nelle loro lotte per la sopravvivenza e l’accoppiamento.
E che dire dell’ultima corrente di pensiero, il platonismo? I suoi sostenitori ritengono che il mondo fisico sia l’ombra imperfetta di un regno di oggetti matematici (e forse anche di concetti come verità e bellezza). Il mondo fisico in qualche modo emerge da questo regno platonico, è in esso radicato, pertanto le relazioni tra gli oggetti nel nostro mondo riflettono quelle nel regno platonico. Il fatto che il mondo sia così ben descritto dalla matematica cessa allora di essere un mistero e diventa un assioma.
Sorgono tuttavia problemi ancor maggiori: perché il mondo fisico dovrebbe essere radicato in quello matematico? Come emergerebbe il mondo mentale da quello fisico? Perché il mondo mentale dovrebbe avere una qualsivoglia connessione con quello platonico? E in quale maniera una qualsiasi di queste domande dovrebbe essere diversa da quelle legate alle antiche mitologie sull’emergere del mondo dal corpo di Dei o Titani uccisi, o da un uovo primordiale galleggiante sulle acque, o sull’idea veterotestamentaria che siamo “creati a immagine di Dio”?
In realtà, l’idea che viviamo in un universo divino e, attraverso lo studio della matematica e della scienza, partecipiamo allo studio della mente divina è stata probabilmente la motivazione di maggior durata per il pensiero razionale, da Pitagora attraverso Newton fino a molti scienziati odierni. “Dio”, in questo senso, sarebbe ciò che è più vicino alla pienezza del regno platonico. In questo modo, molte delle difficoltà sopra indicate che deve affrontare un platonista sono identiche a quelle con le quali si confrontano i teologi del mondo giudeo-cristiano, e di altri sistemi religiosi o spirituali.
Galileo pensava che “il libro dell’universo” fosse scritto nel “linguaggio” della matematica: un’affermazione platonica che sollecita una risposta, se mai ce n’è stata una. Anche i matematici non credenti oggi riferiscono regolarmente sentimenti di stupore e meraviglia riguardo alle loro esplorazioni in ciò che dà la sensazione di un regno platonico: essi non inventano la loro matematica, ma la scoprono. Paul Davies, in La mente di Dio, va oltre e chiarisce la duplice natura della sua motivazione. Non solo un matematico potrebbe essere condotto a considerare la matematica un tentativo di scrutare la mente di Dio (un dio non personale, come quello di Spinoza o Einstein), ma la nostra capacità di accedere a questa “chiave dell’universo” suggerisce qualche scopo o significato alla nostra esistenza.
In effetti, l’ipotesi che la struttura matematica e la natura fisica dell’universo e il nostro approccio mentale nello studiare entrambe siano in qualche maniera parte di una mente, essere e corpo di un “Dio” è una risposta assai più ordinata di quelle viste in precedenza alle domande sui fondamenti della matematica e sulla sua applicabilità. Tale ipotesi, sebbene sia raramente definita in tale maniera, è stata data in una vasta gamma di sistemi religiosi, culturali, e scientifici negli ultimi millenni. Non è tuttavia naturale, per un filosofo o scienziato abbracciare appassionatamente tale visione, perché essa tende a incoraggiare la conservazione del mistero piuttosto che la rimozione del velo che lo occulta.
Roger Penrose ha illustrato molto lucidamente un po’ di questo mistero con un diagramma dei tre mondi. Essi sono i mondi platonico, fisico e mentale, che egli li rappresenta come sfere disposte ai vertici di un triangolo. Un cono collega così il mondo platonico a quello fisico: nella sua forma più generale, il diagramma mostra la sottile estremità del cono che penetra nel mondo platonico e la base più larga che penetra un po’ in quello fisico. Questa disposizione serve a mostrare che (almeno una parte de) il mondo fisico è incorporato in quello platonico. Un cono simile collega il mondo fisico a quello mentale: (almeno una parte de) il mondo mentale è incorporato in quello fisico. Infine, è più misteriosamente, il triangolo è completato da un cono che va dal mondo mentale a quello platonico: (almeno una parte de) il mondo platonico è incorporato in quello mentale. Ciascun cono, ciascun mondo, resta un mistero.
Sembra che si sia finiti nel vicolo cieco piuttosto deprimente dove nessuna delle quattro alternative esaminate è in grado di rispondere senza ambiguità alla domanda sulla sua applicabilità. Paul Wilson conclude tuttavia il suo saggio con la sensazione che ciò costituisca una gran bella notizia. Egli ritiene che l’analisi delle implicazioni della domanda principale, cioè “perché esiste la matematica applicata?”, costituisca un progetto futuro che potrebbe produrre una approfondita comprensione della natura della matematica, dell’universo fisico e del nostro posto tra i due mondi.
Attendiamo insomma una nuova via, sperando che sostituisca le quattro precedenti e non vada ad aggiungersi ad esse.
giovedì 5 settembre 2013
Alberto Cavaliere oltre la chimica
Alberto Cavaliere (1897-1967): sì, proprio lui, l’autore della Chimica in versi (per la quale rimando anche a uno storico articolo di Dario Bressanini), scrisse centinaia di poesie sui più svariati argomenti, nelle quali l'elegante e arguto umorismo, unito a una buona capacità tecnica, rende accessibile la materia trattata mediante versi ligi alla tradizione, talora deliberatamente ottocenteschi, e lontanissimi dagli sperimentalismi.
Presento una piccolissima selezione delle sua poliedrica opera poetica: tre componimenti. Il primo è di grande attualità, dopo la nascita deprecabile di un movimento politico che ha fatto del localismo e del razzismo uno dei suoi punti di forza. Nel secondo il protagonista è il desiderio di fuga dalla banalità delle persone, dal loro vuoto chiacchiericcio, in cerca di una solitudine che è semplicemente il bisogno di ritrovare un senso. L’ultima poesia, che definirei a’livella di un chimico, è una spassosa analisi chimica dei componenti del corpo umano, che si conclude con la constatazione che da morti siamo tutti uguali e la gloria mondana è pura illusione.
Rataplaplan!!!!!!
C' è chi ignora che molti "terron"
rinomanza, splendore e fortune
hanno dato alla Patria comune
nella lingua che Dante parlò:
Bernardino Telesio, Tommaso
Campanella, il Divino Torquato;
e quel Vico, dal mondo acclamato,
e quel Bruno che il rogo affrontò.
Tra i moderni fu Verga terrone
fu terrone anche lui, Pirandello.
E D'Annunzio? Terrone anche quello!
Diaz e Orlando? Terroni anche lor!
Tutta gente che ad un grande cervello
spesso univa un grandissimo cuor.
Senza dir di tant' altri intelletti,
come il sommo filosofo Croce,
la cui grande magnifica voce,
sol da poco è venuta a mancar.
E i terroni patrioti famosi?
(..)
Molti intanto non voglion capire
che sian nati a Palermo o a Vercelli,
gl' italiani son tutti fratelli,
assiepati fra l'Alpi ed il mar.
Perché dunque insultare il terrone?
Perché dunque dobbiamo dolerci
se, in mancanza di industrie e commerci,
egli ha vinto un concorso statal,
o se in cerca di un povero pane
è qui giunto dal suolo natal?
Poi si sposa con vostra cugina,
mette al mondo sei figli gagliardi,
e son questi che, nuovi lombardi,
del terrone daranno a papà.
Dunque, via quelle scritte dai muri,
d' un sapore grottesco e stantio!!
Zitti là!! Son terrone pur io,
rataplan, rataplan, rataplà!!!!!!
Monotonia
Sono anni ed anni che puntualmente,
ligio a un dovere che mi s'impose,
incontro sempre la stessa gente,
ascolto sempre le stesse cose;
che, prigioniero della mia vita,
sogno la fuga come un forzato
e senza tregua cerco un'uscita,
con l'ossessione d'un forsennato.
Sono ormai stanco di queste vie,
di queste piazze, di queste chiese,
di queste vecchie malinconie
che son la gloria del mio paese:
di questo sole così fulgente,
di queste mura così famose
e, soprattutto, di questa gente,
che dice sempre le stesse cose.
Oh!, dileguarsi, fuggire altrove,
senza una mèta, per non tornare;
andare in cerca di cose nuove;
dimenticato, dimenticare:
in una terra qualunque sia,
però, soltanto, molto remota,
di cui non sappia la geografia,
di cui la lingua mi resti ignota;
dove sia freddo, dove ci piova
però, soltanto, ch'io non capisca
se mi si chieda : «come si trova?»
o se all'inferno mi si spedisca.
Poter girare per ore intere
senza un incontro: felicità!
Poter uscire tutte le sere,
né domandarsi dove si andrà.
Non avvertire questo tiranno
che chiaman tempo, vecchio barbogio,
che ti sta addosso come un malanno,
ma fare a meno dell'orologio,
ed ingannare l'ore distratte,
e viver, solo, perché... chi sa !...
perché c'è un cuore, dentro, che batte
e che, un bel giorno si fermerà.
E allora scender nel nero suolo,
senza mendaci cerimoniali,
senza aver dietro tutto uno stuolo
di dilettanti di funerali,
senza che ancóra, tenacemente,
dietro un ingombro vano di rose,
debba seguirti la stessa gente,
che dice sempre le stesse cose...
Il corpo umano
Ecco un'analisi
non troppo amena,
che ha fatto un màcabro
dottore a Jena:
preso un cadavere,
l'ha decomposto,
con molto scrupolo
stimando il costo.
L'ossa forniscono
tanta calcina
dal far l'intonaco
d'una cucina,
e si ricupera
tanta grafite
da far al massimo
cento matite
I grassi abbondano
‒ strano contrasto! ‒
pure in chi è solito
saltare il pasto.
Da tutto il fosforo,
piedi compresi,
al più ci scappano
mille svedesi,
mentre distillasi
dal corpo vile
d'acqua…potabile
tutto un barile.
Il ferro è in minime
tracce, di modo
che non ci fabbrichi
neppure un chiodo:
fatto stranissimo
perché da vivi
di chiodi, in genere,
non siamo privi.
Ma ciò che supera
le previsioni
più catastrofiche
sono i bottoni;
ne ottieni un numero
fenomenale,
sì che un legittimo
dubbio t'assale:
fece l'analisi
quell'alchimista
sopra lo scheletro
d'un giornalista?
Volendo vendere
questi elementi
ai poco modici
prezzi correnti,
ci si ricavano
venti lirette:
alcune scatole
di sigarette!
Che cifra misera!
Solo conforto,
se si considera
che l'uomo morto,
oscuro o celebre,
ricco o pezzente,
sciocco o filosofo,
vale ugualmente.
Ed è ridicolo,
in fondo in fondo,
che, mentre vivono
su questo mondo,
sia dian cert'arie
tanti mortali,
se poi gli scheletri
son tutti uguali!
domenica 1 settembre 2013
Nunes, tra ortodromie e lossodromie
Facciamo finta che la Terra sia una sfera perfetta. Prendiamo due punti A e B sulla sua superficie e consideriamo il piano che passa per quei due punti e il centro C della sfera. Il piano interseca la sfera terrestre individuando su di essa una circonferenza (che è un circolo massimo, poiché il suo raggio corrisponde al raggio terrestre). Chiamiamo questa circonferenza ortodromia, dal greco ορθο-δρομέω "che corre dritto". L’arco di circonferenza tra A e B, detto arco di ortodromia, è il cammino più breve tra quei due punti sulla superficie sferica. L’unico modo di congiungere A e B in maniera ancora più diretta sarebbe quello di scavare un tunnel tra i due punti che segua la corda sottesa all'arco di ortodromia, ma questo caso venne contemplato solo da Mariastella Gelmini in una storica nota, per cui non ce ne occuperemo.
Immaginiamo adesso di disegnare sulla sfera terrestre il reticolato geografico, con il suo sistema di meridiani e paralleli. I meridiani si incontrano ai poli e, poiché sono tutti circoli massimi, il cammino tra due punti qualsiasi lungo un meridiano, verso Nord o verso Sud, è sempre lungo una ortodromia, sempre il più breve. Tra i paralleli, invece, l’unico circolo massimo è rappresentato dall'Equatore. Solo lungo la linea dell’Equatore è possibile muoversi tra due punti A e B, verso Est o verso Ovest, con la sicurezza che si tratti del cammino più breve. Il fatto che due punti A e B siano posti su uno stesso parallelo, diverso dall'Equatore, non è di alcuna utilità: per definizione una ortodromia è un circolo massimo, mentre i paralleli non lo sono: i piani che li individuano tagliando la sfera terrestre non passano per il centro, perciò le circonferenze parallele sono sempre più piccole man mano che si procede verso i poli, fino a ridursi a un punto in corrispondenza di essi. Analogamente, man mano che ci si avvicina a uno dei due poli, la distanza tra due meridiani si riduce sempre di più, fino a che i due meridiani si incontrano.
Il calcolo della distanza più breve tra due punti sulla superficie terrestre possiede un’utilità pratica solamente se essi sono lontani. Su piccole distanze, il vantaggio di seguire l’ortodromia invece che un altro percorso è trascurabile. Il capitano di una nave in rotta tra due porti del Mediterraneo all’inizio dell’età moderna poteva fare a meno di tali sottigliezze, tanto più che spesso si preferiva navigare sotto costa ed evitare i pericoli del mare aperto. Il problema della rotta più breve cominciò a porsi in termini stringenti quando le navi incominciarono ad attraversare gli oceani, cioè nei decenni immediatamente successivi al viaggio di Colombo attraverso l’Atlantico del 1492. E ciò avvenne nei paesi maggiormente impegnati nelle imprese di esplorazione (e di conquista).
Inoltre, se sulla nave abbiamo a disposizione per orientarci la sola bussola magnetica, mantenere la rotta costante, cioè con un angolo costante rispetto al Nord, è facile, ma, come si vedrà, tale rotta non è affatto un’ortodromia, soprattutto alle latitudini più elevate. Per percorrere un arco di ortodromia bisognerebbe mutare continuamente la direzione della nave. I navigatori segnalarono questi problemi di orientamento nelle loro traversate oceaniche.
Il primo ad analizzare questo problema fu il matematico, astronomo e cartografo portoghese Pedro Nunes (1502-1578), uno dei più importanti della sua epoca. Nel 1537, allegati a una traduzione in portoghese del De Sphaera di Giovanni Sacrobosco, egli pubblicò due trattati sui problemi di navigazione. Il primo di questi, intitolato Tratado sobre certas dúvidas da navegação (Trattato su certi dubbi di navigazione) fu ispirato da alcune domande di Martim Afonso de Sousa, capitano d’armata, esploratore del Brasile tra il 1531 e il 1533. Il secondo era intitolato Tratado em defesa da carta de marear (Trattato in difesa della carta nautica).
In questi trattati, Pedro Nunes sosteneva abbastanza chiaramente che gli archi di circoli massimi (le ortodromie) che costituiscono i percorsi più brevi tra due punti, non sono, tranne che nel caso dell’'equatore e dei meridiani, rotte costanti: se si vuole seguire un’ortodromia è necessario cambiare continuamente rotta (cioè l’angolo con il meridiano):
"[Nell’arte di navigare] ci sono due modi: il primo è seguire una rotta costante, senza variare. Il secondo modo è procedere per circoli massimi".
E, poco oltre:
"(…) il cammino che si fa seguendo una rotta non è per un circolo massimo, che è quello diretto e continuo: poiché facciamo sempre con i nuovi meridiani lo stesso angolo con il quale siamo partiti, è impossibile percorrere circolo un massimo (…); è invece una linea curva e irregolare".
È chiaro che Nunes distingue due tipi di rotta: quella che si percorre seguendo l’ortodromia e quella che invece si percorre seguendo un nuovo tipo di curva, che egli descrive per la prima volta e accompagna con alcuni disegni. Nunes sostiene che, tranne che lungo l’equatore o i meridiani, essa non è un circolo massimo e pertanto non costituisce il cammino più corto. Si tratta della prima descrizione di una lossodromia (gr. λοζο-δρομέω, "che corre obliquo"), anche se egli la chiama linha de rumo. Il termine moderno, come tantissime parole della scienza, è un grecismo posticcio, essendo la traduzione della parola olandese kromstrijk (linea curva) usata da Simon Stevin in un commento del 1608 sulla scoperta di Nunes. La prima comparsa di loxodromia si ebbe quando l’opera di Stevino fu tradotta in latino dal connazionale Snellius nello stesso anno.
Una lossodromia è quindi la curva che si descrive sulla superficie terrestre se si mantiene un angolo costante con i meridiani. Nel secondo trattatello, nel capitolo intitolato “Come navigare per circoli massimi” Nunes propone un compromesso tra i due modi di navigare, suggerendo che il pilota deve mutare direzione a intervalli regolari di tempo, in modo che la rotta seguita, composta da tratti di lossodromia, si approssimi a una ortodromia. Così si sommano i vantaggi dei due modi di navigare: costanza della rotta, almeno per certi tratti, e minor distanza da percorrere.
Ma che tipo di curva è una lossodromia? Nella versione latina dei due stessi trattati, pubblicata nel 1556 a Basilea, Nunes descrive la sua forma:
"La linea curva è diversa [da una ortodromia] e assomiglia a un’elica",
Il procedimento di Nunes consente di calcolare successivamente le coordinate dei punti c, e, g, ecc. che si trovano sulla lossodromia. Si tratta ovviamente di una costruzione approssimata: i lati più piccoli dei successivi triangoli sferici sono archi di ortodromia e in ogni iterazione si ha una piccola deviazione rispetto alla lossodromia desiderata. Il matematico allega anche una tabella per rappresentare i risultati dei calcoli per le rotte corrispondenti a sette angoli rispetto ai meridiani, sostenendo, beato lui, che questi valori possono essere ricavati da “adolescenti studiosi, secondo le precedenti dimostrazioni”. Bisogna dire che i marinai portoghesi non utilizzarono mai il metodo di Nunes, troppo raffinato per gli strumenti allora disponibili a bordo e per le capacità di calcolo dei capitani. Tuttavia, l’idea di correggere a intervalli regolari la rotta in modo da approssimare l’ortodromia con tratti di lossodromie è quella che si pratica ancora oggi nella navigazione marittima e aerea.
Oggi la descrizione e il calcolo delle lossodromie si fa con il linguaggio delle funzioni. Sul globo terrestre, le lossodromie corrispondono (qualora non siano «degenerate», cioè che l’angolo iniziale dato non sia nullo) a delle spirali logaritmiche che s’avvolgono intorno ai poli (al polo Nord se l’angolo iniziale è compreso tra ]0, π[ e lo spostamento avviene per latitudini crescenti). Indicando con β l’angolo iniziale formato con il meridiano, con φ la longitudine e con θ la colatitudine (che in coordinate sferiche è l’angolo complementare della latitudine), attraverso un calcolo che comporta il calcolo di equazioni differenziali non lineari, si ottiene:
θ (φ) = 2 arctan (e‒ φ tan β)
mentre la lunghezza L della lossodromia vale:
L = π / 2 sen β
È facile verificare che se β = π/2 l’arco percorso è il meridiano e la sua lunghezza equivale a un quarto del circolo massimo.
Importantissima è anche l’opera di Nunes che riguarda la cartografia. Il matematico portoghese sostiene chiaramente che una proprietà auspicabile delle carte nautiche è che in esse le lossodromie siano rappresentate da linee rette. L’interesse per la navigazione è evidente: in una carta del genere, congiungendo il punto di partenza con quello di arrivo con un segmento rettilineo, si ottiene immediatamente la rotta da seguire durante il viaggio.
Nasce allora il problema di come tracciare carte che possiedano tale proprietà. Si intuisce subito che, in una griglia formata dai meridiani e dai paralleli, la distanza tra questi ultimi deve aumentare con la latitudine. Nei trattati del 1537, Nunes accenna a questa proprietà, che equivale matematicamente alla tracciatura delle lossodromie. Tale proprietà è quella che caratterizza quella che oggi conosciamo come proiezione conforme di Mercatore, dal nome latino del cartografo fiammingo Gerard de Cremer (1512-1594) che nel 1569 pubblicò una carta del globo (Nova et Aucta Orbis Terrae Descriptio ad Usum Navigantium Emendata) ottenuta proiettando la sfera terrestre su un cilindro tangente l’Equatore. Nella carta di Mercatore, i meridiani e i paralleli sono linee perpendicolari, e ciò consente il mantenimento degli angoli e la rappresentazione con segmenti rettilinei delle lossodromie. Tuttavia, mentre la scala delle distanze è costante in ogni direzione attorno ad ogni punto, conservando allora gli angoli e le forme di piccoli oggetti, la proiezione di Mercatore distorce sempre più la dimensione e le forme degli oggetti estesi passando dall'equatore ai poli, in corrispondenza dei quali la scala della mappa aumenta a valori infiniti (a latitudini maggiori di 70° nord o sud è praticamente inutilizzabile).
Mercatore ricavò con tutta probabilità la sua carta con un metodo grafico e con successive correzioni. La prima vera trattazione matematica delle proiezioni cartografiche sarebbe arrivata nel 1599 con l’opera dell’inglese Edward Wright Certaine Errors of Navigation, nella quale citò spesso Nunes e dedicò la maggior parte del primo capitolo alla discussione della sua opera sulle carte nautiche.
Qui trovate una bella applet del dipartimento di matematica dell’Università di Ferrara per tracciare ortodromie e lossodromie sul globo terrestre e sulla carta di Mercatore.
Fonti principali:
João Filipe Queiró – Pedro Nunes e as Linhas de Rumo – Gazeta de Matematica, Julho 2002, n. 143 (pp. 42-47)
W. G. L. Randles – Pedro Nunes e a Desccoberta da Curva Loxodromica - Gazeta de Matematica, Julho 2002, n. 143 (pp. 90-97)
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