lunedì 9 settembre 2013

Matematica applicata e filosofia


In questi giorni MaddMaths!, su Facebook, e Maurizio Codogno, con un articolo su Il Post, hanno parlato delle polemiche suscitate dall'articolo Is mathematics an effective way to describe the world? dell’australiano Derek Abbott, docente di ingegneria elettrotecnica ed elettronica ad Adelaide. Abbott sostiene che la matematica dà l’illusione di funzionare nella descrizione del mondo perché è un prodotto dell’immaginazione umana, che adattiamo alla realtà fisica in modo da comprenderla, focalizzando la nostra attenzione sui suoi successi e dimenticando i suoi fallimenti. La matematica sarebbe insomma una costruzione umana, che ci sembra funzioni nella descrizione del mondo fisico perché è un riflesso della nostra mente, ma in realtà non esiste al di fuori di noi, e non sempre è efficace. Si tratta di una posizione fortemente anti-realistica, peraltro non nuova, e, a quanto pare, non sufficientemente argomentata dall'autore. 

La discussione sulla natura della matematica, che avevo trattato di sfuggita tempo fa parlando delle idee in proposito di Jorge Luis Borges, mi ha ricordato un articolo di Paul Wilson, che è professore associato di matematica all'Università di Canterbury, in Nuova Zelanda. Wilson, che si occupa di matematica applicata al campo biologico, medico, industriale e al mondo naturale, ha pubblicato nel 2011 su Plus Magazine, la rivista elettronica di divulgazione della matematica applicata dell’Università inglese di Cambridge, una interessante riflessione, The philosophy of applied mathematics, che non solo cerca di rispondere alla domanda “Perché possiamo usare la matematica per descrivere il mondo?”, ma ne pone un’altra, che si fa meno di frequente: “Perché è possibile la matematica applicata?” Le idee di Wilson mi sono sembrate meritevoli di essere sintetizzate e parzialmente tradotte (il lettore converrà che contrapporre un neozelandese a un australiano è una vera perfidia).

Prima di ogni altra considerazione è bene chiarire che cosa si intende per matematica applicata. Wilson prende a prestito una definizione data da un importante matematico applicato, Timothy Pedley, professore a Cambridge di meccanica dei fluidi, secondo il quale “Applicare la matematica significa usare una tecnica matematica per ottenere una risposta a una domanda posta da fuori la matematica”. Si tratta di una definizione deliberatamente lasca, proprio perché la domanda sul perché la matematica sia così efficace è LA grande domanda nella filosofia della scienza e della matematica, in quanto riguarda la loro natura. 

La lunga storia della matematica ha generalmente sottovalutato la differenza tra matematica pura e applicata. Negli ultimi due secoli abbiamo assistito a una quasi esclusiva attenzione verso la filosofia della matematica pura. In particolare, si è data importanza ai cosiddetti fondamenti della matematica, che ha visto la formazione di quattro schieramenti diversi: 

1) Formalisti, come David Hilbert, che hanno considerato la matematica come fondata su una combinazione di teoria degli insiemi e logica, e che vedono nel processo di fare matematica nient’altro che una manipolazione di simboli nel rispetto di certe regole stabilite; 

2) Logicisti, che considerano la matematica come un’estensione della logica. Russel e Whitehead, ad esempio, scrissero centinaia di pagine per provare (logicamente) che uno più uno fa due; 

3) Intuizionisti, come Brouwer, del quale si è detto che “non credeva che stesse piovendo oppure no fino a che non aveva aperto la finestra”. La battuta stigmatizza una delle idee centrali dell’intuizionismo, cioè il principio del terzo escluso. La loro regola più comune afferma che una proposizione (come “sta piovendo”) è vera oppure falsa: non ci sono altre possibilità eccetto queste due. Non solo: gli intuizionisti ritengono che se non si è provata la proposizione in modo definitivo oppure non si è costruito un controesempio, essa non possiede un oggettivo valore di verità. Inoltre, essi pongono uno stretto limite alla nozione di infinito che accettano. Essi sostengono che la matematica sia totalmente un prodotto della mente umana, che essi pensano sia capace solo di cogliere l’infinito come estensione di un processo algoritmico del tipo un-due-tre. Di conseguenza, essi ammettono come prova solo le operazioni numerabili, cioè le operazioni che possono essere espresse utilizzando i numeri naturali. 

4) Ci sono infine i Platonisti, o realisti, i membri del più antico dei quattro partiti, che credono nella esistenza reale dei numeri e degli altri oggetti della matematica. Per un platonista, come Kurt Gödel, la matematica esiste indipendentemente dalla mente umana, magari senza bisogno dell’universo fisico, eppure esiste un legame misterioso tra il mondo mentale degli uomini e il regno platonico della matematica. 


È ancora oggetto di dibattito se una qualsiasi di queste quattro alternative possa servire come fondamento della matematica. Sembrerebbe che queste acute discussioni non abbiano niente a che fare con la questione dell’applicabilità, ma qualcuno ha sostenuto che questa incertezza sui fondamenti abbia influenzato la pratica dell’applicazione della matematica. In The loss of certainty, Morris Kline ha scritto nel 1980 che “Le crisi e i conflitti su quanto sensata sia la matematica hanno anche scoraggiato l’applicazione della metodologia matematica in molte aree della nostra cultura come la filosofia, le scienze politiche, l’etica e l’estetica [...] L’era della Ragione è finita”. Grazie al cielo, la matematica sta ora cominciando ad essere applicata in questi campi, ma abbiamo imparato una lezione importante: riguardo alla scelta di applicare la matematica esiste una dimensione sociologica che è sensibile alle discussioni metamatematiche (e filosofiche) sulla sua natura.

Il passo successivo, per il metamatematico o il filosofo che si interessa dell’applicabilità della matematica, sarebbe di chiedersi che cosa ognuna delle quattro visioni fondamentali abbia da dire su tale questione. Analisi di questo aspetto sono state intraprese da un certo numero di matematici e scienziati, come Roger Penrose nel libro La strada che porta alla realtà o Paul Davies nel suo La mente di Dio.

Paul Wilson preferisce un approccio diverso, rovesciando il passo “logico” successivo. Egli si chiede “Che cosa ci dice l’applicabilità della matematica riguardo ai suoi fondamenti?” Nel porre questa domanda egli dà per acquisito che non esiste alcun serio disaccordo sul fatto che la matematica sia applicabile: l’intero edificio della scienza e della tecnologia moderne, che dipendono considerevolmente dalla matematizzazione della natura, sono testimoni di ciò (nonostante le provocazioni dell’ingegner Abbott).

Allora, che cosa può dire un formalista per spiegare l’applicabilità della matematica? Se la matematica non è nient’altro che mescolare simboli matematici nel più praticato e duraturo gioco al mondo, perché dovrebbe descrivere la realtà? Che cosa privilegia il gioco della matematica nel descrivere il mondo rispetto a qualsiasi altro gioco? Ricordiamo, il formalista deve rispondere all’interno della visione del mondo formalista, quindi non sono consentiti richiami platonici a un significato più profondo della matematica o a una connessione profonda con il mondo fisico. Per motivi analoghi dovrebbero essere in difficoltà i logicisti, poiché, se dicono “l’universo è un’incarnazione della logica”, essi stanno tacitamente ammettendo l’esistenza di un regno platonico della logica che si incarna in qualche modo. Ciò trasforma il logicismo in una semplice branca del platonismo, che, come si vedrà, ha già tanti problemi per conto suo. Dunque, sia per i formalisti sia per i logicisti non platonisti, l’esistenza stessa della matematica applicata pone problemi insolubili alla loro posizione. 

La terza via proposta, l’intuizionismo, non ha mai ottenuto molto favore tra i matematici, poco attirati dall’idea che una proposizione non sia né vera né falsa fino a che non sia stata costruita una prova in una maniera o nell’altra. Tuttavia, l’idea centrale di una natura numerabile dei processi dell’universo sembra essere dedotta dalla realtà. Il mondo fisico, almeno per quanto di esso può essere percepito dagli uomini, sembra consistere di oggetti che possono essere contati e ogni infinito che possiamo raggiungere è il risultato dell’estensione di un processo di conteggio. Da questo punto di vista, forse l’intuizionismo deriva dalla realtà. Sembra che l’intuizionismo offra una risposta non ambigua alla domanda sull’applicabilità della matematica: è applicabile perché è scaturita dal mondo. Tuttavia questa risposta può essere invalidata da un esame più ravvicinato. Per incominciare, nella moderna fisica matematica, ad esempio nella teoria quantistica, ci sono molte cose che richiedono il concetto di infinito oltre il numerabile. Questo aspetto può perciò rimanere per sempre al di là del potere esplicativo della matematica intuizionista. Ma, soprattutto, l’intuizionismo non ha risposte per la domanda del perché la matematica non intuizionista sia applicabile. Potrebbe anche darsi che un teorema matematico non intuizionista sia applicabile al mondo naturale solo quando esiste anche una prova intuizionista dello stesso teorema, ma ciò non è stato stabilito. Inoltre, sebbene la matematica intuizionista possa sembrare derivata dal mondo reale, non è sicuro che gli oggetti della mente umana debbano rappresentare fedelmente gli oggetti dell’universo fisico. Le rappresentazioni mentali non sono state selezionate durante l’evoluzione per la loro accuratezza, ma per il vantaggio che fornirono ai nostri antenati nelle loro lotte per la sopravvivenza e l’accoppiamento. 

E che dire dell’ultima corrente di pensiero, il platonismo? I suoi sostenitori ritengono che il mondo fisico sia l’ombra imperfetta di un regno di oggetti matematici (e forse anche di concetti come verità e bellezza). Il mondo fisico in qualche modo emerge da questo regno platonico, è in esso radicato, pertanto le relazioni tra gli oggetti nel nostro mondo riflettono quelle nel regno platonico. Il fatto che il mondo sia così ben descritto dalla matematica cessa allora di essere un mistero e diventa un assioma. 

Sorgono tuttavia problemi ancor maggiori: perché il mondo fisico dovrebbe essere radicato in quello matematico? Come emergerebbe il mondo mentale da quello fisico? Perché il mondo mentale dovrebbe avere una qualsivoglia connessione con quello platonico? E in quale maniera una qualsiasi di queste domande dovrebbe essere diversa da quelle legate alle antiche mitologie sull’emergere del mondo dal corpo di Dei o Titani uccisi, o da un uovo primordiale galleggiante sulle acque, o sull’idea veterotestamentaria che siamo “creati a immagine di Dio”? 

In realtà, l’idea che viviamo in un universo divino e, attraverso lo studio della matematica e della scienza, partecipiamo allo studio della mente divina è stata probabilmente la motivazione di maggior durata per il pensiero razionale, da Pitagora attraverso Newton fino a molti scienziati odierni. “Dio”, in questo senso, sarebbe ciò che è più vicino alla pienezza del regno platonico. In questo modo, molte delle difficoltà sopra indicate che deve affrontare un platonista sono identiche a quelle con le quali si confrontano i teologi del mondo giudeo-cristiano, e di altri sistemi religiosi o spirituali. 

Galileo pensava che “il libro dell’universo” fosse scritto nel “linguaggio” della matematica: un’affermazione platonica che sollecita una risposta, se mai ce n’è stata una. Anche i matematici non credenti oggi riferiscono regolarmente sentimenti di stupore e meraviglia riguardo alle loro esplorazioni in ciò che dà la sensazione di un regno platonico: essi non inventano la loro matematica, ma la scoprono. Paul Davies, in La mente di Dio, va oltre e chiarisce la duplice natura della sua motivazione. Non solo un matematico potrebbe essere condotto a considerare la matematica un tentativo di scrutare la mente di Dio (un dio non personale, come quello di Spinoza o Einstein), ma la nostra capacità di accedere a questa “chiave dell’universo” suggerisce qualche scopo o significato alla nostra esistenza. 

In effetti, l’ipotesi che la struttura matematica e la natura fisica dell’universo e il nostro approccio mentale nello studiare entrambe siano in qualche maniera parte di una mente, essere e corpo di un “Dio” è una risposta assai più ordinata di quelle viste in precedenza alle domande sui fondamenti della matematica e sulla sua applicabilità. Tale ipotesi, sebbene sia raramente definita in tale maniera, è stata data in una vasta gamma di sistemi religiosi, culturali, e scientifici negli ultimi millenni. Non è tuttavia naturale, per un filosofo o scienziato abbracciare appassionatamente tale visione, perché essa tende a incoraggiare la conservazione del mistero piuttosto che la rimozione del velo che lo occulta. 

Roger Penrose ha illustrato molto lucidamente un po’ di questo mistero con un diagramma dei tre mondi. Essi sono i mondi platonico, fisico e mentale, che egli li rappresenta come sfere disposte ai vertici di un triangolo. Un cono collega così il mondo platonico a quello fisico: nella sua forma più generale, il diagramma mostra la sottile estremità del cono che penetra nel mondo platonico e la base più larga che penetra un po’ in quello fisico. Questa disposizione serve a mostrare che (almeno una parte de) il mondo fisico è incorporato in quello platonico. Un cono simile collega il mondo fisico a quello mentale: (almeno una parte de) il mondo mentale è incorporato in quello fisico. Infine, è più misteriosamente, il triangolo è completato da un cono che va dal mondo mentale a quello platonico: (almeno una parte de) il mondo platonico è incorporato in quello mentale. Ciascun cono, ciascun mondo, resta un mistero. 


Sembra che si sia finiti nel vicolo cieco piuttosto deprimente dove nessuna delle quattro alternative esaminate è in grado di rispondere senza ambiguità alla domanda sulla sua applicabilità. Paul Wilson conclude tuttavia il suo saggio con la sensazione che ciò costituisca una gran bella notizia. Egli ritiene che l’analisi delle implicazioni della domanda principale, cioè “perché esiste la matematica applicata?”, costituisca un progetto futuro che potrebbe produrre una approfondita comprensione della natura della matematica, dell’universo fisico e del nostro posto tra i due mondi. 

Attendiamo insomma una nuova via, sperando che sostituisca le quattro precedenti e non vada ad aggiungersi ad esse.

2 commenti:

  1. Caro Popinga, la lettura di questo tuo post, mi ha indotto come al solito a seguire alcuni dei link (non tutti, io vado a naso, e non c'è niente di meglio dell'andare a naso per esser certi di prendere di quelle cantonate... di solito, ma stavolta no) che tu ci hai infilato, che se ce li infili un motivo ci sarà.
    Così, seguendo Maurizio Codogno, ho scoperto l'esistenza del numero di Graham e del Megistone, dei quali non avevo mai sentito parlare manco in cartolina. Megistone!... troppo mega! sia il contenuto che la forma.
    Il mio prossimo micio lo chiamerò così.

    Ciao e grazie.
    yop

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  2. Io la penso come Hilbert, la matematica è un modo di manpolare dei simboli secondo delle regole. Per evitare il vaniloquio occorre porsi dei punti di arrivo. In fisica la matematica è importante perchè permette di quantificare il risultato di un esperimento e rende il suo risultato inequivocabile. In sostanza se io dico un'auto fa i 30 km/h, viaggia per due ore e parte dal km 10 dell'autostrada la previsione sarà che arriva al km 70 dell'autostrada. essa è ottenuta dalla formula S=vt+Siniz cioè S=30x2+10. La formula si calcola in un solo modo, sempre con le stesse regole e se le cose in realtà andranno così essa rapresenterà la teoria matematica di quella realtà fisica. Quindi 1. Manipolo i simboli sempre allo stesso modo e ottengo un risultato univoco 2. se questo funziona 1,2,3,... volte ho fiducia che così sarà per il futuro e la formula rappreneta la teoria matematica del fatto fisico. Da qui si capisce che la mia concezione del mondo è opposta a quella di Platone e di Galuileo ma vicina a quella di David Hume.

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