martedì 21 settembre 2021

Alla scoperta delle particelle atomiche

 


Un fisico è il modo che ha l'atomo di sapere qualche cosa sugli atomi

Le indagini per scoprire la struttura interna dell'atomo iniziarono con la scoperta dell'elettrone da parte del fisico inglese J. J. Thomson nel 1897. Thomson dimostrò che i raggi catodici non erano una sorta di fenomeno indefinito che si verificava in un "etere" ancor più vago, ma erano in realtà composti da particelle estremamente piccole e cariche negativamente, perché erano respinte dall'elettrodo negativo di un tubo di scarica (tubo di Crookes). Thomson chiamò queste cariche negative "corpuscoli". Il lavoro di Thomson fu pubblicato nell'edizione di marzo del 1904 del Philosophical Magazine. Per i corpuscoli di Thomson si riprese poi il nome di elettrone proposto nel 1891 dall’irlandese George Stoney quando introdusse il concetto puramente matematico di "unità di carica fondamentale". Nel suo articolo, Thomson, dimostrò che gli elettroni erano molto più piccoli dell’atomo, ne erano dei costituenti e, quindi, che l’atomo non era la particella fondamentale della materia (l’atomo, che significa “non divisibile”, era divisibile).

Thomson propose per l'atomo un modello continuo: esso era visto come una nube di carica positiva che compensava la carica negativa degli elettroni, i quali erano disposti al suo interno in modo quasi casuale, come i canditi nel tipico dolce natalizio britannico, il plum pudding, o come anche l'uvetta nel panettone. Da ciò, si indica usualmente il modello atomico di Thomson come “modello a panettone”. È importante notare che, in questa rappresentazione, gli elettroni, seppur disposti casualmente, non sono statici. La loro carica esatta (per i tempi) fu misurata nel 1909 da Robert Millikan e Harvey Fletcher.



Il fisico giapponese Hantaro Nagaoka rifiutò il modello di Thomson sulla base del fatto che le cariche opposte sono impenetrabili. Nel 1904 propose un modello planetario alternativo dell'atomo, in cui un centro carico positivamente è circondato da un numero di elettroni rotanti, alla maniera di Saturno e dei suoi anelli. Tuttavia, molti dettagli del modello non erano corretti. In particolare, gli anelli elettricamente carichi sarebbero instabili a causa della perturbazione repulsiva. Lo stesso Nagaoka abbandonò il modello nel 1908.


Nello stesso periodo, anche le scoperte relative al fenomeno della radioattività avevano iniziato a dare impulso alla ricerca atomica. Nel 1896, il francese Antoine Becquerel individuò le forme base di radioattività, che Ernest Rutherford, allora uno studente di Thomson, chiamò alfa e beta. Nello stesso anno, i coniugi Marie e Pierre Curie iniziarono a lavorare sull'emissione di radiazioni da parte dell'uranio e del torio. I Curie presto annunciarono le loro scoperte fondamentali sulla radioattività naturale di radio e polonio. Nel 1900, Becquerel poté comunicare che le particelle beta e gli elettroni erano la stessa cosa.



L’importanza di chiamarsi Ernest

Nel primo decennio del XX secolo, Ernest Rutherford (1871-1937), iniziò a riunire tutte queste informazioni in un insieme coerente. Rutherford era figlio di una famiglia di contadini inglesi emigrati in Nuova Zelanda. Talento precoce, nel 1895 aveva ottenuto una borsa di ricerca per recarsi in Inghilterra presso il Cavendish Laboratory dell’Università di Cambridge, che allora era diretto da J.J. Thomson, con il quale contribuì alla scoperta dell'elettrone. 

Nel 1903, propose che la radioattività fosse causata dalla rottura degli atomi. Frederick Soddy (Nobel per la chimica nel 1921), insieme a Rutherford, scoprì che il torio radioattivo si trasformava in radio. Al momento della scoperta, ricordò in seguito Soddy, gridò: "Rutherford, questa è trasmutazione!" Rutherford ribatté di scatto, "Per l'amor di Dio, Soddy, non chiamarla trasmutazione. Ci faranno saltare la testa come alchimisti!" Rutherford e Soddy stavano osservando la trasmutazione naturale di un elemento in un altro mediante il decadimento radioattivo di tipo alfa. I due scoprirono poi che un campione di torio di qualsiasi dimensione impiegava invariabilmente lo stesso tempo per il decadimento radioattivo di metà della sua massa: la sua "emivita" (11 minuti e mezzo in questo caso). Sempre nel 1903, Rutherford considerò un tipo di radiazione emessa dal radio, scoperta dal francese Paul Villard tre anni prima, e si rese conto che essa doveva rappresentare qualcosa di diverso dai raggi alfa e beta, a causa del maggiore potere di penetrazione. Rutherford diede a questo terzo tipo di radiazione il nome di raggio gamma. Tutti e tre i termini di Rutherford sono oggi di uso standard.

Alla fine del 1907, Rutherford e Thomas Royds poterono dimostrare che le particelle alfa erano atomi di elio ionizzati, e probabilmente nuclei di elio. Il Premio Nobel per la Chimica del 1908 gli fu assegnato "per le sue indagini sulla disintegrazione degli elementi e sulla chimica delle sostanze radioattive".

Nel 1911, insieme al fisico tedesco Hans Geiger, per qualche settimana suo ospite a Cambridge, e al neozelandese Ernest Marsden, studente di dottorato di quest’ultimo, postulò che gli elettroni orbitano attorno al nucleo di un atomo, proprio come i pianeti orbitano attorno al sole. Studiando la deflessione (cambio di traiettoria) delle particelle alpha, Rutherford ipotizzò la presenza, all'interno dell'atomo, di una forte concentrazione di materia in un volume molto piccolo, ovvero il nucleo, circa 100.000 volte più piccolo dell'atomo stesso, facendo risultare l'atomo essenzialmente vuoto. Nell'articolo The Scattering of α and β Particles by Matter and the Structure of the Atom (La diffusione di particelle α e β e la struttura dell'atomo), Rutherford rigettò definitivamente il modello atomico di Thomson, poiché secondo quel modello né le particelle con carica negativa, ossia gli elettroni, né la distribuzione di carica positiva che doveva contenerli sarebbero stati in grado di produrre deflessioni così marcate. Nacque così il modello atomico che da Rutherford prende il nome. 



L’esperimento era abbastanza semplice: Geiger e Marsden bombardarono una sottile lamina d’oro con dei raggi alfa provenienti da una sorgente radioattiva. Dal lato opposto rispetto al punto di collisione, osservarono la distribuzione delle particelle alfa che avevano attraversato la lamina e andavano a colpire uno schermo fluorescente. Una parte delle particelle era deviata, da cui dedussero l’esistenza, al centro dell’atomo, di un nucleo di carica positiva. Se l’atomo fosse stato omogeneo, nessuna particella sarebbe stata deflessa.


Fu il danese Niels Bohr a combinare i concetti atomici di Rutherford con la teoria quantistica di Max Planck per produrre il primo modello moderno dell'atomo. Nel 1913, Bohr dimostrò che gli elettroni si muovono attorno al nucleo con carica positiva di un atomo in certi "gusci" di energia discreta e che la radiazione viene emessa o assorbita quando un elettrone si sposta da un guscio all'altro. L'anno successivo, l’inglese Henry Moseley, bombardando diversi elementi chimici con elettroni ad alta energia e misurando la lunghezza d'onda e le frequenze dei raggi X risultanti, dimostrò che ogni elemento poteva essere identificato dal suo unico "numero atomico", in quanto ogni elemento emette raggi X a una frequenza unica. Osservò anche che poteva ottenere una retta tracciando in un grafico la radice quadrata della frequenza dei raggi X in funzione dei numeri atomici degli elementi.

La seconda particella atomica fondamentale, il protone, fu identificata da Rutherford in alcuni esperimenti condotti a partire dal 1917 e i cui risultati vennero diffusi in un articolo nel 1919. Questi esperimenti iniziarono dopo che Rutherford aveva notato che, quando le particelle alfa venivano sparate nell'aria (composta principalmente da azoto), i suoi rivelatori a scintillazione mostravano le tracce dei tipici nuclei di idrogeno come prodotto. Allora aveva preso un materiale emettitore di particelle alfa (nuclei di elio) e lo aveva sistemato vicino a un contenitore pieno di azoto. Analizzando l’emissione del contenuto, si accorse che le particelle α erano capaci di produrre nuclei di idrogeno dopo aver bombardato l’azoto. Rutherford ipotizzò che le particelle alfa avessero semplicemente eliminato un protone dall'azoto, trasformandolo in carbonio.

Il 24 agosto del 1920, durante il congresso della British Association for the Advancement of Science a Cardiff, egli commentò: “Dobbiamo concludere che l'atomo di azoto si è disintegrato sotto la forza intensa sviluppata in una collisione ravvicinata con una particella alfa veloce, e che l’atomo di idrogeno che si è liberato forma una parte costituente del nucleo dell’azoto”. Il nucleo dell'idrogeno aveva, dunque, un ruolo fondamentale all'interno dei nuclei di ogni elemento atomico, motivo per cui Rutherford propose l'uso di un nome apposito. La sua proposta di protone (proton) venne accettata dalla comunità scientifica. 

Nel 1919 Rutherford era succeduto a J. J. Thomson come direttore del Cavendish Laboratory. Nella sua conferenza d’onore (“lezione Bakeriana”) alla Royal Society di Londra del 3 giugno 1920, descrisse lo stato delle conoscenze del momento sui nuclei atomici. Suggerì che esistesse, all’interno del nucleo atomico, una combinazione stretta tra elettroni e protoni. All'epoca si riteneva infatti che il nucleo fosse costituito da protoni ed elettroni, quindi il nucleo di azoto, ad esempio, con un numero di massa di 14, si presumeva contenesse 14 protoni e 7 elettroni (di massa trascurabile). Ciò sembrava dare le giuste massa e carica (il concetto di spin e di esclusione erano di là da venire). La memoria cominciava con la trattazione degli angoli di deviazione nell’esperimento di diffusione delle particelle α con nuclei di altri elementi, in cui si discuteva la differenza tra ciò che si era osservato e le predizioni attraverso la legge di Coulomb di repulsione tra particelle cariche. Successivamente mostrò come, dai risultati, fosse possibile dedurre un valore per le dimensioni del nucleo (circa 10−4 m).

Considerò, inoltre, il processo di trasmutazione dell’azoto e chiese al fisico e matematico di Cambridge Patrick Blackett di utilizzare una camera a nebbia, di cui era esperto, per trovare tracce visibili di questa disintegrazione. La camera a nebbia è un semplice rilevatore di particelle utilizzato per visualizzare il passaggio di radiazioni ionizzanti. Essa era costituita da un ambiente sigillato contenente un vapore supersaturo di acqua o alcool. Una particella con carica energetica (ad esempio, una particella alfa o beta) interagiva con la miscela gassosa spostando gli elettroni dalle molecole di gas tramite forze elettrostatiche durante le collisioni, provocando una scia di particelle di gas ionizzato. Gli ioni risultanti agivano come centri di condensazione attorno ai quali si formava una scia simile a nebbia di piccole goccioline se la miscela di gas era nel punto di condensazione. Queste goccioline erano visibili come una traccia a "nuvola" che persisteva per diversi secondi mentre le goccioline cadevano attraverso il vapore. Queste tracce avevano forme caratteristiche. Ad esempio, una traccia di particelle alfa era spessa e diritta, mentre una traccia di elettroni era sottile e mostrava più evidenze di deviazioni da collisioni.


Blackett scattò 23.000 fotografie che mostravano 415.000 tracce di particelle ionizzate. Otto di queste si biforcavano, mostrando che la combinazione atomo di azoto-particella alfa aveva formato un atomo di fluoro, che poi si era disintegrato in un isotopo di ossigeno 17 (e non di carbonio come inizialmente ipotizzato da Rutherford), un protone e un fotone. Blackett pubblicò i risultati dei suoi esperimenti nel 1925. La trasmutazione avveniva secondo la reazione nucleare descritta qui sotto (la notazione utilizzata fa riferimento a quella moderna, non ancora utilizzata dai fisici di quell’epoca): 


Blackett realizzò così la prima reazione nucleare provocata artificialmente, trovando che i nuclei di azoto catturano le particelle alfa ed emettono un protone ad altissima velocità trasformandosi infine nell'isotopo stabile dell'ossigeno di numero di massa 17. Rutherford riconobbe "che il nucleo può aumentare piuttosto che diminuire di massa come risultato di collisioni in cui viene espulso il protone".

Rutherford dedicò l’ultima parte della conferenza londinese alla struttura del nucleo, spiegando che il nucleo di un atomo è caratterizzato dal “numero di massa” A, numero intero più vicino al rapporto fra la massa dell’atomo e quella dell’atomo di idrogeno, e dal “numero atomico” Z, corrispondente al numero di elettroni. Si conoscevano allora solo elettroni, di massa trascurabile e carica elettrica unitaria negativa, e protoni, di carica unitaria positiva, per cui un nucleo caratterizzato dai numeri A e Z era necessariamente descritto come composto da A protoni, che fornivano la massa, e da AーZ elettroni, in modo da ridurre a Z unità la carica elettrica positiva dell’atomo. Rutherford considerò che, essendo l’atomo neutro di idrogeno assunto come nucleo di carica unitaria con un elettrone strettamente associato, fosse possibile l’esistenza di un atomo neutro con A=1 e Z=0, dato dall’unione di un elettrone con un protone. Ipotizzò, inoltre, che potesse esistere anche una sorta di coppia neutra, con un nucleo con A=2 e Z=1: un isotopo pesante dell’idrogeno. Considerò in dettaglio le “nuove” proprietà che questo atomo avrebbe dovuto avere, ovvero un campo esterno praticamente nullo, eccetto a distanze molto piccole, quindi vicine al nucleo, e che conseguentemente poteva muoversi attraverso la materia.

Se un atomo del genere fosse stato possibile, ci si aspettava che sarebbe stato prodotto, probabilmente in piccole quantità, nella scarica elettrica attraverso l’idrogeno, dove sono presenti sia l’elettrone che il nucleo di idrogeno. L’esistenza di questo atomo sembrava necessaria nella spiegazione della struttura dei nuclei più pesanti.


Hypotheses fingo

La spinta iniziale per l’introduzione del neutrone quale componente del nucleo atomico si deve sempre a Rutherford, che, nel tentativo di spiegare i fatti contraddittori nelle proprietà dell’atomo, che allora si pensava composto solo da protoni ed elettroni, propose l’esistenza nel nucleo atomico di un’altra particella, di carica nulla e massa leggermente superiore a quella del protone. Queste particelle, aumentando le forze nucleari attrattive, avrebbero potuto compensare l'effetto repulsivo delle cariche elettriche positive dei protoni, impedendo così ai nuclei degli atomi pesanti di disintegrarsi. 

 Partendo da questa ipotesi, James Chadwick, che dal 1921 era vicedirettore del Cavendish, intraprese una serie di esperimenti a lungo infruttuosi per verificare la presenza di tale particella nucleare. Chadwick (1891-1974) aveva studiato alla Victoria University di Manchester con Rutherford fino a quando ottenne il Master of Science nel 1913. Lo stesso anno, gli fu assegnata una borsa di studio per la ricerca. Scelse di studiare la radiazione beta sotto Hans Geiger a Berlino. Utilizzando il contatore recentemente sviluppato da Geiger, Chadwick fu in grado di dimostrare che la radiazione beta produce uno spettro continuo e non linee discrete come si pensava. Era in Germania quando scoppiò la Prima Guerra mondiale e trascorse i successivi quattro anni nel campo di internamento di Ruhleben presso Berlino.

Dopo la guerra, Chadwick seguì Rutherford al Cavendish Laboratory, dove conseguì il dottorato nel giugno 1921. Fu per oltre un decennio assistente direttore della ricerca di Rutherford presso il Cavendish Laboratory, quando era uno dei centri più importanti al mondo per lo studio della fisica. Seguendo l’idea di Rutherford, Chadwick tentò di bombardare il berillio con particelle α, particelle β e con raggi γ, usando il metodo degli scintillatori per rivelare gli effetti, ma non trovò nulla. La natura delle forze dentro al nucleo rimase misteriosa, ma si sviluppò un nuovo modello fenomenologico del potenziale nucleare. Crebbero anche gli esperimenti in cui rimaneva inspiegato il comportamento degli elettroni nucleari, che, in combinazione con la metà dei protoni nucleari, consentivano di tenere conto in via teorica sia della massa isotopica che del numero atomico. 

A una conferenza a Cambridge sulle particelle beta e sui raggi gamma nel 1928, Chadwick incontrò di nuovo Geiger, sotto il quale aveva studiato prima della guerra. Geiger aveva portato con sé un nuovo modello del suo contatore, che era stato migliorato dal suo studente di post-dottorato Walther Müller. Il nuovo contatore Geiger-Müller costituiva un miglioramento importante rispetto alle tecniche di scintillazione allora in uso a Cambridge, che si basavano sull'occhio umano per l'osservazione. Il suo principale svantaggio era che rilevava le radiazioni alfa, beta e gamma, ma il radio, che il laboratorio Cavendish normalmente usava nei suoi esperimenti, emetteva tutti e tre i tipi di radiazione, ed era quindi inadatto a ciò che Chadwick aveva in mente. Invece il polonio è un emettitore alfa e Lise Meitner, su invito di Geiger, ne procurò a Chadwick circa 2 millicurie (circa 0,5 μg) dalla Germania.

 Rutherford perse in questo periodo interesse rispetto al problema degli elettroni nel nucleo. Tra il 1925 e il 1930 fu presidente della Royal Society e in seguito presidente dell'Academic Assistance Council che aiutò quasi mille rifugiati universitari dalla Germania. Fu nominato all'Ordine al Merito nel 1925 e nominato Pari come Barone Rutherford di Cambridge nel 1931, titolo che si estinse nel 1937 con la sua morte, dovuta a un’ernia intestinale.


Bothe e Becker

Nel 1930 a Berlino fu compiuto il primo passo concreto verso la scoperta del neutrone: il fisico e matematico berlinese Walther Bothe osservò che esiste una radiazione penetrante che riesce a passare attraverso uno spessore di 200 mm di piombo. 

Walther Bothe (1891-1957) aveva studiato dal 1908 al 1912 all'Università di Berlino, dove fu allievo di Max Planck, conseguendo il dottorato poco prima dello scoppio della Prima Guerra mondiale. Dal 1913 al 1930 lavorò presso il Physikalisch-Technische Reichsanstalt nella stessa città, divenendo Professore Straordinario nell'Università. Nel 1930 fu nominato Professore di Fisica e Direttore dell'Istituto di Fisica dell'Università di Giessen. 

Insieme a Geiger, la cui influenza determinò gran parte del suo lavoro scientifico, pubblicò, nel 1924, il metodo della coincidenza tra reti di contatori Geiger, che selezionano particelle che si muovono in una data direzione; il metodo può essere utilizzato, ad esempio, per misurare la distribuzione angolare dei raggi cosmici. Bothe applicò questo metodo allo studio dell'effetto Compton e ad altri problemi di fisica. Insieme, lui e Geiger studiarono la diffusione a piccoli angoli dei raggi luminosi e Bothe stabilì le basi dei metodi moderni per l'analisi dei processi di dispersione. Dal 1923 al 1926 Bothe si concentrò in particolare sulla teoria corpuscolare della luce. Nel 1927 chiarì ulteriormente, mediante il suo metodo, le idee sui quanti di luce e l'interferenza.

Nel 1930 Bothe, in collaborazione con il suo studente Herbert Becker, bombardò il berillio di massa 9 (e anche boro e litio) con raggi alfa derivati ​​dal polonio, e ottenne una nuova forma di radiazione ancora più penetrante dei raggi gamma più duri derivati ​​dal radio

Essi, infatti, stavano studiando l’irraggiamento di alcuni elementi leggeri da parte delle particelle α, dotate di grande energia, emesse da una sorgente di polonio. In questa reazione, le particelle α spesso interagiscono con i nuclei bersaglio producendo un protone e un raggio γ, come aveva scoperto Rutherford quando aveva studiato l’emissione di particelle alfa dall’azoto. 

La strumentazione dell’esperimento consisteva in un contatore Geiger, un recipiente di metallo su cui appoggiare la sorgente di polonio in una posizione fissata, e un’asta verticale, alla cui estremità inferiore era attaccato un sottile strato delle sostanze che dovevano essere irradiate, ognuna messa in modo da coprire 120° del disco. Grazie alla rotazione dell’asta era possibile scegliere quale sostanza inserire tra la sorgente e la parte inferiore del recipiente, ovvero quale irraggiare con le particelle α. Gli strati delle sostanze erano sufficientemente spessi da fermare le particelle α incidenti e gli spessori della parete del contatore e del recipiente riuscivano ad assorbire i raggi X emessi dagli atomi delle sostanze irradiate. Tutto l’apparato era protetto dalla radiazione ambientale attraverso un cilindro di piombo. La tecnica sperimentale prevedeva che, bombardando una sostanza con particelle α emesse da una sorgente radioattiva, si formassero un fotone e un protone. Osservarono, invece, che con nuclei di berillio, boro e litio veniva emessa una radiazione sconosciuta e in special modo il primo tra questi elementi dava un effetto particolarmente marcato.


Bothe e Becker fecero più prove: posero degli strati di 1 o 2 cm di piombo, tra il recipiente e il contatore, ridussero l’energia delle particelle α incidenti e interposero fogli di argento tra la sorgente e lo strato di berillio, infine per una variazione più fine introdussero aria ad una pressione conveniente dentro il recipiente di metallo. Per ogni prova calcolarono la curva e il coefficiente di assorbimento. Poterono così comparare le curve prodotte senza e con lo strato di piombo e notarono che la radiazione emessa nel secondo caso aveva un’energia maggiore di quella delle particelle α incidenti e dell’energia dei raggi γ emessi da qualsiasi ordinaria sostanza radioattiva. Le diedero il nome di “seconda radiazione”. La differenza dalla “prima” era che non veniva emesso il protone, ma una sorta di radiazione energetica neutra: poteva infatti penetrare fogli di metallo, ma non venire deflessa da un campo magnetico come le altre particelle cariche elettricamente. L’unica cosa conosciuta fino a quel momento che potesse avere queste caratteristiche era la radiazione γ, così fu naturale l’interpretazione che i risultati mostrassero la mancanza di protoni come prova dell’emissione di raggi γ di straordinaria energia.

Per la sua scoperta del metodo della coincidenza e per le scoperte successivamente ottenute, che posero le basi della spettroscopia nucleare, Bothe fu insignito, insieme a Max Born, del Premio Nobel per la Fisica per il 1954.

A Heidelberg, Bothe riuscì, dopo molte difficoltà, a ottenere il denaro necessario per costruire un ciclotrone. Lavorò, durante la Seconda guerra mondiale del 1939-1945, alla teoria della diffusione dei neutroni e alle misurazioni ad essi relative. Alla fine della guerra, quando l’Istituto fu rilevato per altri scopi, Bothe tornò al Dipartimento di Fisica dell'Università, dove insegnò fino a quando la malattia che lo aveva invalidato per diversi anni lo costrinse a restringere il campo di applicazione del suo lavoro. Riuscì, tuttavia, a supervisionare il lavoro dell'Istituto di Fisica nel Max Planck Institute e continuò a farlo fino alla sua morte a Heidelberg, l'8 febbraio 1957.

Dopo questo passo compiuto in Germania, si aprivano due differenti linee di ricerca: cercare di spiegare l’assorbimento di una particella α da parte di un nucleo di berillio e della successiva emissione di un fotone di energia così elevata, oppure usare la sorgente Po-Be per studiare l’interazione radiazione-materia ad energia intermedia tra quella dei raggi γ ordinari e quella dei raggi cosmici.

Il primo approccio fu indagato al laboratorio Cavendish, a Cambridge, da Henry Webster. Trovò, nel caso del berillio (e del boro), che il processo responsabile per l’emissione del fotone ad alte energie dovesse essere la cattura della particella α da parte del nucleo di berillio (o del boro) che emetteva un surplus di energia come radiazione. All’inizio del 1932 fece un’altra importante osservazione: vide che la radiazione emessa dal berillio nella stessa direzione delle particelle α incidenti è molto più penetrante di quella emessa nella direzione opposta. Mise in dubbio che la radiazione Po-Be fosse costituita da raggi γ. Fece nuovi esperimenti con una camera a nebbia, ma senza risultati significativi, probabilmente perché non aveva apparati sperimentali adatti.


Curie e Joliot

Il secondo approccio, cioè quello che si poneva il problema di studiare l’interazione tra radiazione e materia ad energie intermedie, fu seguito a Parigi da Irène Curie e Frédéric Joliot. 



Irène Curie (1896-1957) era la figlia primogenita di Pierre e Marie Curie, Durante la Prima Guerra mondiale, insieme con la madre Marie, prestò servizio presso gli ospedali da campo istituiti dalla madre, assistendola nell'esecuzione di lastre ai raggi X per i feriti. La tecnologia ancora immatura le espose però a grandi dosi di radiazioni. Terminata la guerra, Irène tornò a Parigi a studiare all'Istituto del Radio (Istituto Curie), fondato dai suoi genitori, ottenendo il dottorato in scienze nel 1925. Lì conobbe il fisico Frédéric Joliot (1900-1958) che sposò nell’ottobre 1926, dal quale ebbe due figli, divenuti anche loro scienziati, Hélène Langevin-Joliot (1927), fisica nucleare, e Pierre Joliot (1932), biochimico. 

Irène Curie, studiando l'assorbimento della radiazione secondaria da berillio e litio, scoprì essa che attraversava i materiali ancora più facilmente di quanto stimato inizialmente da Bothe, in quanto passava oltre uno strato di piombo tre volte più spesso di quello in grado di assorbire i raggi più penetranti emessi dagli elementi radioattivi. Frédéric Joliot studiò contemporaneamente la radiazione emessa dal boro bombardato da particelle α del polonio, arrivando a una conclusione analoga. Per spiegare questo effetto, entrambi ipotizzarono energie molto elevate di tali raggi γ.

Due anni dopo, i Joliot-Curie osservarono, misurando insieme la ionizzazione prodotta da tale "radiazione del berillio" secondaria in una camera con una sottile finestra di alluminio, che la ionizzazione nella camera aumentava quando mettevano materia contenente idrogeno (ad esempio paraffina) davanti alla fenditura. L'effetto sembrava essere dovuto all'espulsione di protoni con velocità fino a un massimo di quasi il 10% della velocità della luce. 

Curie e Joliot pensarono che i protoni con alta energia potessero produrre una sorta di trasmutazione: per cercare una risposta, allora, idearono un esperimento in cui posero sottili strati di vari materiali in contatto con la parte alta della camera di ionizzazione, consistente in un foglio di alluminio. Infatti, l’energia, quindi la velocità, dei protoni poteva essere dedotta determinando lo spessore di un foglio di metallo posto davanti all’apparato e quanto veniva penetrato dai protoni prima di fermarsi, oppure misurando quante coppie di ioni si creavano in un contatore Geiger. 

La strumentazione sperimentale usata dai coniugi consisteva in un recipiente contenente il polonio che emetteva le particelle α, una camera di ionizzazione come rivelatore, collegata ad un voltametro di Hoffmann. I due trovarono così che l’energia dei supposti raggi γ emessi era di 0.6 MeV per il litio, 15-20 MeV per il berillio e 11 MeV per il boro. 

Questi ultimi due valori erano più elevati rispetto a quelli trovati da Bothe e Becker. Joliot e Curie sostennero allora che il processo responsabile dell’emissione dei raggi γ di seconda radiazione non poteva essere una diffusione anelastica (un urto in cui le particelle vengono diffuse con una frequenza più alta o più bassa di quella originaria) a così alte energie, per cui il processo doveva essere il decadimento ipotizzato precedentemente. L’11 gennaio del 1932 Jean-Baptiste Perrin presentò all’Académie des Sciences l’articolo dei coniugi, in cui essi riportavano la possibilità che i raggi y ad alte energie potessero forse produrre qualche trasmutazione: infatti videro che con certi materiali (C, Al, Cu, Ag, Pb) non erano visibili cambiamenti, mentre con sostanze idrogenate, come la paraffina, si notava un incremento nella corrente di ionizzazione di un fattore due a causa dell’espulsione di protoni ad alte energie. Questi protoni vennero chiamati “terza radiazione”. Grazie a questo risultato calcolarono l’energia che dovevano avere i raggi gamma sui vari elementi per poter causare la radiazione, attraverso l’esperimento con il foglio di alluminio. Trovarono che il processo non poteva essere, definitivamente, uno scattering anelastico (un urto), ma proprio un processo di assorbimento della particella α. Secondo Curie e Joliot, doveva avvenire una sorta di trasmutazione con le sostanze idrogenate. Notarono che i protoni venivano emessi anche dall’acqua utilizzata come sostanza idrogenata nell’esperimento.



Per conoscere la natura di questa “terza radiazione” emessa dalle sostanze idrogenate tentarono inizialmente di defletterla con un campo magnetico, senza risultati apprezzabili. Successivamente misurarono l’assorbimento di essa nell’argento e nell’alluminio e conclusero che questa ulteriore radiazione era un’espulsione di protoni la cui energia, determinata approssimativamente, era di 4.5 MeV per il berillio e di 2 MeV per il boro. Per spiegare la produzione di protoni dai raggi γ, osservarono che l’effetto assomigliava all’effetto Compton (urto tra un fotone e un elettrone). Ipotizzando che essi venissero espulsi a causa dei raggi γ sulla paraffina, applicarono ai protoni le relazioni dell’effetto Compton per risalire all’energia minima necessaria per produrre protoni. Trovarono che i raggi γ emessi dal Be (e dal B) dovevano aver energia almeno di 50 (e di 35) MeV. Tale calcolo dell’energia minima risultava in contrasto sia con il valore misurato direttamente da Bothe, sia con la energia delle onde α emesse dal polonio da cui si originava il tutto (circa 5.25 MeV). Tutto ciò spinse i coniugi Joliot a ipotizzare di avere scoperto una nuova forma di interazione tra la radiazione e la materia, diversa dall’effetto Compton. Infatti, pensavano di aver trovato una radiazione in grado di espellere protoni dalla paraffina, ma che energeticamente non era giustificabile con l’effetto ipotizzato: se quella radiazione fosse stata costituita da raggi γ, questi non avrebbero mai avuto l’energia in grado di espellere protoni dalla materia. Con i raggi γ sono possibili effetti Compton, ma questo effetto riguarda gli elettroni, mentre un protone è circa 2000 volte più pesante, per cui l’energia dei raggi γ e la sezione d’urto sono totalmente inefficaci. Secondo Leonardo Sciascia, quando Ettore Majorana venne a conoscenza degli esperimenti dei Joliot-Curie, disse a Segré e Amaldi: “Che sciocchi, hanno scoperto il protone neutro [neutrone] e non se ne sono accorti”.


Provaci ancora, James!

Dall’altra parte della Manica, Chadwick venne a conoscenza dei risultati di Joliot e Curie, e pensò che anche in questo caso si trovasse la prova che nell’emissione del berillio erano presenti particelle neutre. Ripeté allora gli esperimenti dei due coniugi francesi. Concentrandosi sullo studio del carattere dell’emissione ad alta energia del berillio, diresse questa radiazione verso altri materiali: idrogeno, azoto, argo, aria. In ognuna di queste sostanze la radiazione del berillio provocava l’espulsione di protoni dal nucleo.

Ora, se la radiazione del berillio fosse stata una forma di emissione di raggi y, l’energia di questi protoni sarebbe stata facilmente calcolabile per mezzo dell’effetto Compton. I calcoli teorici ottenuti da Chadwick erano però in completo disaccordo con la misura dell’energia dei protoni ricavata sperimentalmente. I suoi esperimenti al Cavendish Laboratory si basavano su una camera di ionizzazione collegata a un amplificatore, che a sua volta era collegato a un oscilloscopio. Si trattava di un semplice apparato, che consisteva in un cilindro contenente una sorgente di polonio e un bersaglio di berillio. Le particelle ionizzanti, entrando nella camera, avrebbero fatto fluttuare la traccia luminosa dell’oscilloscopio, che era registrata in continuazione su carta fotografica. La sorgente delle radiazioni era costituita da un disco di metallo placcato con del polonio e da un disco di berillio puro, entrambi posti in un recipiente sottovuoto; le particelle spostate finivano in una piccola camera di ionizzazione dove potevano essere rilevate l’oscilloscopio. 

Chadwick notò che, quando la sorgente era posta a grande distanza dalla camera, la media delle oscillazioni era di sette all’ora. Quando la sorgente veniva posta a pochi centimetri, la media aumentava a più di 200 oscillazioni all’ora (le oscillazioni erano provocate dagli atomi dell’aria presente nella camera, messi in movimento dalla radiazione). 

La frapposizione di alcuni fogli di piombo tra la camera e la sorgente non aveva alcun effetto sulla media delle oscillazioni, fatto che dimostrava la natura ad alta penetrazione della radiazione. Sostituendo i fogli di piombo con dei fogli di paraffina la media delle oscillazioni raddoppiava. Chadwick constatò che questo raddoppio era dovuto all’espulsione di protoni dalla paraffina, proprio come nell’esperimento dei Joliot-Curie. 


Dopo aver ripetuto e migliorato gli esperimenti, nel febbraio 1932, dopo solo circa due settimane di sperimentazione, Chadwick inviò una lettera a Nature intitolata Possible Existence of a Neutron (Possibile esistenza di un neutrone). Comunicò le sue scoperte in dettaglio in un articolo inviato a maggio ai Proceedings of the Royal Society, intitolato meno dubbiosamente The Existence of a Neutron. Chadwick suppose che esistesse una particella materiale neutra di massa molto vicina a quella del protone e prese in considerazione urti elastici tra particelle con stesso ordine di grandezza di energia e massa, facendo quindi collisioni classiche frontali tra particelle. Così scriveva. “Sono state esaminate le proprietà della radiazione penetrante emessa dal berillio (e dal boro) quando è bombardato dalle particelle α di polonio. Si è concluso che la radiazione non consiste in una radiazione gamma, come si è supposto finora, ma di neutroni, particelle di massa 1, e carica 0. Si sono fornite prove che la massa sia tra 1.005 e 1.008 [volte quella del protone, considerata uguale a 1]. Questo suggerisce che il neutrone consista di un protone e un elettrone in stretta combinazione; l’energia di legame è di circa da 1 a 2 ×106 eV. Da esperimenti sul passaggio dei neutroni attraverso la materia, viene discussa la frequenza delle loro collisioni con gli elettroni”.

Uno dei suoi argomenti era il seguente: se il berillio emette raggi γ, allora la reazione osservata sarebbe:

Chadwick osservò “che il difetto di massa del 13C è noto con sufficiente accuratezza da mostrare che l'energia emessa dal fotone in questo processo non può essere maggiore di circa 14×106 volt”.

"È difficile rendere un tale quanto responsabile degli effetti osservati". Chadwick concludeva: “Le difficoltà scompaiono, tuttavia, se si assume che la radiazione sia costituita da particelle di massa 1 e carica 0, o neutroni. Infatti, se la reazione è

c'è molta energia rimasta per il neutrone (n)”, dove n era il simbolo della nuova particella, con carica neutra (0). Nella sua interpretazione considerò che fosse prodotto 12C e non 13C.


“The new frontiers of the nouvelle vague”

Gli Joliot-Curie non si convinsero subito. Fecero ulteriori esperimenti, ma conclusero piuttosto rapidamente che questi esperimenti "forniscono un nuovo supporto per l'ipotesi del neutrone". In particolare, studiarono un'altra reazione nucleare che produce azoto (N):

e scoprirono che l'energia massima dei neutroni calcolata secondo questo schema di reazione concordava con l'energia misurata dei protoni espulsi quando erano colpiti dai neutroni. Inoltre, anche l'emissione di elettroni secondari di alta energia osservata era coerente con l'ipotesi del neutrone. Aggiunsero, tuttavia, che la radiazione era complessa e che oltre ai neutroni erano presenti raggi γ.

In effetti, le interpretazioni dei primissimi esperimenti erano complesse poiché l'elenco delle incognite era lungo. Sappiamo che neutroni, quanti e protoni di diversa energia, quindi con proprietà diverse, potrebbero essere trovati contemporaneamente in tali esperimenti. Inoltre, diversi tipi di rivelatori utilizzati negli esperimenti di Bothe, dei Curie di Chadwick e di altri che seguirono (compreso quello eseguito dall’italiano Franco Rasetti subito dopo il primo articolo di Chadwick) sembravano essere selettivamente sensibili a diversi tipi di radiazioni.

Nel 1934 Irène e Frédéric Joliot-Curie fecero la scoperta che li avrebbe portati entrambi al Nobel per la chimica l’anno successivo: isolarono alcuni elementi radioattivi naturali, e riuscirono a effettuare la trasmutazione di alcuni elementi (quali boro, alluminio e magnesio) in isotopi radioattivi sintetici. Questa scoperta era successivamente destinata a spianare la strada allo sviluppo della sintesi di radioisotopi, che sarebbero risultati di importante applicazione in ambiti quale quello medico.

Nel 1935 Joliot lasciò l'Istituto Curie per insegnare al Collège de France lavorando sulle reazioni a catena e sulla costruzione di un reattore nucleare basato sulla fissione per generare energia attraverso l'uso di uranio e acqua pesante. Joliot fu uno degli scienziati menzionati nella lettera Einstein-Szilárd inviata a Franklin Roosevelt come uno dei maggiori studiosi delle reazioni a catena. 

Nel periodo dell'invasione nazista della Francia nel 1940, Joliot nascose tutta la documentazione del lavoro svolto consegnandola facendola pervenire in Inghilterra. Durante l'occupazione, prese attivamente parte alla resistenza. Dopo la Liberazione, Frédéric Joliot divenne il primo Alto Commissario per l'Energia Atomica della Francia. Nel 1948 sovrintese la costruzione del primo reattore nucleare francese. Convinto comunista, venne sollevato dai suoi incarichi nel 1950 per ragioni politiche. Pur mantenendo la sua cattedra al Collège de France, alla morte di sua moglie nel 1956 ne rilevò il ruolo di direttore di Fisica Nucleare alla Sorbona. 

Irène morì di leucemia, causata dalla forte e prolungata esposizione a radiazioni ionizzanti dovuta al suo lavoro, il 17 marzo 1956 a Parigi. Due anni dopo per le stesse cause morì anche suo marito.

Niels Bohr e Werner Heisenberg si chiesero se il neutrone potesse essere una particella nucleare fondamentale come il protone e l'elettrone, piuttosto che una coppia protone-elettrone. Heisenberg dimostrò che il neutrone era meglio descritto come una nuova particella nucleare, ma la sua esatta natura rimaneva poco chiara. Alla fine, lo stesso Chadwick e Goldhaber provarono che la massa del neutrone era troppo grande per essere una coppia protone-elettrone.

Diversi scienziati rivedettero completamente l'intero panorama della ricerca nel campo della fisica nucleare. Pertanto, diversi autori, incluso Chadwick, presumevano che i neutroni fossero costituenti del nucleo. Il fisico e accademico sovietico Dmitry Yvanenko suggerì che i nuclei atomici consistessero solo di protoni e neutroni, non di protoni ed elettroni come nel precedente modello suggerito da Rutherford, che coinvolgeva elettroni “intranucleari”. Quasi contemporaneamente a Yvanenko, Werner Heisenberg e, l'anno successivo, Ettore Majorana ed Eugene Wigner applicarono la meccanica quantistica al nucleo e conclusero che questa scoperta semplificava enormemente la teoria del nucleo atomico; la forte interazione tra protoni e neutroni assicura la struttura nucleare e la stabilità. In breve, rimodellarono la teoria nucleare. 

Per la sua scoperta del neutrone, Chadwick ricevette il Premio Nobel per la Fisica nel 1935. Lasciò il Cavendish Laboratory nel 1935 per diventare professore di fisica all'Università di Liverpool, dove ristrutturò un laboratorio antiquato e, installando un ciclotrone, ne fece un importante centro per lo studio della fisica nucleare. Durante la Seconda Guerra mondiale entrò a far parte della Missione britannica presso il progetto Manhattan, e lavorò al Los Alamos Laboratory e a Washington. Per i suoi successi, Chadwick ricevette il titolo di cavaliere il 1° gennaio 1945. Nel luglio 1945, assistette al test nucleare Trinity. Successivamente, fu consulente scientifico britannico presso la Commissione per l'energia atomica delle Nazioni Unite. Si ritirò nel 1959. Morì nel sonno il 24 luglio 1974.

La sua scoperta ha permesso di produrre elementi più pesanti dell'uranio in laboratorio mediante la cattura di neutroni lenti seguita dal decadimento beta. A differenza delle particelle alfa cariche positivamente, che vengono respinte dalle forze elettriche presenti nei nuclei di altri atomi, i neutroni non hanno bisogno di superare alcuna barriera di Coulomb, e possono quindi penetrare ed entrare nei nuclei anche degli elementi più pesanti, come l'uranio. Ciò ispirò Enrico Fermi a studiare le reazioni nucleari provocate dalle collisioni di nuclei con neutroni lenti, lavoro per il quale avrebbe ricevuto il Premio Nobel nel 1938, ma questa è un’altra storia, e la racconterò un’altra volta.


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