giovedì 4 luglio 2013

Trasgredire le frontiere: note matematiche per tromboni filosofici


«I filosofi, muovendosi in mezzo al concetto di infinito senza l'esperienza e le 
precauzioni dei matematici, sono come navi immerse nella nebbia in un mare 
pieno di scogli pericolosi, e ciononostante felicemente ignari del pericolo» 
(Max Born, 1954, citato da Enrico Bellone) 

Nella primavera del 1996 il fisico americano Alan Sokal mandò alla rivista Social Text un lungo articolo dal curioso titolo Trasgredire le frontiere: verso un'ermeneutica trasformativa della gravità quantistica, che fu subito pubblicato benché fosse costellato di assurdità inserite di proposito nello stile strutturalista che piaceva ai curatori. La tesi del paper era che i settori più avanzati della fisica e della matematica confermano le tesi post-moderniste di autori come Lacan, Lyotard, Kristeva, Baudrillard, (e, più tardi, anche di Guattari, Derrida e Deleuze). Nell'articolo, Sokal attaccava “il dogma imposto da una lunga egemonia successiva al secolo dei Lumi, dal punto di vista intellettuale occidentale” che esiste un mondo esterno governato da leggi di natura che noi possiamo comprendere in modo imperfetto utilizzando il metodo scientifico. Egli sosteneva al contrario che la “realtà fisica (...) è in fondo una costruzione sociale e linguistica”

La nozione di struttura, elaborata dopo una lunga gestazione negli anni ‘60, nasceva in campo linguistico e si estese poi alla critica artistica e letteraria e infine alla psicanalisi e alle scienze sociali. Secondo gli strutturalisti, la realtà è un insieme organico scomponibile in elementi e unità, il cui valore funzionale è determinato dall'insieme dei rapporti fra ogni singolo livello e tutti gli altri. Scompariva l’oggetto dell’indagine, o, meglio, diventava invisibile, mentre ci si concentrava sulla rete di relazioni stabilita al suo interno o tra esso e altri oggetti, di cui si studiavano gli effetti. Fu ben presto evidente che la matematica, non più vista come scienza della rigida razionalità, poteva essere avvicinata alle scienze umane, in quanto anch'essa scienza della struttura, della relazione, dell’astrazione dalla realtà materiale. Si celebrò allora il matrimonio tra scienze umane e scienze matematiche (preceduto a dir la verità da un lungo fidanzamento con la statistica), unione feconda tanto di nuove potenzialità quanto, soprattutto, di equivoci. La matematica e la fisica moderne venivano ora viste come uno strumento ulteriore a disposizioni delle discipline dell’uomo. Fu, soprattutto in Francia, un’epoca di grande fervore intellettuale e di scoperte, di entusiasmi improvvisi, in cui si coniugavano liberamente la topologia con la psicanalisi, il Tao con la fisica quantistica, le geometrie non euclidee e quelle pluridimensionali, spesso confuse tra loro, con il femminismo, il trotzkismo o il teatro d’avanguardia.

Tra i concetti matematici preferiti di questa ubriacatura intellettuale c’erano quelli che, allo sguardo poco esperto degli umanisti, mettevano in discussione la linearità della conoscenza. Nacque una vera e propria infatuazione per oggetti come il nastro di Möbius, la bottiglia di Klein, il cross-cap (berretto incrociato), per teoremi come quello d’incompletezza di Gödel, e, in campo fisico, per la meccanica quantistica, in particolare per l’indeterminazione di Heisenberg. Si trattava di figure e concetti bizzarri, di cui si coglieva non il valore reale, espresso in linguaggio formale e non equivoco, ma quello estetico e metaforico, in cui la matematica e la fisica diventavano oggetto di gioco narrativo. Successe a questi concetti ciò che era accaduto negli anni ‘30 alle superfici algebriche, diventate oggetto di ispirazione per alcune correnti artistiche ma mai considerate al di là del loro valore estetico.


Il controverso psicologo e filosofo Jacques Lacan si faceva costruire modellini di tori e di nastri di Möbius per studiarvi gli effetti topologici di tagli e suture. Il nastro di Möbius, costituito da una sola superficie con un solo bordo, era il paradigma di quel rapporto tra esteriorità e interiorità che il soggetto lacaniano riconosceva non definito e privo di un confine certo tra esterno e interno, tra coscienza e inconscio. 

Perfidamente, Sokal riportava nell’articolo questa citazione da una conferenza tenuta da Lacan nel 1966:

“Questo diagramma [il nastro di Möbius] può essere considerato la base di un tipo di iscrizione essenziale all'origine, nel nodo che costituisce il soggetto. Ciò va molto al di là di ciò che si possa pensare inizialmente, perché si può cercare il tipo di superficie in grado di ricevere tali iscrizioni. Si può forse pensare che la sfera, antico simbolo della totalità, non sia adatta. Un toro, una bottiglia di Klein, una superficie rigata possono ricevere tale taglio. E questa diversità è molto importante, in quanto spiega molte cose sulla struttura del disagio mentale. Se si simboleggia il soggetto con questo taglio fondamentale, allo stesso modo si può mostrare che il taglio in un toro corrisponde al soggetto nevrotico, e uno su una superficie rigata a un altro tipo di disordine mentale”

Sembra abbastanza chiaro perché la lettura dei seminari di Lacan sia considerata unanimemente particolarmente ardua. Sempre a proposito del nastro di Möbius, Sokal avrebbe potuto essere ancor più cattivo. Lo fa in sue vece Andrea Pasquino, in Il teorema di Queneau. Il concetto matematico come struttura narrativa e investimento estetico (Liguori, 2003), riportando questo brano del filosofo Jean Baudrillard per fornire un esempio della gran confusione matematica sotto il cielo della postmodernità, dove l’oggetto matematico si confonde con il simbolo, il ragionamento deduttivo si fa analogia, la narrazione diventa mitologia, in una commistione di piani che sarebbe piaciuta al mistico esoterico Guénon, o ai surrealisti: 

“Non c’è topologia più bella di quella di Möbius per designare questa contiguità del vicino e del lontano, dell’interno e dell’esterno, dell’oggetto e del soggetto all'interno della stessa spirale, dove s’intrecciano sia lo schermo dei nostri calcolatori sia lo schermo mentale del nostro proprio cervello. E’ secondo lo stesso modello che l’informazione e la comunicazione tornano sempre su loro stesse in una circonvoluzione incestuosa, in una indistinzione superficiale del soggetto e dell’oggetto, dell’interno e dell’esterno della domanda e della risposta, dell’evento e dell’immagine, ecc. - che può risolversi solo chiudendo il cerchio, simulando la figura matematica dell’infinito” (da La trasparenza del male, Sugarco, Milano, 1991). 


Se Möbius e la topologia rappresentavano una realtà sempre più aggrovigliata su se stessa, Gödel forniva al bagaglio metaforico dei post-modernisti un’arma formidabile per mettere in dubbio il valore della nostra conoscenza del mondo attraverso il “determinismo” delle scienze esatte. Il teorema di incompletezza, al pari del principio di indeterminazione di Heisenberg, era citato continuamente per veicolare l’idea che la matematica potesse servire di supporto per significare non più il cosmos del rigore e dell’ordine, ma il chaos dell’indicibile e dell’incerto. La realtà diventava complessa, caotica, multidimensionale, persino “irrazionale”, e, non appena negli anni ‘70 fece la sua comparsa la geometria frattale, con le sue nozioni di ricorsività e autosimilitudine, subito entrò anch'essa nelle speculazioni pseudo-matematiche dei filosofi. 

Poco dopo la pubblicazione dell’articolo, Sokal denunciò la beffa su un'altra rivista, Lingua franca, provocando sia le violente reazioni da parte della cultura umanistica francese e dei suoi seguaci presenti nelle facoltà americane, sia anche l'approvazione di gran parte del mondo scientifico. Così spiegava: 

“In tutto l’articolo utilizzo dei concetti scientifici e matematici in una maniera che pochi scienziati e matematici possono prendere sul serio. Ad esempio, suggerisco che il “campo morfogenetico” - una curiosa idea new-age di Rupert Sheldrake - rappresenta una teoria superiore della gravità quantistica. Questa relazione è pura invenzione, e lo stesso Sheldrake non afferma nulla del genere. Io affermo che le speculazioni psicanalitiche di Lacan sono state confermate da lavori recenti nella teoria del campo quantistico. Persino dei lettori non specialisti avrebbero potuto domandarsi come questa diavolo di teoria del campo quantistico c’entri con la psicanalisi, è certo che il mio articolo non forniva alcun argomento ragionevole per sostenere questa relazione. 

Insomma, ho scritto intenzionalmente l’articolo in modo che ogni fisico o matematico competente (o uno studente di fisica o matematica) si rendesse conto che si trattava di una parodia. E’ chiaro che gli editori di Social Text non si sono posti il problema di pubblicare un articolo sulla fisica quantistica senza preoccuparsi di consultare un qualsiasi persona competente nel settore”. 

La conclusione che in molti trassero dalla vicenda fu che, siccome certa filosofia non si distingue dalla sua parodia, non è una cosa seria. Alla sua beffa Sokal fece seguire Imposture intellettuali (Garzanti, 1999): un libro scritto con Jean Bricmont, che mostrava con abbondanza di riferimenti come gran parte della filosofia postmoderna francese fosse colpevole di «manifesta ciarlataneria». 


Nel suo scherzo, Sokal era mosso da motivazioni serissime, essendo preoccupato dal fatto che quella cultura incoraggiasse il disinteresse per la realtà e per i contenuti concreti, soprattutto riguardo ai problemi sociali e politici che dovrebbero stare a cuore alla sinistra. Un tale disinteresse dipenderebbe proprio da quel «relativismo cognitivo» che ha spinto molti autori postmoderni a dichiarare che ogni cosa, e persino la stessa realtà fisica, non è nient'altro che una costruzione culturale o sociale. Ora, se ciò può essere di poca importanza per le scienze fisiche e matematiche, che comunque seguono paradigmi diversi, le "scienze umane" perdono invece ogni contatto con la realtà umana e sociale che vorrebbero indagare e magari cambiare. 

Secondo Sokal, uomo di tendenze politiche progressiste, il fatto che una rivista di sinistra come Social Text fosse cascata in un simile tranello non era episodico, ed era anche preoccupante. Questa tendenza al «relativismo cognitivo», con forti cedimenti alle pseudo-scienze e alle panzane di una certa cultura misticheggiante para- o pseudo- ambientalista stava diventando insopportabile, soprattutto perché caratterizzava molti intellettuali umanisti politicamente impegnati. Presa dalla vertigine strutturalista, la sinistra stava abbandonando le istanze di uguaglianza e l’approccio scientifico alla realtà, per inchinarsi al dominio dei parolai, i quali, ritenendo la realtà stessa una creazione del linguaggio, non riuscivano a vedere la spirale perversa di autoreferenza in cui si erano cacciati. Aprendo la strada allo scetticismo verso il sapere scientifico, queste correnti di pensiero hanno inoltre la responsabilità di aver restituito dignità al pensiero mitologico, alla marea new-age, al proliferare dei furbi di ogni risma che, sull'onda del favore popolare, propongono le loro ricette balzane spacciandole per “scienze alternative”. Personalmente condivido appieno queste preoccupazioni, con particolare riferimento a una certa sinistra italiana, tanto attenta a sondaggi o tirature, anche elettroniche, da dimenticare il ruolo trainante e formativo che devono avere gli intellettuali.

L’avvertimento di Sokal vale infatti soprattutto oggi, particolarmente osservando il panorama italiano (altro che francesi!), dove l’analfabetismo (non solo scientifico) raggiunge livelli impressionanti, sale la diffidenza verso la scienza e le sue istituzioni e si fanno strada timori infondati riguardanti i supposti pericoli derivanti dalla natura stessa della conoscenza scientifica. Questa situazione allarmante è stata messa in luce da Enrico Bellone, il compianto storico della scienza e grande divulgatore, in La scienza negata. Il caso italiano (Codice, 2005), che ha individuato precise responsabilità anche in molti intellettuali italiani, filosofi ma non solo. Il libro di Bellone merita tuttavia una trattazione più approfondita, perciò ne parlerò un’altra volta.


11 commenti:

  1. In veste di presidente di Commissione in un liceo scientifico, ma, sopratutto, come commissario di scienze per due anni consecutivi al liceo classico del nordico capoluogo leghista, gradirei semplicemente ringraziarla per lo splendido unguento curativo che la lettura delle sue parole costituisce per le mie provate orecchie.

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  2. scusasse professo', ma nalfabbetismo con una B sola e senza postrofi se scrive, che?

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  3. Il problema della definizione di "struttura" in matematica è molto piu difficile da esaurire di quel che sembra. La filosofia strutturalista, tanto per dire, si incarna in matematica nella teoria delle categorie, che è precedente di vent'anni agli anni 60. E le radici cui essa fa capo, culturalmente, sono ancora più antiche, e in matematica si possono tracciare credo nella pubblicazione dei primi lavori in algebra universale. La croce della teoria delle categorie è d'essere legata a doppio filo alla filosofia, nel senso appena detto, e quindi non è mai stata immune ai saccheggi di emeriti ignoranti, che non riescono a capire in quale senso i matematici interpretano il concetto carnapiano di funtore (oppure, meglio, non riescono a capire _ perché_ da Carnap Mac lane prese a prestito il termine).

    Da ultimo, la sbornia vera e propria cui la cultura umanistica assistette fu esente dal principio disciplinatore senza cui anche la matematica pura sarebbe deflagrata su sé stessa, il bourbakismo.

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  4. Tetrapharmakon: non a caso ho parlato di lunga gestazione.

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    1. Sì, certo, ma quello che intendevo dire io è che probabilmente ha confuso la gestazione con l'uscita dall'infanzia, e anzi forse addirittura con l'entrata nella pubertà. L'algebra universale era già ben formata negli anni sessanta: basta controllare su Wikipedia per rendersi conto che il libro di Birkhoff è del 1946, e chi tira per i capelli la storiografia facendone una questione di nomi fa notare che un trattato, ad opera dello stesso Whitehead che con Russel scrisse i principia, dal titolo "Universal algebra" data alla fine dell'Ottocento. Negli anni sessanta il paradigma strutturalista già aveva le braccia protese verso altri problemi molto più profondi: la semantica delle teorie algebriche (Lawvere), i problemi sulla fondazione categoriale della teoria degli insiemi (Feferman, Lawvere e altri), la teoria delle monadi come strumento unificatore di tutte le costruzioni universali dell'algebra elementare (Huber, Mac Lane, Eilenberg...).

      Va senza dire che questo non inficia la tesi dell'articolo, ma dato che mi sembra, giustamente, che qui si faccia della precisione storica un punto d'onore, ci tenevo a precisare una cosa che trovo essenziale per indagare seriamente la questione (che trovo molto interessante e vicina alla mia sensibilità di matematico). Lo strutturalismo, in matematica, è consistito e consiste nella teoria delle categorie. Tale teoria, il cui apogeo è localizzabile esattamente nel ventennio 1955-1975 (dai primi lavori organici in algebra omologica, alla scrittura di SGA4 da parte di Grothendieck), è stata positivamente influenzata, e in un certo senso disciplinata dal bourbakismo, che le ha impedito di scadere nella filosofia spicciola dandole fin dall'inizio dei problemi piuttosto concreti con cui misurarsi. Proprio Grothendieck fu nella intersezione dei promotori della teoria e dei ferventi bourbakisti, e non evitò mai di usare tecniche (il lemma di Yoneda in testa) che senza un appoggio concreto su cui venire testati e compresi sarebbero stati archiviati in fretta come esercizi di stile, solipsismo semantico o mero "abstract nonsense". Senza contare poi che proprio a lui si deve l'introduzione del concetto di topos, che è lo snodo per antonomasia di quello che oggi riconosciamo come un tripode (algebra, logica, geometria) studiabile unicamente per via strutturalista. Perciò: la sbornia ci fu, ma i matematici reggono molto bene l'alcool.

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  5. Tetrapharmakon è un gran burlone
    di Sokal
    l'imitazione,
    in più cita Bourbaki
    epperciò mi fermo
    qui.

    Ciao Popinga, bel post.
    yop

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  6. Farsi pescatori di granchi si finisce per professionalizzarsi: de "la cosa stessa", to pragma auto, è questione che viene dalla settima lettera platonica, e cui tanto la filosofia ha dibattito, compresi alcuni degli autori (Foucault) sopra citati.
    Che cos'è la cosa del pensiero?
    E poi esiste una relazione fra produzioni (poièmata) e passioni (pathèmata)?
    Oppure bastano le discipline (mathèmata) da sè a dire di ogni cosa?
    Ma poi questo dire (logos) riesce a pronunciare il nome? O meglio e per maggiore chiarezza, quale relazione corre fra significante (il nome) e significato (il discorso)ed il carattere denotativo dell'evidenza?

    Non si può che convenire con il senso profondo ed impronunciabile di questo post: il linguaggio, il nostro linguaggio, è necessariamente presupponente e oggetivante. Esso sup-pone e nasconde ciò che porta alla luce nell'atto stesso in cui lo porta alla luce. Il linguaggio è sempre, come già diceva Aristotele, un dire qualcosa su qualcosa. Ovvero, sempre linguaggio pre-sup-ponente e oggettivante. Questa è la significazione linguistica.
    Allora, il linguaggio può dire ciò che il nome che ha chiamato?

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  7. Per farla breve, per Lei la parola parla? La parola viene in aiuto della parola affinchè non resti sup-posta? Ed il piano dalla quale muove la parola per venire alla parola non quello della tradizione, nel senso etimologico della parola, cioè noi presupponiamo e tradiamo?
    E chiudiamo: il contenuto della rivelazione non è una verità esprimibile sotto forma di proposizioni linguistiche sull'esistente, ma, piuttosto, di una verità che concerne il linguaggio stesso, il fatto stesso che il linguaggio (e dunque la conoscenza) sia. Senso della rivelazione è che l'uomo può rivelare l'esistente attraverso il linguaggio, ma (come Lei stesso avverte come limite) non può rivelare il linguaggio stesso. Forse sarà per questo che in principio era il Verbo. Ad ogni modo, il limite che Lei ha avvertito è lo stesso che hanno avvertito coloro che non se lo sono nascosti. Poichè non c'è parola per la parola. Quello che è svelato non è come è il mondo (diamo a Wittgenstein ciò che è suo) ma semplicemente che il mondo è, che il linguaggio è. Per questo Dio, ahivoglia a provarci gli scienziati, non si rivela in qualcosa, ma a qualcosa. Rivelazione non significa questo o quell'enunciato sul mondo (sensibile?), non ciò che si può dire attraverso il linguaggio, ma che la parola, il linguaggio sono.
    Il fatto che Lei scriva e noi si legga non implica l'esistenza di nulla, tranne che del linguaggio. Il linguaggio è ciò che deve necessariamente presupporre se stesso. Senza questa apertura ci sono solo suoni, meri suoni. E che quando si affaccia il linguaggio alla rivelazione di sè a sè, allora sì che risulta evidente che la parola è in-significante, e che quella parola, senza significare nulla, significa la significazione stessa.
    E questa significazione che da voce al linguaggio. Sarà Dio? La fisica (e la cifra) quantistica? E chi lo sa!?
    Forse sarà per questa consapevolezza mai pienamente pronunciata che, passando dalla rivelazione, allo svelamento (e ri-velamento), la verità è oggi approdata alla verosimiglianza: la parola (nichilista) abbandonata da Dio, svelata ed espirata da sè ogni divino, ogni indicibile, non può che svelare il nulla di ogni cosa, scambiandolo per verosimile a qualcosa. Il nulla come ultimo velo, ultimo nome del linguaggio.
    Ma tutto sommato anche Lei riceverà dallo stesso Dio che profana la salvezza che desidera, ma a patto (un patto che Lei intravede ma che non riconosce speculare ancora) l'idea non è una parola e nemmeno di un oggetto fuori del linguaggio (un tale oggetto, un tale indicibile non v'è), ma visione del linguaggio. Nulla di immediato potrà mai essere raggiunto dall'uomo parlante, tranne che il linguaggio stesso, tranne che la mediazione stessa. Ovvero, la cosa stessa, e che è l'affare dell'uomo. E anche ciò che li unisce, e che è l'esperienza del limite del linguaggio, della sua fine.
    Questo è: non esposizione delle proprie idee sul linguaggio o sul mondo, ma esposizione dell'idea del linguaggio. Il piano della potenza. I nomi possono essere sola dati, tràditi, tramandati. Il discorso, invece, è oggetto di un'ars, suscettibile di un sapere tecnico-razionale. Per questo tutta quella gente lì ha discettato dell'incomprensibile, per redimersi dal peccato originale dell'uomo compiuto nell'Eden, aver comunicato qualcosa (all'infuori di sè). E fu Babele.

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  8. Egr. Si. N.O.I., sinceramente il suo duplice commento mi sembra fuori tema. A me non interessa che all'inizio ci fosse il Verbo o dell'energia primordiale, né con quale nome o in quale lingua Adamo chiamò le bestie create: mi interessa che si parli di ciò che si conosce, con le parole adatte. "Nec sutor ultra crepidam" o, se vuole una citazione filosofica "Wovon man nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen".

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  9. Gentile Marco, forse non sono stato chiaro: chi ha qualcosa da dire, tace.
    Tutto il rumore che sente, e alla quale ci affanniamo a posteriori a dargli un senso che l'esercizio stesso della produzione del rumore avrebbe dovuto già (pre-sup-ponendolo) possedere, è unicamente iperventilazione delle tonsille e/o esercizio ginnico delle falangi. Certamente piacevole, salubre, vitale, creativo, utile, interessante, socievole, necessario, curante, ecc ecc.
    Grazie

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  10. il nostro secolo ha una nuova religione (atea): la scienza, e i suoi talebani aspirano alla nascita di una nuova Inquisizione...

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