giovedì 8 dicembre 2022

Continuità dei parchi, la metastoria di Julio Cortàzar

 


Continuità dei parchi
è un racconto breve scritto dallo scrittore argentino Julio Cortázar nel 1956 (pubblicato solo otto anni dopo), che è, secondo il semiologo e critico messicano Lauro Zavala, "contemporaneamente la finzione e la metafinzione tra le più studiate nella storia della letteratura". Nel racconto, realtà e finzione si intrecciano attraverso una storia nella storia, che si incontrano prima della fine e che l’autore non definisce. La trama presenta un uomo che legge un romanzo di due amanti che si incontrano in una capanna nel bosco, con un piano per distruggere "quell'altro corpo": forse, ma non è detto, il marito della donna. La struttura della storia viene spezzata quando uno dei personaggi del romanzo, la storia incorporata, si introduce nella realtà della trama della trama.

Il nome del racconto fa riferimento ai tre contesti, o piani di realtà, che vengono identificati come “parchi”. Il primo comprende l'autore e il lettore di Continuità dei parchi, il secondo è la trama di un uomo d'affari che legge un romanzo, e il terzo è la storia incorporata dei due amanti.

Il racconto è diviso in due paragrafi. Il vero lettore inizia a leggere la storia innocentemente come il personaggio che legge il suo romanzo. Più vicini rispettivamente alla fine della storia e del romanzo incorporato, entrambi i lettori sentono che accadrà qualcosa di terribile. Nell'ultimo paragrafo il lettore-personaggio diventa una vittima e il vero lettore diventa colpevole per aver immaginato la morte del personaggio. La mancata chiusura della storia fa scomparire il finale, evidenziando la colpa del vero lettore, che si è reso vittima o complice della morte del personaggio mentre assisteva al delitto, che è solo suggerito, ma non descritto. La conclusione moltiplica i dubbi invece di svelare il mistero. Quando il personaggio che legge muore, le due realtà si confondono, ma morirà davvero?

Piuttosto che un mistero, la storia è in realtà una metafora dell'esperienza della lettura: il lettore di Cortázar si perde così tanto in un mondo immaginario che ne diventa letteralmente partecipe. È anche una metafora della nostra esperienza di lettura: siamo così presi dalla letteratura che, come il lettore in Continuità dei parchi, non possiamo più distinguere tra finzione e realtà. È anche una metafora dell'esperienza di scrittura: per creare mondi immaginari convincenti, lo scrittore deve perdersi nelle sue creazioni, proprio come il lettore di Cortázar si perde nel suo libro. Non possiamo identificare una spiegazione corretta per il finale sconcertante perché non esiste un'unica spiegazione. Invece, la storia è un'indagine su cosa significhi scrivere e leggere storie.

Continuità dei parchi

Aveva iniziato a leggere il romanzo qualche giorno prima. L'aveva lasciato per affari urgenti, lo riaprì tornando in treno alla fattoria; piano piano si fece coinvolgere dalla trama, al disegno dei personaggi. Quel pomeriggio, dopo aver scritto una lettera al suo avvocato e discusso con il maggiordomo di una questione di mezzadria, tornò al libro nella tranquillità dello studio che dava sul parco con le sue querce. Sdraiato sulla sua poltrona preferita, con le spalle alla porta che lo avrebbe infastidito come un'irritante possibilità di intrusioni, lasciò che la mano sinistra accarezzasse più e più volte il velluto verde e cominciò a leggere gli ultimi capitoli. La sua memoria conservava senza sforzo i nomi e le immagini dei protagonisti; l'illusione romanzesca lo conquistò quasi subito. Godeva del piacere quasi perverso di staccarsi riga per riga da ciò che lo circondava, e sentire nello stesso tempo che la sua testa era comodamente appoggiata sul velluto dell'alto schienale, che le sigarette erano ancora a portata di mano, che oltre le grandi finestre l'aria della sera danzava sotto le querce. Parola per parola, assorto nel sordido dilemma degli eroi, lasciandosi andare verso le immagini che si concertavano e acquistavano colore e movimento, assistette all'ultimo incontro nella baita di montagna. La donna entrava per prima, sospettosa; poi arrivava l'amante, con la faccia ferita dal colpo di un ramo. Mirabilmente lei tamponava il sangue con i suoi baci, ma lui rifiutava le sue carezze, non era venuto a ripetere le cerimonie di una passione segreta, protetto da un mondo di foglie secche e di sentieri furtivi. Il pugnale si stava riscaldando contro il suo petto, e sotto di esso batteva la libertà accovacciata. Il dialogo struggente scorreva attraverso le pagine come un flusso di serpenti, e sembrava che tutto fosse deciso per sempre. Anche quelle carezze che avviluppavano il corpo dell'amante quasi volessero trattenerlo e dissuaderlo, delineavano abominevolmente la figura di un altro corpo che era necessario distruggere. Nulla era stato dimenticato: alibi, possibilità, possibili errori. Da quell'ora in poi, ogni momento aveva il suo uso minuziosamente assegnato. La spietata doppia revisione fu interrotta appena una mano accarezzò una guancia. Cominciava a fare buio.

Senza più guardarsi l'un l'altro, rigidamente vincolati al compito che li attendeva, si separarono sulla porta della capanna. Lei doveva seguire il sentiero che andava a nord. Dal sentiero opposto lui si voltò brevemente per vederla correre con i capelli sciolti. Corse a sua volta, riparandosi tra gli alberi e le siepi, finché riuscì a distinguere nella foschia malva del crepuscolo il sentiero che conduceva alla casa. I cani non dovevano abbaiare e non abbaiavano. Il maggiordomo non sarebbe arrivato a quell'ora, e non lo era. Salì i tre gradini del portico ed entrò. Dal sangue che gli galoppava nelle orecchie gli uscirono le parole della donna: prima una stanza azzurra, poi una galleria, una scala tappezzata. In alto, due ante. Nessuno nella prima stanza, nessuno nella seconda. La porta del salone, e poi il pugnale in mano, la luce delle grandi finestre, l'alto schienale di una poltrona rivestita di velluto verde, la testa dell'uomo in poltrona che legge un romanzo.




Continuidad de los parques

Había empezado a leer la novela unos días antes. La abandonó por negocios urgentes, volvió a abrirla cuando regresaba en tren a la finca; se dejaba interesar lentamente por la trama, por el dibujo de los personajes. Esa tarde, después de escribir una carta a su apoderado y discutir con el mayordomo una cuestión de aparcerías, volvió al libro en la tranquilidad del estudio que miraba hacia el parque de los robles. Arrellanado en su sillón favorito, de espaldas a la puerta que lo hubiera molestado como una irritante posibilidad de intrusiones, dejó que su mano izquierda acariciara una y otra vez el terciopelo verde y se puso a leer los últimos capítulos. Su memoria retenía sin esfuerzo los nombres y las imágenes de los protagonistas; la ilusión novelesca lo ganó casi en seguida. Gozaba del placer casi perverso de irse desgajando línea a línea de lo que lo rodeaba, y sentir a la vez que su cabeza descansaba cómodamente en el terciopelo del alto respaldo, que los cigarrillos seguían al alcance de la mano, que más allá de los ventanales danzaba el aire del atardecer bajo los robles. Palabra a palabra, absorbido por la sórdida disyuntiva de los héroes, dejándose ir hacia las imágenes que se concertaban y adquirían color y movimiento, fue testigo del último encuentro en la cabaña del monte. Primero entraba la mujer, recelosa; ahora llegaba el amante, lastimada la cara por el chicotazo de una rama. Admirablemente restañaba ella la sangre con sus besos, pero él rechazaba las caricias, no había venido para repetir las ceremonias de una pasión secreta, protegida por un mundo de hojas secas y senderos furtivos. El puñal se entibiaba contra su pecho, y debajo latía la libertad agazapada. Un diálogo anhelante corría por las páginas como un arroyo de serpientes, y se sentía que todo estaba decidido desde siempre. Hasta esas caricias que enredaban el cuerpo del amante como queriendo retenerlo y disuadirlo, dibujaban abominablemente la figura de otro cuerpo que era necesario destruir. Nada había sido olvidado: coartadas, azares, posibles errores. A partir de esa hora cada instante tenía su empleo minuciosamente atribuido. El doble repaso despiadado se interrumpía apenas para que una mano acariciara una mejilla. Empezaba a anochecer.

Sin mirarse ya, atados rígidamente a la tarea que los esperaba, se separaron en la puerta de la cabaña. Ella debía seguir por la senda que iba al norte. Desde la senda opuesta él se volvió un instante para verla correr con el pelo suelto. Corrió a su vez, parapetándose en los árboles y los setos, hasta distinguir en la bruma malva del crepúsculo la alameda que llevaba a la casa. Los perros no debían ladrar, y no ladraron. El mayordomo no estaría a esa hora, y no estaba. Subió los tres peldaños del porche y entró. Desde la sangre galopando en sus oídos le llegaban las palabras de la mujer: primero una sala azul, después una galería, una escalera alfombrada. En lo alto, dos puertas. Nadie en la primera habitación, nadie en la segunda. La puerta del salón, y entonces el puñal en la mano, la luz de los ventanales, el alto respaldo de un sillón de terciopelo verde, la cabeza del hombre en el sillón leyendo una novela.

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