giovedì 1 dicembre 2022

Pietre da succhiare

 


C'è una scena in
Molloy, il primo romanzo (1951) della trilogia dell’assurdo di Samuel Beckett, in cui Molloy, un anziano ex vagabondo, racconta di quando si trovava su una spiaggia di ciottoli per raccogliere "sassi da succhiare" quando vagava in bicicletta.

Molloy ora vive in quella che pensa sia la stanza di sua madre, anche se ciò non è verificabile né per Molloy né per il lettore. Non sa come sia arrivato a vivere in questa stanza, ma si occupa di scrivere, e tollera l'intrusione quotidiana di una donna che apre la porta e vi mette accanto il cibo e tira fuori il vaso da notte, così come l'intrusione settimanale di un uomo che viene ogni domenica (Molloy pensa che sia domenica) per ritirare i suoi fogli (Molloy sembra dedicare parte del suo tempo a scrivere), restituire gli scritti della settimana precedente (che appaiono con una serie di segni redazionali) e dargli dei soldi. Molloy aveva in precedenza intrapreso un viaggio errabondo (soprattutto in bicicletta ma alla fine a piedi) per trovare sua madre, ma non ci era riuscito, ed è finito in qualche modo in quella stanza, ormai incapace di muovere le gambe. È la storia di questo viaggio disordinato, un pellegrinaggio senza santuari da raggiungere, che Molloy racconta ai suoi lettori.

Molloy non sa perché scrive o perché si trova nel luogo in cui si trova. Il suo racconto determina i limiti della testimonianza, nel senso che non c'è necessità di una sua estesa autobiografia: è un punto su una mappa narrativa, senza coordinate piuttosto che un personaggio con un luogo e una storia.

Il problema narrato da Molloy, a cui Beckett dedica un paragrafo di cinque pagine, è come distribuire le pietre da succhiare tra le sue quattro tasche in modo da succhiare ogni pietra a turno mentre le fa ruotare intorno nelle sue quattro tasche evitando così il "rischio diabolico" che "solo quattro pietre da succhio, sempre le stesse, girano e rigirano".
“Approfittai della mia permanenza al mare per sdraiarmi in un deposito di pietre da succhiare. Erano sassolini ma io li chiamo pietre. Sì, in questa occasione giacevo su un magazzino considerevole. Le distribuii equamente tra le mie quattro tasche e le succhiavo girando e rigirando”.
Dopo aver fatto una scorta di sedici pietre e averle distribuite equamente nelle sue quattro tasche - vale a dire quattro pietre in ciascuna - Molloy escogita un sistema per succhiarle tutte a turno.
“Preso un sasso dalla tasca destra del mio cappotto, e messolo in bocca, l'ho sostituito nella tasca destra del mio cappotto con un sasso dalla tasca destra dei calzoni, che ho sostituito con un sasso dalla tasca sinistra dei miei calzoni, che ho sostituito con un sasso della tasca sinistra del mio cappotto, che ho sostituito con il sasso che avevo in bocca, appena ho finito di succhiarlo. Quindi c'erano ancora quattro pietre in ciascuna delle mie quattro tasche, ma non proprio le stesse pietre”.

“In questo modo c'erano sempre quattro pietre in ciascuna delle mie quattro tasche, ma non proprio le stesse pietre. E quando la voglia di succhiare mi riprendeva, ho attinto ancora dalla tasca destra del mio cappotto, sicuro di non prendere lo stesso sasso dell'ultima volta. E mentre lo succhiavo riordinavo le altre pietre nel modo che ho appena descritto. E così via. Ma questa soluzione non mi soddisfaceva pienamente. Perché non mi sfuggiva che, per un caso straordinario, le quattro pietre che circolavano così potessero essere sempre le stesse quattro. In tal caso, lungi dal succhiare le sedici pietre che girano e girano, in realtà ne succhiavo solo quattro, sempre le stesse, a turno. Ma le agitavo bene nelle tasche, prima di cominciare a succhiare, e ancora, mentre succhiavo, prima di trasferirle, nella speranza di ottenere una circolazione più generale dei sassi di tasca in tasca. Ma questo era solo un ripiego che non poteva accontentare un uomo come me. Così ho iniziato a cercare qualcos'altro. E la prima cosa che mi venne in mente fu che avrei potuto fare meglio a trasferire i sassi a quattro a quattro, invece che uno a uno, cioè durante la suzione, prendere i tre sassi rimasti nella tasca destra del mio cappotto e sostituirli con i quattro nella tasca destra dei pantaloni, e questi con i quattro nella tasca sinistra dei pantaloni, e questi con i quattro nella tasca sinistra del mio cappotto, e infine questi con i tre nella tasca destra del mio cappotto, più quello, appena ebbi finito di succhiarlo, che avevo in bocca.

Sì, all'inizio mi sembrava che così facendo sarei arrivato a un risultato migliore. Ma a un'ulteriore riflessione dovetti ricredermi e confessare che la circolazione delle pietre quattro per quattro era esattamente la stessa cosa della loro circolazione una per una. Infatti, se ero certo di trovare ogni volta, nella tasca destra del mio cappotto, quattro sassi totalmente diversi dai loro immediati predecessori, restava tuttavia la possibilità di imbattermi sempre nella stessa pietra, all'interno di ogni gruppo di quattro, e di conseguenza di succhiare, non le sedici pietre che girano e girano come avrei voluto, ma in realtà solo quattro, sempre le stesse, che girano e girano. Quindi ho dovuto cercare altrove che nella modalità di circolazione.

Perché, per quanto facessi circolare i sassi, correvo sempre lo stesso rischio. Era ovvio che aumentando il numero delle mie tasche avrei dovuto aumentare le mie possibilità di godermi le mie pietre nel modo che avevo programmato, cioè una dopo l'altra fino ad esaurirne il numero. Se avessi avuto otto tasche, per esempio, invece delle quattro che avevo, allora anche l'azzardo più diabolico non avrebbe potuto impedirmi di succhiare almeno otto dei miei sedici sassi, girando e rigirando. Il nocciolo della questione è che avrei dovuto aver bisogno di sedici tasche per dissipare tutta la mia ansia. E per molto tempo non riuscii a vedere altra conclusione che questa, che senza avere sedici tasche, ciascuna con la sua pietra, non avrei mai potuto raggiungere la meta che mi ero prefissata, senza un rischio straordinario. E se all'occorrenza riuscivo a raddoppiare il numero delle mie tasche, non fosse altro che dividendo ogni tasca in due, con l'aiuto di qualche spilla da balia diciamo, quadruplicarle sembrava essere più di quanto potessi fare. E non mi sentivo incline a prendere tutto quel disturbo per una mezza misura. Perché stavo cominciando a perdere ogni senso della misura, dopo tutto questo lottare e litigare, e dire: o tutto o niente. E se sono stato tentato per un istante di stabilire una proporzione più equa tra le mie pietre e le mie tasche, riducendo le prime al numero delle seconde, è stato solo per un istante. Perché sarebbe stata un'ammissione di sconfitta. E seduto sulla riva, davanti al mare, le sedici pietre distese davanti ai miei occhi, le guardavo con rabbia e perplessità. (...)

E mentre guardavo così le mie pietre, rimuginando su interminabili martingale tutte egualmente difettose, e schiacciando manciate di sabbia, in modo che la sabbia mi scorreva tra le dita e ricadeva sulla spiaggia, sì, mentre tenevo così in sospeso la mia mente e una parte del mio corpo, un giorno all'improvviso la prima si rese conto, vagamente, che forse avrei potuto raggiungere il mio scopo senza aumentare il numero delle mie tasche o ridurre il numero delle pietre, ma semplicemente sacrificando il principio dell'assetto. Il significato di questa illuminazione, che all'improvviso cominciò a cantare dentro di me, come un verso di Isaia o di Geremia, non lo penetrai subito, e in particolare la parola assetto, che non avevo mai incontrato, rimase a lungo oscuro. Alla fine, mi sembrò di capire che questa assetto non poteva significare nient'altro, niente di meglio, che la distribuzione delle sedici pietre in quattro gruppi di quattro, un gruppo in ciascuna tasca, e che era mio rifiuto considerare qualsiasi distribuzione diversa da questa che aveva viziato i miei calcoli fino ad allora e reso il problema letteralmente insolubile. Ed è sulla base di questa interpretazione, giusta o sbagliata che sia, che alla fine sono arrivato a una soluzione, sicuramente poco elegante, ma sana, sana”.
Un'illuminazione. Se Molloy è disposto a sacrificare il principio dell'equa distribuzione - con quattro pietre in ogni tasca - una soluzione è facilmente raggiungibile. Mettendo sei pietre nella tasca in alto a sinistra, cinque in quella in basso a sinistra e cinque in quella in basso a destra, lascia vuota quella in alto a destra. È quindi libero di succhiare uno per uno i primi sei sassi, depositandoli poi nella tasca vuota. Una volta fatto ciò, ogni tasca di pietre può essere ruotata nella successiva, fino a quando quella in alto a sinistra non sarà di nuovo vuota, ripetendo all'infinito.

“C'era qualcosa di più di un principio che ho abbandonato, quando ho abbandonato l'equa distribuzione, era un bisogno corporeo. Ma succhiare i sassi nel modo che ho descritto, non a casaccio, ma con metodo, credo fosse anche un bisogno corporeo. Ecco allora due esigenze corporee incompatibili, ai ferri corti. Queste cose accadono”.
Ciò che mi ha attratto di questo monologo quando l'ho letto qualche giorno fa per la prima volta è quanto sia stranamente familiare. Non le specificità delle pietre, la distribuzione equa o la successiva suzione, ma piuttosto il senso generale di costrizione che comporta. Molloy presenta come un dato di fatto il succhiare pietre, che è un "bisogno corporeo" tanto quanto qualsiasi altro, e quindi la domanda sul "perché" diventa irrilevante. Come respirare, il semplice atto di succhiare pietre è una necessità evidente. Non è nemmeno chiaro se ne tragga una vera gioia.

Ciò che conta è la procedura. Se i sassi devono essere succhiati (e, per quanto riguarda Molloy, lo devono) allora non resta che decidere in che modo, ottenere la massima soddisfazione o efficienza. Che per Molloy sono più o meno la stessa cosa. È qui che il suo senso di costrizione diventa universale, riflettendo al suo interno il modo in cui implementiamo altre pulsioni umane meno aliene.

In realtà Molloy sta eseguendo un rituale, come quello che ha descritto Elvio Fachinelli in La Freccia ferma (Adelphi, 1992), dove “un uomo tenta di annullare il tempo, di rendere non avvenuto quanto gli accade”. Così, come ci sono persone che sentono il bisogno quasi fisico di evitare di calpestare le fughe delle piastrelle, Fachinelli parla del bisogno di un suo paziente di rifare subito al contrario ogni azione che disturba. Ogni azione, ogni parola pronunciata o pensata ha il suo contraltare “peccaminoso” ed ha bisogno di una sua depurazione attraverso un comportamento o un pensiero riparativo che, esso stesso però, può essere frainteso in una azione o pensiero di natura opposta, “peccaminosa”, in un circolo vizioso senza fine che porta inevitabilmente al punto di partenza in un tentativo di annullare il tempo.

Il paziente che Fachinelli descrive arriverà a trovare una soluzione segmentando il tempo in istanti sempre più piccoli sino ad arrivare, come nel paradosso di Zenone, alla conclusione che se il tempo può essere frammentato in segmenti sempre più piccoli, all’infinito, scollegati l’uno dall’altro, ognuno caratterizzato dall’avverbio “ora”, allora esso può essere fermato poiché è impossibile percorrere in un tempo finito spazi infiniti. Anzi, procedendo in senso inverso, si può anche arrivare ad annullare l’azione svolta, come una sorta di rewind in un videoregistratore.


Il tentativo di annullare il tempo alimenta la sensazione onnipotente di essere padrone del tempo. Fachinelli giunge a parlare di come questo meccanismo abbia caratterizzato la civiltà arcaica e non solo. Il tentativo di dominare il tempo e la sua ineluttabile conseguenza: la morte e il bisogno di non essere sopraffatti dal caos inteso come essere in balia degli eventi, attraverso meccanismi ossessivo-compulsivi, attraverso rituali e formule magiche, è sempre appartenuto all’armamentario mentale dell’uomo.

Forse queste cose sembrano lontane dal succhiare pietre su una spiaggia. Tuttavia, anche Molloy non è un individuo ben equilibrato. I suoi bisogni qui sono banali al confronto, eppure è per questo motivo che il bisogno stesso può diventare l'obiettivo principale del monologo. E, per quanto legato a una pratica ossessiva, c’è in Molloy una ricerca di ordine, di “un assetto” di fronte a un mondo privo di significato e incoerente, almeno per un po’:
“In fondo per me era lo stesso se succhiavo ogni volta un sasso diverso o sempre lo stesso sasso, fino alla fine dei tempi. Perché avevano tutti esattamente lo stesso sapore. E se ne avevo collezionati sedici, non era per zavorrarmi in questo o quel modo, o per succhiarli a turno, ma semplicemente per avere un po' di scorta, per non restare mai senza. Ma in fondo a me non importava un bel niente di restare senza, quando se ne fossero andati tutti se ne sarebbero andati tutti, non sarei stato peggio, o quasi. E la soluzione alla quale mi sono mosso alla fine è stata quella di buttare via tutte le pietre tranne una, che tenevo ora in una tasca, ora in un'altra, e che naturalmente presto perdevo, o buttavo via, o regalavo, o ingoiavo”.

Nessun commento:

Posta un commento