martedì 11 settembre 2018

Sylvester, o della rivincita del vecchio leone


Matematico, poliglotta, poeta e traduttore James Joseph Sylvester (1814-1897) diede contributi fondamentali alla teoria delle matrici, a quella degli invarianti, alla teoria dei numeri, a quella della divisibilità e al calcolo combinatorio. Ebbe una vita travagliata, in parte a causa delle sue origini ebraiche, in parte per il suo carattere orgoglioso, impulsivo e sanguigno. Al suo talento matematico, che si manifestò precocemente, si aggiungeva quello linguistico e umanistico: preadolescente, sapeva tradurre dal greco e dal latino e leggeva le opere dei principali matematici inglesi e francesi.

Appena compiuti i diciassette anni, nel 1831, Sylvester entrò al St. John’s College di Cambridge, ma, a causa di problemi di salute, poté laurearsi solo nel 1837, classificandosi secondo dietro un signor nessuno solamente perché non era cristiano. Solo dopo cinque anni avrebbe ottenuto i titoli accademici (Bachelor of Arts e Master), ma al Trinity College di Dublino, dove non erano in vigore le assurde restrizioni religiose imposte dalla Chiesa d’Inghilterra per poter ottenere il dottorato a Cambridge.

Nel 1838, a 24 anni, Sylvester ottenne il suo primo incarico regolare, come Professore di Filosofia Naturale all’University College di Londra. Tuttavia, insegnare fisica, chimica e scienze non gli piaceva e, dopo due anni, anche se era diventato membro della Royal Society, abbandonò il posto. Nel 1841 prese la ferale decisione di attraversare l’Oceano per assumere l’incarico di Professore di Matematica all'Università della Virginia: durò solo tre mesi. Le autorità accademiche rifiutarono di punire un giovane e ricco allievo che l’aveva offeso, e lui se ne andò. Rimase negli Stati Uniti un anno ancora, ma né Harvard né la Columbia University accettarono la sua candidatura. Scornato e deluso, tornò a Londra.

Nei successivi dieci anni si mantenne lavorando per una società d’assicurazioni e dando lezioni private di matematica. Forse Sylvester avrebbe abbandonato per sempre la matematica se non avesse conosciuto nel 1851 un altro grande come lui, Arthur Cayley, con il quale discuteva di matrici e invarianti e a commentava i lavori di Boole, Eisenstein e dello stesso Cayley. Sylvester, che non si sposò mai, lavorò dal 1854 (aveva oramai quarant'anni) come insegnante di matematica nel non molto prestigioso Collegio Militare Reale di Woolwich, fino a quando non fu messo forzatamente in pensione nel 1870 e dovette litigare per essere pagato interamente. Sembrava la fine della carriera per un matematico cinquantaseienne, che invece non aveva ancora espresso tutto il suo potenziale. Aveva intanto pubblicato alcuni articoli specialistici e ottenuto qualche soddisfazione: nel 1863 era stato nominato socio dell’Accademia Francese delle Scienze. 

Negli anni successivi, Sylvester si stabilì a Londra, scrivendo poesie, leggendo i classici, giocando a scacchi. Nel 1870 pubblicò un opuscolo intitolato The Laws of Verse, contenente anche alcune sue traduzioni di poeti di varie lingue, nel quale tentò di codificare le regole di metrica inglese per la poesia. Egli voleva applicare i principi scientifici alla poesia, ma il suo testo risulta piuttosto sconcertante da leggere, a causa dello stile estremamente prolisso, caratterizzato da innumerevoli subordinate, citazioni classiche e un imponente apparato di note a piè di pagina. Coleridge aveva definito la poesia come "Le migliori parole nel loro miglior ordine". Sylvester non era capace di esprimersi in modo così conciso, e diede una definizione abbastanza romantica. Per lui la poesia era: 
“la giunzione delle parole, la posa di esse debitamente affiancate l'una all'altra (come tubi di drenaggio fissati da una parte all'altra, o le terminazioni capillari delle vene e delle arterie) in modo da provvedere alla facile trasmissione e al flusso del respiro (... ) da una all'altra”. 
Improvvisamente, nel 1876, tornò alla vita matematica attiva, a 62 anni. L’anno precedente era stata fondata a Baltimora la Johns Hopkins University. Il presidente Gilman cercava figure prestigiose sia nel campo della cultura classica, sia in campo matematico. Gli fu segnalato il nome di Sylvester, che poteva occupare entrambi i ruoli. Gli scrisse e gli fece una generosa offerta. Insomma, Sylvester si imbarcò di nuovo per l’America. Vi sarebbe rimasto per sette anni, forse i migliori della sua vita, in cui poté finalmente fare quello che gli piaceva, ringiovanito e pieno di vigore e di entusiasmo. Insegnò Algebra Superiore, riprese i suoi studi sugli invarianti, divenne un ottimo divulgatore di uno dei settori di punta della matematica del tempo. Nel 1878 fondò l'American Journal of Mathematics, il primo giornale matematico americano. 


Il suo secondo periodo americano è segnato anche da un episodio curioso. Nel 1876 Sylvester pubblicò a proprie spese l’opuscoletto Fliegende Blaetter ("Foglie fuggitive") contenente un poema finto-eroico, un'ode a un'attrice che aveva interpretato Rosalind in una produzione del Cosi è, se vi pare di Shakespeare. L’opera ha una lunghezza di oltre 250 righe, ognuna delle quali termina con la stessa sillaba. L’autore, in vene di sperimentazioni, lo definì “uno studio in monocromia”, ma l’effetto è di una monotonia inarrivabile. Per dare un assaggio, cito le righe di chiusura, senza traduzione, che qui non interessa:

With each mortal thing unkinned 
Heaven's light comforting the blind 
To those tones of Orpheus twinned 
That could death's decrees rescind, 
Soft as notes of Jenny Lind 
Ere by Time's harsh sickle thinned, 
Thy swéet name, déar Rosalind! 
Rose smells sweet and soft spells 'lind', 
Soft, smooth, sweet, spell Rosalind. 

Pare proprio che Sylvester avesse il gran timore di non essere capito, perché riempì le pagine di note esplicative su ogni minimo particolare che potesse, a suo avviso, essere mal interpretato. Questo assillo per le note lo portò a una catastrofica conferenza. Il 18 febbraio 1879 salì sul palco di una stretta aula affollata di gente che, dicono le cronache, “si aspettava di trovare molto interesse o divertimento ad ascoltare questo unico esperimento lirico”. Tuttavia, il pubblico, invece di sentire la recita del poema, dovette assistere alla lettura delle numerose note e glosse che Sylvester aveva insistito di anteporre al testo, note che erano seguite da altre precisazioni e appunti verbali di chiarimento. Un suo studente tra il pubblico descrisse la scena in questo modo: “Dopo che ebbe finito di leggere il suo ultimo commento, guardò l’orologio e si accorse con terrore che era passata un’ora e mezza senza che l’uditorio avesse ancora sentito una sola sillaba di ciò che era venuto a sentire. Allo stupore sul suo viso rispose un’esplosione di risa. Solo allora, dopo essersi scusato e detto che chi aveva impegni poteva sentirsi libero di uscire, lesse il poema di Rosalind”. Fu un involontario esperimento d’avanguardia, in pieno stile sylvestriano. Ma le avventure non erano ancora terminate.


Nel 1883 si rese vacante la cattedra di geometria a Oxford, che fu proposta al settantenne Sylvester, che accettò di tornare in patria. Il vecchio leone, il cui valore era stato finalmente riconosciuto, arrivava per insegnare una branca completamente nuova, quella degli invarianti differenziali, o “reciprocanti”. Mantenne questa carica fino alla morte, anche se nel 1892 l'università nominò un altro professore come delegato al suo incarico. Inaugurò il corso il 12 dicembre 1885, tenendo una lettura che era la sintesi delle sue passioni.

Il lettore che non pratica la matematica non si spaventi per le misteriose scritture che seguono; si concentri solamente sulla più evidente differenza tra le due tabelle (matrici) nella figura, notando che nella prima manca l’elemento in basso a destra. Dal reciprocante elementare 


che Sylvester considerava come la “larva”, con opportune trasformazioni, sviluppò la matrice “crisalide” e la matrice “imago”:


Si vede che l’espressione “crisalide” è asimmetrica: il posto del nono termine è vacante. Ciò mosse l’immaginazione poetica di Sylvester, che così commentò, prima di introdurre il suo sonetto:

“Nel caso in cui ci occupiamo, l’inattesa assenza di un membro della famiglia, sulla cui presenza potevamo contare, mi ha impressionato e commosso al tempo stesso. Ho cominciato a pensarlo come una specie di Pleiade smarrita in una costellazione algebrica e infine, a forza di ruminarci sopra, ho trovato una valvola di sicurezza in un’effusione poetica, o meglio, uno scherzo poetico che mi azzardo a leggervi, pur temendo di essere tacciato di stravaganza. Ad ogni modo, questa lettura ci servirà almeno d’intermezzo e vi solleverà dallo sforzo imposto alla vostra attenzione, prima di passare alle mie osservazioni finali sulla teoria generale”


To a Missing Member of a Family Group of Terms in an Algebraical Formula 

Lone and discarded one! divorced by fate, 
Far from thy wished-for fellows—whither art flown? 
Where lingerest thou in thy bereaved estate, 
Like some lost star, or buried meteor stone? 

Thou minds't me much of that presumptuous one, 
Who loth, aught less than greatest, to be great. 
From Heaven's immensity fell headlong down 
To live forlorn, self-centred, desolate: 

Or who, new Heraklid, hard exile bore, 
Now buoyed by hope, now stretched on rack of fear, 
Till throned Astraea, wafting to his ear 
Words of dim portent through the Atlantic roar, 

Bade him "the sanctuary of the Muse revere 
And strew with flame the dust of Isis' shore." 

Al membro mancante di un gruppo famigliare di termini in una formula algebrica 

Solitario, messo al bando, separato dal destino, 
lontano dai compagni bramati - dove sei volato? 
Dove langui nella tua orbata condizione, 
come una stella perduta, o un meteorite sepolto? 

Tu mi porti alla mente assai quel presuntuoso, 
che superbo, quasi il più grande, per essere grande, 
dall'immensità del Cielo precipitò a testa in giù 
per vivere misero, in sé racchiuso, desolato, 

o colui che, novello Eraclide, patì un duro esilio, 
ora animato dalla speranza, ora torturato dalla paura, 
finché la regale Astrea, suggerendogli all'orecchio 
 parole di vago portento nel mugghio dell’Atlantico, 

gli comandò “il santuario della Musa riverisci 
e cospargi di fiamme la polvere della costa di Iside”. 

Dove il riferimento della seconda quartina è a Lucifero e alla sua caduta (probabilmente il Paradise Lost di Milton), mentre quello della prima terzina sembra, mascherato da riferimento classico, una nota sulla propria vicenda di due volte esule, ritornato infine in patria a costruire, invitato da Astrea, o Dike, dea della Giustizia, esule in Cielo quando gli uomini iniziarono la bellicosa età del bronzo, una nuova città matematica, di nuovo ispirato dalle Muse. 


Molti dei lavori matematici di Sylvester contengono citazioni prese dalla poesia classica, di cui era un grande esperto. Il suo senso per la vicinanza della matematica con le arti più “spirituali” si manifesta di frequente nei suoi scritti. Come ebbe a scrivere: 
 “L'incongruenza tra matematica avanzata e composizione in versi è più apparente che reale. La matematica inizia come un'arte pratica, passando quindi alla forma di una scienza, emergendo di nuovo come un'arte di un ordine superiore - un'arte raffinata – plastica nelle mani di il matematico, obbediente e formata dalla sua volontà, che quasi concede il libero gioco della fantasia su di sé”.
Morì a Londra 15 marzo 1897, tre anni dopo essersi ritirato dall'insegnamento per problemi alla vista.

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