L’eccentrico e prevenuto Du Garbandier assicura che «Il fascino supremo che il lettore scopre leggendo una pagina di de Selby è che essa lo conduce alla felice certezza di non essere, di tutti gli imbecilli, il più grande». Incompreso, controverso, solitario, il pensiero di De Selby costituisce una sfida alle convenzioni comuni, uno squarcio nella tela delle credenze assodate, una sfida per i paradigmi scientifici e sociali dominanti. Ecco una piccola presentazione delle idee di questo dotto d’Irlanda, nella speranza che la sua conoscenza apra nuovi orizzonti alle giovani generazioni e all’umanità intera. Per chi, incuriosito da queste mie note, volesse approfondire la conoscenza di questo singolare pensatore, consiglio la lettura de Il terzo poliziotto di Flann O’Brien, uscito per i tipi di Adelphi nel 1992. Che il libro di O'Brien sia stato scritto negli anni '30 e sia uscito postumo solo nel 1967 è a mio parere un indice della scomodità delle idee di de Selby per l'establishment filosofico e scientifico.
Case
De Selby considera una fila di case come una fila di mali necessari. Attribuisce il rammollimento e la degenerazione della razza umana alla sua crescente predilezione per i luoghi chiusi e al sempre più scarso interesse per l’arte di uscire e stare all’aperto. Questa predilezione, a sua volta, è secondo lui, il risultato di attività come la lettura, il gioco degli scacchi, il bere, il matrimonio e cose del genere, ben poche delle quali possono essere esercitate convenientemente all’aperto. Egli definisce una casa “una vasta bara”, “una conigliera”, “una scatola”. È chiaro che la sua principale obiezione andava al senso di imprigionamento dato da un tetto e da quattro pareti. Attribuiva virtù terapeutiche piuttosto improbabili a certe strutture di sua invenzione, di cui si possono vedere alcuni rozzi disegni nelle pagine del suo Album di campagna. Queste strutture erano di due tipi: “case” senza tetto e “case” senza pareti. Le prime avevano porte e finestre senza chiusure e un’assai poco maneggevole sovrastruttura di tele cerate arrotolate su stanghe a protezione dalla pioggia. L’altro tipo aveva un normale tetto spiovente di ardesia, ma era privo di pareti, tranne che sul lato da cui in prevalenza spirava il vento; intorno agli altri lati c’erano le solite cerate arrotolate su stanghe sospese alle grondaie del tetto, e l’intera struttura era circondata da un canaletto che ricordava vagamente le latrine militari. Alla luce delle moderne teorie abitative e igieniche, non v’è dubbio che queste idee fossero grossolanamente sbagliate, ma ai suoi tempi remoti, più di una persona malata perse la vita illudendosi di ritrovare la salute in queste fantasiose dimore.
Giorno e notte
De Selby avanza l’ipotesi che la notte, lungi dall’essere causata dalla comunemente accettata teoria dei movimenti planetari, sia dovuta ad accumulazioni di “aria nera”, e cioè una tinta dell’atmosfera dovuta a certe attività vulcaniche troppo fini per essere viste a occhio nudo, nonché a certe “deplorevoli” attività industriali che producono cascami di carbone e tinture vegetali.
Come per tanti altri concetti di de Selby, è difficile cogliere il meccanismo dei suoi ragionamenti e confutare le sue curiose conclusioni. Le “eruzioni vulcaniche” si verificano solitamente alla “sera”, sono stimolate dal fumo e dalle combustioni industriali del “giorno” e sono intensificate in certi luoghi che, in mancanza di un termine migliore, possiamo chiamare “luoghi bui”. Un luogo buio è tale perché vi “germina” il buio. De Selby non fa alcun tentativo per spiegare per quale ragione un “luogo buio”, quale ad esempio una cantina, debba essere buio, e non definisce le condizioni che devono sussistere uniformemente in tutti i luoghi del genere perché la teoria abbia un fondamento. L’unica spiegazione offerta è la dichiarazione che “l’aria nera” è altamente combustibile, come sarebbe dimostrato dal fatto che enormi masse d’aria sono immediatamente consumate dalla più piccola fiammella.
Manca qualsiasi indizio di quegli esperimenti con i quali De Selby cercava sempre di sostenere le sue idee. Kraus (forse uno pseudonimo dietro il quale si nasconderebbe il maligno e ostile Du Garbandier) ci parla per una quarantina di pagine di certi esperimenti aventi soprattutto lo scopo di imbottigliare una certa quantità di “notte”. Le operazioni di imbottigliamento erano eseguite “per ovvie ragioni” con bottiglie di vetro nero, ma furono usate “con un certo successo” anche brocche di porcellana opaca.
Confutazione del movimento
Tra le molte sorprendenti dichiarazioni di de Selby, credo che nessuna possa competere con la tesi che «un viaggio è un'allucinazione». La frase si trova nell'Album di campagna accanto al ben noto trattato sui «tendamenta», le coperture di tela ch'egli sosteneva quali sostituti delle odiate case. La sua teoria, per quanto è dato comprenderla, sembra negare ogni valore di testimonianza all'esperienza umana. De Selby l'ha infatti definita come «una successione di esperienze statiche, ciascuna infinitamente breve».
Da questa premessa egli svaluta la realtà o la verità di qualunque progressione o serialità nella vita, nega il passaggio del tempo secondo il senso tradizionalmente accettato e attribuisce la comune sensazione di progressione, per esempio, nel viaggiare da un posto all'altro, o anche semplicemente nel «vivere», a un fenomeno allucinatorio. Se uno sta fermo in A, egli dice, e desidera stare in un luogo B, lontano da A, può farlo solo rimanendo fermo per intervalli infinitamente brevi in un numero infinito di luoghi intermedi. Pertanto, non v'è alcuna essenziale differenza tra ciò che accade quando uno sta fermo in A prima di partire per il «viaggio», e ciò che accade quando sta in uno dei tanti luoghi intermedi. De Selby parla di questi «luoghi intermedi» in una lunga nota a pie di pagina. Non si tratta, avverte, di punti arbitrariamente determinati sull'asse A-B, distanziati di tanti centimetri o di tanti metri. Li si deve intendere, invece, come punti infinitamente vicini tra di loro, e tuttavia sufficientemente distanziati da consentire l'inserzione, tra l'uno e l'altro, di una serie di altri «punti inter-intermedi», tra i quali si deve immaginare un'altra catena di altri punti di sosta, naturalmente non rigorosamente adiacenti, bensì disposti in modo da permettere l'applicazione dello stesso principio all'infinito.
Case
De Selby considera una fila di case come una fila di mali necessari. Attribuisce il rammollimento e la degenerazione della razza umana alla sua crescente predilezione per i luoghi chiusi e al sempre più scarso interesse per l’arte di uscire e stare all’aperto. Questa predilezione, a sua volta, è secondo lui, il risultato di attività come la lettura, il gioco degli scacchi, il bere, il matrimonio e cose del genere, ben poche delle quali possono essere esercitate convenientemente all’aperto. Egli definisce una casa “una vasta bara”, “una conigliera”, “una scatola”. È chiaro che la sua principale obiezione andava al senso di imprigionamento dato da un tetto e da quattro pareti. Attribuiva virtù terapeutiche piuttosto improbabili a certe strutture di sua invenzione, di cui si possono vedere alcuni rozzi disegni nelle pagine del suo Album di campagna. Queste strutture erano di due tipi: “case” senza tetto e “case” senza pareti. Le prime avevano porte e finestre senza chiusure e un’assai poco maneggevole sovrastruttura di tele cerate arrotolate su stanghe a protezione dalla pioggia. L’altro tipo aveva un normale tetto spiovente di ardesia, ma era privo di pareti, tranne che sul lato da cui in prevalenza spirava il vento; intorno agli altri lati c’erano le solite cerate arrotolate su stanghe sospese alle grondaie del tetto, e l’intera struttura era circondata da un canaletto che ricordava vagamente le latrine militari. Alla luce delle moderne teorie abitative e igieniche, non v’è dubbio che queste idee fossero grossolanamente sbagliate, ma ai suoi tempi remoti, più di una persona malata perse la vita illudendosi di ritrovare la salute in queste fantasiose dimore.
Giorno e notte
De Selby avanza l’ipotesi che la notte, lungi dall’essere causata dalla comunemente accettata teoria dei movimenti planetari, sia dovuta ad accumulazioni di “aria nera”, e cioè una tinta dell’atmosfera dovuta a certe attività vulcaniche troppo fini per essere viste a occhio nudo, nonché a certe “deplorevoli” attività industriali che producono cascami di carbone e tinture vegetali.
Come per tanti altri concetti di de Selby, è difficile cogliere il meccanismo dei suoi ragionamenti e confutare le sue curiose conclusioni. Le “eruzioni vulcaniche” si verificano solitamente alla “sera”, sono stimolate dal fumo e dalle combustioni industriali del “giorno” e sono intensificate in certi luoghi che, in mancanza di un termine migliore, possiamo chiamare “luoghi bui”. Un luogo buio è tale perché vi “germina” il buio. De Selby non fa alcun tentativo per spiegare per quale ragione un “luogo buio”, quale ad esempio una cantina, debba essere buio, e non definisce le condizioni che devono sussistere uniformemente in tutti i luoghi del genere perché la teoria abbia un fondamento. L’unica spiegazione offerta è la dichiarazione che “l’aria nera” è altamente combustibile, come sarebbe dimostrato dal fatto che enormi masse d’aria sono immediatamente consumate dalla più piccola fiammella.
Manca qualsiasi indizio di quegli esperimenti con i quali De Selby cercava sempre di sostenere le sue idee. Kraus (forse uno pseudonimo dietro il quale si nasconderebbe il maligno e ostile Du Garbandier) ci parla per una quarantina di pagine di certi esperimenti aventi soprattutto lo scopo di imbottigliare una certa quantità di “notte”. Le operazioni di imbottigliamento erano eseguite “per ovvie ragioni” con bottiglie di vetro nero, ma furono usate “con un certo successo” anche brocche di porcellana opaca.
Confutazione del movimento
Tra le molte sorprendenti dichiarazioni di de Selby, credo che nessuna possa competere con la tesi che «un viaggio è un'allucinazione». La frase si trova nell'Album di campagna accanto al ben noto trattato sui «tendamenta», le coperture di tela ch'egli sosteneva quali sostituti delle odiate case. La sua teoria, per quanto è dato comprenderla, sembra negare ogni valore di testimonianza all'esperienza umana. De Selby l'ha infatti definita come «una successione di esperienze statiche, ciascuna infinitamente breve».
Da questa premessa egli svaluta la realtà o la verità di qualunque progressione o serialità nella vita, nega il passaggio del tempo secondo il senso tradizionalmente accettato e attribuisce la comune sensazione di progressione, per esempio, nel viaggiare da un posto all'altro, o anche semplicemente nel «vivere», a un fenomeno allucinatorio. Se uno sta fermo in A, egli dice, e desidera stare in un luogo B, lontano da A, può farlo solo rimanendo fermo per intervalli infinitamente brevi in un numero infinito di luoghi intermedi. Pertanto, non v'è alcuna essenziale differenza tra ciò che accade quando uno sta fermo in A prima di partire per il «viaggio», e ciò che accade quando sta in uno dei tanti luoghi intermedi. De Selby parla di questi «luoghi intermedi» in una lunga nota a pie di pagina. Non si tratta, avverte, di punti arbitrariamente determinati sull'asse A-B, distanziati di tanti centimetri o di tanti metri. Li si deve intendere, invece, come punti infinitamente vicini tra di loro, e tuttavia sufficientemente distanziati da consentire l'inserzione, tra l'uno e l'altro, di una serie di altri «punti inter-intermedi», tra i quali si deve immaginare un'altra catena di altri punti di sosta, naturalmente non rigorosamente adiacenti, bensì disposti in modo da permettere l'applicazione dello stesso principio all'infinito.
L'illusione di progressione, egli dice, è da attribuirsi all'incapacità del cervello umano («nel suo presente sviluppo») di cogliere la realtà di questi «punti di sosta» separati, preferendo raggruppare insieme molti milioni di essi e chiamando il risultato «movimento»: procedimento assolutamente indifendibile, poiché lo stesso corpo non può assumere simultaneamente posizioni diverse, fossero anche solo due. Pertanto, anche il movimento non è che un'illusione.
Quale che sia la fondatezza delle teorie di de Selby, è ampiamente provato non solo che egli ne era sinceramente convinto, ma che fece diversi tentativi per metterle in pratica. Durante il suo soggiorno in Inghilterra, gli capitò di vivere per un certo periodo a Bath, e si trovò nella necessità di recarsi a Folkestone per affari urgenti. Il metodo che seguì fu tutt'altro che convenzionale. Invece di andare alla stazione, si chiuse in una stanza del suo appartamento con una provvista di cartoline illustrate della zona che avrebbe dovuto attraversare lungo il viaggio e di un complesso armamentario di orologi, strumenti barometrici e un congegno per regolare la luce a gas, a seconda dei cambiamenti di luce all'esterno. Che cosa accadde in quella stanza, e con quanta precisione furono manipolati gli orologi e gli altri arnesi, non si è mai. saputo. A quanto pare, dopo sette ore, egli ne emerse convinto di essere a Folkestone. Non si ha notizia del grado della sua delusione quando si ritrovò nel suo solito quartiere di Bath, ma secondo una testimonianza autorevole, sostenne, senza batter ciglio, di essere stato a Folkestone e di esserne già di ritorno. Si parla di un tale (il cui nome è rimasto sconosciuto) che dichiarò di aver effettivamente visto il pensatore uscire da una banca di Folkestone proprio quel giorno.
Il tempo
De Selby fu sempre affascinato dagli specchi, e vi faceva ricorso con tanta frequenza che asseriva di avere due mani sinistre e di vivere in un mondo arbitrariamente delimitato da una cornice di legno. Il suo commentatore Hatchjaw invoca a conferma di ciò le circa trecento pagine manoscritte dell’Album, in cui la scrittura va da destra a sinistra, come i Codici di Leonardo. Gli specchi furono all’origine della sua teoria del tempo.
Se un uomo si pone davanti a uno specchio e vede in esso la propria immagine riflessa, questa non è una vera riproduzione della sua persona, ma un'immagine di quando egli era più giovane. La spiegazione che de Selby dà di questo fenomeno è semplicissima. La luce, com'egli giustamente osserva, viaggia a una velocità finita e accertata. Pertanto, affinché il riflesso di un qualsiasi oggetto in uno specchio possa dirsi compiuto, è necessario che i raggi di luce prima colpiscano l'oggetto e successivamente collidano con la superficie dello specchio per poi essere nuovamente respinti verso l'oggetto. C'è pertanto un apprezzabile e calcolabile intervallo di tempo tra l'atto del gettare un'occhiata alla propria faccia riflessa in uno specchio e la registrazione dell'immagine riflessa nell'occhio di chi guarda.
Giusta o sbagliata che sia quest'idea, la quantità di tempo è talmente trascurabile che poche persone ragionevoli ne farebbero una questione. Ma de Selby, mai contento, si spinse più in là: egli rifletté la prima immagine riflessa in un secondo specchio, e dichiarò di notare in questa seconda immagine infinitesimali cambiamenti. Alla fine, costruì il suo famoso sistema di specchi paralleli, ciascuno dei quali riflette, un numero infinito di volte, immagini sempre più piccole dell'oggetto interposto. L'oggetto interposto, in questo caso, era la sua faccia, che egli sostiene di aver studiato percorrendo a ritroso un'infinità di immagini riflesse con l'ausilio di una «potentissima lente». Ciò ch'egli dichiara di aver visto con questa lente è stupefacente. Nelle immagini della sua faccia man mano che si allontanavano, egli sostiene di aver notato crescenti segni di ringiovanimento: la più distante, troppo piccola per essere visibile a occhio nudo, era la faccia imberbe di un ragazzino di dodici anni - per usare le sue stesse parole, «un sembiante di singolare bellezza e nobiltà». L'esperimento non poté essere condotto fino alla culla «a causa della curvatura terrestre e della limitata potenza del telescopio».
La forma della Terra
L'opera di de Selby, letta con obiettività per ciò che c'è scritto, offre una certa misura di autentico sostegno morale. Nell'Atlante del laico egli tratta esplicitamente i temi del lutto, della vecchiaia, dell'amore, del peccato, della morte e altre salienti questioni esistenziali. È anche vero che concede loro appena una mezza dozzina di righe, ma ciò è dovuto alla sua sconvolgente asserzione che tutte queste cose sono «superflue». Egli fa quest'affermazione come diretta conseguenza della sua scoperta che la Terra, lungi dall'essere sferica, è «a forma di salsiccia».
Ponendosi in un punto della presunta sfera, egli dice, sembrerebbe possibile muoversi verso quattro principali direzioni, e cioè nord, sud, est, ovest. Ma non ci vuol molto per capire che, in realtà, le direzioni sono due soltanto, in quanto il nord e il sud sono concetti privi di significato in rapporto a uno sferoide, e possono connotare il movimento in una direzione soltanto; lo stesso discorso vale per l'est e l'ovest. È possibile infatti raggiungere qualsiasi punto sulla linea nord-sud muovendosi così nell'una come nell'altra direzione: l'unica differenza manifesta tra le due «strade» riguarda il tempo e la distanza, aspetti estranei alla questione e dei quali si è già dimostrata l'illusorietà. Nord-sud è pertanto un'unica direzione, e così pure, chiaramente, est-ovest. Anziché quattro direzioni, dunque, ve ne sono due soltanto. Da ciò si può legittimamente concludere, dice de Selby, che anche quest'ultima tesi contenga un errore analogo e che vi sia in realtà una sola direzione possibile, poiché se uno parte da un qualsiasi punto del globo e continua ad avanzare in una qualsiasi «direzione», finisce per arrivare nuovamente al punto di partenza.
L'applicazione di questa conclusione alla sua teoria che «la terra è una salsiccia» è illuminante. Egli attribuisce l'idea che la terra sia sferica al fatto che gli esseri umani si spostano continuamente in una sola direzione conosciuta (pur essendo convinti d'esser liberi di muoversi in qualunque direzione) e che quest'unica direzione è in realtà intorno alla circonferenza circolare di una terra che è di fatto salsicciforme. È difficilmente contestabile che dalla fallacia della multidirezionalità derivi inevitabilmente quella della sfericità della terra. De Selby paragona la posizione di un essere umano sulla terra a quella di un equilibrista, il quale deve continuare a camminare lungo il filo teso o perire, pur essendo tuttavia libero sotto ogni altro riguardo. Il movimento entro questa ristretta orbita risulta nella permanente allucinazione convenzionalmente nota come «vita», con le sue innumerevoli e concomitanti limitazioni, afflizioni e anomalie. Se si riuscisse a trovare un modo per scoprire la « seconda direzione», dice de Selby, quella, cioè, lungo il «cilindro» della salsiccia, all'umanità si aprirebbe un mondo di sensazioni e di esperienze interamente nuovo. Nuove e inimmaginabili dimensioni sostituirebbero l'ordine attuale, e le molteplici «superfluità» dell'esistenza «unidirezionale» scomparirebbero.
De Selby è piuttosto vago sul metodo da usare per trovare questa nuova direzione. Non può certo essere, ammonisce, quello di una microscopica suddivisione dei punti conosciuti della bussola, e ben poco assegnamento si può fare su una serie di balzi improvvisi in questa o quella direzione, nella speranza di un qualche caso fortunato. Egli dubita che le gambe umane siano «adatte» per attraversare il «celestium longitudinale» e sembra suggerire che alla scoperta della nuova direzione sia pressoché sempre concomitante la morte.
Come sempre, esiste la prova ch'egli condusse alcuni esperimenti personali in proposito. Pare che a un certo momento egli sia giunto a vedere nella gravitazione il «carceriere» dell'umanità, ossia ciò che la mantiene sulla linea unidirezionale dell'oblio, mentre la libertà ultima sarebbe da ricercarsi in una qualche direzione ascensionale. Quale possibile rimedio passò alcune settimane a progettare certe «pompe barometriche» azionate «con mercurio e fil di ferro» destinate a depurare vaste aree terrestri dall'influenza della gravitazione.
Popinga, non mi riesce di capire come tu prenda le asserzioni di questo strambalato filosofo: cioè è da compiangere o da prendere seriamente?
RispondiEliminaComunque, complimenti per il tuo sito. E' stato un vero piacere venirti a trovare.
Caro Anonimo, tra tanti foux litteraires veri ne ho inserito uno che è una creatura letteraria di Flann O’Brien. Naturalmente i miei commenti seriosi sono parte del gioco. De Selby, come afferma uno dei suoi finti commentatori, è un vero imbecille.
RispondiEliminaGrazie per i complimenti!
Fanstastico O'Brien, e fantastico pure De Selby.
RispondiEliminaDel "Terzo poliziotto" varrebbe la pena raccontare la teoria mollicolare applicata alla bicicletta.
Mi sollazzerebbe approfondire. Che tu sappia esiste qualcosa del sommo imbecille pubblicato in italiano? Grazie per avermi mosso a curiosità.
RispondiEliminaNulla di pubblicato. Temo sia un personaggio di fantasia. Purtroppo.
RispondiEliminaAnonimo: è un personaggio di fantasia de Il terzo poliziotto di Flann O’Brien, libro di gran divertimento. Ho voluto proseguire il gioco dell'autore irlandese considerando De Selby come un folle letterario. In effetti è un folle prodotto dalla letteratura, non un folle produttore di letteratura.
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