“Non ci occupiamo di solito, in questa rubrica, di libri scientifici. Ma faremo uno strappo per quest’opera (Gualtiero Garappella,
Finalmente svelato l’enigma cinese, ed. Medusa, Roma, 1975), dato che si legge come un romanzo (cosa che non può dirsi di tanti romanzi). Quante volte non si è chiesto, l’Occidente perplesso: “Come faranno a capirsi i cinesi fra loro?” Ebbene, la risposta del prof. Garappella suona semplice e definitiva: “Essi non si capiscono”. E se non si capiscono fra loro è perché non possiedono lo strumento all’uopo indispensabile: la lingua cinese, infatti, non esiste.
Esistono, sì, dei suoni
tipicamente cinesi (gorgogli, mugolii, miagolii, rantoli, zufoli, gargarismi, con in mezzo ogni tanto qualche sillaba più o meno articolata) come esistono degli
ideogrammi, spesso artisticamente eseguiti, alla Capogrossi; ma non esiste alcun nesso o rapporto (logico o semantico) fra quei suoni (gutturali o cantilenanti) e quei segni bizzarri. Non solo! Non esiste neanche un codice all’interno del quale i varii suoni si colleghino fra loro – e i segni fra loro – e gli uni e gli altri a cose, animali, sentimenti, enti astratti o persone. Niente. Mero
flatus vocis da una parte, mera calligrafia rabescante dall’altra. Cediamo la parola all’Autore:
“Un segreto gelosamente guardato per sette millenni… (vogliate perdonare, il Garappella si è fatto alla Sorbona, quindi il suo stile è alquanto infranciosato: egli adopera il verbo
guardare nel senso del francese
garder; inoltre tende all’iperbole, specie in fatto di secoli; ma sono piccole mende in un’opera di mole e respiro)
… ha potuto venire rivelato solo oggi, quasimenti per caso, in seguito alla fuga in Occidente di un chinese… (altro vezzo del Nostro:
chinese, come nelle vecchie traduzioni da Giulio Verne)…
a nome Pao Lin-I, che si è finalmente deciso a parlare. E ha vuotato il sacco!” (…)
Insomma: i Mandarini del Celeste Impero prima, poi i capi comunisti
“hanno seguitato a ingannare il popolo chinese per settemila anni” (le cifre del G. sono sempre approssimate) negando a esso
“non solo i mezzi di sussistenza materiale” bensì anche quel pane dello spirito che è
“la lingua maternella”. Essi (mandarini e gerarchi) s’intendevano fra loro mediante un antico dialetto indù, oppure in inglese (o meglio in
pidgin English). E il popolo?
“Il popolo emettono questi tipici suoni chinesi privi di effettivo significato e, non avendo (come il cieco nato non l’ha dei colori, il sordo dei rumori) la più pallida idea di quel che noi chiamiamo comunicazione, portano avanti, non solo le presunte conversazioni, sì bene anche gli affari e altri rapporti, alla maniera tipica orientale, vale a dire come un puro meccanico rito, una pura liturgia. I chinesi non solo non possiedono un linguaggio, ma non sanno neanche di non possederlo, quindi la loro vita scorre – sia pure tristemente – normalmente (apparentemente)”. Come ha fatto l’Occidente a non accorgersi mai, prima, di questa millenaria e colossale
“trulla alla chinese”? Come hanno fatto, anzi, alcuni Stati a portare avanti un
“dialogo diplomatico” con gente mancante di tutte e nove le parti, variabili e invariabili del discorso, tranne l’interiezione (tipo
hué = ahio) e simili particelle? Come hanno potuto insigni sinologhi lasciarsi pigliare tanto a lungo per i fondelli? (…)
Cfr. la recensione di Pier Francesco Paolini (1) nella rubrica Equilibri de Il Caffè, 5-6, 1975, pp. 83-84 (2)
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Una recensione in forma di lettera
Caro Walter,
ho pensato di mandarti per la rivista una recensione. Il fatto è che in questi giorni ho finito di leggere un libro straordinario, un romanzo che mi piacerebbe far conoscere ai lettori de il Caffè illustrato (3). (…)
Era da tempo che non mi succedeva di leggere un libro così interessante, un degno esemplare di quella categoria di libri da cui, una volta iniziati, non riesci più a separarti, che ti catturano, ti magnetizzano, che non vedi l'ora di riprendere in mano, un libro che quando ti metti a leggerlo in poltrona o sulla panchina di un giardino pubblico o altrove, nessuno ti deve disturbare, caschi pure il mondo.
Insomma un libro avvincente, scritto bene, con un linguaggio comprensibile, ma non banale, uno di quei libri (sempre più rari di questi tempi) che ti dispiace che a un certo punto finisca, perché un attimo dopo che l'hai finito ti prende una specie di smarrimento, di vuoto, di panico che si esterna nella frase: «Oddio, e ora cosa farò!»
Quello che ho appena finito di leggere è un libro che ti viene voglia di consigliare agli amici, di cui senti il desiderio di parlare in ogni occasione, dovunque ti capita, in treno o in metropolitana, anche su brevi tragitti; mentre fai colazione al bar tirando per il gilè il giovane barista che non sta a sentirti perché indaffarato a velocizzare gli sbuffi vaporosi della macchina del caffè e perché di letteratura e di libri in genere a lui, al giovane barista, non gliene frega niente, oppure durante l'intervallo di un film, o mentre aspetti tuo figlio davanti a scuola, o sei in fila alle poste o in banca; dall’ortolano mentre scegli personalmente la frutta e c’è un signore lì, vicino a te, dall’aria melanconica, che potrebbe essere un lettore potenziale del libro di cui ti sei innamorato; e ne parli volentieri anche con il casellante dell'autostrada mentre sei in attesa del resto e dietro di te gli automobilisti strombazzano e ti maledicono infuriati, e ti viene voglia di parlarne persino al tuo medico che sai benissimo che non legge un romanzo da una vita, e infatti, mentre gli parli del libro, lui continua a scrivere le ricette senza mai alzare lo sguardo verso di te che intanto ti ostini a spiegargli la bellezza di quel romanzo, che è un romanzo - ti sforzi di fargli capire - stupendo, impareggiabile, come non se ne scrivevano da anni.
E in effetti è da anni che non provavo la gioia d'immergermi in una lettura così esaltante, istruttiva, tonica. Alla fine, mi rendo conto che è una banalità, ma non c'è niente di meglio che un buon libro per disporti felicemente verso il mondo, per avere nuovi stimoli, per farti riflettere in modo costruttivo su quelle che retoricamente si chiamano «le traversie della vita».
Quello che ho finito di leggere soltanto l’altro ieri è un romanzo che si potrebbe definire formativo, riflesso delle aspettative e dei turbamenti di un'intera generazione, che poi è la mia generazione, e forse anche per questo mi è piaciuto tanto. Perché un po’ mi sono identificato nel protagonista, nel suo modo di affrontare le difficoltà, di relazionarsi con gli altri, in particolare con le donne, di vivere le proprie contraddizioni e debolezze.
Ho trascorso delle belle serate in compagnia di questo libro, e adesso mi manca. Confesso che è il primo romanzo che leggo di questo autore. Avevo visto delle buone recensioni sulle pagine culturali di alcuni quotidiani, ma non credevo, al momento della lettura, si rivelasse così piacevole. (…)
A questo punto, che altro dire? Una raccomandazione: non lasciatevi sfuggire questo libro, appena avete un po’ di tempo leggetelo, merita, ve lo garantisco.
Cfr. Paolo Albani (4) ne Il Caffè Illustrato, 45, novembre/dicembre 2008, p. 8. (5)
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Recensione del libro Perché io credo in colui che ha fatto il mondo di Antonino Zichichi
Nel suo complesso il libro costituisce un parallelepipedo largo 13,5 cm, alto 20,5 cm e di spessore pari a 2,4 cm, per un volume complessivo di cmc. 664,2, pari a 0,0006642 metri cubi. Il peso del volume (si perdoni il bisticcio di parole e di unità metriche) è di 456 grammi, vale a dire 0,456 Kg, pertanto il suo peso specifico è di circa 686,54 kg/mc. Facendo il rapporto tra il prezzo di vendita e il peso si ricava il valore approssimato di 28,51 €/kg, molto più caro che il prosciutto crudo venduto in busta in qualsivoglia ipermercato. Se ne sconsiglia pertanto l'acquisto. (6)
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Note
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1) Pier Francesco Paolini ha scritto romanzi e commedie, saggi critici e poesie. Come traduttore ha all'attivo oltre 200 titoli di una sessantina di autori, tra cui Dickens, Faulkner, Conrad, Virginia Woolf, Scott Fitzgerald, Woody Allen, Bukowski, Gore Vidal, Saul Bellow, Philip Roth, Ludlum e altri. Un suo saggio su Hemingway è stato pubblicato anche negli USA. Oltre a poesie disseminate su giornali e riviste, ha pubblicato un paio di raccolte e un'antologia di traduzioni poetiche. È stato per anni redattore dell’indimenticabile e rimpianta rivista letteraria "Il Caffè", in cui teneva la curiosa e spassosa rubrica di finte recensioni
Equilibri. Recensioni irregolari, zeppa di riferimenti erotici e di invenzioni.
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2) “Il Caffè”, fondato nel dopoguerra da Giambattista Vicari, fu da lui diretto fino al 1977. All'inizio fu un periodico di attualità, costume e letteratura. Dal 1957 "il Caffè" scelse come campo d'azione la letteratura satirica, eccentrica, grottesca, pubblicando i capisaldi storici e i contemporanei d'ogni parte del mondo, coltivando però un rapporto privilegiato con la letteratura francese (Cros, Michaux, Roussel, Perec, Queneau, Tardieu). Ai testi erano accompagnate le illustrazioni dei più grandi disegnatori italiani e stranieri, come Maccari o Topor. Tra i redattori della rivista vi furono, negli anni: Alberto Arbasino, Renato Barilli, Italo Calvino, Gianni Celati, Guido Ceronetti, Piero Chiara, Franco Cordelli, Corrado Costa, Augusto Frassineti, Gaio Fratini, Enzo Golino, Luigi Malerba, Cesare Milanese, Giorgio Manganelli, Pier Francesco Paolini, Sergio Saviane, Giorgio Soavi, Saverio Vòllaro, Paolo Volponi. "Il Caffè" visse in perenne precarietà : Vicari non volle mai vendere la sua rivista agli editori: "
perché - disse -
sarebbe la sua morte vera. C'è una necessità prioritaria nell'essere liberi: nel dover contare su un appoggio autentico da parte dei lettori".
Qui per saperne di più.
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3) Il destinatario della lettera è Walter Pedullà, fondatore e direttore della rivista.
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4) Paolo Albani, noto soprattutto «per lo straordinario estro nella fantasia e nella scrittura e per i suoi scritti gustosissimi» che, secondo Walter Pedullà, «dimostrano un grande spirito sulfureo e allegro», è un amico, poliedrico artista e scrittore poligrafo. Tra i suoi tanti meriti c’è quello di aver pubblicato le mie poesiole umoristiche di argomento matematico e fisico sul numero 17, 2008, della rivista “di bizzarrie letterarie”
Tèchne, di cui dirige la nuova serie. Per saperne di più consiglio di visitare
il suo sito, che ho da subito inserito tra i preferiti nella colonna di sinistra del blog.
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5)
Il Caffè Illustrato, Bimestrale di parole e immagini è la rivista fondata da Walter Pedullà nel 2000 che raccoglie idealmente l’eredità de “Il Caffè” di G. B. Vicari.
Il Caffè Illustrato propone, fin dal titolo, due temi rilevanti: la lettura, come momento di piacere e di riflessione, la funzione delle immagini e delle illustrazioni, come veicolo di comunicazione. Le aree tematiche de i
l Caffè Illustrato si articolano secondo spazi ben definiti (
i fondi del caffè,
l'oggidì,
i classici illustrati,
narrazioni,
dossier,
inchieste,
liberi pensatori), e sono collegate da un unico punto di vista: la realtà raccontata attraverso lo sguardo acuto e corrosivo di intellettuali italiani e stranieri molto noti. Notevole importanza riveste la parte del dossier di volta in volta dedicato a un autore italiano. Il dossier, presenza fissa della rivista, raccoglie scritti inediti o dispersi e, grazie a una originale fotobiografia, «racconta» i momenti più significativi della vita dello scrittore considerato.
Qui per saperne di più.
(6) La recensione è mia. È lecito e doveroso recensire i libri come oggetti (peso compreso), se le caratteristiche fisiche sono le uniche degne di nota.