martedì 28 aprile 2009

Novecento 2010



L’uomo di Lugagnano quella mattina s’alzò presto, si fece la barba anche se era di mercoledì e prese la corriera per Fiorenzuola. Arrivato in stazione comprò il giornale e ordinò il solito caffè corretto grappa. Si sedette al tavolino del bar mentre attendeva il treno per Parma. I titoli del giornale lo disgustarono: “Abolita la legge 194”, “Il ministro Dell’Utri pone la prima pietra del ponte sullo Stretto”. Il titolo dell’editoriale di Francesco Giavazzi gli provocò uno di quei rigurgiti di cui da tempo soffriva: “Competitività dell’impresa e mito della scuola pubblica”. Per fortuna arrivò il treno regionale.

L’uomo di Lugagnano non andava a Parma, scese infatti a Fidenza. Sul piazzale della stazione girò intorno al grattacielo, prese in discesa la strada del sottopasso e poi girò in una di quelle vie a sinistra che portano in centro, guardando attentamente le targhe stradali, perché lì non c’era mai stato. L’indirizzo gli era stato suggerito sottovoce dal proprietario del bar degli inglesi, che già aveva fatto il suo stesso itinerario una settimana prima. Il fatto di essere stato preceduto da un amico lo tranquillizzò un poco, perché era la prima volta che metteva piede in un posto del genere.

L’uomo di Lugagnano entrò in un cortile e vide finalmente l’insegna, la sagoma stilizzata in lamierino dipinto di nero di una donna nuda a cavallo. Il nome “Lady Godiva” indicava in modo abbastanza chiaro che tipo di merce avrebbe trovato lì dentro. Si rassettò i capelli con le mani, ingoiò una mentina per togliersi di bocca il saporaccio di caffè e grappa maldigeriti e suonò il campanello.

L’uomo di Lugagnano si aspettava un tipo completamente diverso. Invece gli aprì una signora sulla cinquantina, rossa di capelli, vestita in modo tutt’altro che provocante, che lo guardò studiandolo attraverso spesse lenti da miope. La signora capì subito l’imbarazzo dell’uomo e gli sorrise: “Posso esserle utile?” – “Mi manda Nino di Lugagnano, quello del bar.” – “Ah, sì. Venga, ne ho ancora una copia, l’ho tenuta apposta per lei”. Lo condusse nel retro del negozio, tra scatole di vibratori e bambole gonfiabili. Una porta aperta dava su un giardinetto interno, dove razzolavano alcune galline.

L’uomo di Lugagnano si trovò in mano il pacchetto, si deterse il sudore con il fazzoletto e chiese: “E’ proprio questo? C’è tutto, senza tagli?” – “C’è tutto, l’ho masterizzato io stessa” – “Anche la scena di Olmo con il nonno? E quella… quella…” – “Sì, anche quella in cui giustiziano il fascista Attila. Ma stia attento uscendo da qui. Glielo metto nella custodia di un film lesbo, casomai le Guardie Padane la fermassero. E’ meglio essere prudenti.”

domenica 26 aprile 2009

Bouvard e Pécuchet, o dell’idiozia del mondo



L'8 maggio 1880 Gustave Flaubert moriva improvvisamente senza aver potuto terminare Bouvard et Pécuchet, l'opera dal piano temerario e terribile cui lavorava ormai da molti anni. Sul tavolo di lavoro lasciava una pagina incompiuta e sparsi per la stanza i ritagli e le note per la seconda parte dell’opera. Lo scrittore francese, oltre a collezionare le opinioni degli uomini del suo tempo così come esse si potevano ascoltare nei salotti o nei foyer dei teatri, aveva raccolto dai libri più disparati una quantità impressionante di perle della bêtise bourgeoise: lo sciocchezzaio. Per questa impresa aveva fino ad allora letto più di 1500 volumi, oltre che articoli di giornali e riviste.

Il materiale trovato nella stanza di Flaubert si trova ora nella biblioteca municipale di Rouen in un voluminoso dossier intitolato «Raccolta di documenti vari raccolti da Flaubert per la preparazione del Bouvard e Pécuchet». Si tratta di otto tomi rilegati di circa 300 fogli ciascuno: ritagli di stampa, schede di lettura e note di diverse, tutte di sua mano. Quel che egli stava raccogliendo per poi dare alle stampe sotto forma di farsa erano le evidenze della stupidità umana in generale, così come essa si manifestava nella contemporaneità, e per la quale egli provava il più profondo disgusto, quasi temesse di venirne contagiato. In opere diverse, ma tutte aspiranti a fondare discipline o campi del sapere sia teorico che pratico (storia, scienze, filosofia, religione, morale, politica, estetica, ecc.), come anche in testi letterari, di autori sia grandi che mediocri, Flaubert si era accanito a trovare e ad isolare i segni del luogo comune, della stupidità, animato (com'egli dichiarava) da spirito di vendetta. Lo scrittore aveva infatti scritto nel 1863: «Il y a quelqu'un de plus bête qu'un idiot, c'est tout le monde».

Nel dossier confluiscono i pregiudizi sociali, religiosi e politici, i fanatismi, le contraddizioni, la mancanza di rigore scientifico, i residui di spiritualismo nelle più diverse discipline e tecnologie, la superficialità delle opinioni. Una parte di ciò era già stato elaborato, in altra forma, nella prima parte del Bouvard et Pécuchet, in cui Flaubert, consapevole dell'enormità e della novità del suo impianto, che non sapeva come definire, avrebbe voluto «si vedesse un romanzo filosofico». Questa prima parte fu pubblicata già nel 1881, l’anno successivo alla morte dello scrittore.

Vi si raccontano le disavventure cui vanno incontro i due bonshommes Bouvard e Pécuchet, due copisti che il caso e la similitudine hanno portato all’amicizia, in seguito all'eredità ricevuta dal primo. Dopo una fallimentare esperienza come proprietari terrieri, affascinati dalle virtù del sapere, entusiasti e illusi rappresentanti del secolo del positivismo, si lanciano a capofitto nel mondo dei libri. Dalla chimica allo spiritismo, dalla filosofia alla religione, dall'agricoltura al magnetismo, dall'archeologia alla pedagogia, non esiste branca dello scibile umano che si sottragga alla loro frenesia indagatrice.

Nel loro ritiro campestre di Chavignolles i due si dedicano con entusiasmo da neofiti allo studio e alla pratica delle più disparate discipline e tecniche. L'ambizione faustiana, la passione per ogni nuova branca dello scibile umano è in loro animata dalla speranza di attingere a verità assolute che guidino il comportamento e mettano ordine nel caos. Ma la loro fiducia nell'autorità dei testi è sistematicamente sottoposta alla critica inflessibile del principio di non-contraddizione, che li espone a una delusione dopo l'altra. Così i due affrontano il tema della storia della Terra:

«(…) All'inizio un'immensa distesa d'acqua, da cui emergevano promontori macchiati dai licheni; e non un essere vivente, non un grido; era un mondo silenzioso, immobile e nudo. Poi alte piante si dondolavano in una nebbiolina che assomigliava al vapore di una stanza da bagno. Un sole rosso intenso surriscaldava l'aria umida. Allora i vulcani incominciarono ad eruttare, rocce infuocate zampillavano dalle montagne; e il magma di porfido e basalto che colava si solidificò. Terzo quadro: sono sorte isole di madrepore dentro mari poco profondi; qua e là sormontate da boschetti di palme. Ci sono conchiglie simili a ruote di carro, tartarughe di tre metri, lucertole di sessanta piedi.

Dalle canne si allunga il collo di anfibi che hanno il collo dello struzzo e la mascella del coccodrillo. Serpenti con le ali si alzano in volo. Infine, sui grandi continenti apparvero dei grandi mammiferi, le membra deformi come pezzi di legno mal squadrati, il cuoio più spesso di lastre di bronzo, ma ce n'erano anche di pelosi, labbruti, con criniere e zanne rivoltate. Branchi di mammut brucano le pianure dove poi ci sarà l'Atlantico; il paleoterio, mezzo cavallo e mezzo tapiro, metteva sottosopra con il grugno i formicai di Montmartre, e il cervus giganteus tremava sotto i castagni sentendo la voce dell'orso delle caverne, che fa guaire nella sua tana il cane di Beaugency, alto tre volte un lupo. I cataclismi separavano un'era dall'altra, l'ultimo fu il nostro diluvio. Era come uno spettacolo in più atti, di cui l'uomo costituiva l'apoteosi.

(…) Bouvard e Pécuchet presero la diligenza di Falaise per Caen. Quindi una carrozzella li portò da Caen a Bayeux; e da Bayeux andarono a piedi fino a Port-en-Bessin. Non li avevano ingannati. La costa delle Hachettes offriva sassi bizzarri, e su indicazione dell'albergatore raggiunsero la spiaggia.

(…) Quindi s'imbatterono in spugne, terebratule, orche, ma del coccodrillo neppure l'ombra! In mancanza di meglio, sperarono almeno in una vertebra d'ippopotamo o d'ittiosauro, un osso qualunque dell'era del Diluvio; quando scorsero contro la scogliera, ad altezza d'uomo, il rilievo di un pesce gigantesco. Discussero sui mezzi per prenderlo. Bouvard lo avrebbe staccato dall'alto, mentre Pécuchet, in basso, avrebbe demolito la roccia per farlo scendere adagio, senza rovinarlo.

Quando si furono ripresi, videro nella campagna, sopra le loro teste, un doganiere con il mantello, che faceva gesti imperiosi. "Ma non seccarci!", e continuarono il loro lavoro (…).

Ma il doganiere riapparve, in un valloncello più in basso, e si sbracciava dando ordini: lo presero in giro! Ormai il corpo ovale prendeva rilievo sotto l'esile coltre di terra, spenzolava, stava per sgusciar fuori. All'improvviso comparve un altro individuo, con la sciabola. "I passaporti!". Era la guardia campestre in perlustrazione; e nello stesso istante era arrivato giù per una forra il doganiere. "Li fermi, papà Morin! O la scogliera crollerà!". "Si tratta di uno scopo scientifico", rispose Pécuchet. In quell'istante franò un mucchio di terra, sfiorandoli tutti e quattro così da vicino, che ancora un poco e sarebbero morti.

(…) "È vietata qualsiasi cosa nei terreni amministrati dal Genio!", replicò la guardia campestre. "Prima di tutto, chi siete? Devo farvi verbale!". Pécuchet si oppose, gridando all'ingiustizia. "Non discutete, seguitemi!".

Da quando arrivarono al porto, un gruppo di ragazzini si mise alle calcagna. Bouvard, rosso come un papavero, cercava di darsi un contegno. Pécuchet, pallidissimo, lanciava occhiate furibonde; certo i due sconosciuti, con i fazzoletti pieni di sassi, non avevano un bell'aspetto. Per il momento li portarono all'albergo, il cui proprietario, fermo sulla soglia, sbarrava l'entrata. Poi venne il muratore a riprendersi gli attrezzi; dovettero pagare; spese, ancora spese! Ma perché la guardia campestre non tornava? Finalmente arrivò a liberarli un tale con la croce d'onore; e dopo aver dato i loro nomi, cognomi e indirizzo, se ne andarono, con l'impegno di essere più prudenti in futuro».

(Da Gustave Flaubert, Bouvard e Pécuchet, Garzanti, Milano 2004, traduzione di B. Nacci).

In effetti, la pluralità delle opinioni che dialogano in questo testo, insieme ai ripetuti tentativi dei due idiots savants di verificare le teorie alla luce di una prassi (se pure cieca), evidenziano l'impossibilità di riunire le varie conoscenze, ipotesi, interpretazioni e pratiche in un sapere unico. Un pessimismo della conoscenza smonta e rende nullo l'accumulo di nozioni e opinioni. Nel confronto che si instaura tra i testi portatori di teorie diverse, spesso opposte o comunque contrastanti, emerge come la contraddizione stia a fondamento dei fatti e del pensiero umano. Essa, nell'esperienza dei due amici, allontana dalla verità, lascia insoluti gli enigmi, anzi ne crea di nuovi; la realtà con cui i due fulgidi imbecilli, tragici e sinistri nella loro idiozia, tentano costantemente un aggancio sulla spinta del desiderio, rimane fuori, sfugge al linguaggio, alla scrittura, è un mistero che incanta, o «un'illusione, un brutto sogno», «il niente», per cui non valgono consolazioni. Alla fine, sopraffatti dal compito immane e dalla loro stessa incapacità, decidono di tornare a copiare.

La decisione finale dei due, i quali nel frattempo, essendosi inimicati tutto il villaggio con le loro stravaganze e polemiche, vivono nell'isolamento riservato dalla società ai folli, sarà quella di trascrivere passaggi della scrittura altrui, dapprima «tutto quello che gli capitava sotto mano», poi facendo una «classificazione», scegliendo sia «esemplari» dei vari stili che «perle» con cui redigere una «storia universale», un «monumento» da cui risulti l'uguaglianza di tutto, del bene e del male, del Bello e del brutto, di ciò che è insignificante e di ciò che è caratteristico. Nella finzione letteraria essi si sobbarcano lo stesso lavoro, abbastanza incomprensibile per via della sua qualità maniacale e pedantesca, svolto negli anni dallo scrittore.

Questo è infatti uno dei libri più personali e profondi che Flaubert abbia scritto. Nella constatazione che un'immensa, incrollabile stupidità, un'armatura di luoghi comuni, di frasi fatte, di credenze e ideologie accettate, coprisse la sostanziale nullità del mondo, egli vedeva una sola speranza: riuscire a tenere insieme il mondo dei fatti costruendo con il rigore estremo della scrittura, una rete sospesa sul nulla del significato. Ma Bouvard e Pécuchet però sfuggono di mano al loro creatore. Prendono sul serio non solo i luoghi comuni, ma le scienze, la filosofia, la religione, la politica, le tecniche. Si applicano a esse con accanito furore, e le spingono fino alla loro verità ultima: alla loro incapacità di dare risposta al mistero del mondo. E quando, alla fine, ritornano all’atto puramente meccanico della copiatura, rivelano anche l'illusione di Flaubert di tenere insieme il mondo con la scrittura. Essa non può opporsi al vuoto della bêtise, è ridotta al puro gesto fisico dello scrivere.

Dall’archivio di Rouen sono emersi alcuni frammenti indipendenti abbastanza rifiniti da permettere la pubblicazione, autonoma o come appendice del Bouvard e Pécuchet. Il più noto è il Dizionario dei luoghi comuni, organizzato nella forma di maliziosi “consigli” di comportamento, che costituiscono una sorta di ironico galateo borghese. Sotto ne riporto un florilegio. Ancor più che nel testo compiuto, da questa divertente e mostruosa raccolta emerge lo spirito sarcastico di Flaubert. E, soprattutto, viene il dubbio, già espresso da Borges, che i due copisti sono fuori del tempo: essi sono ancora lì, chini sulla scrivania, intenti a copiare. Il loro lavoro è infinito e sempre incompleto.

ACHILLE: Aggiungere “dal pié veloce”; ciò lascia credere che abbiamo letto Omero.
AGENTI DI BORSA: Tutti ladri.
ALABASTRO: Serve per descrivere le parti piú belle del corpo femminile.
ALBIONE: Sempre preceduto da bianca, perfida, positiva. C'è mancato poco che Napoleone la conquistasse. Farne l'elogio: “la libera Inghilterra”.
AMBIZIONE: Viene sempre preceduta da "folle", escluso il caso in cui venga preceduta da "nobile".
ARCHITETTI: Tutti imbecilli. Fanno le case e dimenticano inevitabilmente le scale.
ASSASSINO: Sempre vigliacco, anche quando è intrepido e audace. Meno colpevole d’un sedizioso.
ATEO: un popolo di atei non potrebbe sopravvivere.
BAMBINI: Fingere una lirica tenerezza nei loro riguardi, quando c’è gente.
BANDIERA (nazionale): La sua vista fa battere il cuore .
BIONDE: Piú calde delle brune.
BRUNE: Piú calde delle bionde.
CALVIZIE: Sempre precoce, è provocata dagli eccessi di gioventù o dalla concezione di grandi idee.
CARINO: Si usa per tutto ciò che è bello. “È tanto carino” è il massimo dell’ammirazione.
CASTAGNA: Femmina del marrone.
CENSURA: Utile, per quanto se ne dica.
COITO, COPULA: Da evitare. Dire: “Avevano rapporti...”
CONCORRENZA: L’anima del commercio.
CONCUPISCENZA: Vocabolo pretesco per designare i desideri carnali.
CONTEGNO: Sempre preceduto da rigido.
CORTIGIANA: È un male necessario. Sono la salvezza delle nostre figlie e sorelle finchè ci saranno degli scapoli. Dovrebbero essere implacabilmente cacciate. Non si può andare a spasso con la propria moglie a causa della loro presenza sui viali. Sono sempre figlie del popolo traviate da ricchi borghesi.
CROCEFISSO. Fa bella figura nell'alcova e sulla ghigliottina.
DANARO: Causa di tutti i mali. Dire “Auri sacra fames”. Il dio del giorno (da non confondere con Apollo). I ministri lo chiamano indennità, i notai emolumento, i medici onorario, gli impiegati stipendio, gli operai salario, i domestici paga. Il danaro non fa la felicità.
DESERTO: Immagine dell’infinito. Produce datteri.
DIDEROT: Sempre seguito da d’Alembert.
DOCUMENTO: I documenti sono sempre della massima importanza. Non ci sono cospiratori arrestati che non portino con sé documenti altamente compromettenti.
EGOISMO: Lamentarsi di quello altrui e non vedere il proprio.
EREZIONE: Non parlarne se non a proposito dei monumenti.
FAMIGLIA: Parlarne sempre con rispetto.
FETO: Qualsiasi pezzo anatomico conservato sotto spirito.
FILOSOFIA: Sogghignarne sempre.
FOSSILE: Dimostrazione del diluvio.
GATTO: Il gatto è traditore. Chiamarlo tigre da salotto.
GENDARMERIA: Dire “forza pubblica” o “l’arma”.
GENTILUOMO: Non ce n’è più.
GIORNALI: Non poterne fare a meno ma inveire contro.
GOTICO: Stile architettonico che spinge più degli altri alla religione.
GULF-STREAM: Famosa città della Norvegia da poco riscoperta.
IMBECILLE: Chiunque la pensa diversamente da noi.
INFANTICIDIO: Viene commesso soltanto tra il popolino.
INFINITESIMALE: Non si sa che cosa sia, ma ha a che fare con l’omeopatia
INNOVAZIONE : Sempre pericolosa
ISPIRAZIONE poetica. Cose che la provocano: la vista del mare, l’amore, la donna ecc.
ITALIANI: Tutti musicisti, tutti traditori.
LETTERATURA: Occupazione degli oziosi.
LIBERTA’: O libertà, quanti delitti si compiono in tuo nome! Noi abbiamo tutte le libertà che ci sono necessarie. Libertà non significa licenza (frase da conservatore).
MARE. Non ha fondo. Immagine dell'infinito. Fa venire grandi pensieri. In riva al mare bisogna sempre avere un cannocchiale. Quando lo si guarda, dire sempre: «Quanta acqua!».
MATERASSO. Più è duro, più è igienico.
MUSCOLI: I muscoli degli uomini forti sono sempre d’acciaio.
NAPOLI: Vedi Napoli e poi muori. Se parlate con persone colte, dite Partenope.
NATURA: Che bello la natura. Da dire ogni volta che si è in campagna.
NEGRE: Piú calde delle bianche.
OPERAIO: Sempre onesto, quando non fa sommosse.
ORGANO: Eleva l’anima a Dio
PASSEGGIATA: Fare sempre una passeggiata dopo pranzo: favorisce la digestione.
PROGRESSO: Sempre malinteso e troppo frettoloso.
PROPRIETÀ: Una delle basi della società. Più sacra della religione.
RANA: La femmina del rospo.
ROSSE: Vedi bionde, brune e negre.
SOSPIRO: Accanto a una donna sospirare sempre.
STALLONE: Sempre vigoroso. Una donna deve ignorare la differenza tra uno stallone e un cavallo.
STRUZZO: Digerisce i sassi.
SUICIDIO: Prova di viltà
TORO: Padre del vitello; il bue è soltanto lo zio.
UNIVERSITA: Alma Mater.
VANGELI; Libro divino, sublime, ecc.
VINI: Argomento di conversazione tra uomini. Il migliore è quello di Bordeaux, perché lo prescrivono i dottori. Più è cattivo, più è naturale.
ZANZARA: Più pericolosa di qualsiasi bestia feroce.

giovedì 23 aprile 2009

Recensioni immaginarie



“Non ci occupiamo di solito, in questa rubrica, di libri scientifici. Ma faremo uno strappo per quest’opera (Gualtiero Garappella, Finalmente svelato l’enigma cinese, ed. Medusa, Roma, 1975), dato che si legge come un romanzo (cosa che non può dirsi di tanti romanzi). Quante volte non si è chiesto, l’Occidente perplesso: “Come faranno a capirsi i cinesi fra loro?” Ebbene, la risposta del prof. Garappella suona semplice e definitiva: “Essi non si capiscono”. E se non si capiscono fra loro è perché non possiedono lo strumento all’uopo indispensabile: la lingua cinese, infatti, non esiste.

Esistono, sì, dei suoni tipicamente cinesi (gorgogli, mugolii, miagolii, rantoli, zufoli, gargarismi, con in mezzo ogni tanto qualche sillaba più o meno articolata) come esistono degli ideogrammi, spesso artisticamente eseguiti, alla Capogrossi; ma non esiste alcun nesso o rapporto (logico o semantico) fra quei suoni (gutturali o cantilenanti) e quei segni bizzarri. Non solo! Non esiste neanche un codice all’interno del quale i varii suoni si colleghino fra loro – e i segni fra loro – e gli uni e gli altri a cose, animali, sentimenti, enti astratti o persone. Niente. Mero flatus vocis da una parte, mera calligrafia rabescante dall’altra. Cediamo la parola all’Autore: “Un segreto gelosamente guardato per sette millenni… (vogliate perdonare, il Garappella si è fatto alla Sorbona, quindi il suo stile è alquanto infranciosato: egli adopera il verbo guardare nel senso del francese garder; inoltre tende all’iperbole, specie in fatto di secoli; ma sono piccole mende in un’opera di mole e respiro)… ha potuto venire rivelato solo oggi, quasimenti per caso, in seguito alla fuga in Occidente di un chinese… (altro vezzo del Nostro: chinese, come nelle vecchie traduzioni da Giulio Verne)… a nome Pao Lin-I, che si è finalmente deciso a parlare. E ha vuotato il sacco!” (…)

Insomma: i Mandarini del Celeste Impero prima, poi i capi comunisti “hanno seguitato a ingannare il popolo chinese per settemila anni” (le cifre del G. sono sempre approssimate) negando a esso “non solo i mezzi di sussistenza materiale” bensì anche quel pane dello spirito che è “la lingua maternella”. Essi (mandarini e gerarchi) s’intendevano fra loro mediante un antico dialetto indù, oppure in inglese (o meglio in pidgin English). E il popolo? “Il popolo emettono questi tipici suoni chinesi privi di effettivo significato e, non avendo (come il cieco nato non l’ha dei colori, il sordo dei rumori) la più pallida idea di quel che noi chiamiamo comunicazione, portano avanti, non solo le presunte conversazioni, sì bene anche gli affari e altri rapporti, alla maniera tipica orientale, vale a dire come un puro meccanico rito, una pura liturgia. I chinesi non solo non possiedono un linguaggio, ma non sanno neanche di non possederlo, quindi la loro vita scorre – sia pure tristemente – normalmente (apparentemente)”. Come ha fatto l’Occidente a non accorgersi mai, prima, di questa millenaria e colossale “trulla alla chinese”? Come hanno fatto, anzi, alcuni Stati a portare avanti un “dialogo diplomatico” con gente mancante di tutte e nove le parti, variabili e invariabili del discorso, tranne l’interiezione (tipo hué = ahio) e simili particelle? Come hanno potuto insigni sinologhi lasciarsi pigliare tanto a lungo per i fondelli? (…)


Cfr. la recensione di Pier Francesco Paolini (1) nella rubrica Equilibri de Il Caffè, 5-6, 1975, pp. 83-84 (2)

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Una recensione in forma di lettera

Caro Walter,
ho pensato di mandarti per la rivista una recensione. Il fatto è che in questi giorni ho finito di leggere un libro straordinario, un romanzo che mi piacerebbe far conoscere ai lettori de il Caffè illustrato (3). (…)

Era da tempo che non mi succedeva di leggere un libro così interessante, un degno esemplare di quella categoria di libri da cui, una volta iniziati, non riesci più a separarti, che ti catturano, ti magnetizzano, che non vedi l'ora di riprendere in mano, un libro che quando ti metti a leggerlo in poltrona o sulla panchina di un giardino pubblico o altrove, nessuno ti deve disturbare, caschi pure il mondo.

Insomma un libro avvincente, scritto bene, con un linguaggio comprensibile, ma non banale, uno di quei libri (sempre più rari di questi tempi) che ti dispiace che a un certo punto finisca, perché un attimo dopo che l'hai finito ti prende una specie di smarrimento, di vuoto, di panico che si esterna nella frase: «Oddio, e ora cosa farò!»

Quello che ho appena finito di leggere è un libro che ti viene voglia di consigliare agli amici, di cui senti il desiderio di parlare in ogni occasione, dovunque ti capita, in treno o in metropolitana, anche su brevi tragitti; mentre fai colazione al bar tirando per il gilè il giovane barista che non sta a sentirti perché indaffarato a velocizzare gli sbuffi vaporosi della macchina del caffè e perché di letteratura e di libri in genere a lui, al giovane barista, non gliene frega niente, oppure durante l'intervallo di un film, o mentre aspetti tuo figlio davanti a scuola, o sei in fila alle poste o in banca; dall’ortolano mentre scegli personalmente la frutta e c’è un signore lì, vicino a te, dall’aria melanconica, che potrebbe essere un lettore potenziale del libro di cui ti sei innamorato; e ne parli volentieri anche con il casellante dell'autostrada mentre sei in attesa del resto e dietro di te gli automobilisti strombazzano e ti maledicono infuriati, e ti viene voglia di parlarne persino al tuo medico che sai benissimo che non legge un romanzo da una vita, e infatti, mentre gli parli del libro, lui continua a scrivere le ricette senza mai alzare lo sguardo verso di te che intanto ti ostini a spiegargli la bellezza di quel romanzo, che è un romanzo - ti sforzi di fargli capire - stupendo, impareggiabile, come non se ne scrivevano da anni.

E in effetti è da anni che non provavo la gioia d'immergermi in una lettura così esaltante, istruttiva, tonica. Alla fine, mi rendo conto che è una banalità, ma non c'è niente di meglio che un buon libro per disporti felicemente verso il mondo, per avere nuovi stimoli, per farti riflettere in modo costruttivo su quelle che retoricamente si chiamano «le traversie della vita».

Quello che ho finito di leggere soltanto l’altro ieri è un romanzo che si potrebbe definire formativo, riflesso delle aspettative e dei turbamenti di un'intera generazione, che poi è la mia generazione, e forse anche per questo mi è piaciuto tanto. Perché un po’ mi sono identificato nel protagonista, nel suo modo di affrontare le difficoltà, di relazionarsi con gli altri, in particolare con le donne, di vivere le proprie contraddizioni e debolezze.

Ho trascorso delle belle serate in compagnia di questo libro, e adesso mi manca. Confesso che è il primo romanzo che leggo di questo autore. Avevo visto delle buone recensioni sulle pagine culturali di alcuni quotidiani, ma non credevo, al momento della lettura, si rivelasse così piacevole. (…)

A questo punto, che altro dire? Una raccomandazione: non lasciatevi sfuggire questo libro, appena avete un po’ di tempo leggetelo, merita, ve lo garantisco.

Cfr. Paolo Albani (4) ne Il Caffè Illustrato, 45, novembre/dicembre 2008, p. 8. (5)

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Recensione del libro Perché io credo in colui che ha fatto il mondo di Antonino Zichichi


Nel suo complesso il libro costituisce un parallelepipedo largo 13,5 cm, alto 20,5 cm e di spessore pari a 2,4 cm, per un volume complessivo di cmc. 664,2, pari a 0,0006642 metri cubi. Il peso del volume (si perdoni il bisticcio di parole e di unità metriche) è di 456 grammi, vale a dire 0,456 Kg, pertanto il suo peso specifico è di circa 686,54 kg/mc. Facendo il rapporto tra il prezzo di vendita e il peso si ricava il valore approssimato di 28,51 €/kg, molto più caro che il prosciutto crudo venduto in busta in qualsivoglia ipermercato. Se ne sconsiglia pertanto l'acquisto. (6)

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Note

(1) Pier Francesco Paolini ha scritto romanzi e commedie, saggi critici e poesie. Come traduttore ha all'attivo oltre 200 titoli di una sessantina di autori, tra cui Dickens, Faulkner, Conrad, Virginia Woolf, Scott Fitzgerald, Woody Allen, Bukowski, Gore Vidal, Saul Bellow, Philip Roth, Ludlum e altri. Un suo saggio su Hemingway è stato pubblicato anche negli USA. Oltre a poesie disseminate su giornali e riviste, ha pubblicato un paio di raccolte e un'antologia di traduzioni poetiche. È stato per anni redattore dell’indimenticabile e rimpianta rivista letteraria "Il Caffè", in cui teneva la curiosa e spassosa rubrica di finte recensioni Equilibri. Recensioni irregolari, zeppa di riferimenti erotici e di invenzioni.

(2) “Il Caffè”, fondato nel dopoguerra da Giambattista Vicari, fu da lui diretto fino al 1977. All'inizio fu un periodico di attualità, costume e letteratura. Dal 1957 "il Caffè" scelse come campo d'azione la letteratura satirica, eccentrica, grottesca, pubblicando i capisaldi storici e i contemporanei d'ogni parte del mondo, coltivando però un rapporto privilegiato con la letteratura francese (Cros, Michaux, Roussel, Perec, Queneau, Tardieu). Ai testi erano accompagnate le illustrazioni dei più grandi disegnatori italiani e stranieri, come Maccari o Topor. Tra i redattori della rivista vi furono, negli anni: Alberto Arbasino, Renato Barilli, Italo Calvino, Gianni Celati, Guido Ceronetti, Piero Chiara, Franco Cordelli, Corrado Costa, Augusto Frassineti, Gaio Fratini, Enzo Golino, Luigi Malerba, Cesare Milanese, Giorgio Manganelli, Pier Francesco Paolini, Sergio Saviane, Giorgio Soavi, Saverio Vòllaro, Paolo Volponi. "Il Caffè" visse in perenne precarietà : Vicari non volle mai vendere la sua rivista agli editori: "perché - disse - sarebbe la sua morte vera. C'è una necessità prioritaria nell'essere liberi: nel dover contare su un appoggio autentico da parte dei lettori". Qui per saperne di più.

(3) Il destinatario della lettera è Walter Pedullà, fondatore e direttore della rivista.

(4) Paolo Albani, noto soprattutto «per lo straordinario estro nella fantasia e nella scrittura e per i suoi scritti gustosissimi» che, secondo Walter Pedullà, «dimostrano un grande spirito sulfureo e allegro», è un amico, poliedrico artista e scrittore poligrafo. Tra i suoi tanti meriti c’è quello di aver pubblicato le mie poesiole umoristiche di argomento matematico e fisico sul numero 17, 2008, della rivista “di bizzarrie letterarie” Tèchne, di cui dirige la nuova serie. Per saperne di più consiglio di visitare il suo sito, che ho da subito inserito tra i preferiti nella colonna di sinistra del blog.

(5) Il Caffè Illustrato, Bimestrale di parole e immagini è la rivista fondata da Walter Pedullà nel 2000 che raccoglie idealmente l’eredità de “Il Caffè” di G. B. Vicari. Il Caffè Illustrato propone, fin dal titolo, due temi rilevanti: la lettura, come momento di piacere e di riflessione, la funzione delle immagini e delle illustrazioni, come veicolo di comunicazione. Le aree tematiche de il Caffè Illustrato si articolano secondo spazi ben definiti (i fondi del caffè, l'oggidì, i classici illustrati, narrazioni, dossier, inchieste, liberi pensatori), e sono collegate da un unico punto di vista: la realtà raccontata attraverso lo sguardo acuto e corrosivo di intellettuali italiani e stranieri molto noti. Notevole importanza riveste la parte del dossier di volta in volta dedicato a un autore italiano. Il dossier, presenza fissa della rivista, raccoglie scritti inediti o dispersi e, grazie a una originale fotobiografia, «racconta» i momenti più significativi della vita dello scrittore considerato. Qui per saperne di più.

(6) La recensione è mia. È lecito e doveroso recensire i libri come oggetti (peso compreso), se le caratteristiche fisiche sono le uniche degne di nota.

mercoledì 22 aprile 2009

domenica 19 aprile 2009

'Patafisica!



CALCOLO DELLA SUPERFICIE DI DIO

Dio è inesteso per definizione, ma ci è permesso, per la chiarezza dell’enunciato, attribuirgli un qualsiasi numero di dimensioni più grandi di zero (anche se sappiamo che non ne ha alcuna) purché queste dimensioni scompaiano nei due membri delle nostre identità. In questa sede ci accontenteremo di attribuirgli solo due dimensioni perché si possono agevolmente rappresentare come figure di geometria piana su un foglio di carta.

Simbolicamente Dio è indicato da un triangolo, ma le tre Persone non devono essere considerate come i vertici o i lati del triangolo. Esse sono le "tre altezze" di un altro triangolo equilatero, circoscritto al tradizionale. Ipotesi questa conforme alle rivelazioni di Anne-Catherine-Emmerich, che vide la croce (che noi considereremo come simbolo del Verbo di Dio) a forma di Y, e non si spiega che per questa ragione fisica che nessun braccio di lunghezza umana avrebbe potuto essere esteso fino ai vertici dei rami di un Tau.

Dunque, POSTULATO:
Fino a più ampie informazioni e per nostra comodità provvisoria, supponiamo Dio in un piano e nella figura simbolica di tre segmenti uguali, di lunghezza a, originati da un medesimo punto e che formino angoli di 120° tra di loro. E’ dello spazio tra essi compresi, o del triangolo ottenuto congiungendo i tre punti più lontani dei segmenti, che ci proponiamo di calcolare la superficie.


Sia
x la mediana prolungamento di una delle Persone a ,
2y il lato del triangolo al quale la mediana è perpendicolare,
N e P i prolungamenti dei segmenti (a + x),

abbiamo:

x = ∞ − N − a − P

o:

N = ∞ − 0.

e

P = 0

Da cui:

x = ∞ − (∞ − 0) − a − 0 = ∞ − ∞ + 0 − a − 0.

x = − a.

D’altra parte, il triangolo rettangolo i cui lati sono a , x e y ci dà:

a² = x² + y²

Ne deriva, sostituendo a x il suo valore (− a):

a² = (− a)² + y²

y² = a² − a² = 0

e

y = √0

Dunque la superficie del triangolo equilatero che ha per bisettrici dei suoi angoli i tre segmenti a , sarà:

S = y (x + a ) = √0 (− A + a)
S = 0√0

COROLLARIO: A prima vista, del radicale √0 possiamo affermare che la superficie calcolata è al massimo una linea; in secondo luogo, se costruiamo la figura secondo i valori ottenuti per x ed y , constatiamo:

che il segmento 2y , che adesso sappiamo essere 2√0, ha il suo punto d’intersezione su uno dei segmenti a in senso opposto alla nostra prima ipotesi, poiché x è uguale a -a e che la base del nostro triangolo coincide col suo vertice;

che i due segmenti a fanno con la prima angoli più piccoli perlomeno di 60°, e inoltre non possono incontrare y se non coincidendo con la prima retta a.

Ciò è conforme al dogma dell’equivalenza delle tre Persone tra di loro e della loro somma. Possiamo dire che a è una retta che congiunge 0 a ∞, e definire Dio :

DEFINIZIONE. Dio è il percorso più breve da zero all’infinito.

In che senso? Si dirà. Noi rispondiamo che il Suo nome non è Giulio, ma Più e Meno. E si deve affermare:

± Dio è il percorso più breve da 0 a ∞, in un senso oppure nell’altro.

Il che è conforme alla credenza nei due principi; ma è più corretto attribuire il segno + a quello della credenza del soggetto. Ma essendo Dio inesteso, non è una retta.

Rimarchiamo in effetti che, dall’identità

∞ − 0 − a + a + 0 = ∞

la lunghezza a è nulla, a non è una linea, ma un punto.

Per cui, definitivamente:

DIO E’ IL PUNTO TANGENTE DI ZERO E DELL’INFINITO.

(Alfred Jarry)



De la surface de dieu

Dieu est par définition inétendu, mais il nous est permis, pour la clarté de notre énoncé, de lui supposer un nombre quelconque, plus grand que zéro, de dimensions, bien qu’il n’en ait aucune, si ces dimensions disparaissent dans les deux membres de nos identités. Nous nous contenterons de deux dimensions, afin qu’on se représente aisément des figures de géométrie plane sur une feuille de papier.

Symboliquement on signifie Dieu par un triangle, mais les trois Personnes ne doivent pas en être considérées comme les sommets ni les côtés. Ce sont les trois hauteurs d’un autre triangle équilatéral circonscrit au traditionnel. Cette hypothèse est conforme aux révélations d’Anne-Catherine Emmerich, qui vit la croix (que nous considérerons comme symbole du Verbe de Dieu) en forme d’Y, et ne l’explique que par cette raison physique, qu’aucun bras de longueur humaine n’eût pu être étendu jusqu’aux clous des branches d’un Tau.

Donc, Postulat :
Jusqu’à plus ample informé et pour notre commodité provisoire, nous supposons Dieu dans un plan et sous la figure symbolique de trois droites égales, de longueur
a, issues d’un même point et faisant entre elles des angles de 120 degrés. C’est de l’espace compris entre elles, ou du triangle obtenu en joignant les trois points les plus éloignés de ces droites, que nous nous proposons de calculer la surface.

Soit :
x la médiane prolongement d’une des Personnes a,
2y le côté du triangle auquel elle est perpendiculaire,
N et P les prolongements de la droite (
a + x) dans les deux sens à l’infini.
Nous avons :

x = ∞ − N − a − P.

Or

N = ∞ − 0.

et

P = 0.

D’où

x = ∞ − (∞ − 0) −
a − 0 = ∞ − ∞ + 0 − a − 0.

x = −
a.

D’autre part, le triangle rectangle dont les côtés sont
a, x et y nous donne

a² = x² + y².

Il vient, en substituant à x sa valeur (−
a)

a2 = (− a²) + y² = a² + y².

D’où

y² = a² − a² = 0

et

y = √0

Donc la surface du triangle équilatéral qui a pour bissectrices de ses angles les trois droites
a sera :

S =
y (x + a ) = √0 (− A + a)
S = 0√0

Corollaire. - A première vue du radical √0, nous pouvons affirmer que la surface calculée est une ligne au plus ; en second lieu, si nous construisons la figure selon les valeurs obtenues pour
x et y, nous constatons :

Que la droite
2y, que nous savons maintenant être 2√0, a son point d’intersection sur une des droites a en sens inverse de notre première hypothèse, puisque x = − a ; et que la base de notre triangle coïncide avec son sommet ;

Que les deux droites
a font avec la première des angles plus petits au moins que 60°, et bien plus ne peuvent rencontrer 2√0 qu’en coïncidant avec la première droite a.

Ce qui est conforme au dogme de l’équivalence des trois Personnes entre elles et à leur somme. Nous pouvons dire que a est une droite qui joint 0 à ∞, et définir Dieu :

Définition. − Dieu est le plus court chemin de zéro à l’infini.

Dans quel sens ? dira-t-on. Nous répondrons que Son prénom n’est pas Jules, mais Plus-et-Moins. Et l’on doit dire :

± Dieu est le plus court chemin de 0 à ∞, dans un sens ou dans l’autre.

Ce qui est conforme à la croyance aux deux principes ; mais il est plus exact d’attribuer le signe + à celui de la croyance du sujet. Mais Dieu étant inétendu n’est pas une ligne.

Remarquons en effet que, d’après l’identité

∞ − 0 −
a + a + 0 = ∞

la longueur
a est nulle, a n’est pas une ligne, mais un point.

Donc, définitivement :

Dieu est le point tangent de zéro et de l’infini.

(Alfred Jarry, Gestes et opinions du docteur Faustroll, pataphysicien. Suivi de Spéculations, Fasquelle, Paris, 1911)


lunedì 13 aprile 2009

Altre traduzioni di Ogden Nash



Di Ogden Nash mi sono già occupato in due precedenti articoli, nei quali ho illustrato la sua biografia artistica e ho presentato una serie di mie traduzioni (parlerei piuttosto di adattamenti) delle poesie umoristiche più divertenti. Ne aggiungo ora altre, per fornire un quadro più completo della sua attività. Si tratta di opere più lunghe, dal metro assai irregolare, nei quali le sue riflessioni sulla vita e la società non mancano mai del suo distinto e pacato umorismo. L’ultima poesia fu scritta durante la guerra, poco dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor: anche in un momento così particolare e duro della storia americana, Nash seppe evitare i toni accesi e l’odio per il nemico, riportando il conflitto alla dimensione surreale e domestica di una lite tra vicini.


The Terrible People

People who have what they want are very fond of telling people who haven't what they want that they really don't want it,
And I wish I could afford to gather all such people into a gloomy castle on the Danube and hire half a dozen capable Draculas to haunt it.
I dont' mind their having a lot of money, and I don't care how they employ it,
But I do think that they damn well ought to admit they enjoy it.
But no, they insist on being stealthy
About the pleasures of being wealthy,
And the possession of a handsome annuity
Makes them think that to say how hard it is to make both ends meet is their bounden duity.
You cannot conceive of an occasion
Which will find them without some suitable evasion.
Yes indeed, with arguments they are very fecund;
Their first point is that money isn't everything, and that they have no money anyhow is their second.
Some people's money is merited,
And other people's is inherited,
But wherever it comes from,
They talk about it as if it were something you got pink gums from.
Perhaps indeed the possession of wealth is constantly distressing,
But I should be quite willing to assume every curse of wealth if I could at the same time assume every blessing.
The only incurable troubles of the rich are the troubles that money can't cure,
Which is a kind of trouble that is even more troublesome if you are poor.
Certainly there are lots of things in life that money won't buy, but it's very funny --
Have you ever tried to buy them without money?

La gente terribile

Quelli che hanno ciò che vogliono si divertono a dire a coloro che non ce l’hanno che in realtà non sono loro a bramarlo
e vorrei poterli radunare tutti in un tenebroso castello sul Danubio e assumere una mezza dozzina di Dracula esperti per infestarlo.
Non mi importa se hanno tanti soldi, non mi interessa come li vogliono impiegare,
ma penso proprio che si dannerebbero piuttosto di ammettere che li fan rallegrare.
Ma no, insistono di essere indifferenti
al piacere di essere abbienti.
E il possesso di una bella provvigione
li fa pensare che dire com’è difficile sbarcare il lunario è la loro sacra missione.
Non potete immaginare un’occasione astrusa
che li trovi senza una qualche adeguata scusa.
Sì, infatti di argomenti il ricco è molto fecondo:
il primo punto è che il denaro non è nulla, e che comunque lui non ne ha è il secondo.
Il denaro di qualcuno è meritato,
quello di qualcun altro è ereditato,
ma da dovunque esso possa arrivare,
ne parlano come se fosse qualcosa che dà gatte da pelare.
Forse davvero il possesso di ricchezze è una costante preoccupazione,
ma mi piacerebbe proprio accollarmi ogni maledizione del benessere se potessi intanto godere di ogni sua benedizione.
Gli unici disturbi incurabili dei ricchi sono quelli che il denaro non può curare,
che è comunque un tipo di disturbo che è sempre più penoso se non puoi pagare.
Certamente nella vita ci sono un mucchio di cose che il danaro non comprerà, ma è molto consolante:
avete mai provato a comprarle senza denaro contante?


Everybody Tells Me Everything

I find it very difficult to enthuse
Over the current news.
Just when you think that at least the outlook is so black that it can grow no blacker, it worsens,
And that is why I do not like the news, because there has never been an era when so many things were going so right for so many of the wrong persons.

Tutti mi dicono tutto

Trovo assai difficile essere contenti
delle notizie correnti.
Proprio quando pensi che almeno la prospettiva è così nera che non può diventare più nera, essa diventa ferale.
Ed è perciò che non amo le notizie, perché non c’è mai stata un’era come questa in cui tante cose stanno andando così bene per così tante persone per male.


The Japanese

How courteous is the Japanese
He always says, "Excuse it, please."
He climbs into his neighbor's garden,
And smiles, and says, "I beg your pardon"
He bows and grins and friendly grin,
And calls his hungry family in,
He grins and bows a friendly bow
"So sorry, this is my garden now."

Il giapponese

Il giapponese, com’è cerimonioso!
Dice “Scusa, signore” senza riposo.
Scavalca infilandosi nel tuo giardino,
sorride e dice “Perdono, solo momentino”.
Si inchina e sorride e amichevolmente fa un sorriso
e chiama la sua famiglia affamata all’improvviso,
sorride, s’inchina e amichevolmente fa l’inchino:
“Dispiace, questo ora è mio giardino”.

domenica 12 aprile 2009

Limerick e clerihew fisici



Proseguo la riedizione dei limerick e clerihew scientifici comparsi nel mio primo articolo, questa volta occupandomi di fisica.

Dualismo
In una gelida notte molto bella
un raggio di luce inviò una stella.
Pensò un fisico elvetico,
razionale, poco poetico:
“Sei tu onda o sei particella?”

Forza di volontà
Due pezzi di silicio, da tempo drogati,
su una lercia panchina si sono incontrati:
“Deve finire questo periodo,
uniamoci a fare un diodo.”
Nell’elettronica sono ora apprezzati.

Ritorno a casa
Meditò un elettrone tutto eccitato
che ad un livello più alto era saltato:
“Per non finire in rovina,
basta con la cocaina.”
Emesso un fotone, a casa è tornato.

La grande abbuffata
Un ingegnere idraulico coi piedi a mollo
misura condotte a rotta di collo;
valuta dell’acqua la velocità,
ma dopo due ore non ce la fa:
“Alla quarta portata mi sento satollo”.

Meditazione di un fisico francese
Bevendo un bicchiere d’armagnac
meditava sui gas Louis Gay-Lussac:
“La pressione, è cosa risaputa,
dipende dalla temperatura assoluta.
A volume costante, se no patatrac.”

Partitocrazia
Nel governo ci fu un grande mutamento
votato dalla maggioranza del Parlamento.
A dispetto del decoro
si divise il Ministero del Lavoro:
Ministero della Forza x Ministero dello Spostamento.

La spinta idrostatica
Un corpo in un fluido, di prammatica
è mosso in alto dalla spinta idrostatica,
ma il mare fa tremare
chi non sa nuotare:
la spinta idrostatica gli sta antipatica?

Il Disegno Intelligente
Un fedele scienziato di Sestri Ponente
era un apostolo del Disegno Intelligente:
per lui la regolarità
dimostrava una Volontà.
Visto un miracolo diventò non credente.

Pace rovinata
Seduta nel suo campo, sola soletta,
una carica elettrica si pascea sull’erbetta,
quando sentì una corrente,
un magnetismo crescente:
una sorella in moto andava di fretta.

Marie Curie
(omaggio a Mr. Clerihew Bentley)
Marie Curie
detestava il brie.
Morì nell’odio
di aver scoperto il radio, non il sodio.

Thomas Alva Edison
Thomas Alva Edison
sulla sua Harley Davidson
fu multato dalla Stradale
perché AVEVA il fanale.

Antonio Meucci
Antonio Meucci
morì per i suoi crucci:
se la spassava in un motel
e ai Brevetti ci andò Bell.

Complessità
Se un sistema fisico è molto complesso
è arduo prevedere che accadrà da adesso.
Un’oscillazione in un pelo di cotica
può portare a una reazione caotica
e la digestione diventar insuccesso.

(La pesantezza può durar delle ore,
fino al formarsi di un nuovo attrattore).

Gas serra
Una molecola di CO2 di Canberra
s’alterava se citavi l’effetto serra:
“Ero metano in un emirato,
m’hai estratto, poi bruciato,
e dici a me che riscaldo la Terra?”

Incidente alle giostre
Un protone del CERN, di nome Marc,
girando nel sincrotrone perse un quark.
Per questa seccatura,
prima di lasciare il Giura,
querelò il direttore del Luna Park.

La banda di Valenza
Un branco di elettroni di valenza
aggredì un atomo nella sua residenza.
Catturati verso sera,
finirono in galera
e fu la fine della banda di Valenza.

La fusione nucleare
Vinti da un impellente desiderio
due nuclei innamorati di deuterio
fecero una fusione.
Ci fu un’esplosione:
la nascita di Elio provò l’adulterio.

Giovanni Keplero
Giovanni Keplero
aveva un gatto nero
che storceva le vibrisse
se sentiva cerchio e non ellisse.

Evangelista Torricelli
Evangelista Torricelli
nella sua fabbrica d’ombrelli
considerava di buon augurio
la discesa del mercurio.

Galileo Galilei
Galileo Galilei
si fece dar del lei
quando lo fermò la Polizia
per i gravi dal cavalcavia.

Louis De Broglie
Louis De Broglie
alla riffa di Saint-Denis
con un gesto scaramantico
giocò un numero quantico.

Niels Bohr
Niels Bohr
con la grinta di un matador
spuntò alla Danske Bank
un interesse pari alla costante di Planck.

Ettore Majorana
Ettore Majorana
aveva un’aria strana:
schivava l’atmosfera fraterna
di via Panisperna.

(Sul traghetto da Palermo a Napoli
evitò l’ammogliati-scapoli).

Il paradosso di Schrödinger
Un grande fisico diventato un po’ matto
pensò di chiudere in scatola un povero gatto:
la sua vita o la sua morte
dipendeva dalla sorte
ed era vivo e morto finché non era estratto.

Universo in espansione
Le galassie si allontanano con costanza
a velocità proporzionale alla loro distanza.
Edwin Hubble rimase scosso,
ma traslavano verso il rosso
le righe spettrali di ogni sostanza.

Paradosso dei gemelli
Il mio gemello è più giovane di me:
ha viaggiato molto, non so perché.
Se avessi studiato
l’avrei presto spiegato,
ma a scuola in fisica avevo 3.

Contrazione dello spazio
I limerick relativistici hanno la distinzione
di essere affetti da una contrazione,
che di Lorentz è detta:
non è barzelletta,
né finz.

Joseph Louis Proust
Un chimico valutato tra i più importanti
non riusciva a soddisfare le sue amanti.
Con la morte nel cuore
intuì che il suo vigore
seguiva la legge delle proporzioni costanti.

Celebrazione
In un grande convegno molto affollato,
dai produttori di flipper organizzato,
si celebrò con emozione
Galileo per l’intuizione
di far scendere biglie sul piano inclinato.

Una storia gotica
Compiendo un sforzo un po’ patetico,
per risolvere un suo dubbio amletico,
un vampiro dilettante
morsicò un circuito oscillante,
ma non divenne uno spettro elettromagnetico.

Irreperibilità
Un atomo instabile della Lunigiana bassa
decadde da una molecola di potassa.
Invano si cercò lo scisso,
ma si sbagliò prefisso:
era frattanto variato il numero di Massa.

Come in tutte le raccolte che si rispettino, aggiungo qualche bonus track:

L’energia cinetica
Se metà di m per v al quadrato
avrai con cura moltiplicato,
otterrai una bisbetica
di nome energia cinetica,
che sparisce quando ti sei fermato.

Fuori fase
Una corrente alternata un certo momento
attraversò un periodo di sfasamento.
Sentiva come un’impedenza
che ne diminuiva la potenza
e si opponeva al suo buon rendimento.

Relatività (traduzione)
C’era una signorina di Leinì
che andava più veloce di c.
Partì un giorno estivo
di moto relativo
e la notte precedente era lì.

Dilatazione del tempo
La dilatazione del tempo esprime
un fatto stano, sconcertante e sublime.
Leggendo questi versi
in un fotone immersi,
potreste leggere la presente ultima riga senza cogliere la strana metrica che hanno queste rime.

Scienza in cucina
Il mio nuovo congelatore, tra le altre cose,
prepara un ottimo condensato di Bose.
Con un paio di meloni
mi dà una crema di bosoni
per farmi fresco nelle giornate afose.

sabato 11 aprile 2009

Limerick e clerihew matematici


Su richiesta di alcuni dei lettori del blog, pubblico nuovamente i miei limerick e clerihew scientifici comparsi nel primo articolo, per dar loro maggiore visibilità saltando la lunga premessa sulle forme poetiche utilizzate. Incomincio con quelli di matematica. Seguendo il link invece troverete quelli di fisica


Il riscatto
La retta disse al segmento: “Sei finito!”
e lui si ritirò in un piano, molto avvilito.
Un compasso disse “Coraggio,
ti assumerò per fare il raggio!”
Ora lavora in un cerchio, tutto impettito.

Fine del retto
Un angolo retto si credeva perfetto
e in un triangolo si sentiva costretto.
S’allontanò con una scusa
dalla povera ipotenusa.
In un intestino, poveretto, ora fa il retto.

Solitudine
Un numero 1 non faceva mai niente
appeso da solo a far l’esponente.
Si lamentava con rancore:
“Almeno fossi denominatore:
là in basso s’incontra un mucchio di gente.”

Tragedia del mare
Nel tragico naufragio del Lesotho
si salvò soltanto un’insieme vuoto.
Se il suo pesante complementare
fu il primo ad affogare,
l’insieme vuoto la scampò a nuoto.

(La notizia è forse da controllare:
il Lesotho non ha sbocchi al mare).

Fibonacci
Leonardo Pisano, detto il Fibonacci,
inventò una serie che ancor gli rinfacci:
0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, …
Ovvio che dica qualcuno:
“Dannato Fibonacci! Ma li mortacci!”

(Anche il più timido esce dal guscio:
meglio sospeso che un Pisano all’uscio).

Corrado
Un garbato binomio di nome Corrado
fa il Δ nell’equazione di II grado.
Se è negativo, sotto radice,
genera coppie che maledice:
coniugate e complesse, loro malgrado.

Flatlandia
Disse un semicerchio di Matera:
“Se ruoto sul diametro divento la sfera!”
Chiosò il rombo: “Che coglione,
non esiste una terza dimensione!”
Per il semicerchio fu giornata nera.

Fatica risparmiata
Euclide aveva la brutta abitudine
di drizzare triangoli sopra un’incudine.
Su suggerimento di un allievo,
trovò un gran bel sollievo
nell’ideare i criteri di similitudine.

Paura del confronto
Un x imbranato di Ponte a Ema
s’accordò con la y per fare sistema,
ma ci fu una discussione
sul metodo di risoluzione:
con il confronto l’insicuro trema.

Crop circe
Un cerchio new-age di Milano
era macrobiotico, buddista tibetano.
Per scappare dal mondo,
che non è poi così tondo,
si fece infine cerchio nel grano.

La tentazione
C’era un asintoto dalla fede ispirato
che fece voto di non esser toccato,
ma davanti a una cotangente,
bella, sinuosa, suadente,
dovette ammettere di sentirsi tentato.

L’argomento
C’era un logaritmo bugiardo di Cento
che dal dir panzane si tratteneva a stento.
Gli chiesero se era vero
che era stato logaritmo di zero,
ma il logaritmo di 100 cambiò argomento.

Scontro di civiltà
Una grassa piramide a base esagonale
era ghiotta di prosciutto e guanciale.
Rifletté sul problema
grattandosi l’apotema:
“Le colleghe d’Egitto son messe male!”

Night Club
Narra la storia del tetraedro Pedro
che beveva sidro corretto con cedro.
Si batté per Semiramide,
gran bel pezzo di piramide:
gli ingessarono un angolo diedro.

Il pignolo
Grande fu l’importanza degli eventi
al reparto maternità dei segmenti.
Ebbero infatti i natali
tre gemelli, tutti uguali.
Corresse il pediatra: “Congruenti”.

Alto tradimento
Un poligono fenicio di nome Ciro
faceva la spia per l’impero assiro.
Pagò il fio del suo mal,
sacrificato al dio Baal,
quel bersagliato poligono di Tiro.

Paradosso del mentitore
In un vecchio libro, una certa sera
lessi una frase che passò leggera:
“Una fata mi ha giurato
che il loro mondo è inventato”
che, se è vera, è falsa e, se è falsa, è vera.

Paradosso dei corvi
Ho contato tremila corvi, ho finito ieri:
con assoluta certezza sono tutti neri.
Poi ho mangiato una pera,
che non è di sicuro nera,
allora non è un corvo, in base ai miei criteri.

Maleducazione
Parlando con il collega δ del suo mestiere
si sfogava un numero ε piccolo a piacere:
“La cosa che mi ha offeso
è di esser comunque preso;
al limite, qui intorno, chiedete il mio parere”.

Carl Friedrich Gauss
Carl Friedrich Gauss
consultava Penthouse
quando fu l’artefice
delle Disquisitiones Aritmeticae.

Kurt Gödel
Kurt Gödel
cenando con una top model
trovò indecidibile
se il sushi sia commestibile.

L’autoritario
Un > dall’aria marziale
dava ordini al povero =:
“Con la democrazia,
solo licenza, e anarchia!”
“Da un –1 sarai capovolto, maiale!”

Sull’utilità della matematica
Non sapeva proprio, Lancillotto,
che 512 è il cubo di otto,
così sbagliò, con Parsifal,
la risposta per il Santo Graal.
Rispose bene Galahad (cioè Galeotto).

Connettivi logici
Sotto le palme di un atollo tropicale
oziava un ∃ (quantificatore esistenziale).
Sdraiato sull’erba
risolveva un cruciverba
con le lettere scritte al contrario del normale.

Geometrie non euclidee
Due rette parallele su un piano piatto
di essere separate presero atto.
Ma un dì davvero strano
qualcuno curvò il piano:
per quanto parallele, entrarono in contatto.

Il matematico napoletano
Un matematico napoletano rimase perpless
studiando una funzione nel piano compless:
“L’ho analizzata con cura,
non cambia mai curvatura.
Accà nel compless, nisciun punt ‘e fless”.

Lite coniugale
Il lato del quadrato alla diagonale:
“Sei sempre la solita irrazionale!”
“Caro, ciascuno ha le sue,
e se tu valessi radice di due?
Il maschilismo in geometria non vale”.

mercoledì 8 aprile 2009

La fertile bufala dell’albero del veleno



I legami tra scienza e letteratura in epoca romantica furono più stretti e fecondi di quanto si è generalmente portati a pensare. Gli sviluppi nella conoscenza del mondo naturale e il contemporaneo progresso delle scienze sperimentali ebbero un forte impatto sulle opere dei letterati, così come i naturalisti utilizzavano con una certa frequenza immagini letterarie e metafore poetiche nelle loro relazioni e nelle pubblicazioni scientifiche.

William Wordsworth era in corrispondenza costante con il chimico Humphry Davy, mentre questi faceva le sue importanti scoperte sull’elettrolisi, il magnesio, l’azoto e il suo protossido (il gas esilarante). Gli effetti di questo composto furono sperimentati dallo scienziato anche su Samuel Taylor Coleridge, che di ricerche simili era ghiotto. Contemporaneamente Davy scriveva e pubblicava alcuni poemi lirici nello stile dei due poeti. Anche naturalisti come Erasmus Darwin, il nonno di Charles, mostrarono interesse per la letteratura, sia come lettori sia come autori. Nel frattempo Coleridge frequentava pressoché tutte le conferenze di fisiologia che si tenevano a Londra in quel periodo. Quando gli fu chiesto del perché, rispose “Per aumentare il mio bagaglio di metafore”. Percy Shelley fece esperimenti di chimica e “macchine elettriche” nella sua casa di Oxford, e sua moglie Mary si interessava ai lavori di Luigi Galvani nel periodo in cui ebbe l’idea di scrivere di Frankenstein e del suo mostro. Come loro, molti poeti e scrittori cosiddetti “Romantici” nutrivano seri interessi scientifici.

Persino il mistico e visionario William Blake, che si considerava ostile alla natura “vegetale” in tutte le sue forme, fu influenzato dai resoconti dei naturalisti. Da un lato egli considerava il mondo naturale come il segno della nostra caduta originaria, mentre d’altro canto faceva uso di vigorose immagini naturali in tutta la sua opera poetica e artistica. Il celebre accenno che Blake fa a un albero apportatore di morte nelle sue Songs of experience (1794) è esemplare dell’uso di immagini provenienti dal mondo naturale applicate a scopi poetici:

The poison-tree

I was angry with my friend:
I told my wrath, my wrath did end.
I was angry with my foe:
I told it not, my wrath did grow.

And I watered it in fears
Night and morning with my tears,
And I sunned it with smiles
And with soft deceitful wiles.

And it grew both day and night,
Till it bore an apple bright,
And my foe beheld it shine,
And he knew that it was mine,--

And into my garden stole
When the night had veiled the pole;
In the morning, glad, I see
My foe outstretched beneath the tree.


Ero adirato col mio amico,
dissi la mia ira, la mia ira finì;
ero adirato col mio nemico,
non la dissi, la mia ira crebbe.

E l'ho bagnata di timori,
notte e giorno con le mie lacrime,
e le ho dato il sole di sorrisi
e dolci ingannevoli astuzie.

Ed è cresciuta giorno e notte,
finché ha generato una mela splendente;
e il mio nemico la vide brillare,
e seppe che era mia.

E penetrò nel mio giardino
quando la notte aveva velato il cielo;
al mattino vidi lieto il mio nemico
sotto l'albero, morto stecchito..

L’albero che ispirò Blake é noto come “albero del veleno” ed è oggi classificato come Antiaris toxicaria, una Moracea che cresce nel sud-est asiatico e può raggiungere i 40 metri d’altezza. Mentre i suoi frutti sono commestibili, il lattice che si estrae dalla corteccia e dalle foglie è velenoso per l’alto contenuto di antiarina, un glicoside che provoca inibizione del funzionamento della pompa potassio-sodio delle cellule muscolari cardiache, disturbi neuropsichici e vomito. Per questo motivo era utilizzato per avvelenare le frecce dalle popolazioni dell’arcipelago indonesiano e della Malesia, che lo chiamavano Upas (“veleno”).

In realtà l’Antiaris conosciuta da Blake non era l’albero reale, ma il prodotto di un’invenzione letteraria orientalizzante diffusa in occidente attraverso una bufala scientifica: una delle più grandi, a giudicare dalle sue conseguenze letterarie (non a caso il New Scientist l’ha classificata tra le sette più riuscite della storia).

Tutto ha inizio con la pubblicazione sul numero di luglio-dicembre 1783 del London Magazine di un articolo dall’anodino titolo DESCRIPTION OF THE POISON-TREE, IN THE ISLAND OF JAVA (qui l’originale, in fondo alla pagina 511), in cui un certo N. P. Foersch, chirurgo olandese della Compagnia delle Indie Orientali, racconta dell’esistenza nell’isola di Giava, “a 27 leghe da Batavia”, di un immenso Bohon-Upas (albero del veleno), i cui vapori nocivi sono tali da rendere sterile tutto il terreno circostante per un raggio di 10 o 12 miglia: “Non si può vedere un albero, né un cespuglio, né la più piccola foglia d’erba”. Ad esso si avvicinano, con la massima fretta e in favore di vento, soltanto i malfattori condannati a morte, che scelgono di tentare di raccogliere un po’ della gomma tossica e preziosa che scaturisce sotto la sua corteccia affinché sia loro risparmiata l’esecuzione. Di essi solo uno su dieci fa ritorno vivo, ma la clemenza dell’Imperatore è ampiamente ripagata dalla rendita considerevole che egli ottiene dalla distillazione della gomma velenosa utilizzata per intingervi le punte delle armi.

Gli effetti del veleno sono minuziosamente descritti da Foersch: un uomo colpito da una freccia avvelenata nel giro di pochi minuti è colto da un tremore crescente, al culmine del quale muore tra le più atroci sofferenze. I cadaveri di coloro che sono morti a causa dell’Upas sono pieni di pustole livide, la pelle è bluastra e gli occhi diventano gialli. Con spirito “scientifico”, l’olandese si procura qualche grano del veleno e sperimenta i suoi effetti su alcuni animali, di cui descrive le convulsione e la morte miserabile. Questo grand-guignol gli consente di concludere che “l’Upas è il veleno vegetale più pericoloso e violento; e sono portato a credere che contribuisce fortemente all’insalubrità di quest’isola”.

Il falso resoconto suscitò subito interesse e polemiche, ma fu considerato veritiero dalla maggior parte dei naturalisti. Nel 1791 Erasmus Darwin magnificò in versi nel suo Botanical Gardens le terribili proprietà dell’albero del veleno:

Fierce in dread silence on the blasted heath
Fell Upas sits, the Hydra tree of death.
Lo! From one root, the envenom’d soil below,
A thousand vegetative serpents grow;
(. . . )
A thousand tongues in quick vibration dart;
Snatch the proud eagle towering o’er the heath,
Or pounce the lion as he stalks beneath;
Or strew, as marshalled hosts contend in vain,
With human skeletons the whiten’d plain.

Spietato nel terribile silenzio sull’erica distrutta
Siede l’Upas, l’Idra albero di morte.
Guarda! Da una radice, dal suolo avvelenato
Crescono mille serpenti vegetali,
(…)
Mille lingue dardeggiano in rapida vibrazione;
afferrano l’aquila coraggiosa che sorvola la brughiera
o ghermiscono il leone che sotto si muove
o disseminano, come truppe schierate che lottano invano,
il piano biancheggiante di scheletri umani.

Nonno Darwin in una nota è esplicito sulla sua fonte: ”Esiste un albero del veleno nell’isola di Giava, che si dice abbia spopolato il paese con i suoi effluvi in un raggio di 12 o 14 miglia: la superficie del terreno è sterile e rocciosa, popolata solo da scheletri di uomini e animali”. Fu dal libro di Darwin che Blake derivò la sua immagine dell’albero della vendetta.

L’eco poetica e letteraria della bufala scientifica del London Magazine perdurò a lungo, anche dopo che fu smascherata dal naturalista francese Leschinault e dall’americano Thomas Horsfield dopo il 1811. George Byron, nel quarto canto del suo poema narrativo Pellegrinaggio del giovane Aroldo (1812-1818), utilizzò la metafora del l’albero del veleno per descrivere l’eredità corrotta del peccato originale:

This uneradicable taint of sin,
This boundless upas, this all-blasting tree,
Whose root is earth, whose leaves and branches be
The skies which rain their plagues on men like dew –
Disease, death, bondage – all the woes we see –
And worse, the woes we see not – which throb thought
The immedicable soul, with heart-aches ever new.

Questa inestirpabile macchia del peccato
Questo Upas sterminato, quest’albero che tutto inaridisce,
la cui radice è terra, le cui foglie e rami sono i cieli
che piovono le loro calamità sull’uomo come rugiada –
malattia, morte, schiavitù – tutti i dolori che vediamo –
e peggio, i dolori che non vediamo – che fan battere il pensiero,
l’anima incurabile, con cardiopalmi sempre nuovi.

Al di fuori dell’ambito inglese, Alexander Pushkin scrisse nel 1828 una poesia intitolata Anchar, che significa proprio “L’albero del veleno”. Nell’opera il grande scrittore romantico russo rielabora il racconto di Foersch in termini poetici, descrivendo il terribile vegetale, evitato dagli uccelli e dagli animali terrestri, ma pur sempre utilizzato dai potenti come fonte di veleno da usare come arma.

Anche Charlotte Brontë utilizzò l’immagine dell’albero del veleno. Il tenebroso Rochester, in Jane Eyre (1848), così dice alla protagonista del tentativo di celarle l’esistenza di sua moglie Bertha Mason: “Nascondervi la vicinanza della pazza, tuttavia, fu qualcosa come coprire un bimbo con un mantello e lasciarlo nei pressi di un albero del veleno: la prossimità di quel demonio è ed è sempre stata avvelenata” .

Che l'albero del veleno renda sterili i dintorni è falso. Di certo la sua metafora in campo letterario è stata assai fertile.

sabato 4 aprile 2009

Cantatrix sopranica L.



La letteratura scientifica, nata nel '600 per garantire oggettività e diffusione alla ricerca sperimentale, ha sviluppato nel tempo una struttura e un ritmo caratteristici, una scansione in parti e una prosa collaudate e regolamentate. Altrettanto semplice e priva di ambiguità e sorprese è la lingua franca della scienza, l'inglese scientifico semplificato e integrato dai termini propri di ogni disciplina che si legge nelle pubblicazioni e che si sente ai congressi.

La forma e lingua della comunicazione scientifica, al di là delle specificità, si mantengono uniformi, uguali a loro stesse, tanto che ogni articolo - qualunque ne sia il soggetto, dalla genetica alla fisica delle particelle - somiglia a tutti gli altri. Naturalmente le convenzioni sono indispensabili per evitare il più possibile le ambiguità di interpretazione e rispettare i criteri di oggettività, universalità e ripetibilità che sono propri del metodo scientifico. Tutte le convenzioni, tuttavia, una volta divenute esclusive e inesorabili, si prestano alla messa in ridicolo, sollevando il giustificato sospetto che possano legittimare di tutto, anche il vuoto.

Le burle scientifiche hanno una lunga tradizione. La più celebre è quella di cui fu autore Isaac Asimov nel 1947, quando, ancora studente di dottorato in chimica, ma già noto autore di racconti di fantascienza, scrisse un articolo, identico nella forma ad un normale lavoro scientifico, sulle proprietà di una molecola dalla solubilità talmente elevata da sciogliersi prima del contatto con l’acqua: la tiotimolina. Di questo scherzo ha parlato recentemente Dario Bressanini su “Le Scienze” e nel suo blog, con un bell’articolo al quale rimando.

Georges Perec (1936-1982), uno dei più geniali esponenti dell’Oulipo, del quale mi sono già occupato a proposito del suo romanzo combinatorio La vita: istruzioni per l'uso, volendo, come diceva, cimentarsi con tutti i generi letterari, scrisse una serie di falsi articoli scientifici che furono pubblicati per la prima volta nel 1980 sulla rivista francese Banana split. Lo scopo di Perec era diverso da quello di Asimov. Egli non voleva utilizzare la comunicazione scientifica per fare uno scherzo intellettuale, bensì prendersi gioco della stessa struttura e della lingua della letteratura scientifica, che voleva parodiare in quanto genere letterario.

La raccolta di cinque testi "scientifici" è stata edita in italiano da Bollati Boringhieri nel 1991, con la sapiente traduzione e le note di Roberta Delbono, sotto il titolo del più celebre e significativo di questi pseudo-articoli, Cantatrix sopranica L.

«Dimostrazione sperimentale dell'organizzazione tomatopica nel soprano» è il sottotitolo di questo primo articolo, scritto da Perec direttamente nell’inglese “scientifico”, nel quale viene studiato l'effetto del lancio dei pomodori sulle cantanti liriche. Si tratta di una delle più divertenti esibizioni ludico-sperimentali di Perec, un testo pieno zeppo di combinazioni segrete, di nonsense, di giochi di parole, di stravaganze, tutte sapientemente occultate dietro l'apparenza del documento scientifico, corredato persino da folli grafici e tabelle. Molte di queste acrobazie verbali sono incomprensibili a chi non conosca il francese e l’inglese, ma un adeguato apparato di note svela al lettore tutti gli arcani.

Già l’abstract è pirotecnico ed è reso magistralmente dalla traduttrice in un italiano demenziale che ricorda i catastrofici esiti dei traduttori automatici:

SOMMARO
Dimostrazione sperimentale di un’organizzazione tomatotopica nella Cantatrice
L’autore studia i casi che il buttamento di pomodori alla faccia provoca nella Cantantrice la “reazione yellante”, ed dimostra che parecchie diverse aree della cervella intervenghono nella risposta, specie il tratto legguminoso, gli nuclei talamici e la fessura musicale dell’emisfero nordico.

L’incipit che riporto è indicativo di tutto lo pseudo-articolo:

“As observed at the turn of the century by Marks & Spencer (1899), who first named the “yelling reaction” (YR), the striking effects of tomato throwing on Sopranoes have been extensively described. Although numerous behavioral (Zeeg & Puss, 1931; Roux & Combaluzier, 1932; Sinon et al., 1948), pathological (Hun & Deu, 1960), comparative (Karybb & Szyla, 1973) and follow-up (Else & Vire, 1974) studies have permitted a valuable description of these typical responses, neuroanatomical, as well as neurophysiological data, are, in spite of their number, surprisingly confusing”.

“Come messo in rilievo alla fine del secolo scorso da Marks & Spencer (1899), che coniarono per primi il termine “yelling reaction” (YR), i sensibili effetti del lancio di pomodori sulle soprano sono stati oggetto di ampie descrizioni. Ma benché numerosi studi comportamentali (Zeeg & Puss, 1931; Roux & Combaluzier, 1932; Sinon et al., 1948), patologici (Hun & Deu, 1960), comparativi (Karybb & Szyla, 1973) e di follow-up (Else & Vire, 1974) abbiano reso possibile una preziosa descrizione di quelle tipiche reazioni, i dati neuro-anatomici e neurofisiologici sono, per quanto copiosi, sorprendentemente confusi”.

Come si può desumere da queste righe, la bibliografia è piena di giochi di parole e di riferimenti assolutamente estranei all’argomento: Marks & Spencer è una catena inglese di grandi magazzini, Hun & Deu è omofonico di un et deux, Else & Vire di elzévir, ecc. I titoli non sono da meno: Singing in the Brain di S. Donen e G. Kelly o Tomatic innervation of the nucleus ruber di Maotz E. & Toung I. Si sorride a leggere i nomi di Chou O. & Lai A., ma ancora di più quando si scopre che O. Chou è omofono di au chou (al cavolo) ed A. Lai lo è di à l'ail (l'aglio), cui si accenna in alcuni titoli ispirati a ricette gastronomiche (proprio dei due “autori” sarebbe Dix-sept recettes faciles au chou et à l’ail). Il lessico è caratterizzato dalla presa in giro dei termini scientifici: Yelling reaction è l'urlo reiterato dalla soprano bersagliata, Tomato rungisia vulgaris è il proiettile, che prende nome dal mercato ortofrutticolo di Rungis nei sobborghi di Parigi.

L’opera prosegue con una scrupolosa esposizione della ricerca, con la descrizione delle apparecchiature e delle cavie («107 soprano femmine in buona salute»), le procedure e la visualizzazione dei risultati, con un fiorire di citazioni e di rinvii che ricalcano ed esaltano le caratteristiche formali del saggio scientifico.

L’articolo sulla Cantatrix non è isolato, perché Perec passa poi ad esplorare altre strade. Così, negli altri quattro scritti, diventa entomologo per studiare l'ibridazione delle farfalle nell'isola del Pacifico di Iputupi, agiografo per narrare l'amicizia tra due grandi uomini, storico dell'arte per trattare della cattedrale di Chartres e infine filologo per redigere un'esegesi di un misterioso inedito dello scrittore Raymond Roussel. Il soggetto di una delle due biografie è Marcel Gotlib, – nella realtà autore di fumetti parodici – le cui competenze spaziano dalla stomatologia clinica all'epistemologia genetica, passando per il cinema, la statistica integrata e l'economia politica. Egli avrebbe compiuto studi di altissimo livello sulle proprietà adesive della lumaca fossile. Le invenzioni del suo amico e collaboratore sfiorano la demenza: torte alla crema boomerang che tornano al punto di partenza se falliscono il bersaglio, fermagli metallici a trombone, e così via.

Perec realizza un'immensa ed esilarante parodia della pubblicazione scientifica, una prova in più di quella che è stata la sua multiforme e brillante attività, stroncata prematuramente da un tumore a 46 anni.


mercoledì 1 aprile 2009

Primo Levi poeta del principio



La raccolta Ad ora incerta di Primo Levi (1919-1987), pubblicata da Garzanti nel 1984, raduna quarant’anni della sua poco conosciuta attività di poeta e traduttore di poesie. Essa costituisce un capolavoro isolato all’interno della sua opera, anche se con essa è coerente. La poesia è stata per lo scrittore un vero e proprio bisogno, anche se saltuario. Egli si schermiva dicendosi un po’ a disagio nei panni di poeta, ed ebbe a dichiarare: "Per me l’etichetta di poeta è inconsueta, mi sento un attore fuori parte", aggiungendo che "Non si può chiamare poeta chi, come me, fa in media una poesia all’anno". In realtà si tratta di opere assai belle, scritte in un linguaggio che rifugge dagli ermetismi e dai barocchismi. Del resto il suo “programma poetico” è chiaramente esposto nella prefazione:

“In tutte le civiltà, anche in quelle senza scrittura, molti, illustri e oscuri, provano il bisogno di esprimersi in versi, e vi soggiacciono: secernono quindi materia poetica indirizzata a se stessi, al loro prossimo o all’universo, robusta o esangue, eterna o effimera. La poesia è nata certamente prima della prosa. Chi non ha mai scritto versi? Uomo sono. Anch’io, ad intervalli, “ad ora incerta”, ho ceduto alla spinta: a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio genetico. In alcuni momenti, la poesia mi è sembrata più idonea della prosa per trasmettere un’idea o un’immagine. Non so dire perché, e non me ne sono mai preoccupato: conosco male le teorie della poetica, leggo poca poesia altrui, non credo alla sacertà dell’arte, e neppure credo che questi miei versi siano eccellenti. Posso solo assicurare l’eventuale lettore che in rari istanti (in media, non più di una volta all’anno) singoli stimoli hanno assunto naturaliter una certa forma, che la mia metà razionale continua a considerare innaturale”.

Il titolo della raccolta riprende un verso della Ballata del vecchio marinaio di Sameul Taylor Coleridge:

Since then, at an uncertain hour,
That agony returns:
And till my ghastly tale is told
This heart within me burns.

Da allora, a un’ora incerta,
Quell’agonia mi torna;
E finché la mia storia di orrore non sarà detta
Questo cuore brucia in me.

Il poemetto del poeta romantico inglese doveva essersi sedimentato profondamente nell’animo di Primo Levi, se egli premise la stessa quartina anche alla sua ultima opera, I sommersi e i salvati, del 1986. Non è difficile riscontrare l’analogia che lo scrittore piemontese sentiva tra sé e il vecchio marinaio, partecipi della stessa ineluttabile maledizione del ricordo di terribili esperienze e del bisogno di farlo conoscere ad altri attraverso il racconto.

Si ritrovano nella raccolta le stesse atmosfere del Levi narratore, le sensazioni e i pensieri noti attraverso la prosa, ma come proiettati, scriveva Gina Lagorio, “in un orizzonte senza confini esclusivamente segnati dal filo spinato, in un tempo senza tempo che è quello dell’umano destino, medusa che non finisce di impietrire chi osa guardarla”. Le poesie su Auschwitz tuttavia sono solo otto, e lasciano spazio anche ad altri aspetti, altre qualità meno note dello scrittore. Accanto alla riflessione sul destino dell’uomo moderno, sui pericoli di una tecnologia mal adoperata, sulla menzogna che “evangelizzerà con la bestemmia e la forca”, c’è l’umorismo, ad esempio, che per lo scrittore costituisce quasi un elemento salvifico, una faccia della pietà, se non una forma di laica religiosità di un ateo dichiarato. Così la sua rivisitazione dell’arcinota poesia del Carducci: “Pio bove un corno. Pio per costrizione, / Pio contro voglia, pio contro natura, / Pio per arcadia, pio per eufemismo. / Ci vuole un bel coraggio a dirmi pio / E a dedicarmi perfino un sonetto”.

Nella raccolta compare anche una poesia scritta il 13 agosto 1970 sull’origine dell’universo, Nel principio, in cui il chimico scrittore sostiene la teoria cosmologica del Big Bang contro ogni illusoria tentazione creazionista, respingendo qualsiasi riferimento metafisico e negando le tradizioni ebraica e cristiana.

Nel principio

Fratelli umani a cui è lungo un anno
Un secolo un venerando traguardo,
Affaticati per il vostro pane,
Stanchi, iracondi, illusi, malati, persi;
Udite, e vi sia consolazione e scherno:
Venti miliardi d’anni prima d’ora,
Splendido, librato nello spazio e nel tempo,
Era un globo di fiamma, solitario, eterno,
Nostro padre comune e nostro carnefice
Ed esplose, ed ogni mutamento prese inizio.
Ancora, di quest’una catastrofe rovescia
L’eco tenue risuona dagli ultimi confini.
Da quell’unico spasimo tutto è nato
Lo stesso abisso che ci avvolge e ci sfida,
Lo stesso tempo che ci partorisce e travolge,
Ogni cosa che ognuno ha pensato,
Gli occhi di ogni donna che abbiamo amato,
E mille e mille soli, e questa
Mano che scrive.

Dal punto di vista lessicale, il testo si presenta senza difficoltà interpretative. Solamente, al verso 11, la frase “quest’una catastrofe rovescia”, richiede commento, proprio perché complica il significato usuale per la presenza del latinismo una, cioè unica, del grecismo catastrofe, qui usato, oltre che nel senso di rivolgimento e in quello metaforico di disastro, molto probabilmente nell’accezione scientifica di “discontinuità”. L’aggettivo rovescia ribalta il significato comune di catastrofe: si tratta di un inizio, non di una fine.

Il titolo stesso presenta una novità polemica nei confronti della tradizione, perché usa la preposizione articolata nel che evidenzia una certezza, una determinazione: c’è un solo inizio, unico e assoluto, una singolarità fisica e matematica. Netta è la contrapposizione alla prima parola del Genesi: bereshit, che le traduzioni greca, latina e, successivamente, italiana, rendono con “In principio”, che, di per sé, serve a indicare semplicemente un inizio narrativo. Levi, invece, si distacca dalla tradizione religiosa, che colloca l’inizio in un tempo indeterminato, altro e mitico. C’è un solo inizio, che è quello cosmologico, collocato venti miliardi d’anni prima d’ora. La correttezza della data non importa, l’indicazione è perfettibile, perché con quell’origine, quell’unico spasimo, ha avuto inizio anche il tempo, che ci partorisce e travolge.

Lo scrittore non è il profeta, nonostante quell’Udite: egli è invece su un piano di uguaglianza con tutti gli esseri umani, che sono fratelli : esiste quindi una condizione comune che non ammette distinzioni o privilegi e da questa uguaglianza non può derivare che sorte comune e solidarietà. Tutti siamo accomunati dalla comune origine, e ancora si sente l’eco tenue di quel globo di fiamma insieme padre e carnefice. E a me, se l’accostamento non scandalizza, viene in mente il ritornello del brano Pagana di Gianfranco Manfredi dall’album Biberon del 1978: “ È pagana / la natura che ci chiama / che ci tende la sua trama / che ci odia e che ci ama, / è pagana / e non è così lontana”.