venerdì 11 giugno 2010

Einstein e Picasso, con qualche dubbio

Il primo protagonista di questa storia si chiama Henri Poincaré (1854-1912), grandissimo matematico, fisico teorico precursore della relatività ristretta e filosofo convenzionalista. In La scienza e l'ipotesi (1902), libro più di epistemologia che di fisica, Poincaré espresse l’idea che la scienza non ci può rivelare la vera essenza della realtà. La sua valenza conoscitiva è relazionale: non possiamo conoscere gli oggetti, ma solo le loro relazioni. Lo scienziato crea soltanto il linguaggio con cui enunciare un fatto e le sue relazioni con altri fatti; il fatto scientifico cioè, non è altro che il fatto bruto tradotto in un linguaggio convenzionale e quindi più comodo. In altre parti del testo lo scienziato francese critica i concetti di spazio e tempo assoluti, affermando che essi non sono necessari alla meccanica. Inoltre, sostiene, “La nostra geometria euclidea non è, essa stessa, che una sorta di convenzione linguistica; noi potremmo enunciare i fatti della meccanica in relazione ad uno spazio non euclideo, ma questo sarebbe un riferimento meno comodo, ma comunque legittimo come il nostro spazio ordinario”. Poincarè chiamò “Principio del moto relativo” l’impossibilità fisica di osservare il moto assoluto. Due anni dopo lo avrebbe chiamato “Principio di Relatività”.

In Scienza e metodo (1906), un’eterogenea raccolta di saggi su questioni di metodologia scientifica, Poincaré espose le proprie idee sulla creatività e sui processi mentali che generano intuizioni creative. Poincaré considerava la creatività come la capacità di unire elementi preesistenti in combinazioni nuove che siano utili, sostenendo che il criterio intuitivo per riconoscere l'utilità della combinazione nuova è la bellezza, intesa non solamente in senso estetico, ma legata all'eleganza così come la intendono i matematici: armonia, economia, rispondenza allo scopo. La definizione di Poincaré era riferita alle scienze, ma abbracciava anche le arti e la tecnologia.

Il secondo protagonista si chiama Arthur I. Miller e, ad onta del suo nome, non fa il commediografo, ma lo storico della scienza e il divulgatore scientifico. Sì è laureato in fisica al City College di New York e ha ottenuto il PhD al MIT, iniziando la carriera come fisico delle particelle. Poi ha studiato storia e filosofia della scienza ad Harvard. Dal 1991 al 2005 è stato professore di Storia della Filosofia della Scienza all’University College di Londra. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni. In Italia sono stati tradotti L'impero delle stelle. Amicizia, ossessioni e tradimento alla ricerca dei buchi neri, Codice, 2006, cronaca documentata della scoperta teorica di quegli oggetti che si sarebbero poi chiamati buchi neri e spietata indagine sulle lotte di potere e le invidie presenti ai massimi livelli della ricerca scientifica, e L'equazione dell'anima. L'ossessione per un numero nella vita di due geni, Rizzoli, 2009, curioso saggio sul poco conosciuto rapporto terapeutico tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung, che si manifestò nel tentativo di elaborare un linguaggio comune per fisica e psicologia e di trovare un ponte tra materia e spirito: tentativo miseramente sfociato in un’esoterica esaltazione per il numero “magico" 137.

Il primo legame tra Poincaré e Miller è l’affermazione di quest’ultimo che nel 1976 la lettura delle riflessioni di Poincaré sulla creatività, contenute in lettere e manoscritti allora inediti, gli aprì un nuovo campo d’interesse: il rapporto tra la scienza e l’immagine, soprattutto dopo che la relatività e la meccanica quantistica hanno rotto quella continuità tra visualizzabilità e visualizzazione che era fuori discussione nella fisica newtoniana. Miller si è allora interessato a come sono costruite, conservate nella mente e recuperate dal pensiero le immagini visuali, avvicinandosi così alle scienze cognitive, che gli avrebbero fornito la possibilità di strutturare le sue idee.

Gli studi di Miller sul simbolismo visuale in fisica lo hanno condotto verso l’arte. Il filo conduttore del suo Insights of Genius: Imagery and Creativity in Science and Art (1996) è che la creatività visuale è fondamentale in entrambi i campi. Miller si chiede in questo libro come mai gli scienziati sono così attratti dalle immagini visuali e come mai la visione in tutte le sue forme riveste un ruolo così fondamentale nelle grandi conquiste scientifiche. Dai disegni di Galileo ai diagrammi di Feynman e, ancora oltre, alle moderne tecniche di rappresentazione virtuale, è praticamente impossibile immaginare la scienza senza le immagini. In questa accezione, gli scienziati sono come gli artisti: entrambi cercano una rappresentazione visuale del mondo. Così, Miller esplora le relazioni tra la fisica moderna e l’arte moderna, con uno studio di grande respiro che coinvolge la filosofia della mente e del linguaggio, le scienze cognitive, la neurofisiologia, in cerca delle origini e del significato del simbolismo visuale. Miller afferma di credere che “nel momento della visione creativa, si dissolvono i confini tra le discipline e sia gli artisti sia gli scienziati cercano nuovi modelli di estetica” (I believe that at the moment of creative insight, boundaries dissolve between disciplines and both artists and scientists search for new modes of aesthetics).

Il secondo legame tra Miller e Poincaré fa entrare in scena altri due personaggi, il terzo e il quarto, che sono tanto conosciuti da non dovere essere presentati. Nel suo libro Einstein, Picasso: Space, Time and the Beauty That Causes Havoc, Perseus Books, 2001, che gli valse anche una nomination per il premio Pulitzer, Miller sostiene che Poincaré è il legame tra la relatività e il cubismo. Sia Albert Einstein che Pablo Picasso, egli sostiene, furono influenzati dall’approccio non-euclideo alla geometria e dalle sue speculazioni sulla simultaneità. Einstein lo sarebbe stato direttamente, leggendo la traduzione tedesca del testo La scienza e l’ipotesi e discutendone con gli amici di Berna, Picasso indirettamente, attraverso la sua cerchia d’amici e conoscenti. La tesi di Miller è che Einstein e Picasso stavano entrambi lavorando allo stesso problema, la natura della simultaneità (temporale per Einstein e spaziale per Picasso), e che per entrambi non esistevano sistemi di riferimento preferenziali per osservare i fenomeni.

Molti storici dell’arte hanno ipotizzato che in qualche modo la relatività abbia influenzato il cubismo, ma nessuno di essi ha mai ritenuto che tra di essi esistesse un legame diretto. In effetti si è sempre pensato che gli ispiratori di Picasso fossero stati Cezanne e l’arte primitiva africana. Miller invece considera il cubismo come un “programma di ricerca” con il quale Picasso, allo stesso modo di Einstein, creò una nuova estetica, la riduzione delle forme a raffigurazioni geometriche. Ciò implicava la rappresentazione simultanea, sulla stessa tela, di molti punti d’osservazione differenti. Questa idea ha spinto lo studioso americano a studiare maggiormente l’argomento e a sostenere la tesi che, sebbene Einstein e Picasso fossero sconosciuti l’uno all’altro, il movimento d’avanguardia nella prima decade del Novecento li incoraggiò a mettere in discussione nello stesso momento la tradizionale concezione dello spazio e del tempo. Entrambi, tra il 1905 e il 1906, scoprirono il concetto di relatività.


Picasso, da non molto tempo a Parigi, in quel periodo conosceva a stento il francese e non potrebbe aver letto le opere di Poincaré, tuttavia Miller ha scoperto che qualcuno nella sua cerchia di amici studiava matematica avanzata per diletto. Questo qualcuno, Maurice Princet, potrebbe aver illustrato a Picasso le riflessioni di Poincaré proprio mentre il pittore si accingeva a dipingere Les Demoiselles d’Avignon (1907). Scrive Miller. “La mia ipotesi è che proprio in quel momento Picasso comprese l’importanza di quanto Princet andava dicendo sulle geometrie non euclidee”. L’influsso di Princet sulla nascita del cubismo è attestata da varie testimonianze. Il pittore fauvista Maurice Vlaminck scrisse "Ho assistito alla nascita del cubismo, alla sua crescita, al suo declino. Picasso fu l’ostetrico, Guillaume Apollinaire la levatrice, Princet il padrino." Jean Metzinger, che aderì al cubismo nel 1908, scrisse nelle sue memorie : “Maurice Princet si univa spesso a noi. Sebbene fosse assai giovane, grazie alla sua conoscenza della matematica, aveva un posto importante in una compagnia assicurativa. Ma, al di là della sua professione, era in quanto artista che concepiva la matematica, in quanto esteta che invocava il continuum n-dimensionale. Gli piaceva coinvolgere gli artisti nelle nuove visioni dello spazio che gli erano state aperte da Schlegel e alcuni altri. Ci riuscì bene”.

Sembra anche che Princet abbia fatto conoscere al pittore spagnolo il Traité élémentaire de géométrie à quatre dimensions (1902) di Esprit Jouffret, in cui venivano descritti gli ipercubi e altri poliedri complessi a quattro dimensioni ed era illustrato come riprodurre su un piano bidimensionale oggetti a più di tre dimensioni. I disegni preparatori delle Demoiselles mostrerebbero, secondo Miller, l’influenza di Jouffret sul lavoro dell’artista.

Quanto a Einstein, Miller ravvisa nella vita dello scienziato di Ulm numerosi paralleli con quella di Picasso: “quando produssero le loro sorprendenti innovazioni, entrambi erano sulla ventina, sconosciuti, determinati, poveri e disposti a cacciarsi nei guai”. Einstein e Picasso, ciascuno nel proprio campo, emersero quando incominciava ad essere chiaro che i modi classici, intuitivi, di considerare e rappresentare lo spazio e il tempo erano oramai inadeguati. E ciascuno di essi trovò soluzioni innovative che avrebbero rivoluzionato il loro campo d’azione.

Il libro di Arthur I. Miller ha ottenuto un grande successo di vendite e ottime recensioni: William R. Everdell, sul The New York Times, ha scritto che si tratta di “un libro eccitante”, che attraverso il talento narrativo di Miller “assume la sua struttura naturale di doppia detective story”, “un thriller intellettuale”; secondo il New Scientist,Einstein, Picasso presenta nuovi punti di vista nei processi creativi comuni ad uno scienziato rivoluzionario e ad un artista radicale”; Nature ha parlato di “narrativa vivace e avvincente”; Stephen G. Brush, su Physics Today, lo a definito “Un libro brillante... che offre la migliore spiegazione che ho visto sulle scoperte indipendenti del cubismo e della relatività come parti di una trasformazione culturale più ampia”. Il nostro Pietro Greco (Jcom 3 (2), June 2004) pensa che “La doppia tesi di Arthur I. Miller va presa in seria considerazione. Perché l’uomo è un rispettato storico della scienza in forze allo University College di Londra. Perché è, forse, lo storico al mondo che ha prestato maggiore attenzione al ruolo che hanno avuto l’intuizione, le metafore, l’estetica, la visualizzazione (Anschauung) e la visualizzabilità (Anschaulichkeit) nella fisica del primo Novecento. E, soprattutto, perché la sua doppia tesi è ben documentata”.

Il vostro modesto recensore non condivide l’entusiasmo dei critici. Innanzitutto non mi convince l’accostamento, indubbiamente accattivante, tra i due grandi personaggi, che, alla fine dei conti, sono stati scelti perché il loro nome è evocativo, ma che ebbero in comune solamente il fatto di vivere in anni di grande fermento culturale e di grandi innovazioni.

Il ruolo di Einstein in questa storia è poco chiaro e il suo contributo alla trama sembra ridotto ad alcuni aspetti della sua biografia simili a quelli della biografia di Picasso. Sicuramente i lavori di Poincaré erano conosciuti da Einstein quando pubblicò il suo celebre articolo sugli Annalen der Physik del 30 giugno 1905, tuttavia egli non ne citò alcuno. Solo nel 1921 Einstein citò Poincaré nel testo di una conferenza a proposito di geometrie non euclidee, ma non in relazione alla relatività speciale. Da parte sua, Poincaré non citò mai il lavoro di Einstein sulla relatività ristretta. Sembra che il legame tra i due non sia stato più stretto di quanto lo fossero i legami tra tutti i fisici che nello stesso momento si occupavano dei concetti di spazio e di tempo e di geometrie non euclidee.

Picasso avrebbe conosciuto le geometrie n–dimensionali dalle parole di un amico e dal testo di Jouffret: può darsi che le illustrazioni del volume possano avere ispirato la sua svolta stilistica, ma, per parlare di influsso diretto delle nuove scoperte della fisica sull’opera del maestro spagnolo, mi sarei aspettato qualcosa di più. È vero che i principi fondamentali della teoria cubista, così come vennero formulati da Picasso, Braque e dallo scrittore Apollinaire, sembrano mutuare dalla scienza l’analisi e la scomposizione dell’oggetto rappresentato nelle sue forme geometriche costitutive, viste da sistemi di riferimento spaziale differenti, ma parlare di “programma di ricerca” presuppone relazioni che Miller ha provato solo parzialmente. La testimonianza di Louis Vauxcelles, il critico d’arte che inventò le parole fauvismo e cubismo, sembra inoltre minimizzare ironicamente il legame diretto tra fisica e arte sostenuto da Miller: “Un giorno il signor Princet incontrò il signor Max Jacob e gli confidò un paio delle sue scoperte relative alla quarta dimensione. Il signor Jacob ne informò l’ingegnoso Picasso, e il signor Picasso vi vide la possibilità di nuovi schemi ornamentali. Il signor Picasso espose le sue intenzioni al signor Apollinaire, il quale si affrettò a scriverle in formulari e a codificarle. La cosa si estese e si propagò. Era nato il Cubismo, figlio del signor Princet”.

Qualcosa di più senz’altro Arthur I. Miller ci dirà il prossimo 13 dicembre 2010 dalle 14 alle 16 nel Dipartimento di Fisica della Sapienza di Roma, quando terrà una conferenza dal titolo Einstein, Picasso: Abstract Art and Abstract Science.

5 commenti:

  1. Non ho letto il libro di Miller. Da quello che tu riporti, i dubbi sono giustificati. In ogni caso, gli scienziati sono costretti a fornire una rappresentazione formale di quello che "vedono" con l'occhio della mente e dentro la mente di uno scienziato nascono e muoiono mille rappresentazioni, mille visioni di come le cose dovrebbero(potrebbero) andare.

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  2. Si parla qui della presunta o vera ispirazione ad argomenti scientifici astratti e complessi del più grande pittore del ventesimo secolo. Ma ti posso assicurare che l'onesto artigiano della pittura/animazione non dovrebbe prescindere da un'adeguata conoscenza di taluni aspetti di certe scienze. Ad esempio, ho conosciuto un disegnatore/animatore molto bravo a riconoscere le piante spontanee di vari climi e un pittore che possiede nozioni su ossa e muscoli proprie di un medico ortopedico.
    Perdonami per avere abbassato il livello della discussione.

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  3. Abbassato? Hai detto delle verità indiscutibili. Arte e scienza sono sempre state in relazione tra di loro: gli studi sulla prospettiva portarono a progressi nella geometria, Piero della Francesca era anche un matematico, Durer studiava scienze esatte, Leonardo era amico di Luca Pacioli e anatomista clandestino, ecc. E' proprio questo che toglie eccezionalità agli studi di Miller: le geometrie non euclidee influenzarono la pittura, va bene, ma i progressi della matematica e della scienza l'hanno sempre fatto.

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  4. Per quanto citi di Scienza e Metodo ho scoperto di essere, nel mio piccolo, poincariano: non sono un artista ma le cose che faccio devono essere belle (eccettuati, ovviamente, i commenti sui blog).
    Mi intriga L'impero delle Stelle, al di là del giudizio sull'autore.
    Ecco ho scoperto un paio di cose da leggere quando sarò vecchio ;-)
    Inoltre ho avuto una conferma che faccio bene a diffidare di Jung: 137 / 42 = 3.2619+ come dire che ha sbagliato di un fattore superiore a π.

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  5. Mi permetto di avallare i dubbi ma anche di suggerire che, talvolta, è solamente una questione di linguaggi. L'arte (nelle sue varie forme) può esprimere nelle sue opere concetti isomorfi a quelli delle teorie scientifiche. Credo che qualsiasi scienziato di buon senso non avrebbe difficoltà a notare come le stelle danzanti di Nietzsche sembrano strutture dissipative, il cantico del Gallo Silvestre di Leopardi arriva alle stesse conclusioni di Carnot e Clausius, Gadda aveva intuito il Principio di indeterminazione di Heisenberg e la futura teoria dei sistemi, Primo Levi la "metastabilità" della natura, il tempo dell'Orlando Furioso e del giardino di Borges presenta aspetti del tempo di Ilya Prigogine, Cyrano de Bergerac aveva intuito il ruolo del caso nell'evoluzione biologica. Ma perché nei dipartimenti di italianistica italiani questi filoni non se li fila nessuno (mentre ad Oxford, Cambridge, Yale, Melbourne vanno a gonfie vele)???
    Ne "Il mulino di Amleto", attraverso la mitologia comparata, Giorgio de Santillana identifica un antichissimo pensiero mitico-cosmologico in cui scienza e mito non erano separati ma la scienza veniva espressa con il linguaggio del mito: tale pensiero infatti, per i tempi arcaici nei quali era stato concepito, «non era in grado di esprimersi in forme identificabili alla nostra analisi, cioè non era analitico nel senso nostro, pur trattando di quello che oggi è oggetto di scienza. […] Si trattava essenzialmente non già di una fisica ma di una cosmologia: cioè di una teoria dell’universo come un tutto organico, in cui tutti quanti i livelli dell’essere si complettono in un insieme che si chiamava il cosmo, struttura estremamente complessa, sfuggente e labile, che non si era prima identificata. Infatti, la mancanza di alfabeto costringeva questi pensatori a ‘raccontare’ il cosmo invece di esporlo analiticamente, creando azioni narrative e avventure dalle quali è derivato il mito classico»

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