lunedì 23 marzo 2015

Saccheri e l’eterogenesi dei fini


Giovanni Girolamo Saccheri nacque nel 1667, figlio di un avvocato di Sanremo. Talento precoce, Girolamo a diciott'anni entrò nell'ordine dei Gesuiti a Genova. Lì studiò filosofia e teologia finché i superiori lo mandarono a Milano presso il Collegio di Brera, dove fu notato da Tommaso Ceva, che lo indirizzò allo studio degli Elementi di Euclide. Il Ceva aveva un fratello di nome Giovanni che era diventato matematico del Duca di Mantova ed era un grande geometra. I due fratelli ebbero una grande influenza sul giovane Saccheri, che si innamorò della matematica perinde ac cadaver

Il giovane Saccheri divenne presto così abile con le rette e gli angoli da pubblicare un libro di Quaesita geometrica all'età di ventisei anni, l’anno prima di ricevere gli ordini ed essere trasferito a Torino come insegnante del locale Collegio. Astuto, di eloquio fine e seducente, nella capitale subalpina entrò in confidenza con il Duca Vittorio Amedeo, che lo prese sotto la sua protezione, affidandogli incarichi diplomatici e chiamandolo ogni volta che gli si presentava un difficile problema matematico da risolvere. Il frutto di tre anni di docenza fu il trattatello di Logica demonstrativa (1697). 

La logica del Saccheri si basa sullo studio delle definizioni. Egli ne distingue due tipi: le prime, che chiama definitiones quid nominis, o nomindes, sono quelle che hanno lo scopo di fornire il significato del termine definito; le seconde, definitiones quid rei, o reales, alla spiegazione del significato del termine aggiungono l’informazione della sua reale esistenza, con la prova di ciò. Così è quid nominis dire che il punto medio di un segmento è equidistante dagli estremi, è quid rei quando si fornisce anche la costruzione per trovare tale punto medio. 


A Pavia insegnò nel Collegio dei Gesuiti e tenne la cattedra di matematica all'Università per tutto il resto della sua vita. Tre lustri dopo la pubblicazione del libro di logica dimostrativa, il duca di Savoia Vittorio Amedeo cercò di riportarlo a Torino, offrendogli la cattedra di matematica, ma il servo di Gesù scelse di rimanere presso il Ticino. In seguito rifiutò anche la cattedra di matematica a Padova.

Da bravo gesuita euclideo, un giorno, era oramai giunto al sessantacinquesimo anno della sua vita terrena, le critiche che l’inglese John Wallis e l’arabo al-Tusi avevano mosso al postulato delle parallele gli sembravano poco generose e arroganti. Decise di dimostrarlo e difendere Euclide, non accontentandosi di una semplice definitio quid nominis. Scrisse allora un volume intitolato Euclides ab Omni Naevo Vindicatus (Euclide vendicato da ogni macchia), che conteneva questa dimostrazione: 

Considerò un segmento AB, con due segmenti uguali AC e BD ad esso perpendicolari. Unì C e D in modo da ottenere un quadrilatero (che chiamò quadrilatero birettangolo isoscele). Saccheri sapeva che, se avesse potuto provare che gli angoli in C e in D erano retti senza usare il famoso postulato di Euclide, sarebbe riuscito a dedurlo dagli altri assiomi del greco. Egli provò facilmente che gli angoli in C e in D erano uguali, ma dimostrare che erano anche retti era assai più complicato. Con astuzia fece l’ipotesi che essi non fossero retti, cercando di ottenere una contraddizione dall'uso di tutti gli altri postulati euclidei tranne il quinto, che è appunto quello delle parallele. Prese in esame due casi: o i due angoli uguali erano più piccoli di un angolo retto, o essi erano più grandi. 

Egli fu in grado di scartare abbastanza rapidamente la seconda ipotesi. Fece ricorso alla proprietà di Archimede, quella per la quale, se si estende sufficientemente un segmento lineare di data lunghezza, esso sarà più lungo di qualsiasi lunghezza considerata, e assunse che ogni linea retta è infinita e divide il piano in due parti. Così fu in grado di dimostrare che, nell'ipotesi di due angoli ottusi, avrebbe dovuto ricorrere a linee rette di lunghezza finita, e ciò appare una contraddizione. Commentò che "L'ipotesi dell'angolo ottuso è completamente falsa, poiché distrugge se stessa"

Nel caso che gli angoli in C e in D fossero stati acuti, egli non riuscì a ottenere una contraddizione. Egli suppose che ciò che vale per un punto a distanza finita dalla retta dovesse valere anche per un punto posto all'infinito, ma questa ipotesi in realtà rende inammissibile la confutazione. In pagine di grande intuito, egli dimostrò tuttavia ben 32 proposizioni, tra le quali: Se la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale, più grande o più piccola di due angoli retti, allora ciò accade in tutti i triangoli. 


A seconda che il triangolo iscritto in una semicirconferenza sia retto, ottuso o acuto, allora è vera l’ipotesi che l’angolo in C e in D sia retto, ottuso o acuto. 

Nell'ipotesi che tale angolo sia retto, due rette distinte si intersecano, a meno che una trasversale non le tagli secondo angoli corrispondenti uguali. Nell'ipotesi dell’angolo ottuso, due rette si intersecano sempre. Nell'ipotesi dell’angolo acuto, esistono infinite rette, che passano per un dato punto esterno a una retta data, che non intersecano tale retta. 

Così ragionando, Saccheri cercò di convincersi di aver trovato la contraddizione che cercava nel caso di due angoli uguali minori di quello retto. Scrisse così che “l’ipotesi dell’angolo acuto è assolutamente falsa, perché ripugna alla natura della linea retta”. Non completamente convinto in cuor suo, aggiunse che, mentre la confutazione dell’ipotesi dell’angolo ottuso era chiara come la luce del giorno, “al contrario non sono riuscito a provare l’altra ipotesi, quella dell’angolo acuto, senza aver provato preventivamente che una linea i cui punti sono tutti equidistanti da una data retta giacente nello stesso piano è una retta anch’essa”

Girolamo Saccheri morì qualche mese dopo che il suo libro ebbe ottenuto l’imprimatur della Compagnia di Gesù (1733). Con il suo lavoro aveva identificato con chiarezza le tre ipotesi possibili e, non giungendo a una evidente contraddizione per quella dell’angolo acuto, aprì le porte a un nuovo tipo di geometria, ma questa è un’altra storia e ne parleremo un’altra volta. Resta il fatto che è destino degli uomini della sua terra fare molte cose a propria insaputa.

1 commento:

  1. Senza pero'essere necessariamente dei matematici!
    Diversamente,nelle terre italiche non vi sarebbero tanti avvocati !

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