Gli esordiIl lettore del mio
precedente articolo su Edward Lear avrà già notato che non è facile tradurre fedelmente un limerick: sarebbe come cercare di rendere in inglese il significato e l’emozione di una filastrocca per bambini mantenendo inalterati la metrica e le rime. Inoltre il traduttore si deve scontrare con i doppi sensi, i giochi di parole, le allitterazioni di cui si fa largo uso in questa particolare forma poetica. Per questo motivo non si può quasi mai parlare di traduzione fedele, semmai di adattamento, in cui, per restare il più fedeli possibile al senso del testo, lo si deve allo stesso tempo tradire per ottenere comunque delle rime, indispensabili perché se ne apprezzi, almeno in parte, lo humour originale. La sfida del traduttore è rendere da una parte il rigore filologico delle parole, dall’altra la leggerezza da filastrocca e la musicalità del tono.
In Italia molti hanno provato a misurarsi con le traduzioni di Lear. Il primo influsso di questo genere arriva nel nostro paese verso il 1930, grazie alle traduzioni libere e allegramente scorrette di una scrittrice per l’infanzia, Camilla Poggi Del Soldato (per l'
Enciclopedia dei Ragazzi). Nell’impresa si cimentarono anche Carlo Izzo (1935) e Mario Praz (1938). Fu Izzo a portare a termine durante la guerra la prima traduzione in lingua italiana di tutti i limerick del poeta inglese, pubblicata nel 1946 a Vicenza con il titolo di
Il libro delle follie; nel 1954 la casa editrice Neri Pozza rimise in circolazione le copie invendute, ritirate dal primo editore che nel frattempo aveva chiuso i battenti.
Nel 1957 “due ill.mi Dottori dell’Ambrosiana” (che si scoprirà poi essere Paolo De Benedetti e Mario Spagnol) pubblicano un
Viaggio in Limerick sul Reno e dintorni, con versi come:
C’è una vecchia a Francoforte
Che ha paura della morte
Tiene sempre in una mano
Un adatto talismano
Quella prudente vecchia a Francoforte.
Agli inizi degli anni Sessanta esce la traduzione dei limerick di Lear curata da Renato Bellabarba (
Nonsensi, Roma, G. Bardi, 1961). Nell’
Almanacco letterario Bompiani del 1966, il già citato Paolo De Benedetti (biblista insigne, professore universitario, direttore editoriale, consulente di molte case editrici) ne parla a lungo, durante una attenta analisi della letteratura nonsense (anche in Paolo De Benedetti,
Nonsense e altro, Milano, Scheiwiller, 2002, ormai introvabile). Lo stesso De Benedetti ne scrive direttamente:
C'era un uomo dell'Unesco
che teneva il burro in fresco
da spalmare sul paese
dove scoppiano contese,
quel pacifico uomo dell'Unesco.
Uno dei primi autori italiani di limerick è stato Giuseppe Isnardi (1886-1965), che ha dedicato a Lear molte delle sue fatiche, traducendo i suoi
Diari di viaggio in Calabria e nel Regno di Napoli e componendo lui stesso, storico e pedagogo, decine di limerick come il seguente:
C'era una giovane donna di Roma
che portava disciolta una gran chioma.
Tutte le volte che il vento soffiava
lieta e felice pe 'l cielo volava
questa gentile fanciulla di Roma.
Tutti a limerick!
Nel 1970 Einaudi ripubblica la traduzione di Izzo dei limerick di Lear (Il libro dei nonsense, con testo originale a fronte e le illustrazioni di Lear), ottenendo un inaspettato successo anche da noi. Ecco un limerick di Lear nella ormai classica traduzione di Carlo Izzo:
There was an Old Person of Dutton,
Whose head was as small as a button,
So, to make it look big,
He purchased a wig,
And rapidly rushed about Dutton.
C'era un vecchio di Caltagirone
Con la testa non più grande d'un bottone;
Quindi, per farla sembrare più grande,
Comperò una parrucca gigante
E corse su e giù per Caltagirone.
All’inizio degli anni Settanta, provocati dai Wutki (curatori della celebre rubrica di giochi diretta da Sergio Morando, pubblicata su Linus dal 1966 al 1982) che hanno lanciato l’idea dì un “Giro d’Italia in limerick”, i lettori sommergono la redazione della rivista con centinaia di opere, costringendola a chiudere in fretta il concorso.
L’interesse per una forma poetica decisamente non convenzionale è confermato in quegli anni pieni di impegno e di utopie dagli studi che anche in Italia cominciano a comparire. Uno dei saggi più interessanti è opera di Milli Graffi, Edward Lear: una logica del nonsense, che viene pubblicato sul numero 1 de Il verri, storica rivista letteraria diretta da Luciano Anceschi. Secondo la Graffi, “La totale insensatezza del nonsense di Edward Lear è una percezione immediata sulla quale non si possono avere dubbi: sono così squisitamente folli da scoraggiare qualsivoglia tentativo di sviscerarne un qualsivoglia senso”. L’autrice del saggio avvicina “l’annaspio intellettivo” provocato dai limerick al “momento del panico” nei quadri di Magritte: insomma il limerick avrebbe in qualche modo anticipato il surrealismo.
Gianni Rodari dedica alla costruzione del limerick un capitolo della sua Grammatica della fantasia (Torino, Einaudi, 1973), concentrando però la sua attenzione sugli aspetti “tecnici” (con rigida metodologia strutturalista), probabilmente a scapito di quelli estetici. Ecco un limerick di Rodari:
Un abile cuoco di nome Dionigi
Andava a comprare le uova a Parigi,
così invece di semplici frittate
faceva omelettes molto raffinate
quel furbo cuoco chiamato Dionigi.
Da quegli anni la produzione di limerick prosegue ininterrotta, affollando persino i sogni letterari di intere classi delle scuole elementari e medie, spinte da entusiasti docenti di italiano e inglese. Importante a questo proposito è l’esperienza condotta da Ersilia Zamponi e sfociata nel libro I draghi locopei. Imparare l’italiano con i giochi di parole, Einaudi, Torino, 1986, il cui strambo titolo è l’anagramma di “giochi di parole”. Eccone un esempio:
Il colonnello di un reggimento
assai insoddisfatto e malcontento
girava sempre per mare e per terra
alla ricerca d'una bella guerra
per farsi bello col suo reggimento.
Nel 1994 il cantautore Max Manfredi e Manuel Trucco pubblicano presso Vallardi Il libro dei Limerick, una raccolta di oltre duecento limerick "seducenti, tragici, conviviali, titanici, felici, litigiosi, gastronomici, gotici, clericali, filosofici", con la prefazione di Stefano Bartezzaghi (in cui fa la sua comparsa per la prima volta il buffo termine “limericco” come forma italianizzata di limerick), le illustrazioni di Serena Giordano e il saggio di Pier Paolo Rinaldi “Un girotondo intorno al limerick (bambini e vecchi, semiologi e illustratori, poeti, poetesse e maghi)”. Il libro di Manfredi e Trucco si apre con alcuni limerick che parlano del limerick:
Il limerick, t'educe il dizionario,
è filastrocca d'argomento vario
che, con ritmo anapestico
vale a farti domestico
un mondo parallelo e immaginario.
Un divertente gioco di allitterazione nella nostra lingua è fornito da questo esempio:
Si diceva di due bulletti ad Affi:
quei due ceffi son nati già coi baffi!
Baffi fin dalla culla
ha certa gente bulla!
E sulla tomba? Baffi, ad epitaffi.
Il saggio di Rinaldi pubblicato nel libro è uno dei più notevoli sul limerick usciti in Italia. Dello stesso autore è utile leggere l’articolo dal terribile titolo “La langue batte dove la mente duole, ovvero il limerick all’italiana”, pubblicato sul n. 21 (agosto 1999) della rivista on line Golem–L’indispensabile, allora diretta proprio da Bartezzaghi.
Dal 1996 Giampiero Orselli, poligrafo genovese, costella di giochi, racconti, epigrammi e limerick, illustrati da Daniele Panebarco, i diari scolastici di Sottobanco. Il prolifico Orselli scrive centinaia di “Limericchi”, reperibili su Internet. Ne riporto due esempi :
Un oratore pubblico a Gibuti
parlava già da trentasei minuti.
"Che pubblico attento!",
pensò tutto contento
di fronte a centosette sordomuti.
Un portiere di calcio di Molare
fatica a trovar da lavorare.
Sussurra la sua sposa,
con voce timorosa:
"Mi chiedo sempre dove andrà a parare".
Nell'ultimo paragrafo della postfazione ai Limericks di Edward Lear, pubblicati nel 2002 nella «Collezione di Poesia» dell'editore Einaudi, il curatore e traduttore, Ottavio Fatica, ha riportato una «lima ricca» indirizzata a se stesso:
C'è un poeta che faccio fatica
a tradurre, che vuoi che ti dica,
si tiene per savio
ma è solo un ottavio
di poeta, e non senza fatica.
In un’intervista a Dario Fasoli per Riflessioni.it (giugno 2005), lo stesso Fatica ha detto che “La sfida era mantenere lo schema strofico e metrico, le rime nonché l’esile trama narrativa, nella sua illogicità seraficamente consequenziale.” Le traduzioni di Fatica hanno il pregio di essere assai fedeli alle regole del gioco nonsensico (e il rispetto del ritmo e del senso sfida il traduttore all’infedeltà al testo, così i cappelli, caps, che si vedono nell’illustrazione originale diventano babà).
There was an Old Lady of Prague,
Whose language was horribly vague,
When they said, "Are these caps?"
She answered "Perhaps!"
That oracular Lady of Prague.
Un’anziana signora di Praga
Si esprimeva in maniera assai vaga.
Le chiedevi: “E’ un babà?”
Rispondeva: “Chissà!”
Quell’anziana Cassandra di Praga.
Nell’articolo sul limerick osceno ho già parlato dell’erudito libro del compianto giornalista, scrittore e ludologo Giampaolo Dossena, Luoghi letterari. Paesaggi, opere e personaggi (Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano, 2003), che si apre con un limerick, datato 1955 e successivamente attribuito al “Wutki” Sergio Morando:
C'era un vecchio goloso di Abano
le cui figlie coi Turchi folleggiavano
inventando sempre nuove tecniche erotiche
però mangiando unicamente cotiche:
il che stupiva quel vecchio di Abano.
Dossena riporta anche alcuni limerick di Gian Carlo Cabella (autore teatrale di successo: suoi alcuni dei monologhi recitati da Angela Finocchiaro):
C'era un vecchio quadrivio a Novi Ligure
ove ogni notte stazionava un lèmure
che, non avendo spiccioli da spendere,
le sigarette si faceva accendere
dai nottambuli, rari a Novi Ligure.
Su Erewhon, rivista on line di Arti, Letterature, Scienze, nell’inverno 2004 viene pubblicata l’utile e dotta recensione di Martino Negri (Umori d'Albione) in occasione dell’uscita in edizione economica del Libro dei nonsense di Lear nella traduzione di Carlo Izzo.
Lo sviluppo di Internet ha consentito anche ai creatori di limerick italiani di farsi conoscere oltre la ristretta cerchia di amici e conoscenti: sono tantissimi, ed è necessario scusarsi con coloro che non cito per ignoranza. Originali e fedeli allo spirito nonsense sono i limerick dell’astrofisico, giornalista e divulgatore scientifico Stefano Sandrelli, del giornalista e scrittore di origini istriane Sergio Fumich e di Gabriele Ferrero:
C’era una volta un pazzo di Lambrate
che di notte dialogava con le fate.
Se ne stava sotto il lume di un lampione
dichiarandosi con autentica passione
alle fate delle notti di Lambrate.
Un altro scrittore di limerick è Lucius F. Schlinger (al secolo Luciano Fabi), di cui riporto questo esempio:
Dissero a un vecchio nobile di Atene
che un dì voleva tagliarsi le vene:
“Perderai sangue blu”.
“Già. Non le taglio più”,
concluse il saggio nobile di Atene.
Autrice degna di nota è anche Virginia Boldrini, ludolinguista e amante del limerick. Due suoi libri, che lei stessa illustra, sono dedicati proprio a questa forma poetica: Viaggio a Limerick e dintorni (Campanotto, Udine, 2006), con la bella postfazione di Paolo Albani, alla quale sono in gran parte debitore per questo mio articolo, e il recentissimo Limerick 99 (Joker, Novi Ligure, 2009), con prefazione di Stefano Bartezzaghi:
C’era una ragazza di Villesse
Che comunicava solo con sms.
Anziché parlare
Preferiva digitare
La taciturna ragazza di Villesse.
Una conclusioneIl limerick in Italia ha dunque ormai una lunga tradizione, anche se manca di un radicamento nella cultura popolare. Nel suo già citato saggio pubblicato su
Golem, Pier Paolo Rinaldi si chiede se esiste una via italiana al limerick, concludendo che gli “sembra di non vedere nella nostra frenetica, densa produzione la "circolare, astorica quiete di Lear" di cui parla De Benedetti”. In effetti, Lear non prende parte in alcun modo alle storie che scrive. Sono totalmente assenti le osservazioni, anche distaccate, in prima persona; manca inoltre qualunque riferimento a un soggetto esterno che racconta, e perciò interpreta, i fatti: l'autore non partecipa agli avvenimenti e non li determina. Inoltre manca in quelli di Lear la “coda” epigrammatica che caratterizza tanti limerick successivi: la circolarità che determina l’effetto nonsensico deriva proprio dall’assenza di una conclusione quando il lettore se l’aspetta.
Molti limerick italiani risentono un poco della nostra tendenza nazionale allo sberleffo, se non alla satira pungente, all’invettiva, che rivela, attraverso una partecipazione emotiva dell’autore, un’uscita dalle regole del gioco. Abbandonando il cerchio magico del gioco si torna alla realtà quotidiana, si esce dallo spazio e dal tempo “altri”. Dice Bartezzaghi nella prefazione all’ultimo libro della Boldrini: “Non c’è più nulla da dimostrare, ma il limerick - come la poesia e come il gioco - non deve appunto dimostrare nulla, tranne il suo esserci e il suo volerci coinvolgere in un gioco che, c’è da esserne sicuri essendo fatto di parole, va oltre se stesso. Dove, non si sa, ma è quello il suo bello”. Ma siamo sicuri che siano sono solo i limerick italiani ad aver abbandonato (tradito) il nonsense? E poi: è giusto che il limerick sia costretto nei confini dell’assenza di senso?
Un fine teorico del pensiero debole
aveva un’usanza assai deplorevole.
Diceva a ogni attimo
“Ma io sono Vattimo!”
per spiegare la sua opinione mutevole.
Un barcaiolo colombiano, forse per gioco
bevve dieci birre, o pressappoco.
Poi, un bisogno impellente
lo fermò nella corrente:
solo nel grande e lungo fiume, Orinoco.