Sin da quando Epimenide il Cretese (VII sec. a.C.) dichiarò che tutti i cretesi sono mentitori, il concetto di autoreferenza è diventato sinonimo (spesso erroneamente) di paradosso. Questo è infatti un qualcosa (una proposizione, un’immagine) “che va contro il senso comune e la verosimiglianza; una dimostrazione che giunge a conclusioni che sono smentite dall'esperienza comune o dall'evidenza empirica o risultano contraddittorie”. Viceversa, la più diffusa autoreferenza che capita nella vita quotidiana, cioè quando si dice “io”, non è assolutamente un paradosso.
Dal punto di vista della logica che usiamo tutti i giorni (lasciamo perdere le logiche fuzzy o quantistiche), l’autoreferenza è alla base di ogni tipo di speculazione. Senza l’autoreferenza data dall’identità non ci potrebbe essere conoscenza. In matematica, ad esempio, la funzione identità su un insieme X è la funzione che associa ad ogni elemento l'elemento stesso. Si indica con idx ed è tale che per ogni x ∈ X si ha idx = x. La funzione identità è la più semplice tra le funzioni definibili su un insieme, ed è inoltre compatibile con praticamente tutte le strutture matematiche possedute dall'insieme.
L’identità è ciò che rende un’entità definibile e riconoscibile, perché possiede un insieme di qualità o di caratteristiche che la distingue da altre entità (Leibniz avrebbe detto che x è la stessa cosa di y se ogni predicato vero di x è vero allo stesso modo di y). Essa è una relazione binaria, che intercorre tra una cosa e sé stessa. In altri termini, l’identità è un predicato duale tale che per ogni x e y, x = y è vero se, e solo se, x è lo stesso che y. Se così non fosse, ogni affermazione relativa a un ente sarebbe possibile e vera e si potrebbe dimostrare qualsiasi cosa.
La conseguenza di ciò è il principio di non contraddizione, per il quale, come diceva Aristotele, “È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo”. In simboli, la proposizione "A è anche non-A" è falsa:
¬ (A ∧ ¬ A)
L’autoreferenza è dunque paradossale quando è contraddittoria, cioè quando un'inferenza logica porta, direttamente o indirettamente, a proposizioni o attributi in contrasto tra loro, perché non possono essere vere la proposizione A e il suo contrario ¬ A. Nella logica classica tertium non datur, cioè una proposizione A è o vera o falsa, non esiste una terza possibilità.
La contraddizione si può esprimere in vari modi, ad esempio con la figura retorica dell’antitesi, quando si accostano parole o frasi di significato opposto. Antitetico in ogni riga è ad esempio il sonetto del Petrarca Pace non trovo, dal Canzoniere, in cui sono descritti i contrasti interiori prodotti dall'amore:
Pace non trovo, et non ò da far guerra;
e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;
et volo sopra 'l cielo, et giaccio in terra;
et nulla stringo, et tutto 'l mondo abbraccio.
Tal m'à in pregion, che non m'apre né serra,
né per suo mi riten né scioglie il laccio;
et non m'ancide Amore, et non mi sferra,
né mi vuol vivo, né mi trae d'impaccio.
Veggio senza occhi, et non ò lingua et grido;
et bramo di perir, et cheggio aita;
et ò in odio me stesso, et amo altrui.
Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte et vita:
in questo stato son, donna, per voi.
Anche l’altra figura retorica, quella dell’ossimoro, è basata sulla contraddizione, ancor più marcata perché si accostano due termini in forte antitesi tra loro, al punto da essere spesso incompatibili. L’ossimoro è una combinazione scelta di proposito per creare un contrasto originale, spesso con singolari effetti stilistici. Con l’ossimoro l’autore talvolta vuole significare una realtà indicibile o ineffabile (il “motore immobile” di Aristotele), oppure per superare i limiti imposti dai codici linguistici.
In epoca barocca, tempo di grandi acrobati verbali, Giambattista Marino scrisse un’intera poesia costituita da soli ossimori:
Volontaria follia, piacevol male,
stanco riposo, utilità nocente,
disperato sperar, morir vitale,
temerario dolor, riso dolente:
un vetro duro, un adamante frale,
un’arsura gelata, un gelo ardente,
di discordie concordi abisso eterno,
paradiso infernal, celeste inferno.
In filosofia, nella logica, nella matematica, la contraddizione è più correttamente definita come antinomia. Essa indica la presenza contemporanea di due affermazioni contraddittorie, che tuttavia possono essere entrambe dimostrate o giustificate, in contrasto con il principio di non-contraddizione. Più precisamente, abbiamo un'antinomia quando un procedimento o un ragionamento produce in modo corretto due soluzioni che sono antitetiche, portando a una conclusione del tipo: "A se, e solo se, non A". Le antinomie, un tempo considerate fallacie ineliminabili dovute a errori o a carenze del linguaggio o del sistema formale al cui interno si collocano, possono nella maggior parte dei casi essere superate ricorrendo ai metalinguaggi, strumenti e discipline che hanno lo scopo di analizzare, definire o illustrare entità linguistiche o argomentative di varia portata. Insomma, le antinomie di un sistema possono essere risolte solo uscendo dal sistema stesso, andando “al di là, oltre”, così come dimostrato da Kurt Gödel e come indicato dal prefisso meta- che significa proprio questo.
Proprio la diffusione dei metalinguaggi e delle loro tecniche, associata allo sviluppo della logica formale nel ‘900 e dell’informatica, e divulgati da autori come Raymond Smullyan e Douglas Hofstadter, ha dato impulso alla raccolta, all’invenzione, alla catalogazione, allo studio e alla diffusione di enunciati autoreferenti, veri, antinomici o contraddittori che possono essere di esempio nella spiegazione di concetti fondamentali di logica o di programmazione, ma possiedono un indubbia carica, volontariamente o involontariamente, comica.
Tali sono ad esempio le autoreferenze ottenute da Hofstadter con il procedimento che egli stesso ha chiamato del quinare, in onore delle idee del filosofo e logico Willard Van Orman Quine, che coniò l’espressione:
• “Produce una falsità se preceduto dalla propria citazione” produce una falsità se preceduto dalla propria citazione.
Ecco alcune delle autoreferenze contenute nel celeberrimo Gödel, Escher e Bach di Hofstadter, in cui l’uso delle virgolette fa in modo che l’enunciato citato sia l’argomento dell’enunciato identico che segue, scelti opportunamente perché l’intera costruzione abbia un senso:
• “È un frammento di un enunciato” è un frammento di un enunciato
• “È scritto sui vecchi barattoli di mostarda per tenerli freschi” è scritto sui vecchi barattoli di mostarda per tenerli freschi.
Altri interessanti esempi paradossali di autoreferenza sono riportati dallo stesso Hofstadter in Metamagical Themas (Basic Books, 1985):
• Queta frase non è autoreferenziale perché “queta” non è una parola.
• Se questa frase non esistesse, nessuno l’avrebbe mai scritta.
• Questa è una completa. Frase. Questa neppure.
• Questa frase finirà prima che sia possibile leggere Fante di Cuori.
Basato sull’autoreferenzialità è il cosiddetto paradosso dell’eterologicità del logico e filosofo tedesco Kurt Grelling, che lo ideò per riformulare in termini semantici il noto “paradosso del barbiere di Russell”. Lo riporto così come viene descritto nella pagina che gli ha dedicato Wikipedia:
"Gli aggettivi possono essere suddivisi in due categorie definite in questo modo:
• Un aggettivo è autologico se e solo se si riferisce a se stesso: per esempio, "polisillabico" è un aggettivo autologico perché è una parola polisillabica, cioè si riferisce a se stesso.
• Un aggettivo è eterologico se e solo se non si riferisce a se stesso: per esempio "monosillabico" è un aggettivo eterologico perché è una parola polisillabica, cioè non si riferisce a se stesso.
L'antinomia sta nella questione se l'aggettivo "eterologico" sia autologico o eterologico: se "eterologico" è autologico, per la definizione di autologicità si riferisce a se stesso, e quindi deve essere eterologico; se "eterologico" è eterologico, per la definizione di eterologicità non si riferisce a se stesso, e quindi deve essere autologico. In entrambi i casi si ottiene una contraddizione; in altre parole, l'aggettivo "eterologico" è autologico se e solo se è eterologico. Per contro, se "autologico" è autologico allora si riferisce a se stesso, e quindi è autologico; se "autologico" è eterologico, allora non si riferisce a se stesso, e quindi è eterologico, senza che si presentino contraddizioni. Mentre "eterologico" non può essere né autologico né eterologico, generando un'antinomia, "autologico" può essere l'uno e l'altro, generando una tautologia ("autologico" è autologico se e solo se è autologico)".
Chiaro, no?
Autoreferenziali e autodescrittivi sono anche alcuni limerick:
A cardiac patient named Fred
Made a limerick up in his head.
But before he had time
To write down the last line
Una cardiopatica di nome Ernesta
aveva un limerick pronto in testa,
ma prima di riuscire
la sua opera a finire
(in Elliott Moreton, The Oxford Book of Meta-Limericks, Oxford, Massachussets, 1989)
I limerick di un giovane di Fiorenzuola
non superavano la dodicesima parola.
(Kees Popinga)
Oppure haiku come questo, di John Cooper Clarke:
Writing a poem
in seventeen syllables
is very diffic
Fare poesia
con diciassette sillabe
è molto diffic
Talvolta l’autoriferimento in poesia si spinge fino a cercare l’identità tra forma e contenuto, come nella poesia emblematica e visuale, di cui sono noti esempi sin dall’antichità e che segna molte esperienze delle menti più creative dell’Ottocento, come Lewis Carroll, e del Novecento, dai calligrammi di Apollinaire e dei futuristi alla poesia concreta, visiva e sonora delle varie avanguardie che si sono succedute nei decenni fino al giorno d’oggi. Non è forse un’autoreferenza in cerca d’identità la poesia nella quale il racconto del topo assume la forma della sua coda in Alice nel paese delle meraviglie?
Passando completamente nel campo delle arti visuali, l’autoreferenza è il marchio di molte opere di Maurits Cornelis Escher (e chi se no?) e di René Magritte. Tra le immagini di questo articolo riporto Mano con sfera riflettente (1935) del primo e il celeberrimo La trahison des images (1928) del secondo, che si è meritato centinaia di note sul significato della scritta Ceci n’est pas une pipe e persino un saggio del 1973 di Michel Foucault dal titolo omonimo.
• Prima di iniziare a parlare, c’è qualche cosa che vorrei dire.
• È deliberatamente incosciente.
• Avendo perso di vista la nostra meta, dobbiamo raddoppiare i nostri sforzi.
• Da una donna sterile è probabile che nascano figli sterili.
• Ti ho assegnato un budget illimitato, e tu l’hai già superato.
• Comunque non si inizia mai una frase con tuttavia.
• Questa specie è sempre stata estinta.
• Credo solo nello scetticismo.
• Voglio dare ascolto alla voce della maggioranza silenziosa. (Richard Nixon)
• È proibito il parcheggio autorizzato.
• La superstizione porta sfortuna.
• Le parole non possono descrivere quello che sto per dirvi.
• Come al solito ti sei superato.
• Una volta ogni tanto non smette mai di piovere.
• Tutte le emergenze sono normali. [frase purtroppo assai vera in Italia]
• Prima gli uomini, le donne e i bambini.
• Tutti gli uomini sono fratelli, come Caino e Abele.
• In questo campo solo le variabili rimangono costanti.
• Noi dello Scorpione non crediamo nell’astrologia.
Il matematico e divulgatore John Allen Paulos, l’inventore del termine inglese innumeracy per indicare l’analfabetismo matematico, in Beyond Numeracy (Vintage Books, 1992) fa conoscere perle come:
• C’è il caso di un elettore che, intervistato da una società di sondaggi sulle ragioni dell’ignoranza e dell’apatia degli americani, rispose “Non lo so e non me ne importa nulla”.
• Qual è la domanda che contiene la parola melone senza alcun motivo apparente?
Le frasi suicide non sono un passatempo per i soli matematici in vena di amenità. Il giornalista (e premio Pulitzer) americano William Safire, che è stato anche uno dei portavoce di Nixon, in un libretto sull’uso corretto della grammatica (Fumblerules: A Lighthearted Guide to Grammar and Good Usage, Doubleday, 1990) fornisce questi “utili” consigli:
• I verbi deve concordare con i loro soggetti.
• Evitate modi di dire trendy.
• L’uso di periodi con molte subordinate che sono difficili da leggere e inducono in molte occasioni a una cattiva interpretazione se non a un completo fraintendimento del contenuto è meglio evitarlo.
• Nella comunicazione formale evita le forme confidenziali, caro mio.
Altri esempi, tratti da varie fonti, sono:
• La nostalgia non è più quella di una volta (Simone Signoret)
• Tutte le generalizzazioni sono fuorvianti (Krishna Kumar)
• Dobbiamo credere al libero arbitrio, non abbiamo scelta (attribuito a Isaac Bashevis Singer)
E con Singer si può dire di aver terminato l’articolo in modo intelligente.
[L'immagine iniziale è una fotografia dell'opera Dubbio lapidario (2011) di Paolo Albani].