venerdì 13 gennaio 2012

Cenni di ftiriologia letteraria


Non è certo famoso come il disegno della pulce, ma anche quello del pidocchio nella Micrographia di Robert Hooke (1665) è impressionante per bellezza e precisione. E tale capolavoro scientifico e iconografico, frutto delle prime osservazioni accurate consentite dai microscopi e dallo sviluppo della tecnologia di costruzione delle lenti, rende giusto onore a uno dei compagni più fedeli dell’Homo, che lo ospita da ancor prima di evolversi come sapiens.

In effetti, il pidocchio del capo non è solo il permanente compagno e parassita della nostra specie (e di moltissime specie di mammiferi e uccelli), ma è tanto importante per l’umanità da comparire numerose volte in ambito letterario, in epoche, forme e stili diversi, sin dai tempi in cui, come dice la leggenda, Omero morì per non aver saputo risolvere un indovinello postogli da alcuni pescatori. Il cieco aedo chiese loro che cosa stessero facendo, ed essi risposero “Quel che abbiamo preso lo lasciamo, quel che non abbiamo preso lo teniamo”. I pescatori si stavano spidocchiando, ma il povero Omero non poteva vederli.

Lautréamont (1846-1870), nel suo stile visionario e precorritore del surrealismo, ne tesse una lirica celebrazione attraverso le parole del protagonista del poema in prosa I canti di Maldoror (1869), nel canto II, paragrafi 93-104 (proprio quelli che precedono la famosa celebrazione delle “matematiche severe”). Maldoror, rappresentazione del male assoluto, che odia Dio e gli uomini, medita di fare dei pidocchi uno strumento per portare la rovina sulla terra (traduzione mia):

“Esiste un insetto che gli uomini nutrono a loro spese. Essi non gli devono nulla, ma lo temono. Questo, che non ama il vino, ma che preferisce il sangue, se non fosse soddisfatto nei suoi bisogni legittimi, sarebbe capace, per un potere occulto, di diventare grande come un elefante, di schiacciare gli uomini come delle pannocchie. Così bisogna vedere come lo si rispetta, come lo si circonda di una venerazione canina, come lo si pone in alta stima al di sopra degli animali della creazione. Gli si concede la testa come trono, ed esso s’aggrappa alla radice dei capelli, con dignità.

(…) Ecco la sua famiglia sterminata che avanza, e della quale vi ha liberamente gratificato, perché la vostra disperazione fosse meno amara, e come addolcita dalla presenza piacevole dei suoi aborti maligni, che diventeranno in seguito magnifici pidocchi, ornati di una grande bellezza, mostri dall’andatura di saggi. Egli ha covato diverse dozzine di carissime uova con la sua ala materna, sui vostri capelli, seccati dalla suzione accanita di questi temibili stranieri. Il periodo è giunto in fretta, quando le uova si sono aperte. Non temete, essi non tarderanno a ingrandirsi, questi adolescenti filosofi, attraverso questa vita effimera. Diventeranno tanto grandi che ve li faranno sentire, i loro artigli e le loro proboscidi acuminate.

(…) O pidocchio, dalla pupilla accartocciata, finché i fiumi spargeranno la pendenza delle loro acque negli abissi del mare, finché gli astri graviteranno sul sentiero della loro orbita, finché il vuoto muto non avrà orizzonte, finché l’umanità strazierà i propri fianchi con guerre funeste, finché la giustizia divina precipiterà i suoi fulmini vendicatori su questo globo egoista, finché l’uomo rinnegherà il suo creatore, e lo sfiderà, non senza ragione, mescolandovi del disprezzo, il tuo regno sarà assicurato sull’universo, e la tua dinastia stenderà i suoi anelli di secolo in secolo.

(…) Se la terra fosse coperta di pidocchi, come di grani di sabbia la riva del mare, la razza umana sarebbe annientata, in preda a terribili dolori. Che spettacolo! Io, con ali d’angelo, immobile nell’aria, a contemplarlo”.

Due anni dopo (1871) era Arthur Rimbaud (1854 – 1891) a fare di uno spidocchiamento famigliare il pretesto di grande poesia. In Les Chercheuses de poux, le cercatrici di pidocchi, alcuni critici hanno riscontrato celate allusioni erotiche. A me basta sottolineare il sottile piacere sensuale che pervade il bambino per l’opera esperta delle mani delle sorelle sulla sua testa (traduzione mia):

Quando la fronte del giovane, rossa di tormenti,
implora il bianco sciame dei sogni indistinti,
accanto al letto vengono due graziose sorelle
con fragili dita dalle unghie argentine.

Fan sedere il bambino a una grande finestra
aperta dove l'azzurro inonda un macchia di fiori,
e nei capelli grevi coperti di rugiada
muovono le dita fini, terribili e seducenti.

Egli ascolta cantare quegli aliti sospesi
che profumano di mieli vegetali e rosati,
interrotti talvolta da un sibilo, salive
riprese sulle labbra o bramosie di baci.

Sente le ciglia nere battere nei silenzi
profumati; e le loro dita elettriche e soavi
fanno crepitare nelle grigie indolenze
sotto le unghie regali la morte dei pidocchi.

Ecco che sale in lui il vino dell'Accidia,
sospiro di un'armonica che potrebbe impazzire;
il bambino prova, al ritmo lento delle carezze,
sorgere e spegnersi senza fine una voglia di pianto.

Naturalmente i pidocchi non assillano solo i francesi. Alla fine del secolo precedente lo scozzese Robert Burns (1759 –1796) aveva dedicato nella sua affascinante lingua un’ode a un pidocchio visto in chiesa sulla bianca cuffia di una giovane signora: To a louse, on seeing one in a lady’s bonnet, at church (traduzione di Masolino D’Amico)

Ah, dove credi di andare, quatto quatto, furfante?
Hai una bella impudenza che ti protegge:
non posso dire che non incedi con gran piglio
su mussola e trine;
benché a dire il vero temo che troverai un magro pasto
in un posto del genere.

Brutto tipaccio strisciante, maledetto,
aborrito, sfuggito da santo e peccatore,
come osi metter piede su di lei,
una così leggiadra signora!
Vattela a cercare da qualche altra parte, la cena,
addosso a qualche poveraccio.

Fila a rintanarti in qualche basetta di mendicante;
lì sì che potrai strisciare, stenderti, frugare,
con un’altra genia di bestiole salterine
a orde e tribù;
Lì né corno né osso oserà mai sconvolgere
le vostre fitte colonie.

Ecco, resta lì ora, ché non ti vede nessuno,
sotto i nastri, rannicchiato al calduccio,
che il diavolo ti porti! Non avrai pace
finché non sarai arrivato, eh,
su, su in cima, sulla vetta torreggiante
della cuffia della signorina?

Parola mia! Con che faccia tosta tiri fuori il naso
tondo e scuro come un chicco d’uva spina!
Ah, se avessi un po’ di resina fetida al mercurio,
o una potente polverina rossa,
te ne darei una dose così gagliarda
da sistemarti per le feste!

(…)

Oh, se qualche Potenza ci facesse il dono
di vederci come ci vedono gli altri!
Ci libererebbe da molti errori
e sciocche pretese
quali arie nell’abito e nel contegno ci lascerebbero,
e persino nella devozione!

E gli italiani? Come al solito la mettono soprattutto in farsa. L’umanista Ortensio Lando (ca 1510 – ca 1558), poligrafo sarcastico, traduttore dell’Utopia di Tommaso Moro, noto per i suoi libri di Paradossi, pubblicò nel 1548 a Venezia un godibilissimo testo di finti Sermoni funebri de vari authori nella morte de diuersi animali, tra i quali un’Orazione in morte di un pidocchio. L’autore, piuttosto inviso alle autorità ecclesiastiche per la sua vena pungente, sospettato di aver aderito segretamente alla Riforma, più volte esule per la sua libertà di pensiero, non perde l’occasione di prendere il giro il potere con uno stile che ricorre a tutti gli artifici della retorica, portati alle loro estreme conseguenze. L’orazione è pronunciata da un frate Puccio dei Reverendi Padri ed è completamente immersa in un’atmosfera conventuale: l’incontro del religioso e del suo animale favorito avviene durante il Vespro, il pidocchio si muove con una gravità paragonabile a quella dell’abate di Cluny, vive nella cella del suo padrone, vestito dalla natura dello stesso colore del saio dei Francescani.

Il tono dell’orazione è aulico, con i comuni topoi della letteratura classica che vengono riferiti a una situazione ordinaria per creare un contrasto comico. Così Puccio dice del pidocchio: “Credei ancho alcuna fiata che caduto fosse dal capo al bel Endimione, mentre la Luna sfaccendata et tutta d’amor ardendo, i capei biondi come fila d’oro, vezzosamente li pettina”. La morte del pidocchio è stata causata dall’avvelenamento dovuto alla gelosia di un confratello, la cui individuazione è il pretesto per il Lando, ex frate agostiniano, per una feroce satira contro il mondo conventuale. Tra le croci e i calici regna l’invidia, fa dire a Puccio, esattamente come nel mondo politico, dove essa provoca dissensi, condanne all’esilio e decapitazioni, come tra i medici, i cortigiani, gli architetti o i coristi. In quel covo di vipere anche l’amicizia di un pidocchio può essere consolatoria, un animale così nobilmente immune dall’invidia da essere portato ad esempio, al punto che “per l’avvenire beato si habbia da tenere chi piu sarà pidocchio tenuto”.


Ancora legato alla religione compare il pidocchio in Fontamara (1930) di Ignazio Silone (1900-1978). Nel sogno raccontato dal cafone Michele Zompa, i pidocchi sono stati mandati dal papa durante una sua visita nella zona del Fucino assieme al Crocifisso. Il prelato, vedendo i cafoni che, nei momenti di riposo, sono intenti a bestemmiare e litigare, decide di prendere dalla bisaccia una nuvola di pidocchi e mandarli su di loro, in modo che nel tempo libero si grattino e non pensino a peccare. Cristo vorrebbe aiutare i disgraziati cafoni, ma il Papa glielo impedisce, perché sia rispettato l’ordine sociale che vede i braccianti all’ultimo posto e non siano danneggiati i commercianti e il principe di Torlonia, né sia privato il governo nelle tasse che ha imposto. Il sogno riprende lo schema di una leggenda nella quale Cristo, in peregrinazione con Pietro, dona una manciata di pidocchi a una donna pigra, poiché l’ozio è il padre di tutti i vizi.

Il pidocchio italico ritorna in farsa in un gustosissimo episodio del paradossale romanzo Gog (1931) del geniale e controverso Giovanni Papini (1881-1956):

"Il suo vero nome era, pare, Goggins ma fin da giovane l’avevan chiamato Gog e questo diminutivo gli piacque perché lo circonfondeva d’una specie di aureola biblica e favolosa: Gog re di Magog. Era nato in una delle isole Hawai da una donna indigena e da padre ignoto ma certamente di razza bianca. A sedici anni, imbarcato come boy di cucina sopra una vapore americano, era sceso a San Francisco e aveva vissuto qua e là per la California, all’avventura. Dopo qualche anno, non si sa come, aveva messo insieme qualche migliaio di dollari e s’era trasferito a Chicago. Aveva il genio del business o un demone dalla sua perché in poco tempo il suo valore in denaro divenne enorme, anche per l’Ohio. Alla fine della guerra era uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti, cioè del pianeta. Nel 1920 si ritirò senza troppe perdite da tutte l’imprese e depositò i suoi miliardi un po’ qua e un po’ là in tutte le banche del mondo”.

Misantropo, disilluso su tutto, nemico delle belle maniere, dei valori sociali, della modernità, Gog, sulla soglia della pazzia, finge di voler destinare una certa somma a chi presenterà un progetto degno di essere finanziato per “una cattedra che non compaia in nessun programma di nessuna scuola superiore al mondo”. Inizia così una sfilata, cinica, maniaca e iperbolica di artisti, inventori e tecnici strampalati che Gog ascolta per vincere la noia. Così, gli vengono proposti la musica del silenzio, la scultura invisibile, la chirurgia morale, la vendita all’incanto dello Stato (curioso che il primo privatizzatore sia un idiota). Tra gli eccentrici questuanti, un erudito tedesco, il professor Josiah Kunigrund, membro corrispondente dell’Accademia entomologica di Lubecca, gli scrive per proporgli di istituire la Cattedra di Ftiriologia, la scienza dei pidocchi. La ftiriologia è per Kunigrund “Scienza fondamentale e primordiale per l’interpretazione della natura, della storia e dell’arte e che merita di avere una cattedra propria nella gloriosa Università di W”. Il professore tedesco vuole sviluppare l’autonomia della scienza dei pidocchi, a torto ritenuta una branca dell’entomologia o, peggio ancora, della parassitologia:

“I Pidocchi erano ancora considerati sotto l’unico aspetto zoologico, mentre io – sostiene nella lettera il professore – avendo allargato considerevolmente il campo dello studio pediculare, posso affermare d’aver fondato come scienza indipendente la ftiriologia, la quale è il primo esempio a me noto di quella che si potrebbe chiamare zoologia storica, morale e estetica. Mentre, cioè, gli antichi zoologi non curano che la descrizione dell’animale e dei suoi costumi, io studio il suo significato e la sua influenza nelle vicende umane e nell’arte”.

Così Kunigrund, per il quale il pidocchio è una sorta di giustiziere divino, elenca una serie di personaggi storici, noti in gran parte per la loro crudeltà, che sono state vittime illustri della pediculosi, tra i quali Erode il Grande, Silla, Antioco IV Epifane, Filippo II di Spagna. E ricorda che, secondo Giuseppe Flavio, i kinnim mandati da Dio come terza piaga agli egiziani erano i pidocchi.

Non so pronunciarmi sulle ardite tesi del personaggio di Papini, ma di certo la zoologia letteraria sta diventando una realtà, come ad esempio nell’articolo Cenni di ftiriologia letteraria sul blog Popinga. Quanto ai pidocchi come castigo divino, posso solo sperare che la loro azione vendicatrice non possa essere fermata dai ripetuti trapianti di capelli.

7 commenti:

  1. Dannazione, da due minuti continuo a sentire prurito in testa, lo so, è solo un effetto psicologico...
    Bella l'autoreferenza, e condivisibile la speranza sul castigo divino!

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  2. Bruna, non sai quante volte mi sono grattato durante la preparazione di questo articolo!

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  3. Popinga, questo post è incredibile. Ne hai fatti tanti, tantissimi, di post incredibili, ma questo ha qualcosa di diverso dagli altri. Tu sapresti far diventare divertente e interessante qualsiasi cosa, Popinga. Tu sei un grandissimo divulgatore, tu sei un grandissimo Insegnante.
    Io ho sempre avuto paura dei pidocchi, li associo stupidamente alla vergogna della sporcizia, da quando, da piccola, mia nonna mi raccontò di una già allora vecchia signora che li aveva "portati" dalla parrucchiera e aveva appestato tutto il negozio. La parrucchiera l'aveva cacciata con infamia. Ho sempre avuto paura che quella parrucchiera, che era anche la mia, mi cacciasse fuori con infamia e che tutte le donne del negozio mi urlassero: "Vergognati sporcacciona!" (ma in dialetto emiliano). Sai Popinga, io mi sono lavata i capelli tutti i giorni per anni, compulsivamente, e anche adesso non mi appoggio mai sulle poltrone al cinema, o in treno, cose così...
    Poi ci sarebbero anche le piattole, che mia nonna mi diceva che si prendono in certe situazioni, ecco anche le piattole sono state un mio incubo per anni, ma questa è un'altra storia. Ci fai un post, anche sulle piattole magari, che così le "esorcizzo" definitivamente, eh?

    B

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  4. ricordiamo "per i pidocchi della sua donna" di Narducci: http://it.wikipedia.org/wiki/Per_i_pidocchi_della_sua_donna

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  5. Grazie, Fondazione Spallanzani, sempre attenti e precisi.

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  6. Questa "Storia del pidocchio" è fenomenale. Veramente sei un divulgatore di prim'ordine.

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