C’è un racconto breve scritto da Dino Buzzati (1916-1972), pubblicato per la prima volta sul Corriere della Sera il 7 ottobre 1944 e contenuto in Sessanta Racconti (1958), che, al di là dello scenario apocalittico che ogni tanto il grande giornalista, scrittore e pittore bellunese si dilettava a rappresentare con le parole o con il pennello, ricorda molto da vicino un celebre paradosso della logica. Lo si potrebbe definire “Il paradosso del confessore”. Lo riporto quasi per intero, tanto è breve, sperando di non ledere alcun diritto d’autore.
Un mattino verso le dieci un pugno immenso comparve nel cielo sopra la città; si aprì poi lentamente ad artiglio e così rimase immobile come un immenso baldacchino della malora. Sembrava di pietra e non era pietra, sembrava di carne e non era, pareva anche fatto di nuvola, ma nuvola non era. Era Dio; e la fine del mondo. Un mormorio che poi si fece mugolio e poi urlo, si propagò per i quartieri, finché divenne una voce sola, compatta e terribile, che saliva a picco come una tromba.
(...) Finestre si spalancavano tra grida di richiamo e spavento, mentre l'urlo iniziale della città si placava a poco a poco; giovani signore discinte si affacciavano a guardare l'apocalisse. Gente usciva dalle case, per lo più̀ correndo, sentivano il bisogno di muoversi, di fare qualcosa purchessia, non sapevano però dove sbattere il capo. (...) Anche la maggior parte della gente era in lacrime, specialmente le donne. Soltanto due frati, vispi vecchietti, se n'andavano lieti come pasque: "La è finita, per i furbi, adesso!" esclamavano gioiosamente, procedendo di buon passo, rivolti ai passanti più ragguardevoli. "L'avete smessa di fare i furbi, eh? Siamo noi i furbi adesso!" (e ridacchiavano). "Noi sempre minchionati, noi creduti cretini, lo vediamo adesso chi erano i furbi!" Allegri come scolaretti trascorrevano in mezzo alla crescente turba che li guardava malamente senza osare reagire. Erano già̀ scomparsi da un paio di minuti per un vicolo, quando un signore fece come l'atto istintivo di gettarsi all'inseguimento, quasi si fosse lasciata sfuggire un'occasione preziosa: "Per Dio!" gridava battendosi la fronte "e pensare che ci potevano confessare." "Accidenti!" rincalzava un altro "che bei cretini siamo stati! Capitarci così sotto il naso e noi lasciarli andare!" Ma chi poteva più̀ raggiungere i vispi fraticelli? Donne e anche omaccioni già̀ tracotanti, tornavano intanto dalle chiese, imprecando, delusi e scoraggiati. I confessori più̀ in gamba erano spariti, si riferiva, probabilmente accaparrati dalle maggiori autorità̀ e dagli industriali potenti. Stranissimo, ma i quattrini conservavano meravigliosamente un certo loro prestigio benché́ si fosse alla fine del mondo; chissà̀, forse, si considerava che mancassero ancora dei minuti, delle ore; qualche giornata magari. In quanto ai confessori rimasti disponibili, si era formata nelle chiese una tale spaventosa calca, che non c'era neppure da pensarci. Si parlava di gravi incidenti accaduti appunto per l'eccessivo affollamento; o di lestofanti travestiti da sacerdoti che si offrivano di raccogliere confessioni anche a domicilio, chiedendo prezzi favolosi. Per contro, giovani coppie si appartavano precipitosamente senza più̀ ombra di ritegno, distendendosi sui prati dei giardini, per fare ancora una volta l'amore. La mano, intanto, si era fatta di colore terreo, benché́ il sole splendesse, e faceva quindi più̀ paura. Cominciò a circolare la voce che la catastrofe fosse imminente; alcuni garantivano che non si sarebbe giunti a mezzogiorno.
In quel mentre nella elegante loggetta di un palazzo, poco più̀ alta del piano stradale (vi si accedeva per due rampe di scale a ventaglio), fu visto un giovane prete. La testa tra le spalle, camminava frettolosamente quasi avesse paura di andarsene. Era strano un prete a quell'ora, in quella casa sontuosa popolata di cortigiane [qui Buzzati è molto malizioso, N.d.R.]. "Un prete! un prete!" si sentì gridare da qualche parte. Fulmineamente la gente riuscì̀ a bloccarlo prima che potesse fuggire. "Confessaci, confessaci!" gli gridavano. Impallidì̀, fu tratto a una specie di piccola e graziosa edicola che sporgeva dalla loggetta a guisa di pulpito coperto; pareva fatta apposta. A decine uomini e donne formarono subito grappolo, tumultuando, irrompendo dal basso, arrampicandosi su per le sporgenze ornamentali, aggrappandosi alle colonnine e al bordo della balaustra; non era del resto una grande altezza.
Il prete cominciò a raccogliere confessioni. Rapidissimo, ascoltava le affannose confidenze degli ignoti (che ormai non si preoccupavano se gli altri potevano udire). Prima che avessero finito, tracciava con la destra un breve segno di croce, assolveva, passava immediatamente al peccatore successivo. Ma quanti ce n'erano. Il prete si guardava intorno smarrito, misurando la crescente marea di peccati da cancellare. (...)
Ma un'ansia indicibile cresceva negli uomini. Uno chiese: "Quanto tempo c'è al giudizio universale?". Un altro, bene informato, guardò l'orologio. "Dieci minuti" rispose autorevolmente. Lo udì̀ il prete che di colpo tentò di ritirarsi. Ma, insaziabile, la gente lo tenne. Egli pareva febbricitante, era chiaro che il fiotto delle confessioni non gli arrivava più̀ che come un confuso mormorio privo di senso; faceva segni di croce uno dopo l'altro, ripeteva "Ego te absolvo..." così, macchinalmente.
"Otto minuti!" avvertì una voce d'uomo dalla folla. Il prete letteralmente tremava, i suoi piedi battevano sul marmo come quando i bambini fanno i capricci. "E io? e io?" cominciò a supplicare, disperato. Lo defraudavano della salvezza dell'anima, quei maledetti; il demonio se li prendesse quanti erano. Ma come liberarsi? come provvedere a sé stesso? Stava proprio per piangere. "E io? e io?" chiedeva ai mille postulanti, voraci di Paradiso. Nessuno però gli badava.
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Povero pretino, l’unico confessore rimasto, che confessa tutti ma non può confessare sé stesso! In pratica possiamo esprimere il finale del racconto in questa forma:
“In un certo posto tutti vogliono confessarsi perché è arrivata la Fine del Mondo, ma è rimasto un solo prete, che può confessare tutti gli altri, ma non sé stesso. La domanda è: chi confessa il prete?”
Se il prete si confessasse da solo, verrebbe contraddetta la premessa implicita secondo cui il prete può confessare solo le persone che non si confessano da sole. Se invece il prete non si confessasse autonomamente, allora dovrebbe essere confessato dal prete, che però è lui stesso: in entrambi i casi si cade in una contraddizione.
Si potrebbero considerare i protagonisti della caotica situazione divisi in due insiemi:
- Quello dei preti che si confessano da soli (che è assimilabile alla categoria degli insiemi che appartengono a sé stessi).
- Quello delle persone che, non confessandosi da sole, vengono confessate dal prete (categoria degli insiemi che non appartengono a sé stessi).
Il problema è in quale categoria vada incluso il prete: infatti, sia che venisse incluso nella prima, sia che venisse incluso nella seconda, la situazione sarebbe contraddittoria. Il prete che confessa costituisce un insieme che appartiene a sé stesso se, e solo se, non appartiene a se stesso.
Sembra il barbiere di Russell.
Il paradosso del barbiere è un'antinomia formulata dal filosofo e logico Bertrand Russell per illustrare la sua famosa contestazione riguardo alla teoria degli insiemi come esposta da Gottlob Frege. L'antinomia può essere enunciata così:
«In un villaggio vi è un solo barbiere, un uomo ben sbarbato, che rade tutti e solo gli uomini del villaggio che non si radono da soli. La domanda è: il barbiere si fa la barba da solo?»
Se il barbiere si radesse da solo, verrebbe contraddetta la premessa secondo cui il barbiere rade solo gli uomini che non si radono da soli. Se invece il barbiere non si radesse autonomamente, allora dovrebbe essere rasato dal barbiere, che però è lui stesso: in entrambi i casi c’è una evidente contraddizione.
Nella sua definizione più formale il paradosso afferma:
Sia R l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a sé stessi. Allora R appartiene a sé stesso se e solo se R non appartiene a sé stesso. Simbolicamente,
Sembra che Russell abbia scoperto l’antinomia nella tarda primavera del 1901, mentre lavorava ai suoi Principles of Mathematics (1903). Cesare Burali-Forti, un assistente di Giuseppe Peano, aveva già scoperto una antinomia simile nel 1897, quando rilevò che poiché l’insieme Ω degli ordinali è ben ordinato, possiede tutte le proprietà di un numero ordinale e dovrebbe quindi essere considerato a sua volta un numero ordinale. Tuttavia, questo ordinale deve sia essere un elemento dell’insieme di tutti gli ordinali sia essere maggiore di tutti i suoi elementi, generando la contraddizione:
Russell scrisse del paradosso a Frege il 16 giugno 1902. Il paradosso era fondamentale per l’attività logica di Frege poiché, mostrava effettivamente che gli assiomi che Frege stava utilizzando per formalizzare la sua logica erano inconsistenti. Nello specifico, la Regola V di Frege, che stabilisce che due insiemi sono uguali se, e solo se, i valori delle loro funzioni corrispondenti coincidono per tutti gli argomenti possibili, richiede che un’espressione come f(x) sia considerata sia una funzione dell’argomento x, sia una funzione dell’argomento f. Fu proprio questa ambiguità che consentì a Russell di costruire R in un modo tale che poteva sia essere oppure non essere un elemento di se stesso.
La lettera di Russell giunse proprio mentre il secondo volume degli Grundgesetze der Arithmetik era in procinto di essere stampato. Comprendendo subito le difficoltà che il paradosso poneva, Frege aggiunse all’opera un’appendice scritta frettolosamente in cui discuteva della scoperta di Russell. Con grande signorilità e onestà intellettuale, Frege diceva: “Uno scienziato può difficilmente scontrarsi con qualcosa di più indesiderabile che avere i fondamenti spazzati via proprio quando il lavoro è terminato. Sono stato messo in questa situazione da una lettera del signor Bertrand Russell, quando l’opera era in procinto di essere data alle stampe”. A causa di queste vicende, alla fine Frege si sentì costretto ad abbandonare molte delle sue idee sulla logica e la matematica. Egli ritenne la teoria degli insiemi responsabile della confusione che si era creata e giunse, negli ultimi anni della sua produzione scientifica, a sostenere che non si può fondare l'aritmetica sulla sola logica, perché tramite la logica sola non abbiamo la certezza che ci venga dato alcun oggetto.
Naturalmente Russell era anch’egli preoccupato per la contraddizione. Subito dopo aver letto che Frege concordava con lui sul significato della scoperta, iniziò immediatamente a scrivere un’appendice al suo Principles of Mathematics che rappresenta il primo tentativo dettagliato di fornire un metodo corretto per evitare ciò che sarebbe divenuto noto come il “Paradosso di Russell”.
La risposta di Russell al paradosso fu la sua Teoria dei Tipi. Ravvisando che l’auto–referenza si trova nel cuore del paradosso, l’idea di fondo di Russell è che possiamo evitare il coinvolgimento di R (l’insieme di tutti gli insiemi che non sono elementi di se stessi) organizzando tutte le proposizioni (o, allo stesso modo, tutte le funzioni preposizionali) in una gerarchia. Il livello più basso di questa gerarchia consisterà di proposizioni riguardanti gli individui. Il livello successivo consisterà di proposizioni riguardanti insiemi di individui. Quello successivo consisterà di proposizioni riguardanti insiemi di insiemi di individui, ecc. È allora possibile riferirsi a tutti gli oggetti per i quali vale una data condizione (o predicato) solo se essi sono allo stesso livello o dello stesso “tipo”.
Questa soluzione al paradosso di Russell è motivata in gran parte dal cosiddetto principio del circolo vizioso, un principio che, in effetti, stabilisce che nessuna funzione preposizionale può essere definita prima di specificare lo scopo di applicazione della funzione. In altre parole, prima che una funzione possa essere definita, bisogna specificare esattamente quegli oggetti a cui si applicherà la funzione (il dominio della funzione). Ad esempio, prima di definire il predicato “è un numero primo”, bisogna prima definire la collezione di oggetti che potrebbero soddisfare il predicato, in questo caso l’insieme N dei numeri naturali.
Forse il pretino avrebbe dovuto chiedere direttamente all’Onnipotente una dilazione della Fine, o almeno un miracoloso chiarimento su come considerare il suo insieme di appartenenza. Magari gli sarebbe stato concesso. Iddio alla fine dei tempi è un creditore terribile, ma anche tremendamente divertito dalle antinomie umane.