venerdì 15 gennaio 2010

Piccola antologia dei poeti inesistenti (2)



Ho concluso la prima parte di questa rassegna con un poeta venezuelano e nella seconda mi occupo di una serie di poeti argentini. In effetti, l’America Latina ha dato i natali a molti poeti inesistenti, forse per l’abbondanza dei loro esegeti. Al primo posto tra questi va senz’altro collocato il dottor Bustos Domecq. Talento precoce, avendo pubblicato le sue prime opere a dieci anni, Honorio Bustos Domecq, “brutto muso” per gli intimi, ispettore scolastico e avvocato dei poveri, romanziere e saggista argentino, è, secondo Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares, l’autore della raccolta di storie poliziesche Sei problemi per don Isidro Parodi (1942) e dei saggi contenuti in Cronache di Bustos Domecq (1967). Entrambi i testi sono preceduti dalla saccente ed enfatica prefazione di Gervasio Montenegro, attore e membro dell'Accademia Argentina di Letteratura, nonché protagonista o comparsa nei due libri (1).

Nei Sei problemi per don Isidro Parodi tutte le storie ruotano attorno alla figura di un barbiere di origine italiana, condannato ingiustamente a vent’anni di reclusione per l’omicidio di un macellaio, che risolve sei casi polizieschi senza muoversi dal carcere. Dotato di grande intelligenza deduttiva come e più dei famosi Holmes e Dupin, egli riceve i suoi clienti nella cella numero 273 e, dopo averli ascoltati, li invita a tornare dopo qualche giorno: senza uscire, risolve il caso svelando l'enigma e inchiodando i colpevoli. In effetti vicende e personaggi si intrecciano in quella cella da una storia all’altra, in un groviglio di situazioni e rimandi che sembra un gioco di specchi. Negli episodi compaiono anche poeti come Carlos Anglada, autore dei sonetti di Le pagode senili (1912), delle odi panteiste di Io sono gli altri (1921) e degli Inni per milionari (1934, pubblicati in cinquecento esemplari numerati, opera di tendenza aristocratica e nel contempo operazione mercantile).

Pure nelle Cronache ogni cosa s'intreccia e si biforca, tanto è vero che, in mezzo alle biografie e alle analisi dell’attività di poeti, pittori, cuochi, scrittori e scienziati, Bustos Domecq non esita a citare se stesso o le sue opere.

Honorio Bustos Domecq

Le Cronache si aprono con un omaggio alla multiforme opera di César Paladiòn, emerito console argentino a Ginevra, autore di undici volumi tra prosa e poesia e saggistica. La sua metodologia di "dilatazione di unità" è stata oggetto di tante monografie critiche che riesce quasi superfluo esporla di nuovo. Prima di Paladiòn, l’unità letteraria che gli autori accoglievano dall’eredità precedente, il divisore comune per così dire, era la parola, o tutt’al più la frase bell’e fatta. Di altri autori gli scrittori o i commentatori citavano e inglobavano locuzioni, frasi, versi, qualche breve periodo. Paladiòn, già dalla sua prima pubblicazione nel 1909, andò oltre, annettendosi, per così dire, un’opera completa, I parchi abbandonati di Herrera y Reissig. Paladiòn gli dette il proprio nome e lo passò in tipografia senza togliere né aggiungere una sola virgola, regola alla quale si mantenne sempre fedele. Convinto di non essere all’altezza di adottare il proprio metodo con tutte le opere che gli piacevano (tra queste la Divina Commedia, che fu invece oggetto delle attenzioni di un altro artista porteño, Hilario Lambkin Formento), egli limitò la sua scelta a una decina di testi di vario genere e di varie lingue, comprese quelle che non conosceva. Così pubblicò a proprie spese e con tiratura limitata romanzi come Emile, Il segugio dei Baskerville o La capanna dello zio Tom, saggi come La provincia di Buenos Aires fino alla definizione della questione Capitale della Repubblica, oppure il De Divinatione (direttamente in latino) o ancora i versi delle Georgiche tradotte in spagnolo da Ochoa. Quando morì, stava preparando Il Vangelo secondo San Luca, opera di stampo biblico. Purtroppo della sua attività restano poche tracce, stante l’esiguità delle copie messe in circolazione. Ma il suo metodo, a torto definito plagio e invece segno di assoluta mancanza di vanità, è l’indiscussa testimonianza della sua arte originale.

Forse il suo seguace più fedele è stato il francese Pierre Menard, che volle riscrivere il Don Chisciotte, l’indimenticabile romanzo di Cervantes, e, nello sforzo di reinventare nel presente il capolavoro del passato, finì con il ripeterlo alla perfezione parola per parola.


César Paladiòn

Poeta originale fu senza dubbio anche Federico Juan Carlos Loomis, che non credette mai alla virtù espressiva della metafora, evitando accuratamente di servirsene nelle sue opere. Artista dalla disciplina e dall’opera severa, ebbe modo di dichiarare, in uno dei cenacoli letterari che frequentava, che la forza di evocazione della parola "luna" è assai superiore al "tè degli usignoli" come l’aveva mascherata Majakowskij. Tra il 1911 e il 1924 uscirono le opere del suo primo periodo, tutte nate da improbe fatiche personali: Orso (1911), preceduto dallo studio scientifico dell’animale, reiterate visite allo zoo, l’acquisto di litografie e fotografie e persino di esemplari adulti imbalsamati, Branda (1914), frutto dell’esperienza autoimposta di vivere un mese e mezzo in un povero caseggiato popolare, Basco (1916), per il quale l’autore apprese la lingua basca, Crema (1922), ispirato dal consumo di latte per curare un’ulcera al duodeno, Luna (1924), nata dall’istallazione di un telescopio sul terrazzino di casa e culmine della prima sua fase artistica. Improvviso, poi, un pluriennale silenzio, trascorso nello studio snervante, che cessò nel 1931 con l’uscita del suo capolavoro, pubblicato postumo, Forse. Fedele fino in fondo alla sua concezione di economia del linguaggio, egli pubblicò in tutto sei parole: orso, branda, basco, crema, luna e forse, perché nelle opere di Loomis non c’è conflitto tra titolo e contenuto, i due elementi coincidendo rigorosamente.


Federico Juan Carlos Loomis

Santiago Ginzberg ricorda invece i tentativi di René Ghil di ideare una lingua i cui suoni sappiano rendere sinesteticamente l’essenza del concetto, l’anima della poesia. Diceva l’argentino: «II mio proposito è la creazione di un linguaggio poetico formato da termini che non hanno esatta equivalenza nelle lingue comuni, ma che denotano situazioni e sentimenti che sono, e son sempre stati, il tema fondamentale della lirica».

l primo testo che dette alle stampe fu il libro di poesia Chiavi per tu e io (1923), una serie di sonetti che qua e là rivelavano importanti novità linguistiche:

In un gruppo noi amici nel cantone la sera paramano ci abbandona.

Dove paramano, che il dizionario definisce «parte della manica che sta più accosto al polso, e dicesi specialmente dell'interno o fodera», è invece, secondo l’autore, «l'emozione di una melodia che abbiamo ascoltata una volta, che abbiamo dimenticata e che dopo anni ritroviamo». Oppure:

Labbra d'amore, poi unite dal bacio, dissero, come sempre, nocomoco.

Che Ginzberg così spiegò nei suoi taccuini: «Gl'innamorati sogliono ripetere che, senza saperlo, han vissuto cercandosi, che già si conoscevano prima di vedersi e che la loro stessa felicità è la prova del fatto che son sempre stati vicini. Per risparmiare o abbreviare simili tiritere, suggerisco che articolino nocomoco». Interessante è anche:

Cassetta! la negligenza degli astri abiura la sapiente astrologia.

Bustos Domecq, temendo errate interpretazioni della parola iniziale del bel distico (cassetta in spagnolo è buzòn), avanzò l'ipotesi che la parola fosse un mero errore e che il verso dovesse leggersi:

Tritone! la negligenza degli astri

o, se si preferisce:

Oh sorcio! la negligenza degli astri.

In realtà il termine non indica il tipico aggeggio che ingoia le lettere attraverso una feritoia; l’autore preferì l'accezione di «casualmente, fortuitamente, in modo incompatibile con un cosmo».

Il secondo libro di poesia, il cui sottotitolo è Bouquet di stelle profumate, è il risultato di una evoluzione per la quale interi versi non contengono alcuna parola che figuri nel dizionario, come:

Hloj ud ed ptà jabuneh Jróf grugnì.

In cui jabuneh denomina «la melanconica peregrinazione a luoghi un tempo divisi con l'infedele» e grugnì, preso nel suo significato più lato, vale «lanciare un sospiro, un irreprimibile lamento d'amore».


Santiago Ginzberg

Espressione di un secolo frettoloso, Tullio Herrera (1942) è l’incarnazione della massima che quel che manca non fa danno. La sua estetica era già visibile nella sua opera prima, Apologia (1959), scritta in difesa di un congiunto accusato sei volte di plagio e del quale Herrera riuscì a non fare mai il nome, omettendo anche i titoli delle opere incriminate e di quelle che gli sarebbero servite da modello. La sua seconda opera, la raccolta di versi Ci si alzi ora (1961), stupì per i risultati dello stile innovativo già dal verso iniziale:

Mostro siede folklorico mancante

vero miracolo di concisione e risultato di un lungo lavoro di cesello. I taccuini del poeta rivelano infatti qual era la prima versione di quel verso: Mostro di Creta, il Minotauro siede / in domicilio proprio, il labirinto: / invece io, folklorico e castagno, / mancante son di tetto a ogni ora. E del titolo dell’opera, Ci si alzi ora, sappiamo che è l’ellissi dell’adagio “Per quanto presto ci s’alzi fa giorno alla stessa ora”.

L’ultimo lavoro di Herrera è il romanzo Sia fu, concluso nel 1965 ma ancora non dato alle stampe. Si tratta di una storia di rivalità tra due donne omonime innamorate dello stesso uomo, che culmina nell’avvelenamento di una delle due a causa di un duplice caso di omonimia. Il titolo è biblico, derivando dalla frase “Sia la luce e la luce fu”. Il libro è la realizzazione pratica del programma dell’autore, che scrive interi periodi eliminando poi il superfluo. Il risultato è una trama in cui i personaggi sono semplici comparse, che indugiano in conversazioni di scarso peso e non sanno niente di quello che accade. Nessuno comprende nulla, e ancora meno il pubblico. Bustos Domecq, che ha acquistato i diritti del romanzo e deve attendere la morte del fin qui troppo sano Herrera per darlo alle stampe, ha già pensato al monumento funebre, che consisterà, applicando alla scultura i canoni del compianto poligrafo, di un orecchio, un mento e un paio di scarpe.


Tullio Herrera

Questa breve rassegna sui poeti immaginari argentini non può concludersi senza aver ricordato il multiforme Vilaseco, e sue opere: Pene dell’anima (1901), La tristezza del fauno (1909), Mascherina (1911), Caleidoscopio, pubblicato dalla rivista “Prua”, la satira Viperina, Evita capitana (1947) e il suo canto del cigno, Ode all’integrazione, dedicato a più uomini di governo. Tutti questi testi non furono mai pubblicati dall’autore. Vilaseco solo in articulo mortis cedette all’amichevole costrizione di Bustos Domecq affinché fosse pubblicata una plaquette con le sue opere, in cinquecento esemplari numerati da vendere per corrispondenza ai bibliofili. Fu un garzone idiota, tale Zanichelli, che, invece di limitarsi a scrivere gli indirizzi per la spedizione, volle leggere le poesie e scoprì che, salvo i titoli, erano tutte esattamente la stessa, ripetuta immutata per cinquant’anni e mai letta da nessuno.




(1) È doveroso segnalare tuttavia che alcuni sostengono che Montenegro sia uno pseudonimo adottato dallo stesso Bustos Domecq, ad onta del fatto che, nella nota al testo, quest’ultimo rimprovera Montenegro di essersi arbitrariamente incaricato di scrivere la prefazione. Altri ancora ritengono che sia Bustos Domecq sia Montenegro siano personaggi fittizi dietro i quali si nascondono Borges e Bioy Casares. Insomma, è ancora necessario un paziente lavoro di ricerca e di critica.

15 commenti:

  1. Non ne sono tanto sicuro ma non mi convince il "segugio". È lo stesso Mastino nelle traduzioni italiane, Hound nella versione originale?

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  2. Juhan (che sei riuscito a confondere anche Keplero, complimenti!): così ha tradotto Francesco Tentori Montalto nell'edizione Einaudi del 1975 delle Cronache.
    A me sembra che abbia più ragione lui: hound, spesso usato come generico per "cane", indica più propriamente il "cane da caccia", "segugio". "Mastino" è mastiff.

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  3. Due robe (robbe?):
    1) Il cane dei Baskerville è enorme, terrifico, mortale, mentre il segugio mi sembra più indagativo. Io ho un cane, Pico, che pretende due passeggiate al giorno, se sono in casa; e le sfrutta con il naso sempre a terra, contro gli alberi, le ruote delle macchine: indaga, scommetto che se comincio a leggergli Sherlock Holmes poi lo pretenderà per sempre. Ma non sono un linguista e non mi ricordo nemmeno bene che hound è un suono usato dai nordici per i cani. Ma hanno la pessima abitudine di parlare lingue incomprensibili e usare le declinazioni!
    2) Per Keplero/Balbi se ho rovinato il suo post (e non mi sembra) sono davvero dispiaciuto: magari aveva altre cose da aggiungere in programma, peccato.
    3) Proposito per l'anno nuovo (cioè questo): quando commento sono ospite, non devo essere invadente, non devo divagare. Anzi non lo faccio più, solo per quando uno parla male di cose sacre tipo FSM. Anche il Toro sarebbe sacro ma se uno ne parla male fa solo bene.
    4) OK! questo commento non rispetta il punto 3 precedente, ma è l'ultimo.

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  4. Juhan:
    1) Dovremmo controllare l'originale spagnolo di Borges (pardon, di Bustos Domecq) per vedere come l'ha scritto. Il traduttore può aver preso il termine dallo spagnolo e non dall'inglese.
    2) Keplero sa benissimo, come tutti i blogger, che un commentatore può suggerire letture che magari interessano altri commentatori se non lui. Quindi sta tranquillo.
    3) Le divagazioni intelligenti come le tue sono sempre ben accette.
    4) Juventus boia.

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  5. Sono affascinato sopratutto da Loomis, anche se un tantino prolisso.

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  6. ...interessantissimo post. mi incuriosisce molto, sul piano intellettuale, la personalità e le opere di Federico Juan Carlos Loomis: mi appaiono, leggendo il tuo post, come dei diari personali in letteratura...

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  7. Enrico, Joe Guitar: vedo che Loomis è l'autore che più ha colpito la vostra immaginazione. Personalmente amo molto anche il metodo artistico di César Paladiòn, al quale ho dedicato un'opera nello stile di Loomis, scrivendo una delle mie poesie più sudate, basata sull'uso diuturno di scanner e fotocopiatrici, esperienza e quasi diario del mio essere blogger: "COPIA".

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  8. Sì, in alcuni momenti l'opera del Popinga ricorda quella del Paladiòn. Ma dal punto di vista informatico va oltre, l'azione termina con INCOLLA. Un segno dei tempi, secondo me.
    (si può scrivere LOL in questo blog?)

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  9. Juhan, purtroppo le faccine qui non vengono. Le cose garantite originali si trovato sotto l'etichetta Popinga, per le altre si assicura una buona elaborazione.

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  10. Lo so, il mio commento voleva essere solo la ripresa di una trita battuta per cui a Modifica/Copia deve seguire subito Modifica/Incolla. Che poi i non niubbi (io dico n00bs) passano subito a Crtl-C/Ctrl-V, abbreviato in ^C/^V.
    Lo so che il contenuto del blog è ben altro.
    E poi, cribbio!, bisogna imparare a copiare, e copiare bene. Non in tutti i campi ma in parecchi; qui il discorso sarebbe lungo e OT e ho promesso solo ieri di non farlo più. Anzi, avviso per tutti: non leggete questo capoverso.

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  11. saper copiare/incollare bene è fondamentale ed è stata, a mio parere, l'unica invenzione meritoria da quando quel bastardo ha inventato questa macchina infernale.

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  12. @ Enrico
    se non fosse che ho promesso di non andare più fuori tema ti direi che nell'arte e nell'architettura e nell'ingegneria e __________ copiare, possibilmente migliorando, è fondamentale. E anche in campo informatico non è stato quello a inventare il copia/incolla. Disorso lungo, troppo, e comunque non qui.

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  13. @juhan
    lo dici a me che sono l'unico difensore dei cinesi su questo pianeta!

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  14. @ enrico
    ma ti ricordi quando erano i giapponesi a essere i copioni?
    Secondo me i cinesi hanno copiato da loro.

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