(da un mio racconto inedito di dieci anni fa, ambientato nel 1176)
Con i nostri compagni di viaggio fummo ospiti dello Spedale del Tempio, vicino alla chiesa di Santa Maria. Fu all'ingresso di quella magione che conobbi Oberto Leccacorvi. Era di nobile famiglia e nipote di vescovo, ma si faceva chiamare fra Teofilo.
Era un vecchio di sessant'anni, ancor più piccolo di me, con un collo gracile, il viso emaciato, gli occhi nerissimi, la fronte rugosa e aggrinzita, le narici schiacciate, la bocca prominente, le labbra tumide, il mento sfuggente e affilatissimo, la barba da capro, le orecchie villose e appuntite, i capelli irti e arruffati, i denti aguzzi, il cranio a punta, malamente ricoperto da un sudicio cappuccio; una protuberanza al centro del petto lo faceva sembrare un uccello e il suo corpo, sempre chinato in avanti, era agitato da movimenti convulsi.
Portava il saio dei penitenti e, in un certo modo, lo era: molti anni prima aveva ucciso il giovane nobile Stefano Vicedomini, della cui promessa sposa s'era invaghito. Pentitosi, si era spogliato di tutti i suoi beni, aveva risarcito la famiglia della vittima, ottenendo il perdono dei parenti e della giustizia secolare, e aveva affrontato un lungo digiuno; per più di vent'anni aveva vissuto da eremita nelle selve della pieve di Fiorenzuola. Si diceva che fosse stato lui ad indicare agli inviati di Bernardo cistercense il luogo, al Carretum, dove si era posata una colomba giunta dal cielo. E il santo colà aveva deciso di fondare la chiesa e il convento di Chiaravalle della Colomba.
Tornato in città, ai tempi della guerra con Parma, aveva predetto la caduta di un bolide infuocato che aveva abbattuto parte della torre di Santa Maria di Campagna e si era poi perso nel Po. Tre anni più tardi sognò un'aquila di ferro che si posava sulle torri della città, presagendo la distruzione delle stesse ad opera del Barbarossa. Nonostante il suo abbigliamento e le sue doti profetiche, non apparteneva ad alcun ordine regolare o secolare ed era malvisto, se non esecrato da Vallombrosani, Ospitalieri e Benedettini. Aveva tuttavia un piccolo pugno di seguaci, attratti dal suo carisma perverso e dalle sue abilità dialettiche.
Fermò il nostro gruppo e ci apostrofò con voce ispirata. "Salvate le vostre anime! Fermatevi e tornate alle vostre case! Non andate a lordarvi con lo sterco della Bestia! E' a Roma che Romolo uccise suo fratello e Nerone sua madre, che Giulio Cesare fu assassinato e i santi Pietro e Paolo suppliziati e Lorenzo arso vivo! Roma, tutti i giorni tu fai strazio del popolo di Dio! I cardinali vanno in giro ardenti di cupidigia, pieni di simonia, conducendo mala vita, senza fede e senza religione. Vendono Dio e sua madre, tradiscono il loro Maestro, divorano tutto. Troppo essi fanno disperare i fedeli! Che cosa fanno dell'oro di cui si riempiono con gli oboli? Non ne fanno certo né strade, né ponti, né ospedali! E più di tutti dannato è il figlio di Caino, il compare di Giuda, il sodale di Simon Mago, colui che indegnamente siede sul trono di Pietro e fornica con le meretrici, corrompe i giovani, depreda i sudditi! A lui non è dovuta nessuna riverenza e nessuna devozione! Fermatevi, romei, volgete il passo e abbandonate la strada di Sodoma e Gomorra!"
Se a Piacenza la storia di Teofilo e le sue nobili origini non fossero state conosciute, sicuramente per quelle parole sarebbe stato arrestato e poi arso vivo. In più il momento politico era poco opportuno per discorsi che, criticando il papato, potevano essere intesi come filo-imperiali in una città ribelle. Ma quelle invettive potevano anche essere interpretate come rivolte all'antipapa fatto eleggere dal Barbarossa ed erano pronunciate da un duce senza esercito, da un mezzo profeta mezzo matto che non rappresentava un pericolo, come invece succedeva con i càtari e altri eretici, il cui numero aumentava di giorno in giorno in tutte le città lombarde. E quelle parole esprimevano anche un sentimento che, seppure con toni più attenuati, era condiviso da molti fedeli.
L'impressione che quest'incontro fece sui presenti fu molto diversificata. Mentre Lanfranco rideva e io non sapevo che cosa rispondere, i poveri pellegrini fiamminghi, che non capivano il volgare dell'uomo e poco sapevano anche di latino, si guardavano l'un l'altro con fare interrogativo. Quello che sembrava il loro capo, uno spilungone biondo come il grano e dalla pesante mascella quadrata, dopo un breve conciliabolo con alcuni compagni, fece segno al gruppo di entrare nello Spedale. Abbozzando un sorriso imbarazzato, disse: "Fiat foluntas Teei. Packhs tibi, frater."
Teofilo, non domo, fermò allora le tre donne del gruppo, in verità tutte piuttosto bruttine, investendole con la continuazione della sua predica: "E voi femmine, che siete più facili prede della lussuria e della corruzione, abbandonate la via di Roma! La maggior parte di quelle che vanno alla nuova Babilonia soccombe, poche di coloro che tornano conservano la castità. Non v'è città d'Italia in cui non ci sia una pellegrina divenuta adultera o prostituta!" Gli uomini del gruppo s'affrettarono a circondare le compagne per difenderle dall'invasato. Nel loro barbaro linguaggio lanciarono a Teofilo delle invettive catarrose e spinsero le compagne dentro l'edificio.
Lanfranco si limitò a guardare di sbieco quell'individuo, sibilando un sintetico "Ma va' a cagà" e infilando la porta. Solo io rimasi sul posto, colpito da qualcosa d'indefinibile nelle parole che avevo udito. Cercai di calmarlo. Gli spiegai che Lanfranco ed io non eravamo romei, ma diretti a Modena per i lavori della Cattedrale. Placò un poco il suo tono apocalittico e chiese chi fossi. Mi presentai come Raimondino da Campione, apprendista scultore. Alle mie parole disse "La tua è arte vana. A che servono quelle torri di Babele, quando basta una croce in un bosco per pregare?" Mi scrutò da capo a piedi e si allontanò accennando un segno di benedizione.
Ciao Popinga, mi ero persa. Bello bello il nuovo colore, che io lo chiamo "carta da zucchero" (anche se magari non è, ma per me adesso lo vedo così) perché lo sai che sto cercando la carta da zucchero di una volta? Quella vera, dico, tu te la ricordi? Ma non esiste più, davvero, non riesco a trovarla accidenti.
RispondiEliminaBellissima questa ricerca sulla mia città d'origine, Modena, e queste cose le avevo studiate tanto tempo fa per un esame di Storia dell'Arte Medievale, ma mi ricordavo pochissimo. Era da tanto tempo che non mi perdevo nei tuoi post, e adesso che ti ho letto ho fatto una ricerca per capire se "va a cagà" Lanfranco poteva averlo detto davvero, e ho deciso che si. Poi lo sai che i Maestri Comaschi sono anche qui in Abruzzo, forse, tra le tracce dei Templari, devi venirci. E anche il post precedente, su Artù, bellissimo Popinga.
Mi sei mancato moltissimo.
Che bravo che sei!
B