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lunedì 12 novembre 2018

Vita logica e morte illogica di George Boole


George Boole è famoso per i suoi lavori sulla logica matematica, che aprirono la strada allo sviluppo dell’informatica e al mondo contemporaneo. In realtà fu un genio versatile, uno di quelli che nel mondo anglosassone chiamano polymath, termine riservato alle poche persone in grado di eccellere in quasi tutti campi del sapere. 

Era nato, primo di quattro figli, il 2 novembre 1815 a Lincoln, in Inghilterra, in una famiglia di mezzi modesti, con un padre che era sicuramente più un buon compagno che un buon capofamiglia. Il padre John era infatti un calzolaio che non dedicava molto impegno alla sua attività, perché nutriva una grande passione per la scienza e la tecnologia, in particolare per l'applicazione della matematica agli strumenti scientifici. Questo amore per il sapere fu chiaramente ereditato da George. John fu infatti il primo insegnante di matematica del figlio, e ne incoraggiò la passione per il sapere. Insieme costruirono macchine fotografiche, caleidoscopi, microscopi, telescopi e una meridiana. 

Dopo aver studiato il latino da un insegnante privato, George Boole imparò da solo il greco. A 14 anni era diventato così abile da provocare una piccola polemica. Tradusse un’opera del poeta greco Meleagro, che suo padre orgogliosamente fece pubblicare, suscitando la reazione di un insegnante locale, che dubitò che un quattordicenne avesse potuto scrivere con tanta profondità. A quel tempo George frequentava l'Accademia commerciale di Bainbridge a Lincoln, dove era entrato nel 1828. Questa scuola non forniva il tipo di educazione linguistica e scientifica che avrebbe desiderato, ma era ciò che i suoi genitori potevano permettersi. George fu tuttavia in grado di imparare il francese, l’italiano e il tedesco, studiando da solo anche le materie scientifiche che una scuola commerciale non trattava. La sua capacità di leggere le lingue straniere lo favorì negli studi matematici da quando, a 16 anni, lesse il Calcul Différentiel di Lacroix, ricevuto in regalo da un amico. 

Alla stessa età George dovette trovarsi un impiego retribuito per sostenere i genitori e i fratelli, poiché suo padre non era più in grado di provvedere alla famiglia, in quanto la sua attività era fallita. Dopo aver lavorato per tre anni come insegnante nelle scuole private, decise, nel 1834, di aprire una sua piccola scuola a Lincoln. Sarebbe stato un insegnante privato di lingue e matematica per i successivi 15 anni. Con pesanti responsabilità verso la famiglia, è notevole che abbia comunque trovato il tempo di continuare la propria istruzione. John Boole frequentava spesso la Lincoln Mechanics Institution, che era essenzialmente un’associazione culturale che promuoveva la lettura, le discussioni e le lezioni sulla scienza. Era stata fondata nel 1833 dal matematico Sir Edward Bromhead, membro della Royal Society, che viveva a poche miglia da Lincoln. Nel 1834 John Boole divenne il curatore della biblioteca. Senza il beneficio di una scuola d'élite, ma con una famiglia unita e l'accesso a libri eccellenti, in particolare quelli prestati da Bromhead, George mostrò presto le sue doti. Mantenne il suo interesse per le lingue, iniziò a studiare seriamente la matematica, principalmente le equazioni differenziali e il calcolo delle variazioni legate ai lavori di Lacroix, Laplace e Lagrange, perfezionando scrupolosamente le sue abilità con letture ripetute, finché non comprese il loro uso del calcolo differenziale e integrale. Lesse e con profitto anche i Principia di Newton. 

La motivazione iniziale di George Boole di studiare matematica era di approfondire la sua comprensione della scienza pratica, in particolare meccanica, ottica e astronomia. Con l'avanzare della sua padronanza dell'argomento, riconobbe che la matematica è estremamente eccitante e creativa a pieno titolo. Nel 1838, scrisse il suo primo articolo matematico (sebbene non il primo ad essere pubblicato), Su alcuni teoremi nel calcolo delle variazioni, concentrandosi a migliorare i risultati della Méchanique Analytique di Lagrange. 

All'inizio del 1839 Boole si recò a Cambridge dove conobbe il giovane matematico Duncan F. Gregory (1813-1844), editore del Cambridge Mathematical Journal (CMJ). Gregory aveva fondato questo giornale nel 1837 e lo curò fino a quando la sua salute peggiorò nel 1843 (morì all'inizio del 1844, a soli 30 anni). Gregory divenne un importante mentore per Boole. Con il sostegno di Gregory, che gli insegnò come scrivere un articolo matematico, Boole entrò nel mondo delle pubblicazioni nel 1841. 

Nei suoi primi anni di carriera, Boole pubblicò una trentina di articoli, tutti tranne due nel CMJ e, dal 1846, nel The Cambridge and Dublin Mathematical Journal, che ne aveva preso l’eredità. Si occupò di argomenti matematici standard, principalmente equazioni differenziali, integrazione e calcolo delle variazioni. L’articolo del 1841 Sull'integrazione di equazioni differenziali lineari con coefficienti costanti fornì un miglioramento significativo al metodo di Gregory per risolvere tali equazioni differenziali, basato su uno strumento standard in algebra, lo sviluppo in frazioni parziali. 

Nel 1841 uscì anche il suo primo articolo sugli invarianti, un’opera che avrebbe persuaso Eisenstein, Cayley e Sylvester a sviluppare l'argomento. Arthur Cayley (1821-1895), futuro professore a Cambridge e uno dei più prolifici matematici della storia, scrisse la sua prima lettera a Boole nel 1844, complimentandosi con lui per l’eccellente lavoro. Diventò un caro amico, che sarebbe andato a Lincoln a trovare Boole e stare con lui negli anni prima che Boole si trasferisse a Cork, in Irlanda. Nel 1842 Boole iniziò una corrispondenza con Augustus De Morgan (1806-1871) che diede inizio ad un'altra costante amicizia.

Nel 1843 Boole concluse un lungo lavoro sulle equazioni differenziali, combinando una sostituzione esponenziale e una variazione dei parametri con il metodo della separazione dei simboli. L’articolo era troppo lungo per il CMJ. Gregory, e più tardi De Morgan, lo incoraggiarono allora a presentarlo come memoria alla Royal Society. Il primo referee respinse il lavoro di Boole, ma il secondo lo raccomandò per la medaglia d'oro per la migliore opera matematica scritta negli anni 1841-1844: questa raccomandazione fu accettata. Nel 1844, la Royal Society pubblicò l’opera di Boole e gli assegnò la medaglia d'oro, la prima attribuita a un matematico. L'anno seguente, nel giugno 1845, Boole tenne una conferenza alla riunione annuale della British Association for the Advancement of Science a Cambridge. Ciò portò a nuovi contatti e amici, in particolare William Thomson (1824-1907), il futuro Lord Kelvin, che era professore di filosofia naturale presso l'Università di Glasgow.

Non molto tempo dopo aver iniziato a pubblicare articoli, Boole era ansioso di trovare un modo per ottenere un titolo in un’istituzione prestigiosa. Valutò l’ipotesi di frequentare l'Università di Cambridge per ottenere una laurea, ma gli fu consigliato che soddisfare i vari requisiti richiesti avrebbe probabilmente interferito seriamente con il suo programma di ricerca, per non parlare dei problemi di ottenere finanziamenti. Alla fine, nel 1849, ottenne la nomina alla cattedra di matematica al Queen's College di Cork, in Irlanda. In questa sede egli insegnò per il resto della sua vita. Boole si inserì nella vita accademica, godendo di un certo grado di indipendenza finanziaria e di un nuovo senso di libertà. A marzo dell'anno successivo scrisse al suo amico e corrispondente William Thomson: 
"Posso dire in tutta onestà che provo un piacere sempre maggiore nei miei nuovi compiti".

Nel 1847 pubblicò la sua prima opera di logica, Mathematical Analysis of Logic, seguita da Laws of Thought del 1854. Inoltre, durante questo periodo, Boole pubblicò decine articoli di matematica tradizionale, e solo un articolo di logica. Nel 1851 gli fu conferita la laurea ad honorem presso l'Università di Dublino. 

Per capire come Boole abbia sviluppato, in così poco tempo, la sua straordinaria algebra della logica, è utile ripercorrere le linee generali del dibattito sui fondamenti dell'algebra che era stato iniziato dai matematici affiliati all'Università di Cambridge nell'Ottocento prima dell’inizio della sua carriera matematica. 

Il XIX secolo si aprì in Inghilterra con una stasi della matematica. I matematici inglesi erano in lotta con i matematici continentali sulla priorità nello sviluppo del calcolo infinitesimale, che portò gli inglesi a seguire la notazione di Newton, e i continentali quella di Leibniz. Uno degli ostacoli da superare nell'aggiornamento della matematica inglese era il fatto che i grandi sviluppi dell'algebra e dell'analisi erano stati costruiti su basi dubbie, e c'erano matematici inglesi che erano piuttosto espliciti riguardo a queste carenze. Nell'algebra ordinaria, a preoccupare era l'uso di numeri negativi e dei numeri immaginari. 

Il primo grande tentativo tra gli inglesi di chiarire i problemi fondamentali dell'algebra fu il Treatise on Algebra, 1830, di George Peacock (1791-1858). Una seconda edizione apparve in due volumi, negli anni 1842-1845. Egli divise l’argomento in due parti: la prima era l'algebra aritmetica, vale a dire l'algebra dei numeri positivi (che non consentiva operazioni come la sottrazione nei casi in cui il risultato non era un numero positivo), la seconda era l'algebra simbolica, che non era governata da una specifica interpretazione, come nel caso dell'algebra aritmetica, ma solo da leggi formali. Nell'algebra simbolica non c'erano restrizioni all'uso della sottrazione, ecc. 

La terminologia dell'algebra era alquanto diversa nel diciannovesimo secolo rispetto a quanto si usa oggi. In particolare, non si usava la parola "variabile"; la lettera x era chiamata simbolo, da cui il nome "algebra simbolica".

Peacock riteneva che, affinché l'algebra simbolica fosse un metodo utile, le sue leggi dovevano essere strettamente correlate a quelle dell'algebra aritmetica. A questo proposito, introdusse il principio della permanenza delle forme equivalenti, che collegava i risultati dell'algebra aritmetica a quelli dell'algebra simbolica. Questo principio consisteva di due parti:
1. I risultati generali nell'algebra aritmetica appartengono alle leggi dell'algebra simbolica.
2. Ogni volta che un'interpretazione di un risultato di algebra simbolica ha senso nell'impostazione dell'algebra aritmetica, il risultato dà un risultato corretto in aritmetica.

Un interessante uso dell'algebra fu introdotto nel 1814 da François-Joseph Servois (1776-1847), che affrontò le equazioni differenziali separando la parte dell'operatore differenziale dalla parte della funzione algebrica. Con questo nuovo metodo simbolico considerava un'equazione differenziale, per esempio:


 e la scriveva nella forma Operatore (y) = cos(x). Ciò si otteneva (formalmente) ammettendo:

Portando a un’espressione dell’equazione differenziale come:


A questo punto entrava in gioco l'algebra simbolica, semplicemente trattando l'operatore D2 come se fosse un polinomio algebrico ordinario. Questa applicazione dell'algebra catturò l'interesse di Gregory, che pubblicò sul suo giornale diversi articoli sul metodo della separazione dei simboli, cioè la separazione tra operatori e oggetti. Egli si occupò anche dei fondamenti dell'algebra, dando un’interpretazione che Boole condivise quasi alla lettera. Gregory aveva abbandonato il principio di Peacock sulla permanenza delle forme equivalenti a favore di tre semplici leggi, una delle quali Boole considerava semplicemente una convenzione di notazione. Sfortunatamente, queste leggi non erano sufficienti a giustificare neanche i risultati più elementari dell'algebra, come quelli che implicano la sottrazione. 

In On the foundation of algebra (1839), il primo di quattro articoli di De Morgan su questo argomento apparsi sulle Transactions of the Cambridge Philosophical Society, si trova un tributo alla separazione dei simboli in algebra, e l'affermazione che i moderni algebristi di solito considerano i simboli come denotanti operatori (ad esempio, l'operazione derivativa) invece di oggetti come numeri. La nota in calce: 
"Il professor Peacock è il primo, credo, che ha distinto chiaramente la differenza tra ciò che ho chiamato i rami tecnico [sintattico] e logico [semantico] dell'algebra" 
riconosceva a Peacock il merito di essere stato il primo a separare quelli che vengono ora chiamati gli aspetti sintattici e semantici dell'algebra. Nel secondo documento di fondazione (nel 1841) egli propose quello che considerava un insieme completo di otto regole per operare con l'algebra simbolica. 

La strada verso la fama logica di Boole cominciò in modo curioso. All'inizio del 1847 fu stimolato a iniziare le sue indagini sulla logica da una disputa banale ma pubblica tra De Morgan e il filosofo scozzese Sir William Hamilton (1788-1856) – da non confondersi con il suo contemporaneo, il matematico irlandese Sir William Rowan Hamilton (1805-1865). Questa disputa ruotava attorno a chi spettasse il merito dell'idea di quantificare il predicato (ad esempio, "Tutto A è tutto B", "Tutto A è una parte di B", ecc.). Osservando la disputa a distanza, Boole intuì che i due approcci rivali potevano essere sintetizzati: ogni classe di oggetti poteva essere rappresentata da un singolo simbolo, mentre le relazioni tra classi potevano essere rappresentate da equazioni algebriche che collegavano i simboli. Nel giro di pochi mesi, Boole scrisse la sua monografia di 82 pagine, Mathematical Analysis of Logic, An Investigation of the Laws of Thought on which are founded the Mathematical Theories of Logic and Probabilities, fornendo un approccio algebrico alla logica aristotelica. (Pare che questa monografia e il libro di De Morgan, Formal Logic, apparvero lo stesso giorno nel novembre 1847). Boole stesso descrisse l’opera come: 
"Un'indagine sulle leggi fondamentali di quelle operazioni della mente con cui viene eseguito il ragionamento; per dar loro espressione nel linguaggio simbolico di un calcolo e, su questa base, per stabilire la scienza della logica e costruire il suo metodo; fare di quel metodo stesso la base di un metodo generale per l'applicazione della dottrina matematica delle probabilità; e infine per raccogliere dai vari elementi di verità riportati nel corso di queste indagini alcuni probabili indizi riguardanti la natura e la costituzione della mente umana".
Boole accettava pienamente la logica di Aristotele. Gli obiettivi di Boole erano "andare sotto, sopra, e oltre" quella costruzione: 
1. Fornendole basi matematiche che coinvolgono equazioni; 
2. Estendendo la classe di problemi che poteva trattare mediante la valutazione della validità per la risoluzione delle equazioni; 
3. Espandendo la gamma di applicazioni che poteva trattare, ad es. dalle proposizioni che hanno solo due termini a quelle che ne hanno arbitrariamente molti. 

Più specificamente, Boole concordava con ciò che aveva detto Aristotele, ma ritenne necessario aggiungere qualche concetto., Boole ridusse le quattro forme proposizionali della logica di Aristotele alle formule sotto forma di equazioni, di per sé un'idea rivoluzionaria. In secondo luogo, nel campo dei problemi della logica, l'aggiunta di Boole della risoluzione di equazioni alla logica - un'altra idea rivoluzionaria - comprendeva la dottrina di Boole secondo cui le regole di inferenza di Aristotele (i "sillogismi perfetti") devono essere integrate da regole per la risoluzione delle equazioni. Terzo, nel campo delle applicazioni, il sistema di Boole poteva gestire proposizioni e argomenti a più termini, mentre Aristotele poteva gestire solo proposizioni e argomentazioni di soggetto-predicato a due termini. 


Queste opere ampliarono l'orizzonte della matematica attraverso la logica simbolica. La matematica classica era incentrata sui concetti di forma e numero: quando venivano impiegati i simboli, venivano solitamente interpretati in termini di numero. Boole introdusse l’idea di interpretare i simboli come classi o insiemi di oggetti: lo studio di insiemi definiti di oggetti poteva essere affrontato attraverso la matematica. De Morgan elogiò il lavoro di Boole sulla logica dicendo:
"Il sistema logico di Boole è solo una delle tante prove di genialità e pazienza combinate ... Che i processi simbolici dell'algebra, inventati come strumenti di calcolo numerico, dovrebbero essere competenti per esprimere ogni atto di pensiero e per fornire la grammatica e il dizionario di un sistema di logica onnicomprensivo non sarebbe stato creduto fino a che non fosse stato dimostrato."
In The Laws of Thought, Boole utilizzò testi di Baruch Spinoza (1632-77) e altri filosofi e esaminò questi testi da un punto di vista logico. Perciò Boole rafforzò il ruolo della logica e questo ebbe un impatto importante sulla filosofia, in particolare attraverso il Circolo di Vienna che, nei primi anni ‘20 del Novecento, sviluppò la filosofia analitica. Dopo la morte di Boole furono scoperti numerosi manoscritti che mostrano che egli intendeva pubblicare un altro libro in cui le sue scoperte nella logica dovevano informare la sua visione personale della filosofia. 


Sebbene l'algebra logica di Boole non sia l'algebra booleana degli insiemi con le operazioni di unione, intersezione e complemento, tuttavia lo scopo delle due algebre è lo stesso, cioè fornire una logica che contempli equazioni per il calcolo delle classi e la logica proposizionale. Il nome "algebra booleana" fu introdotto da Charles Sanders Peirce (1839-1914), poi adottato dal filosofo di Harvard Josiah Royce (1855-1916) intorno al 1900, e infine da tutti. Si riferiva essenzialmente alla versione moderna dell'algebra della logica, introdotta nel 1864 da William Stanley Jevons (1835-1882), una versione che Boole aveva respinto. Per questo motivo, alla parola "booleano" è preferibile il nome di algebra “di Boole” per descrivere l'algebra della logica che Boole effettivamente sviluppò nelle sue opere.

Boole fu colpito dalle capacità computazionali del suo nuovo tipo di algebra. Era sorpreso di scoprire che la sua algebra poteva essere applicata all'arduo compito di risolvere complessi problemi di logica aristotelica. Non fu la prima persona a confondere la logica con il pensiero, e per molti anni pensò di aver scoperto il modo in cui la mente umana funziona e morì deluso dal fatto di non essere riconosciuto per questo. Ma ciò che aveva effettivamente scoperto è come funziona la logica formale. Aveva sviluppato un modo pratico per rappresentare e risolvere matematicamente complessi problemi logici. Durante la sua vita, non ebbe che la sua algebra sarebbe stata la base per una rivoluzione di grande scala, Tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo, la sua logica trovò una pratica applicazione quando fu ampiamente utilizzata per verificare le implicazioni di contratti assicurativi complessi. Ma la logica booleana trovò la sua vera casa tecnologica a metà del XX secolo, quando il pioniere americano del computer Claude Shannon dimostrò nella sua tesi magistrale che i circuiti elettrici binari (quelli che sono rappresentati come solo o "chiusi" o "aperti") si comportano secondo le leggi dell'algebra booleana. Shannon mostrò che la logica complessa poteva essere rappresentata nei circuiti binari, che divennero la base per i computer digitali. 

Durante gli ultimi dieci anni della sua carriera, dal 1855 al 1864, Boole pubblicò altri articoli e due libri di matematica, uno sulle equazioni differenziali e uno sulle equazioni alle differenze parziali, che costituivano il suo primo amore matematico. A Treatise on Differential Equations fu pubblicato nel 1859. Boole fu molto felice quando ricevette la notizia che l'Università di Cambridge aveva adottato questa sua opera lavoro come libro di testo. Tenendo conto dell'impatto del suo lavoro matematico negli ultimi 20 anni, Boole rivide la sua produzione e comprese che molti dei suoi metodi e tecniche in relazione ai problemi di calcolo dovevano essere rivalutati, a causa della loro gamma potenzialmente più ampia di applicazioni. Così si mise al lavoro sul suo quarto e ultimo libro, un libro di testo intitolato A Treatise on the Calculus of Finite Difference. Lo scopo di questo nuovo testo era quello di far luce sulle connessioni tra equazioni alle differenze e equazioni differenziali, mentre metteva a fuoco la potenza dei metodi dell'operatore astratto applicati a una nuova area della matematica. In questo periodo arrivarono importanti onorificenze, dalla Royal Society (Fellowship, 1857), dalla Cambridge Philosophical Society (Membro onorario, 1858) e dall’Università di Oxford (Doctor Civilis Legis, Alto dottorato honoris causa).

A Cork, nel 1850, il futuro caposcuola della logica algebrica conobbe Mary Everest, che era la nipote del Colonnello George Everest, il Topografo Generale dell’India da cui il monte più alto del mondo prese poi il nome. A partire dal 1852, George Boole divenne l’insegnante privato di matematica di Mary e, quando il padre di lei morì nel 1855 senza lasciarle alcun mezzo di sostentamento, Boole le propose di sposarlo. La cerimonia ebbe luogo l’11 settembre 1855. Nonostante una grande differenza d’età (lei aveva 17 anni di meno), si trattò di un matrimonio felice, dal quale nacquero cinque figlie, una delle quali, Alicia, più tardi maritata Stott (1860-1940), sarebbe diventata una valente matematica, esperta nella geometria dimensionale (fu lei a coniare il termine politopo).


Mary Everest Boole era una donna intelligente, che sopravvisse al marito per 52 anni, durante i quali fu divulgatrice delle idee e delle scoperte di George, con una libertà di spirito e concezioni pedagogiche che l’hanno resa a suo modo un’icona del femminismo. Ella, tuttavia ebbe una grande responsabilità proprio nella sua morte. Vediamo come andarono i fatti, secondo il resoconto che ne diede Alexander Macfarlane in Lectures on Ten British Mathematicians of the Nineteenth Century (New York, 1916):
“Un giorno del 1864 egli percorse a piedi le due miglia dalla sua residenza al College sotto un violento acquazzone, e fece lezione con gli abiti bagnati. La conseguenza fu un’infreddatura con febbre, che ben presto si trasformò in una polmonite e pose fine alla sua carriera (…)”. 
Boole non aveva mai goduto di salute robusta. Riguardo alla sua delicata costituzione, Mary Boole disse che soffriva di una "Malattia ereditaria dei polmoni, aggravata dalla residenza in un clima umido, con un sistema nervoso sensibile al massimo grado".

Ciò che la maggior parte delle persone non sa è che George Boole fu assai probabilmente ucciso dall'omeopatia, o almeno da una sua interpretazione eccessivamente letterale. Sfortunatamente per lui, il padre di Mary era stato un fervente seguace delle teorie mediche di Samuel Hahnemann, il fondatore dell’omeopatia, e gli Everest avevano vissuto per anni nella residenza parigina del medico tedesco in rue de Milan, dove anche la futura signora Boole era diventata una discepola delle sue idee eterodosse.

Mary Boole, affascinata dal principio dei simili, cardine del pensiero omeopatico, e cioè che Similia similibus curantur (I simili si curano con i simili), pensò, forse su consiglio di un medico ciarlatano, che il freddo era la miglior cura per un raffreddore e che bisognava esporre George alle stesse condizioni che lo avevano fatto ammalare. Lo mise a letto e gli gettò addosso alcuni secchi d’acqua fredda. Per la donna questo trattamento, che oggi giudicheremmo crudele e avventato, era perfettamente logico. Per diversi giorni Boole rimase a letto mentre Mary bagnava le lenzuola. Il matematico, geniale ma assai ingenuo, lasciò fare, si ammalò di polmonite e morì. Vano fu il tentativo di un medico, il professor Bullen, chiamato troppo tardi al suo capezzale, di curarlo con metodi tradizionali. Boole morì l’8 dicembre 1864 a soli 49 anni. Il certificato di morte indicò la causa del decesso in una pleuro-polmonite e stabilì che la durata della malattia era stata di 17-19 giorni. Fu sepolto nel cimitero della chiesa di St. Michael a Blackrock, nella contea di Cork.


La veridicità di queste vicende è testimoniata da diverse fonti, tra le quali una significativa lettera scritta dalla figlia più piccola, Ethel sposata Voynich, che diventò una grande intellettuale e scrittrice apprezzata. Ethel non nasconde di attribuire alla madre la colpa della morte del padre:
(…) Mia sorella Mary Hinton, che fu sua amica, e che raccolse diversi aneddoti sulla famiglia, mi disse che, almeno secondo Mary Ann [la sorella di Boole], la causa della morte prematura di papà fu ritenuta la fede della Signora [Mary Everest Boole] in un certo bizzarro dottore che prescriveva cure con acqua fredda per ogni cosa. Qualcuno, non sono in grado di ricordare chi, pare che sia entrato in casa e abbia trovato il papà “che tremava tra lenzuola bagnate”. Ora, per quanto mi riguarda, sono incline a credere che ciò possa essere accaduto. Gli Everest sembra proprio che fossero una famiglia di gente eccentrica, che seguiva degli eccentrici. Il padre della Signora a quanto pare adorava Mesmer e Hahnemann e la stessa Signora seguì le teorie fino alla morte”. 
Di sicuro Hahnemann non avrebbe mai “curato” Boole con il metodo sciocco e disgraziato utilizzato da Mary Everest. Il principio dei simili riguarda i principi attivi, i rimedi, che il medico deve utilizzare per produrre una malattia artificiale simile a quella reale, che ad essa si sostituisce per poi scomparire. Le dosi da utilizzare devono essere ridotte al minimo indispensabile, in modo da minimizzare o annullare gli effetti sfavorevoli. Questi rimedi sono somministrati in dosi infinitesimali e opportunamente “dinamizzati”, al punto che è difficile trovarne traccia nella soluzione acquosa o nello zucchero. L’omeopatia fu la causa della morte di Boole solo perché interpretata in modo aberrante. Utilizzata correttamente, essa semplicemente non avrebbe avuto alcun effetto.


martedì 6 ottobre 2015

Un conflitto tra matematici e storici della matematica

“Da quel che abbiamo detto, risulta manifesto anche questo: che compito del poeta è di dire non le cose accadute ma quelle che potrebbero accadere e le possibili secondo verosimiglianza e necessità. Ed infatti lo storico e il poeta non differiscono per il fatto di dire l’uno in prosa e l’altro in versi (giacché l’opera di Erodoto, se fosse posta in versi, non per questo sarebbe meno storia, in versi, di quanto non lo sia senza versi), ma differiscono in questo, che l’uno dice le cose accadute e l’altro quelle che potrebbero accadere. E perciò la poesia è cosa più nobile e più filosofica della storia, perché la poesia tratta piuttosto dell’universale, mentre la storia del particolare. L’universale poi è questo: quali specie di cose a quale specie di persona capiti di dire o di fare secondo verosimiglianza o necessità, al che mira la poesia pur ponendo nomi propri, mentre invece è particolare che cosa Alcibiade fece o che cosa patì”. (Aristotele, Poetica, libro IX). 

Quando Aristotele scriveva queste frasi, pensava a diverse e più ampie questioni che non il rapporto tra la matematica e la sua storia. Ciò nonostante, e forse senza sorpresa, le idee del grande filosofo sono utili anche per far luce in questo ambito più ristretto. 

Una connessione interessante tra la matematica e il brano di Aristotele è stata proposta negli anni '70 dal filosofo e storico della matematica israeliano di origine romena Sabetai Unguru, che ha sottolineato come la distinzione tra poesia e storia si ritrova anche quando si parla di storia della matematica. Le “cose accadute”, cioè il singolare, il peculiare, è l’oggetto della ricerca storica, e lo storico dovrebbe sforzarsi di capirlo e comunicarlo. Le “cose che potrebbero accadere”, in quanto “cosa più nobile e più filosofica della storia” non sono affare dello storico. Esse hanno invece a che fare, come la poesia, con le affermazioni di carattere generale, “secondo verosimiglianza o necessità”, cioè con le leggi matematiche.


Come la poesia, la matematica riguarda gli universali. Come la poesia, essa tenta di scoprire il comportamento di tale e tal tipo di ente universale in virtù del fatto che è ciò che è. Sia la poesia sia la matematica tentano di dire che cosa incarnano questi enti universali o di dire di loro che cosa è “possibile in quanto probabile o necessario”. Al contrario, la storia ha il compito meno entusiasmante di mostrare ciò che è accaduto realmente, non ciò che sarebbe potuto accadere. Solamente i dettagli noiosi e particolari di ciò che è davvero accaduto sono di interesse per la storia, e, mentre le idee universali possono indicare possibili direzioni di ricerca, esse non possono essere in alcun modo un sostituto dell’evidenza storica. 

Lo stesso Aristotele trovò necessario precisare che il confine tra l’approccio storico e quello poetico è piuttosto sfuggente. L’affinità tra matematica e poesia nel senso descritto sopra rende questa distinzione ancor più elusiva, come ha messo in luce l’analisi di Unguru. In effetti, nell’analisi della matematica del passato, i matematici si concentrano spesso sui concetti matematici, sulle regolarità o affinità sottostanti, con lo scopo di trarre conclusioni sulla relazione storica. L’affinità matematica nasce necessariamente dalle proprietà universali degli enti coinvolti e ciò è stato considerato suggerire un certo scenario storico che “avrebbe potuto essere”. Tuttavia, Unguru avverte, bisognerebbe essere molto cauti a non consentire a tali argomentazioni matematiche di portaci a confondere la verità storica (cioè le cose “come sono accadute”), che si può ricostruire solo attraverso la ricerca storica e i suoi metodi, con ciò che altro non è che un possibile scenario matematico. 

Il classico esempio di questo dibattito riguarda proprio una delle affermazioni storiche di Aristotele, e cioè che i Pitagorici scoprirono l’incommensurabilità tra la diagonale e il lato del quadrato. Il filosofo afferma che essi lo provarono per reductio ad absurdum

“Perché tutti coloro che fanno un ragionamento per assurdo deducono sillogisticamente ciò che è falso, e provano l’assunto originale quando qualcosa di impossibile risulta dall’ipotesi del suo contrario; ad esempio, la diagonale del quadrato è incommensurabile con il lato, perché i numeri dispari diventano uguali ai numeri pari, e si prova ipoteticamente l’incommensurabilità della diagonale in quanto risulta una falsità nel contraddirlo”. (Analitici primi, I, 23). 

Ora, guardando alla prova standard moderna della irrazionalità di √2, osserviamo che essa si accorda bene con la descrizione fornita da Aristotele, perché anch’essa si basa sull’assurdo che un numero assunto come dispari debba necessariamente essere pari. Questa affinità matematica è collegata al racconto di Aristotele (nell’approccio “poetico” della storia della matematica) con lo scopo di inferire la validità di un’affermazione puramente storica. Si desume perciò che i Pitagorici provarono l’incommensurabilità tra la diagonale e il lato del quadrato esattamente come oggi si prova che la √2 è un numero irrazionale, ma in realtà non sappiamo come fecero esattamente. Secondo Unguru, perciò, questa conclusione è sbagliata e incarna una visione storiografica totalmente erronea. 

Un terreno privilegiato dello scontro di Unguru con il mainstream della storiografia matematica degli anni ’60-’70 riguardava le conoscenze algebriche degli antichi greci, in particolare quelle di Euclide. Così ad esempio sosteneva C. Boyer nella sua History of Mathematics, 1968: 

“Si é talvolta sostenuto che i Greci non ebbero algebra, ma ciò è chiaramente falso. Essi avevano il Libro II degli Elementi, che è algebra geometrica e aveva lo stesso scopo della nostra algebra simbolica. Non ci può essere alcun dubbio che l’algebra moderna faciliti la manipolazione delle relazioni tra le grandezze. Ma è vero senza dubbio che un geometra greco esperto nei quattordici teoremi dell’algebra di Euclide era molto più a suo agio nell’applicare queste teoremi alla misurazione pratica di quanto lo siano i geometri esperti di oggi.” 

Secondo le linee guida fornite dalla distinzione aristotelica, nel 1975 Unguru richiamò l’attenzione sulla “necessità di riscrivere la storia della matematica greca”, sostenendo che “La storia della matematica è storia, non matematica”. (S. Unguru, On the need to rewrite the history of Greek mathematics, Archive for History of Exact Sciences 15, 1975/76). La tesi principale dell’articolo è che in Euclide si trova della geometria pura e semplice: i matematici greci non utilizzavano alcun apparato di algebra simbolica. 

Tentare di spiegare Euclide come fa Boyer, secondo Unguru, è pericolosamente sbagliato dal punto di vista storico, perché si utilizzano concetti moderni che sono una descrizione falsa di una comprensione della matematica completamente differente. Si tratta di un anacronismo concettuale, che presenta il passato in funzione del presente. Così continuava, con chiaro spirito polemico: 

“... La storia della matematica è stata sempre scritta dai matematici... che o hanno raggiunto l’età della pensione e cessato di essere produttivi nei loro campi oppure sono diventati in qualche modo professionalmente sterili... Il lettore può giudicare da solo che saggia decisione sia per un professionista incominciare a scrivere la storia della sua disciplina quando la sua sola vocazione risiede nella sua senilità professionale”. 

Ciò provocò immediatamente critiche e reazioni avverse, soprattutto da parte di un vecchio matematico di spicco come André Weil, che scrisse una lettera avvelenata all’editor di Archive for History of Exact Sciences per sostenere i colleghi, anch’essi anziani e storici della matematica, Bartel L. van der Waerden e Hans Freudenthal nella loro accusa a Unguru di aver “tradito” Euclide per aver negato che potesse conoscere l’algebra. Weil chiedeva chi fosse il responsabile di aver permesso la pubblicazione di un simile articolo polemico e volgare. E che stava succedendo alla qualità della rivista? Il matematico francese concludeva con un attacco personale “... è bene conoscere la matematica prima di interessarsi della sua storia”. 

In un articolo di replica pubblicato su Isis, Unguru replicava a van der Waerden e Freudenthal, riservando il suo commento su Weil a una nota finale a piè di pagina, in cui perfidamente utilizzava le parole della sorella di Weil, Simone, grande filosofa, scrittrice e mistica: 

“Riguardo a questa lettera [quella di Weil alla rivista], meno se ne parla è meglio è. Nell’adottare questa posizione sono guidato dalle parole di Simone Weil nel suo sensibile e penetrante saggio sull’Iliade: “La forza rende chiunque le è sottomesso pari a una cosa. Esercitata fino in fondo, fa dell’uomo una cosa nel senso più letterale del termine, perché lo rende cadavere. C’era qualcuno e, un istante dopo, non c’è più nessuno”. E “l’uomo che non indossa l’armatura della menzogna non può provare la forza senza essere da lei toccato nel profondo. La grazia può evitarlo senza corromperlo, ma non può risparmiarlo dalla ferita” 

In modo elegante, Unguru rinfacciava a Weil l’uso della forza dell’autorità. Uno tra gli argomenti principali sottostanti la reazione dei matematici alle idee di Unguru riguardava proprio il problema dell’autorità per ciò che riguarda la conoscenza matematica. Questa autorità sembrava ora contestata da un outsider che osava mettere in discussione l’idea che di storia della matematica potessero occuparsi solo i matematici. Weil ebbe modo di sostenere questa idea al Congresso dei Matematici che si tenne a Helsinki nel 1978, con una relazione intitolata “Storia della matematica: perché e come.” In realtà il tono dell’intervento sembrava maggiormente rispondere non al perché è al come, ma al “chi” dovesse occuparsi di storia della matematica. “Quanta conoscenza matematica bisogna possedere per occuparsi della storia della matematica?”, domandò retoricamente, e nella risposta, come ci attendeva, un ruolo importante era affidato all’autorità: 

“Non c’è alcun dubbio che uno scienziato può possedere o acquisire le qualità necessarie per fare un lavoro eccellente nella storia della sua disciplina; tanto maggiore è il suo talento come scienziato, tanto migliore è probabile che sia il suo lavoro storico”. 

Come membro fondatore del gruppo Bourbaki, Weil aveva prodotto non solo molte delle idee di base della matematica bourbakista, ma anche della storiografia del gruppo, essendo quest’ultima uno degli esempi più salienti di ciò è stata polemicamente definita “la strada reale al genere personale di storiografia” (Ivor Grattan-Guinness). Secondo Weil, la buona storia della matematica si fa basandosi principalmente su considerazioni puramente matematiche e perciò deve essere fatta esclusivamente dai matematici, preferibilmente dai più importanti ed esperti (e magari francesi...). 


Nel corso degli ultimi quarant'anni, il genere di storiografia proposta da Unguru si è andata affermando, soprattutto nel caso dell’algebra e della geometria nella matematica greca. La maggior parte degli appartenenti alle nuove generazioni di storici della matematica ha accettato le idee e la metodologia proposte da lui e evita accuratamente di utilizzare argomenti matematici per “spiegare” la storia della matematica. Possiamo ad esempio considerare il tentativo di Saccheri di dimostrare il V postulato di Euclide come precursore della scoperta delle geometrie sferica e iperbolica, ma non possiamo evitare di considerare che egli lavorava in un contesto completamente euclideo (era un “gesuita euclideo”).

Chi fa storia della matematica deve conoscere la matematica (come anche chi scrive narrativa sulla matematica), ma non necessariamente dev’essere un matematico di professione. Concludo con una domanda: e chi fa divulgazione della matematica quali competenze deve avere?

martedì 23 luglio 2013

Heavy meta

Strano destino quello della preposizione greca μετά (meta), che significava “dopo”, “a fianco di”, “con”, “stesso”, con variazioni di senso che dipendevano dalla declinazione della parola successiva. Dalla preposizione derivò il prefisso μετα-, più o meno con gli stessi significati.

Quando Andronico di Rodi, scolarca della ricostituita scuola peripatetica, pubblicò nel primo secolo a. C. una nuova edizione delle opere di Aristotele (quella che costituisce il Corpus Aristotelicum oggi noto), chiamò Metafisica una serie di scritti in cui il grande filosofo si occupava della natura degli enti fisici, tra i quali la divinità, in quanto esseri. Questi trattati furono chiamati τὰ μετὰ τὰ φυσικά (“ciò che viene dopo la Fisica”) per il semplice fatto che essi nella compilazione venivano dopo il libro dedicato alla Fisica. L’espressione venne però interpretata diversamente, come se il suo oggetto fosse “ciò che va oltre la fisica”, in quanto divino. Quel prefisso meta-, utilizzato da Andronico con un’accezione puramente locativa (post-), venne a significare un superamento, un’uscita da (trans-) per cui la metafisica divenne lo studio di ciò che va oltre le cose naturali, la scienza delle cose divine.

A Roma la parola “metafisica” arrivò con questo secondo significato, che divenne quello definitivo anche perché venne fatto proprio dal cristianesimo. Sul calco di metafisica si sono coniate nel Novecento moltissime parole, soprattutto in ambito scientifico, in cui il prefisso indica, di volta in volta, una trasformazione, un’evoluzione, uno sviluppo, una derivazione (“posteriorità, mutamento, trasformazione” secondo il Dizionario delle Scienze Fisiche Treccani del 2012). In chimica le cose sono leggermente diverse e più specifiche, ma non è il caso adesso di aggiungere troppa carne al fuoco.

In campo matematico il prefisso cominciò a essere usato alla fine della grande discussione sui fondamenti e del tentativo di basare le matematiche su sistemi logico-formali. Le geometrie non-euclidee, alla metà dell’Ottocento, avevano portato all'abbandono del sogno cartesiano e kantiano dell'autoevidenza degli assiomi posti alla base della matematica, che diventava scienza di relazioni sintattiche fra simboli del suo linguaggio: la validità della deduzione matematica non dipende dal particolare significato che può essere associato ai termini o alle espressioni contenute nei postulati. In parole povere: non è fondamentale che esista davvero un lonfo, ma che un quadrato con tre lonfi per lato contenga davvero nove lonfi. Ciò che importa al matematico puro è la struttura delle affermazioni piuttosto che la natura particolare del loro contenuto: egli non si preoccupa se i postulati che ammette o le conclusioni che trae dai primi sono veri, ma se le conclusioni avanzate siano le conclusioni logiche necessarie delle ipotesi da cui è partito.

Una volta che non si suppone più la verità dei postulati, nasce il problema di come provare almeno la coerenza dei sistemi attraverso i quali facciamo le nostre deduzioni. Tutti i grandi matematici che, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, provarono, consci di quella che prese il nome di crisi dei fondamenti, a rifondare le matematiche su basi diverse (gli insiemi, la logica, le classi) si imbatterono però nel grande problema delle antinomie, cioè delle contraddizioni interne: il fatto di arrivare, partendo dalle stesse premesse, a conclusioni logiche opposte. Per un motivo o per l’altro, capitava di dover ammettere che un lonfo barigatta e contemporaneamente non lo fa.

Si arrivò almeno a concordare su che cosa sia un sistema formale, cioè un sistema simbolico senza interpretazione (chissene se un lonfo esiste davvero), con una sintassi (le regole di combinazione dei simboli) definita in un modo rigoroso, sul quale è definita una relazione di deducibilità in termini puramente sintattici (deve essere possibile ricavare delle conclusioni facendo ricorso esclusivamente alle regole sintattiche interne al sistema). Le principali proprietà di un sistema formale sono:
a) la consistenza, o coerenza: un linguaggio formale è consistente se non contiene formule contraddittorie, cioè non capita che una delle sue formule e la sua negazione siano costruibili o dimostrabili al suo interno;
b) la completezza: è la proprietà per cui tale sistema è sufficiente per decidere di ogni proposizione correttamente costruita e/o formulata a partire dalle proposizioni-base di quel linguaggio. Detto in altro modo, un sistema è completo quando è possibile dimostrare al suo interno ogni formula dimostrabile, oppure la sua negazione;
c) la decidibilità: un enunciato formulabile in un dato sistema formale è decidibile se è dimostrabile come vero o falso all'interno di tale sistema. Se non è così, succede ciò che descrissi tempo fa in questo limerick:

In un vecchio libro, una certa sera
lessi una frase che passò leggera:
“Una fata mi ha giurato
che il loro mondo è inventato”
che, se è vera, è falsa e, se è falsa, è vera.


Ancor prima che Kurt Gödel dimostrasse nel 1931 che è impossibile per un sistema formale coerente come l’aritmetica dimostrare la propria coerenza, si arrivò a parlare di metamatematica e metalogica, cioè di teorie che studino il funzionamento della matematica e della logica superandole, trascendendole. Così, mentre la logica studia il modo in cui i sistemi logici possono essere usati per costruire argomenti validi e corretti, la metalogica studia le proprietà dei sistemi logici stessi. Analogamente, la metamatematica è lo studio della matematica mediante metodi matematici: questo studio produce metateorie, che sono teorie matematiche su altre teorie matematiche. Un'immagine significativa di tutti questi meta- è il simbolo dell’ouroburos, il serpente che si morde la coda (invece non sappiamo se esiste tra i lonfi una simile abitudine).

L’Oxford Dictionary, attento a registrare tutto ciò che capita alla lingua inglese, annota per la prima volta il termine metamathematics nel 1929, ma il concetto era già presente nei lavori del grande matematico tedesco David Hilbert, colui che già nel 1900 aveva enunciato tra le grandi sfide del secolo incipiente proprio la dimostrazione che gli assiomi dell’aritmetica sono coerenti e che, intorno agli anni ‘20, con il suo Programma, aveva tentato di formalizzare tutte le teorie matematiche esistenti attraverso un insieme finito di assiomi, e dimostrare che questi assiomi non conducevano a contraddizioni, per esempio che la proposizione A e la sua negazione non-A siano entrambi teoremi. Già ho detto che il sogno di Hilbert fu frustrato da Gödel, ma fu proprio il meta- che consentì di superare certe difficoltà: si trovarono strade diverse, e la ricerca continua ancor oggi.

Nel 1937 Willard Quine utilizzò per primo il termine metateorema nell’articolo Logic Based on Inclusion and Abstraction, per indicare “un X che riguarda X”, cioè l’equivalenza di strutture logiche (la metafisica, al contrario, va oltre la fisica, ma non ha la sua stessa struttura, è “un Y che riguarda X”). Così formulato da Quine, l’ouroboros di cui ho parlato può essere visto in termini di autoreferenza, con tutte le conseguenze, anche ludiche, di cui mi sono occupato in un precedente articolo.

Quine è infatti ampiamente citato nelle opere di Douglas Hofstadter, che, nel suo Gödel, Escher, Bach (1979) e nel successivo Metamagical Themas, ha reso popolare il nostro meta. Hofstadter addirittura lo usa come aggettivo, o come preposizione (“going meta”, così come esiste “going to”, per indicare che si porta la discussione su un altro livello di astrazione). Grazie a Hofstadter, e al successo del suo bellissimo testo, oramai il prefisso meta- è diventato di uso comune, soprattutto per indicare autoreferenze o quel tipo di cortocircuiti logici che gli anglosassoni chiamano strange loops

Oggi esistono persino i meta-jokes, o meta-barzellette, battute autoreferenziali, o che si riferiscono ad altre battute, come quella di un italiano, un francese e un americano che entrano in un bar e il barista chiede: “Che cos'è, una barzelletta?”.