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giovedì 16 giugno 2022

Bloomsday! Ulysses, o della complessità

 


The gift you gave is desire 
The match that started my fire 

(The Style Concil. The Paris Match, 1984)


C’è passaggio dell'Ulysses, nell'episodio Eolo, dedicato alla retorica, che ha suscitato diversi commenti sulla evidente parodia di Joyce delle convenzioni della stampa, del linguaggio forense e della narrativa vittoriana. 
“Pausa. J.J. O'Molloy prese l’astuccio delle sigarette. 
Quiete apparente. Qualcosa di abbastanza ordinario. 
Il messaggero prese la scatola di fiammiferi con fare pensieroso e accese il suo sigaro. 
Da allora ho spesso pensato, riconsiderando quel tempo strano, che sia stato quel tale atto minimo, banale in sé, l’aver acceso quel fiammifero, a determinare interamente il successivo corso di entrambe le nostre vite”. 
(Traduzione di Enrico Terrinoni) 
Nel contesto in cui si trova, la frase finale è enigmatica, e i lettori potrebbero essere tentati di dimenticarla come semplicemente assurda. La parodia è certamente coinvolta (parte della prosa di Charles Dickens è ripetuta testualmente), ma a un esame più attento la frase dice molto su ciò che Joyce una volta chiamava "il significato delle cose banali" e sui suoi audaci esperimenti narrativi. Questa interpolazione del "messaggero", tuttavia, ha per l’Ulysses un significato interessante. Ad esempio, si potrebbero interpretare i cambiamenti della narrazione come un ulteriore movimento nel flusso di coscienza di Stephen Dedalus. Allo stesso modo, Stephen, all'interno del passaggio stesso, si difende dalle seduzioni della retorica, prima preparandosi a sentire "qualcosa di abbastanza ordinario" e poi fornendo questo "qualcosa di ordinario": un portentoso cliché narrativo, la sua banalità rafforzata dal suo stile goffo. 

Questa intrusione testuale ci ricorda tre fatti fondamentali della nostra esistenza: (1) cause minute possono avere conseguenze molto grandi, (2) gli eventi sembrano essere puramente accidentali e contingenti nel momento in cui si verificano, e (3) questi stessi eventi, una volta spostati nel passato e rivisti, sembrano essere stati completamente deterministici, per “determinare interamente il successivo corso di entrambe le nostre vite”.

In Ulysses, James Joyce anticipa in modo inquietante la prospettiva dei teorici della complessità e condivide le implicazioni filosofiche della loro visione del mondo. Inoltre, comprendere l’Ulysses alla luce della teoria della complessità può migliorare sostanzialmente il nostro senso di come il romanzo dovrebbe essere letto e interpretato. 


Ma che cosa intendiamo per complessità? In generale, tutte le sostanze in natura che sperimentiamo attraverso i nostri organi sensoriali sono sistemi costituiti da un gran numero di particelle, atomi o molecole. In tali sistemi con molte particelle, interazioni appropriate tra i componenti provocano i cosiddetti fenomeni cooperativi e danno origine a proprietà collettive dell'intero sistema, che potrebbero non essere ridotte alle proprietà dei singoli componenti del sistema. 

Sebbene non esista una definizione precisa di complessità, essa è solitamente caratterizzata da una grande variabilità derivante dalle interazioni non lineari tra i componenti. Più precisamente, un sistema complesso è spesso descritto dalle seguenti tre caratteristiche: 

1) è un sistema con un gran numero di componenti. Le interazioni non lineari tra i componenti portano all'emergere di proprietà collettive irriducibili ai singoli componenti. Pertanto, osservando il sistema complesso con un’analisi microscopica oppure macroscopica, si trovano nuovi dettagli e diversità presenti in ogni fase e strutture autorganizzate di tutte le dimensioni; 
2) è un sistema aperto (una “opera aperta” avrebbe detto Eco). Di conseguenza un sistema complesso continua a scambiare energia e/o informazioni con l'ambiente circostante e mostra l'emergere di nuovi stati, mentre un sistema chiuso e isolato dal mondo esterno dovrebbe raggiungere un equilibrio; 
3) implica una grande variabilità al confine tra ordine e disordine. Ciò significa che il sistema complesso costruisce una struttura moderatamente stabile tra ordine e disordine e possiede flessibilità verso nuove possibilità. 

La grande variabilità può portare a imprevedibilità, nel senso che piccole differenze nelle condizioni iniziali possono portare a risultati totalmente diversi. Un sistema complesso con una variabilità così ampia mostra flessibilità nell'adattamento ai cambiamenti della situazione, come l'ambiente, e cerca costantemente altre possibilità scambiando influenze con l'ambiente circostante. In breve, la complessità implica nuove possibilità. 


A questo proposito, tre aspetti importanti della teoria hanno fondamentalmente modificato il modo in cui gli esperti affrontano lo studio di fenomeni vari come il tempo, i mercati delle materie prime, la tettonica a placche, l'evoluzione, l'epidemiologia, la dinamica delle popolazioni negli ecosistemi, la distribuzione delle galassie, e così via. Queste caratteristiche sono (1) il principio di dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali e il ruolo correlato del feedback (retroazione) nei sistemi dinamici, (2) l'enfasi sulla spiegazione scientifica, piuttosto che sulla previsione, e (3) il concetto di schema, innato o emergente, nei sistemi caotici. Si possono disegnare anche correlazioni con gli equivalenti letterari di questi principi in Ulisse (e in altre opere totali, come ad esempio Cent’anni di solitudine di Garcia Marques o I detective selvaggi di Bolaño), certamente non pensando che Joyce fosse consapevole della teoria della complessità circa quarant'anni prima dei suoi primi sviluppi, ma dalla constatazione che egli anticipa l'obiettivo ricercato dai contemporanei nella scienza: un'immagine più accurata del mondo in tutta la sua complessità e apparente casualità. I recenti sviluppi della critica di Joyce, e della teoria critica in generale, offrono alcuni illuminanti parallelismi con il cambio di paradigma che si sta verificando nelle scienze. 

La visione del mondo cartesiana e newtoniana dipingeva il cosmo come guidato da forze piuttosto semplici e tre secoli di tradizione cartesiana hanno applicato il "rasoio di Occam" alla ricerca, supponendo che tutti i fenomeni possano, e alla fine saranno compresi come risultato di semplici regole, o leggi. Negli studi letterari il termine "convenzione" ha la stessa forza delle "leggi" della scienza, per cui non sembra essere un caso che, all’inizio del secolo XX, contemporaneamente all'indebolimento della convinzione dello scienziato di un cosmo spiegabile e prevedibile, l'adesione dello scrittore alle convenzioni come assolute cominciò a vacillare. Tuttavia, ancora generalmente fiduciosi che tutti gli eventi fossero riducibili alla semplicità, gli scienziati ignoravano sistematicamente quei fenomeni complessi che sembravano intrattabili per la modellazione matematica e l'analisi scientifica. Si consideri ad esempio il principio meccanico che per ogni azione c'è una reazione uguale e contraria; due logiche conseguenze di questa idea sono l'assunto che piccole cause abbiano piccoli effetti e che grandi cause abbiano grandi effetti. Una delle prime conclusioni della teoria della complessità, tuttavia, era lo studio di molti eventi reali in natura in cui piccole cause producono enormi conseguenze. Spesso, differenze anche minime nelle condizioni iniziali di un sistema dinamico, infatti, portano a grandi differenze nel tempo, differenze sia imprevedibili che apparentemente non analizzabili. Questo principio di dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali è stato soprannominato "effetto farfalla", dalla descrizione della dinamica dei sistemi meteorologici fatta dal meteorologo Edward Lorenz. A meno che i meteorologi non dispongano di informazioni infinitamente precise per ogni millimetro cubo dell'atmosfera - la temperatura esatta, la velocità del vento, la pressione atmosferica e così via - istante per istante, non saranno in grado di prevedere il tempo futuro con assoluta certezza. Lorenz dimostrò che la "prevedibilità", l'obiettivo amato da Laplace, se non da Newton, e da generazioni di scienziati da allora in poi, è irraggiungibile in termini globali. Non c'è da stupirsi, quindi, che gli scienziati chiamano “caotici” questi sistemi sensibilmente dipendenti da piccole variazioni delle condizioni iniziali. 


In realtà, l'effetto farfalla di Lorenz non è una formulazione del tutto originale; il matematico francese Poincaré aveva osservato all’inizio del Novecento qualcosa di molto simile nelle equazioni non lineari, e lo scozzese Maxwell, aveva anticipato Joyce in una lettera, illustrando una simile sproporzione tra causa ed effetto: "Il fiammifero è responsabile dell'incendio boschivo, ma il riferimento a un fiammifero non basta per capire il fuoco". Allo stesso modo, le fantasticherie di Stephen secondo cui l'accensione del sigaro da parte del messaggero, "l’aver acceso quel fiammifero", potrebbe determinare "il successivo corso di entrambe le nostre vite", non sembra una profonda intuizione metafisica; anzi, suona molto come un cliché. E se è un cliché, è perché Stephen riflette, attraverso uno stile narrativo convenzionale, qualcosa che spesso si pensa e si riconosce nell'esperienza quotidiana: la sensibile dipendenza dei nostri destini da condizioni iniziali apparentemente piccole e accidentali. Nonostante il suo status di luogo comune, Joyce in effetti costruisce il suo intero romanzo proprio su un "piccolo atto, di per sé banale", l’incontro di Stephen e Bloom. La stessa formulazione di Lorenz del suo effetto farfalla illustra il principio di cui parla, perché la reiterazione di un'idea familiare ha generato, attraverso una serie di conseguenze, un massiccio orientamento del pensiero contemporaneo verso la complessità, l'irregolarità e l'imprevedibile confusione del mondo come lo viviamo. La teoria dei sistemi complessi spinge la scienza verso la descrizione del mondo reale e indica che la complessità è radicata nel semplice, in un modo molto diverso dalla concezione tradizionale della semplicità.

Comprendiamo il passaggio del messaggero perché tutti noi a volte abbiamo ripensato a una serie di eventi che abbiamo vissuto e ci siamo chiesti: se non avessi fatto quella cosa in quel momento, e poi quell’altra, eccetera, verso qualche calamità o fortuna, incontrata o mancata. Allo stesso modo, in Circe, Bloom osserva: "Però non puoi salvarti sempre. A superare la vetrina di Truelock quel giorno due minuti più tardi, mi avrebbero sparato”. Tale riflessione è semplicemente la disposizione retrospettiva di una catena di effetti moltiplicatori che emerge da un'unica causa ultima. Attraverso questa catena, un certo effetto risultante da una causa precedente viene "alimentato" nel collegamento causale successivo, portando all'effetto successivo che, a sua volta, viene reimmesso nel collegamento successivo. In effetti, questo principio di feedback caratterizza tutti i fenomeni sensibilmente dipendenti, intensificando esponenzialmente gli effetti anche della più umile delle cause. 

Se dovessimo rappresentare graficamente la relazione di azione e reazione in un sistema dinamico caratterizzato da tale feedback, non otterremo la retta diagonale di un classico sistema newtoniano, dove cause equivalenti creano effetti equivalenti: quindi, gli scienziati chiamano tali sistemi "non lineari". Le nostre vite, il nostro mondo e "quasi tutto il resto che ci interessa" sono decisamente non lineari. 


Un classico esempio di sistema non lineare, caratterizzato da feedback, è la fluttuazione irregolare delle popolazioni negli ecosistemi. Una varietà di circostanze influenzerà la crescita e il declino di una popolazione, per esempio di insetti in un particolare ambiente: tassi di riproduzione, disponibilità di cibo, popolazioni di predatori, ecc. Una delle più importanti di queste condizioni, ovviamente, è la popolazione della generazione precedente, i genitori della generazione successiva. I biologi delle popolazioni talvolta usano ancora la vecchia (1838) equazione logistica di Verhulst, per proiettare i tassi di crescita; l'equazione differenziale di Verhulst include un fattore che stima la popolazione attuale. Questo modello assume che il tasso di riproduzione è proporzionale alla popolazione esistente e all'ammontare di risorse disponibili. 

Questa equazione è così sensibilmente dipendente che un errore di solo un decimo di biliardesimo (uno seguito da sedici zeri) nella stima del numero di insetti nello stagno renderà il calcolo della popolazione, dopo cinquanta cicli (o iterazioni dell'equazione), totalmente inaffidabile. Per accertare la probabile crescita o il declino della popolazione nell'arco di diversi anni, si dovrebbe avere una cifra incredibilmente esatta per la popolazione del primo anno; qualsiasi errore verrà restituito ogni volta che l'equazione viene ricalcolata (iterata) per un anno successivo. Quindi, se il nostro margine di errore non può essere maggiore di 1 x 10-16, un'accuratezza di gran lunga superiore alla capacità umana, perché dovremmo anche tentare la previsione nell'analizzare il comportamento di tali sistemi non lineari? Una risposta ovvia è che questi sistemi sono, dopo tutto, i più caratteristici della vita come la conosciamo; non possiamo semplicemente abbandonare lo studio della non linearità. Tuttavia, se non possiamo proiettare il loro comportamento, quale dovrebbe essere il nostro obiettivo nell'esaminare i sistemi non lineari? Questa è precisamente la domanda affrontata dalle scienze della complessità. Una delle conseguenze più importanti del cambio di paradigma verso la ricerca sulla complessità è che gli scienziati hanno riconosciuto di non poter avventurarsi nella previsione, ma di dover accontentarsi della spiegazione. In breve, nelle parole “relativistiche” di Joyce nel capitolo del Finnegans Wake, gli scienziati della complessità hanno trovato nel cosmo un "caosmo" (un neologismo che avrà una certa fortuna nella filosofia contemporanea, da Deleuze a Derrida). 
“every person, place and thing in the chaosmos of Alle anyway connected with the gobblydumped turkery was moving and changing every part of the time”. 

“ogni persona, luogo e cosa nel caosmo del Tutto comunque connesso con la turcheria mal digerita si muoveva e cambiava ogni parte del tempo” 
(traduzione mia) 
Esiste un’analogia in letteratura per il fenomeno del feedback che rende il comportamento dei sistemi dinamici imprevedibile e irrimediabilmente complesso. Nell'atto stesso della lettura, la risposta del singolo lettore altera il comportamento del "sistema", del libro, ad ogni "iterazione" o lettura. Gli stessi e molti lettori aggiuntivi eseguono successive iterazioni/letture: in tutti i casi, i prodotti dell'esperienza saranno diversi, a volte con cambiamenti imprevedibili e vasti nei risultati. Il comportamento di Joyce, spesso notato, come lettore del proprio lavoro, trasmettendo nel testo la sua precedente esperienza del testo, intensifica questa caotica complessità. La crescita esponenziale di Ulisse dal suo primo stato come racconto destinato a essere incluso nei Racconti di Dublino ai metodi di composizione incrementali ben documentati di Joyce sia per Ulysses che per Finnegans Wake, è parallela al comportamento dei sistemi dinamici non lineari che si avvicinano alla turbolenza caotica. Le condizioni iniziali apparentemente semplici del testo di Joyce si avvicinano e mantengono un precario equilibrio sul cosiddetto "limite del caos", quella regione dove risiede la più grande diversità e creatività in natura. 

Come ha scritto Umberto Eco, “è superfluo qui richiamare alla mente del lettore, come esemplare massimo di opera " aperta " - intesa proprio a dare una immagine di una precisa condizione esistenziale e ontologica dcl mondo contemporaneo - l'opera di James Joyce. In Ulysses un capitolo come quello delle Wandering Rocks costituisce un piccolo universo riguar­dabile da vari angoli prospettici, dove l'ultimo ricordo di una poetica di stampo aristotelico, e con essa di un decorso univoco del tempo in uno spazio omogeneo, è del tutto scomparso. Come si è espresso Edmund Wil­son : “La sua forza (di Ulysses), invece di seguire una linea, espande se stessa in ogni dimensione (inclusa quel­la del Tempo) intorno a un singolo punto. Il mondo di Ulysses è animato da una vita complessa e inesauri­bile: noi lo rivisitiamo come faremmo per una città, dove torniamo più volte per riconoscere i volti, comprendere le personalità, porre relazioni e correnti di interessi. Joyce ha esercitato una considerevole ingegnosità tecnica per in­trodurci agli elementi della sua storia in un ordine tale che ci rende capaci di trovare da noi le nostre vie (...) E quando lo rileggiamo, noi possiamo incominciare da qualsiasi punto, come se fossimo di fronte a qualcosa di solido come una città che esista veramente nello spazio e nella quale si possa entrare da qualsiasi direzione - così come Joyce ha detto, componendo il suo libro, di aver lavorato contemporaneamente alle varie parti". 


La nuova enfasi sulla descrizione piuttosto che sulla previsione come obiettivo della scienza, il recente allontanamento dal sogno di Laplace di risolvere i misteri della macchina universale, significa, tra l'altro, che le arti e le scienze stanno nuovamente camminando su un terreno parallelo. Da un lato, la descrizione è sempre stata l'attività delle arti letterarie e visive. D'altra parte, i ritratti del caos generati al computer, ad esempio l’insieme di Mandelbrot, una rappresentazione grafica del comportamento di un'equazione non lineare reiterata molto semplice, sono diventati una nuova forma d'arte, che adorna copertine di libri, t-shirt e manifesti; il successo dei volumi con tali "ritratti del caos" suggerisce che il confine tra arte generata dal computer e arte non rappresentativa è davvero sottile. I fisici teorici, come Stephen Hawking nella sua Breve storia del tempo, hanno previsto la riunificazione di fisica e metafisica nel prossimo futuro; i ricercatori del Santa Fe Institute for the Study of Complexity affrontano la loro materia nello stesso modo in cui alcuni critici praticano l'analisi della letteratura. Questo non è del tutto casuale, dal momento che uno dei fondatori del Santa Fe Institute era Murray Gell-Mann, che si era rivolto al Finnegans Wake per trovare un nome per una particella elementare nella fisica quantistica, il "quark". 


Se la teoria del caos ci mostra che un sistema dinamico non lineare apparentemente semplice può generare fenomeni di straordinaria complessità, vale anche il contrario: che le semplici radici di fenomeni estremamente complessi possono essere scoperte da un'analisi minuziosamente dettagliata, che il caos ha un disegno profondamente radicato. I ritratti del caos, resi possibili dai progressi tecnologici, dai computer in grado di reiterare equazioni non lineari centinaia di migliaia di volte in poche ore, hanno dato agli scienziati le prime intuizioni che il caos potrebbe rivelare qualche forma di ordine. Così anche le statistiche erratiche come le distribuzioni della popolazione, che fino a poco tempo fa potevano essere studiate solo per pochi cicli alla volta, sembrano ordinate in modo intricato quando abbiamo a disposizione molte migliaia di dati e computer molto potenti. L'implicazione più notevole della teoria del caos, infatti, è la reintroduzione del concetto di struttura nei fenomeni naturali, una dinamica di natura antientropica e auto-organizzativa (Prigogine), ma che comunque è al di là dell'influenza o del controllo del singolo osservatore.

L’Ulysses, un romanzo che molti lettori hanno percepito come caotico e incomprensibile, illustra bene la distinzione tra struttura immanente ed emergente in un sistema non lineare. Come tutti sappiamo, Joyce stesso ha inserito nel suo romanzo una serie di strutture organizzative: il mito omerico, le allusioni all'Amleto, alla storia irlandese, e così via. Questi rappresentano il disegno immanente del romanzo, le strutture deterministiche del creatore, del legislatore. La struttura emergente di Ulysses, tuttavia, comprende quelle caratteristiche casuali del romanzo, come i messaggeri o gli accenditori di fiammiferi, ognuno di loro apparentemente privo di intenzioni. Tuttavia, questi dettagli apparentemente casuali e gradualmente emergenti si combinano progressivamente in una comunità di comportamenti mentre il romanzo assume una mente e una vita propria. Solo in rari momenti Stephen intuisce vagamente di abitare nel sistema ordinato di un romanzo. Bloom non ha idea di ricapitolare le peregrinazioni di Ulisse. Allo stesso modo, nessun neurone cerebrale ha alcuna "idea" di agire collettivamente con altri neuroni, fornendo a un'altra entità l'esperienza molto più ampia e complessa di un'idea. Vivendo all'interno di un sistema, come un romanzo, Stephen e Bloom e tutti gli altri personaggi del libro non riescono a cogliere il disegno che li contiene. 

Anche l'opera letteraria contemporanea nasce da una concezione semplice, un "fiammifero acceso", ma si sviluppa in un sistema complesso, come l'incendio boschivo, o come il tempo, o meglio ancora come quei sistemi adattativi complessi come il mercato azionario, o la comunità internazionale, dove la mente dell'uomo, una specie di ali di farfalla, può generare fluttuazioni di comportamento ancora più imprevedibili. Un romanzo dinamico non lineare come Ulysses si autoalimenta, adattandosi e influenzando i suoi molteplici contesti, e assimila il lettore nella sua complessità. Ulysses si allontana dal mondo ordinato e statico del sistema stabile, non nel caos, ma verso il limite della complessità, l'orlo del caos, dove le piccole cause hanno grandi effetti e dove si trovano sia la vita stessa sia le grandi opere letterarie. 

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Fonti principali:
 
Umberto Eco, Opera aperta, Bompiani, 1962
Thomas Jackson Rice, Ulysses, Chaos, and Complexity, University of Illinois Press, 1997 

venerdì 4 giugno 2021

L'inestricabile groviglio di Barbilian / Barbu, matematico e poeta


Dan Barbilian (1895-1961) è stato professore di algebra all'Università di Bucarest e autore di originali opere nei campi della geometria, dell'assiomatica, dell'algebra e teoria dei numeri, Con lo pseudonimo di Ion Barbu, pubblicò sin da quando era un adolescente un centinaio di poesie, con il tempo sempre più simboliste ed ermetiche, che sono ancora oggi incluse nei canoni della letteratura rumena. La sua ultima e importante raccolta, Joc secund (letteralmente "Gioco secondo", ma per l’autore è il gioco della poesia), risale al 1930: per i successivi trent'anni si dedicò esclusivamente alla matematica, affermando che non era in grado di praticare con successo entrambi i campi e che la poesia lo aveva sconfitto (Barbilian e Barbu non potevano più coesistere). Continuò, tuttavia, a scrivere di teoria poetica, cercando di articolare una "assiomatizzazione" della poesia in una forma "pura" universalmente rappresentativa. Il suo metodo era ispirato e informato dai progressi contemporanei in matematica e dai tentativi formali di sistematizzare e unificare aree di ricerca fino ad allora separate. Alla fine, estese la sua teoria poetica in una visione per la quale la matematica, correttamente e creativamente intesa, dovrebbe costituire la base di tutto l’apprendimento, in una sorta di umanesimo matematico: “Cosa distingue l'umanesimo matematico dall'umanesimo classico? In due parole: una certa modestia di spirito e sottomissione all'obiettivo. Un'educazione matematica, anche se alla fine viene valorizzata attraverso quella letteraria, aggiunge un certo rispetto per le circostanze create fuori di noi, e per la collaborazione con un dato materiale”.

Nel 1927, in un’intervista, Barbilian utilizzò un'esplicita metafora algebrica per descrivere la sua forma preferita di poesia, invocando la teoria invariante dei gruppi: “La poesia dovrebbe preservare gli invarianti di fronte a determinati gruppi di trasformazioni verbali”. Nelle operazioni di un gruppo, alcune caratteristiche devono essere preservate, mentre gli elementi, o le parole stesse, possono muoversi o essere manipolate in altro modo. Il suggerimento qui è che la formazione della poesia può essere vista come una permutazione o giustapposizione di elementi che sono parole: lo scrittore presenta blocchi di idee, o immagini, e dalla loro congiunzione e relazione tra loro, il lettore può trarre varie inferenze, entro i limiti di ciò che è possibile all'interno di quel “gruppo” di permutazioni ammissibili; cioè preservando gli invarianti.

La teoria poetica di Barbilian presuppone che le restrizioni all'uso della metafora matematica siano di fatto liberatorie, in quanto consentono una rappresentazione “pura” e meno individuale delle inferenze, sentimento certamente sentito dai membri dell’Oulipo nei loro esperimenti con contraintes. Barbu adotta un approccio consapevolmente e deliberatamente matematico alla poesia, partendo da blocchi di immagini o idee discrete, giustapponendoli e organizzandoli per creare una struttura di interpretazione. Il suo metodo assomiglia a quello assiomatico, hilbertiano, in cui la metafora è astratta e per molti aspetti impersonale. Tuttavia, l'interpretazione richiesta al lettore è profondamente individuale, dati i suoi scarsi riferimenti a immagini comuni condivise. Dal punto di vista del fruitore, si tratta di poesia ermetica, ostica, di difficile interpretazione e traduzione, al punto che Barbu costituisce un caso esemplare negli studi sulla cosiddetta “intraducibilità”.

Per Barbu il metodo è importante quanto il risultato stesso, è insito anche nella poetica. Se la poesia e la poetica sono comunemente indagate dal punto di vista della forma e dei principi creativi, Barbu estende questo metodo basandosi sulla sua immersione negli sviluppi matematici contemporanei dell'algebra astratta e dei fondamenti della matematica.

Joc secund vide la luce nel 1930, ma Barbilian pubblicò gran parte dei suoi scritti teorici solo dopo la Seconda guerra mondiale, negli anni '40 e '50. Un campo matematico sviluppato in questo periodo fu la teoria delle categorie, introdotta per la prima volta nel 1945 da Eilenberg e Mac Lane come un nuovo sistema di descrizione e organizzazione di strutture e sistemi di strutture matematiche astratte. Una categoria è una raccolta di oggetti insieme a morfismi, in cui i morfismi possono essere visualizzati come mappe o relazioni definite (spesso rappresentate come frecce) tra gli oggetti. Nelle categorie sono le relazioni e le loro qualità di conservazione che sono significative. Il Joc secund di Barbu, ad esempio, si presta immediatamente a un'analisi teorica su queste basi, con i suoi elementi ripetuti all'interno e attraverso le poesie, la struttura stratificata e le immagini permutate che sono sia preservate che alterate da una poesia all'altra. 


Gruppo

Di tutte le poesie analizzate per il loro contenuto matematico, "Grup" è quella scelta più coerentemente dai critici interessati, forse a causa del suo titolo apertamente matematico. Essa descrive le riflessioni di Barbu sulla teoria dei gruppi, come un metodo che tenta di descrivere gli "stati più alti" dell'essere. Per Barbilian, il matematico e umanista matematico, dovrebbe essere teoricamente possibile farlo attraverso la matematica, e in particolare la teoria dei gruppi, ma come scrisse nelle sue opere in prosa, attraverso Joc secund questo tentativo è frustrante e alla fine fallisce. "Grup" è una poesia che attinge a immagini matematiche per rappresentare un'immagine di promessa creativa e suggestione che alla fine è delusa. Le immagini matematiche sono quelle che suggeriscono la promessa – l'ideale verso cui Barbu tendeva – ma, come disse della sua poesia nel suo insieme, alla fine non riuscì a raggiungere il suo ideale. Significativamente, essa segna la fine del Barbilian poeta.

GRUP

E temnița în ars, nedemn pământ.
De ziuă, fânul razelor înșală;
Dar capetele noastre, dacă sunt,
Ovaluri stau, de var, ca a greșeală.

Atâtea clăile de fire stângi !
Găsi-vor gest închis, să le rezume,
Să nege, dreaptă, linia ce frângi:
Ochi în virgin triunghi tăiat spre lume.


GRUPPO

Una vera cella, bruciata, indegna terra.
All’aurora il fascio dei raggi inganna;
ma le nostre teste, se lo sono,
restano ovali, di calce, come un errore.

Quanti sacchi di fili mancini!
Scopriranno un gesto chiuso, per riassumere;
per negare la linea retta che miete:
occhi in un vergine triangolo tagliato attraverso il mondo?

Il gruppo, per come lo concepisce Barbilian, è una prigione nel senso che è un concetto che intrappola, più che illuminare; sulla terra bruciata e indegna si trovano i primi fondamenti della matematica che sono stati in una certa misura screditati, ma non ancora adeguatamente sostituiti. Questi errori e false dichiarazioni sono evidenti in "inganni" ed "errore" (di per sé un termine matematico). I raggi e i fili sono potenzialmente pieni di speranza, ma la loro innata propensione alla confusione - cioè "mancini" - suggerisce il fallimento. L'obiettivo è trovare un "gesto chiuso" nel senso di un teorema pulito e ordinato, o una grande teoria unificata, che smentisca la visione euclidea della geometria, a favore di una forse più accurata visione. Nello spazio iperbolico, o non euclideo, la somma degli angoli di un triangolo è minore di 180 gradi. In questo caso gli “occhi” possono essere gli angoli. Inoltre, la chiusura è una proprietà dei gruppi e del loro funzionamento.

I riferimenti al sole e ai raggi di luce sono comuni a tutta la raccolta e sottolineano l'immagine ripetuta della vista, della visione e della lotta per comprendere e rappresentare, nonché la loro essenza sottostante come le "linee" della geometria (anche nella geometria non euclidea). “Fânul razelor” (letteralmente, raggio di fieno) può essere tradotto come covone, fascio [di fieno/grano], perché fascio è anche un termine matematico, definito per la prima volta nel 1948 in un seminario Cartan e usato nell'algebra omologica, associato ad Alexander Grothendieck che nel 1957 estese la teoria dei fasci nel suo lavoro sulla teoria delle categorie. Il fascio di grano consente anche l'immagine della germinazione e della nuova vita, rafforzata dalla traduzione di ziuă, "giorno" come aurora, e dalla traduzione di "fringi" come "miete".

Tornando alle linee geometriche, i "fire stîngi" (fili mancini) possono essere interpretati per includere le linee piegate o non parallele delle geometrie non euclidee. Gli "ovaluri de var" per le teste suggeriscono un'esistenza senza colore, e gli ovali suggeriscono qualcosa di instabile e umano.


Diottro

La poesia, come indica il titolo, usa in parte immagini della fisica. La riga di apertura rappresenta un prisma (che scompone la luce), alto e come un organo, e termina con coni, di polvere e cenere, presi dalla terra. La luce attraverso un prisma riflette i colori dello spettro, ma i coni di luce sono più ristretti e unitari. Ancora una volta l’assoluto, l’ineffabile, sconfigge le aspirazioni del poeta.


DIOPTRIE

Înalt în orga prismei cântăresc
Un saturat de semn, poros infoliu.
Ca fruntea vinului cotoarele roșesc,
Dar soarele pe muchii curs - de doliu.

Aproape. Ochii împietresc cruciș
Din fila vibratoare ca o tobă,
Coroana literei, mărăciniș,
Jos în lumină tunsă, grea, de sobă.

Odaie, îndoire în slabul vis !
- Deretecată trece, de-o mătușă -
Gunoiul tras in conuri, lagăr scris,
Adeverire zilei - prin cenușa.

DIOTTRO

Alta nell'organo del prisma considero
una saturazione di segni, fogliazione porosa.
Come la fronte del vino arrossisce i bordi,
ma il sole fluisce sui margini - del dolore.

Quasi. Gli occhi incrociati pietrificano
dalla pagina che vibra come un tamburo,
corona letterata, di spine,
giù nella luce rasata, pesante, della stufa.

Camera, piegata in quel debole sogno!
- Passa, messa in ordine da una vecchia -
immondizia scopata in coni, cella scritta,
risorto è il giorno attraverso la cenere.

"Dioptrie" suggerisce un tentativo imperfetto di creare un modello matematico unificante e la frustrazione per l'incapacità di rappresentare un ideale, Il poeta si trova di fronte a una gran quantità di segni, che suggeriscono la purezza e le molte possibilità della luce rifratta. Questi sono già in un libro (fogliato), quindi in qualche modo scritto, ma il risultato è pesante, fatto solo di spazzature del pavimento, e nella migliore delle ipotesi, coni (che suggeriscono una luce più monocroma, non rifratta), non i prismi di “Grup”. Il processo di scrittura stesso diventa una prigione. Immagini della scrittura - fogli, una pagina, lettere e infine il riferimento inequivocabile alla scrittura in “scris” (scritto) - si trovano ovunque. La luce è un tema prevalente, con il suggerimento che la percezione è imperfetta. Il colore del vino si avvicina al primo colore nello spettro visibile, il rosso, ma la luce solare scivola via sul bordo. Gli occhi si incrociano, non vedono bene, lasciano vibrare la pagina come un tamburo (che a sua volta suggerisce l'orecchio), così la vista lascia il posto all'udito fioco. Nella strofa centrale la luce diventa rasata e pesante. Alla fine, il sole che è sorto dalla prima strofa sorge davvero, ma attraverso la cenere.

Un diottro è uno strumento di misura per le lenti da vista. Interessante è la scelta di uno strumento antico, abbinato all'uso della terminologia arcaica in sobă (stufa) e odaie (stanza di campagna o in stile contadino), insieme alla stessa immagine della donna anziana (mătușă). Tutto ciò suggerisce una vana lotta per formulare una visione moderna e non oscurata. La speranza offerta ai sensi umani da una schiera di prismi e cilindri (l'organo) si riduce a un cono molto meno rifrangente e monocromo, fatto di spazzature del pavimento.

I tentativi di scrittura sono esplicitamente rappresentati dai segni, dalla pagina piegata e dalla corona di lettere. Evidente in questa poesia è l'immaginario religioso. L'organo del verso di apertura evoca immediatamente immagini di chiese, a cui seguono una corona di spine, vino rosso sangue e infine il riferimento al giorno risorto, con i suoi forti legami liturgici con la Pasqua e la crocifissione. La giornata è accolta con Adeverire, termine usato nel dialogo liturgico pasquale nella chiesa ortodossa rumena. Così il sole è sorto, ma al di là della speranza inizialmente suscitata dall’alto organo, sta tramontando in una vecchia stanza.



Ut algebra poësis


UT ALGEBRA POESIS
[Ninei Cassian]

La anii-mi încă tineri, în târgul Göttingen,
Cum Gauss, altădată, sub curba lui alee
- Boltirea geometriei astrale să încheie -
Încovoiam poemul spre ultimul catren.

Uitasem docta muză pentru-un facil Eden
Când, deslegată serii, căinței glas să dee,
Adusă, coroiată, o desfoiată fee
Își șchiopăta spre mine mult-încurcatul gen.

N-am priceput că Geniul, el trece. Grea mi-e vina...
Dar la Venirea Două stau mult mai treaz și viu.
Întorc vrăjitei chiveri cucuiul străveziu

Și algebrista Emmy, sordida și divina,
Al cărei steag și preot abia să fiu,
Se mută-m nefireasca - nespus de albă! - Nina.


UT ALGEBRA POESIS
[a Nina Cassian]

Nei miei anni ancora giovanili, nella città di Gottinga,
come Gauss, un tempo, sotto la curva dei suoi sentieri
- chiuse le volte astrali della geometria -
ho piegato una poesia verso la sua ultima quartina.

Ho dimenticato la musa colta per un facile Eden
quando, liberata nella sera compatta, per dar voce al rimorso,
creata, curva, una fata senza petali
si avvicinava zoppicando con uno stile aggrovigliato.

Non capii che il Genio passa. Grande è la mia colpa...
Ma per la Seconda Venuta sono molto più sveglio e vivo.
Allontano il bernoccolo stregato travestito da incappucciato

e l'algebrista Emmy, resa oscena e divina,
per la quale vorrei essere insieme vessillifero e sacerdote,
si trasforma nell'innaturale – indicibilmente bianco! - Nina.

Rispetto alle poesie di Joc secund, questa, pubblicata per la prima volta in România literară nel 1969 e non inclusa nelle raccolte di Barbu edite durante la sua vita, è fortemente autobiografica, più diretta e meno astratta. Secondo la poetessa Nina Cassian, alla quale era dedicata, la poesia fu scritta nel 1947 o nel 1948. Allude al rammarico di Barbu per aver abbandonato gli studi a Gottinga, che aveva raggiunto nel 1922 per un dottorato in analisi numerica con Edmund Landau, ma che aveva abbandonato dopo due anni in preda a una dipendenza da medicinali e a irrefrenabili velleità poetiche (avrebbe completato gli studi di dottorato a Bucarest solo nel 1929). Per il poeta, la cittadina universitaria è legata al ricordo di grandi matematici: da David Hilbert a Emmy Noether, a Carl Friedrich Gauss.

Il riferimento a Gauss e al "chiudere le volte" della geometria si riferisce al suo status di fondatore della geometria moderna, e la "curvatura" del poema fino all'ultima quartina indica l'eredità che si può considerare che Gauss abbia trasmesso alla altrettanto grande, moderna algebrista, Noether. La "curva" in questo contesto può anche riferirsi all'aspetto non lineare della geometria moderna, a cui Gauss era associato.

Il titolo riecheggia ut pictura poësis di Orazio, ("Come nella pittura così nella poesia"), frase con la quale il poeta latino suggeriva che la poesia merita la stessa attenzione dell'arte, sia nei dettagli che nel suo insieme. Nel caso di Barbu, suggerisce che la poesia potrebbe essere trattata allo stesso modo della matematica; una chiara eco delle opinioni espresse nei suoi scritti teorici sul valore di un'educazione matematica "umanista".

L'aspettativa di Barbu di una seconda venuta (cristiana) suggerisce anche un'ulteriore interpretazione del titolo Joc secund, cioè che l'altra realtà ideale che l’autore cercava è in qualche modo divinamente ordinata. Il "sigillo", la chiusura (incheie), delle volte della geometria suggerisce che Gauss nella sua geometria avesse raggiunto la perfezione assoluta. 

Un bianco quasi innaturale (nefireasca) sembra rappresentare l'ideale, che in questo caso è rappresentato da Noether, e ugualmente, da Nina. Non è chiaro cosa Barbu intendesse per "sordida", oscena, in relazione a Noether, a meno che non sia possibile un riferimento alla sua lotta per essere riconosciuta come donna matematica.

La poesia aggrovigliata (incurcat) ricorda la frustrazione del poeta in "Grup" con le pile di fili mancini, un'immagine che può anche nell'originale rumeno suggerire una capigliatura aggrovigliata (pagliaio), e la vecchia in “Dioptrie” che riordina il disordine intricato della stanza. Barbu sembra cercare chiarezza e direzioni chiare (ma non dritte), che si riflette nella curva ordinata di questa poesia da Gauss a Noether.

Questa non è una delle migliori poesie di Barbu, ma si propone come illustrazione poetica di una rara riflessione, personale e meno oscura, scritta circa quindici anni dopo la pubblicazione di Joc secund, quando si era ormai affermato come matematico.

 Nota metodologica:

Non conosco il rumeno e, non avendo trovato traduzioni in italiano, ho fatto riferimento agli adattamenti in inglese e in francese reperibili. Nel dubbio, ho fatto ricorso anche a Google Translator per il rumeno, conscio di tutti i suoi limiti. Naturalmente tutte le precisazioni e le correzioni sono benvenute nello spazio dei commenti.


Fonti principali:

Loveday Kempthorne, Relations between ModernMathematics and Poetry: Czesław Miłosz; Zbigniew Herbert; Ion Barbu/DanBarbilian, doctoral thesis, Victoria University of Wellington, 2015

Loveday Kempthorne, Peter Donelan, Barbilian-Barbu, A Case Study in Mathematico-poetic Translation, Signata, 2016

Daniel Coman, Corina Selejan, The Limits of(Un)translatability Culturemes in Translation Practice, Transylvanian Review 28, 2019


domenica 30 maggio 2021

William Empson, poeta scientifico, critico, polemista



William Empson (1906-1984), poeta e critico letterario, nacque nel 1906, ultimo dei cinque figli di un agiato proprietario terriero. A scuola eccelleva in matematica, Quando la miopia gli impedì di intraprendere la carriera navale che la sua famiglia desiderava per lui, nel 1925 vinse una borsa di studio in matematica al Magdalene College di Cambridge. Si iscrisse poi ai test di lingua di recente costituzione, sotto la tutela di I.A. Richards, autore di
Principles of Literary Criticism (1924) e Science and Poetry (1926), e nel giugno 1929 fu premiato con una “speciale distinzione”.

Il mese successivo, tuttavia, il preside del Magdalene scelse di dargli una lezione severa per una disattenzione. Quando i custodi scoprirono che Empson era in possesso di contraccettivi, fu accusato anche di aver intrattenuto una donna nella sua stanza a tarda ora. Una riunione straordinaria dell'organo di governo del college decise di punirlo in modo esemplare (poiché la cattiva condotta sessuale era considerata un reato universitario), togliendoli la borsa di studio. Per i due anni successivi visse a Londra, dove si affermò come scrittore e frequentò scrittori come T. S. Eliot e Virginia Woolf.


A Cambridge Empson aveva scritto numerose recensioni di libri, film e opere teatrali per alcuni periodici studenteschi; nel 1928 lanciò The Experiment, una rivista universitaria gestita da un gruppo di studenti i cui interessi attraversavano l'intera gamma delle arti e delle scienze, e divenne presidente di un gruppo di discussione umanistica, gli Heretics.


Fu sempre a Cambridge che Empson si fece la reputazione di uno dei poeti più importanti della sua generazione. Molte delle poesie contenute nella sua prima raccolta, Poems (1935), apparvero per la prima volta nei periodici della città universitaria. La densità metafisica e la passione emotiva della sua poesia suscitavano stupore e consensi, tanto che la Cambridge Review lo salutò come un vero successore di John Donne (che Empson aveva preso come modello). Un secondo volume, The Gathering Storm, apparve nel 1940; le due raccolte furono riunite in Collected Poems, nel 1949, e, in un'edizione ampliata, nel 1955. La sua poesia tocca numerosi temi, dalla metafisica alla malinconia, dal sociale all'amore e alla perdita, tutti trattati con stoica dignità. Soprattutto, tuttavia, Empson fu stimolato dalle scoperte della scienza moderna, che una volta definì "l'unica parte fertile della mente contemporanea": secondo lui, la scienza è letteratura: “ho sempre trovato l’immagine del mondo degli scienziati molto più stimolante e utilizzabile di quella di qualsiasi “influenza letteraria””. A Cambridge, dove il premio Nobel per la fisica Ernest Rutherford era direttore del Cavendish Laboratory, e Sir Arthur Eddington professore di astronomia, Empson era affascinato dagli ultimi progressi nella conoscenza scientifica, specialmente in fisica e astronomia, così che la morale e la filosofia e le implicazioni della nuova scienza divennero centrali nella sua opera. 



La poesia di William Empson "Lettera I" (1928-1935) è paradigmatica della sua opera in versi: colta, un po’ elitaria, di difficile lettura e interpretazione, ma indubbiamente originale e affascinante. Essa sembra anticipare i buchi neri, usando l'idea di una stella morente, da cui nessuna luce sfugge, come metafora di una passione non corrisposta. Un'analisi attenta del contesto universitario in cui fu scritta la poesia, insieme alle altre fonti incorporate con  i testi divulgativi di Arthur Eddington, rivela la motivazione dietro l’ingegnosa sfida di Empson ai limiti di ciò che era possibile secondo la relatività generale. La volontà di Empson di seguire l'esempio di John Donne (che aveva inquadrato i propri affari amorosi all'interno dell’allora nuova visione copernicana), utilizzando la nuova cosmologia degli anni '20, lo portò a esplorare una condizione astrofisica estrema che Eddington aveva liquidato come assurda e che aveva ancora uno status scientifico incerto negli anni '30.


Nel 1928, innamoratosi di un compagno di studi a Cambridge (Empson era bisessuale), aveva composto la poesia in forma di lettera per l’amato, prima di una serie di sei, paragonando il suo affetto non corrisposto all'eccessiva curvatura che deformava lo spaziotempo attorno a una stella di grandi dimensioni e densità, una passione che lo separava dal resto dell'universo. Assiduo lettore di scienza popolare, Empson cercò di far entrare l'amore nell'universo descritto da Eddington, il principale divulgatore di Einstein in Inghilterra, e cercò il romanticismo nella curvatura dello spaziotempo e nel destino delle stelle. 


La poesia inizia con una citazione di Pascal, avventurandosi in un vuoto senza fine:


You were amused to find you too could fear 

‘The eternal silence of the infinite spaces,’ 

That net-work without fish, that mere

Extended idleness, those pointless places, 

Who, being possibilized to bear faces, 

Yours and the light from it, up-buoyed, 

Even of the galaxies are void.


Ti sei divertito a scoprire che anche tu potresti temere

“L'eterno silenzio degli spazi infiniti”,

quella rete senza pesce, quella mera

indolenza prolungata, quei luoghi inutili,

chi, avendo la possibilità di sopportare gli sguardi,

tuo e la luce che ne deriva, elevata,

come le galassie sono vuote.


Giochi di parole e un ritmo aggraziato aiutano a trasformare gli spazi infiniti in un amore giovanile. Il suo andamento è una miniatura perfetta del modo in cui le poesie di Empson si snodano attraverso punti di vista mutevoli e contrari. La prospettiva di questa prima strofa, che indugia sulle parole inventate "possibilized" e "up-buoyed", è di un fascino rilassato e indulgente, tranne un brivido leggermente inquietante quando "void" chiude la riga conclusiva. 


Non è certo una sorpresa sapere l'atteggiamento di chi parla nei confronti dello spazio:


I approve, myself, dark spaces between stars;

All privacy’s their gift; they carry glances

Through gulfs; and as for messages (thus Mars’

Renown for wisdom their wise tact enhances,

Hanged on the thread of radio advances)

For messages, they are a wise go-between,

And say what they think common-sense has seen.


Approvo, io stesso, gli spazi oscuri tra le stelle;

l’isolamento completo è il loro dono; portano sguardi

attraverso gli abissi; e come per i messaggi (perciò Marte

è rinomato per la saggezza con cui aumenta il loro saggio riserbo,

appeso al filo dei progressi radiofonici),

perché i messaggi, sono un saggio intermediario,

e dicono quello che pensano abbia visto il buon senso.


Il corteggiamento continua, con "sguardi" ​​che percorrono il vuoto tra corpi stellari, ma gli sguardi possono anche essere fraintesi. Lo spazio può trasportare messaggi, ma questi possono essere confusi nel processo. Chi parla devia dal suo punto di vista sull'interpretazione del buon senso per suggerire che la reputazione di Marte di ospitare vita intelligente è rafforzata dalla nostra mancanza di comunicazione con i suoi abitanti: potremmo “appendere” le nostre speranze in questo al “filo'' dei progressi della tecnologia radio, ma la svolta cercata potrebbe benissimo mostrarci la vita marziana incomprensibile (la "sospensione" delle speranze si presta a un’inattesa svolta del gioco verbale, accentuato dall'associazione di Marte con la guerra). Possiamo comunicare al meglio solamente con i marziani della nostra immaginazione, una conclusione che non promette particolarmente bene per l'interpretazione del "buon senso" dei segnali tra gli esseri umani.


La terza strofa sviluppa un dubbio radicale sulla comprensione tra gli esseri umani. Come nelle due strofe precedenti, questa condizione è messa in atto dalle parole stesse, che sono piene di riferimenti all’antropologia e alla fisica:


Only, have we sense, common-sense in common,

A tribe whose life-blood is our sacrament,

Physics or metaphysics for your showman,

For my physician in this banishment?

Too non-Euclidean predicament.

Where is that darkness that gives light its place?

Or where such darkness as would hide your face?


Solo, abbiamo senso, il senso comune in comune,

una tribù la cui linfa vitale è il nostro sacramento,

fisica o metafisica per il tuo attore,

per il mio medico in questa messa al bando?

Situazione troppo non euclidea.

Dov'è quell'oscurità che dà alla luce il suo posto?

O perché tale oscurità nasconderebbe il tuo volto?


Nel suo commento al poema, Empson scrisse che mentre la prima strofa descrive "lo spazio vuoto che si può misurare", nella terza parla di una condizione opposta, trovata "quando due stelle non sono affatto collegate dallo spazio". Faceva poi riferimento a un fenomeno astrofisico specifico: "Una stella abbastanza grande e abbastanza concentrata, capisco, si separerebbe completamente dal nostro spazio." La situazione è "troppo non euclidea" non semplicemente perché la curvatura dello spaziotempo è così estrema, ma perché una tale condizione minerebbe la coerenza del mondo fisico. O almeno così credeva la fonte di Empson, Eddington, il quale. In una nota scherzosa, aveva notato le implicazioni "piuttosto interessanti" della teoria della gravitazione di Einstein rispetto a un'ipotetica stella gigante ad alta densità: “In primo luogo, la forza di gravitazione sarebbe così grande che la luce non sarebbe in grado di sfuggirle, i raggi ricadono sulla stella come una pietra sulla terra. In secondo luogo, lo spostamento verso il rosso delle linee spettrali sarebbe così grande che lo spettro sarebbe spostato fuori dall'esistenza. In terzo luogo, la massa produrrebbe così tanta curvatura della metrica spazio-temporale che lo spazio si chiuderebbe intorno alla stella, lasciandoci fuori (cioè da nessuna parte)”. Non convinto di invisibili corpi densi nell'universo, Eddington non poteva tollerare la prospettiva che lo spaziotempo di Einstein producesse una condizione così bizzarra.


Sapere che cosa aveva detto Eddington sulla teoria della gravitazione di Einstein ci aiuta a cogliere la situazione non euclidea, ma la strofa rimane un mistero se non si fa riferimento ad altri interessi di Empson, l’antropologia e la storia della religione e della filosofia antiche. Nella sua nota al poema, Empson spiegava di aver concepito le stelle radicalmente separate in termini di


“due persone senza idee o società in comune, quindi senza "fisica" tra loro in ciò che F.M. Cornford ha detto che era il senso primitivo della parola (physis). In mancanza di una linfa vitale comune condivisa da un totem (attore perché eroe tragico), non sono collegati da alcuna idea il cui nome derivi da quel termine”


C'è sia ironia sia melodramma nella combinazione attuata da Empson di un'idea di Eddington con un riferimento al lavoro di Francis Cornford. Il denso nucleo della poesia è compattato da libri di testo e letture extracurriculari sulle quali  Empson e i suoi compagni avevano trascorso piacevoli ore discutendo, ma usa punti di riferimento condivisi nella sua cerchia di compagni di studi per lamentare la mancanza di senso condiviso tra di loro. Nel confezionare le allusioni così densamente, Empson rischia di perdere lettori che non condividono questa conoscenza, chiudendo la poesia stessa in un mondo a parte. Ma forse il fallimento comunicativo della poesia, analizzata nel contesto in cui fu scritta, è proprio il suo scopo. "Lettera I" fu inizialmente pubblicata (con solo queste tre strofe) nel primo numero di Experiment. Molti lettori, anche se disorientati, apprezzarono la sfida di seguire gli argomenti allusivi di Empson in versi, mentre altri scelsero di collocarsi al di fuori delle sue curve non euclidee. 


Nel 1935 Empson aggiunse una strofa finale in cui la condizione dell'amante è paragonata a quella di una stella densa e morente che è estremamente calda, ma emette luce che non sarà mai vista da osservatori esterni. 


Our jovial sun, if he avoids exploding 

(These times are critical), will cease to grin, 

Will lose your circumambient foreboding; 

Loose the full radiance his mass can win

While packed with mass holds all that radiance in; 

Flame far too hot not to seem utter cold

And hide a tumult never to be told.


Il nostro sole gioviale, se evita di esplodere

(Questi tempi sono critici), smetterà di sorridere,

Perderà il tuo presagio circoscritto;

Libererà tutta la radiosità che la sua massa può vincere

Mentre, pieno di massa, trattiene tutto quello splendore;

Fiamma troppo calda per non sembrare del tutto fredda

E nascondi un tumulto che mai verrà detto.


Come spiegò nella sua nota alla poesia, essa si basa sul destino della stella massiccia e densa descrivendo "un simile fallimento di comunicazione che potrebbe alla fine accadere al sole". Facendo riferimento all'inizio della poesia, "il tuo presagio circoscritto" denota "lo spazio vuoto intorno ad esso che ci collega a lui e di cui hai paura".


Durante il periodo di completamento del poema, l'astronomia britannica fu testimone di un aspro dibattito sulla struttura delle stelle nane bianche. Una nana bianca è una stella che ha completato la fusione dell'idrogeno in elio nel proprio nucleo; è uno degli stadi finali possibili del ciclo di vita d'una stella. In questa situazione queste stelle perdono gran parte della loro massa, espellendola in un forte getto di gas (vento stellare). Alla fine ne risulta una nebulosa planetaria, e la stella diventa un piccolo oggetto con un'altissima densità (dell'ordine delle tonnellate per centimetro cubo), che non evolverà più in modo significativo, ma si raffredderà progressivamente sempre di più. Una nana bianca inizia con un gran calore, ed è infatti "al calor bianco". Ma, a differenza della maggior parte delle stelle, non ha più una sorgente di energia. Può rimanere visibile per un lungo periodo di tempo, comparabile con l'età dell'universo, fintanto che il calore prodotto nella sua creazione non si estingue; alla fine si spegnerà nell'oscurità, diventando invisibile. 




Eddington era convinto che questo potesse essere il destino finale di tutte le stelle. Tuttavia, in quel periodo il giovane matematico di origine indiana Subramanyan Chandrasekhar presentò dei calcoli per dimostrare che nessuna nana bianca poteva avere una massa maggiore di 1,4 volte quella del Sole. Le stelle sopra questa massa sembravano avere un destino diverso in serbo per loro: avrebbero continuato a contrarsi oltre il punto in cui la nana bianca aveva trovato stabilità, fino al punto in cui, se la massa della stella fosse stata molto superiore a tre masse solari, il collasso gravitazionale sarebbe  proseguito indefinitamente, fino a formare un oggetto sempre più piccolo, circondato da un campo gravitazionale immenso. L’autorità di Eddington fermò per un po’ di tempo la ricerca teorica su questi corpi celesti, che sarebbero stati chiamati buchi neri nel 1967. Un buco nero è un corpo celeste con un campo gravitazionale così intenso da non lasciare sfuggire né la materia, né la radiazione elettromagnetica, cioè , da un punto di vista relativistico, una regione dello spaziotempo con una curvatura sufficientemente grande che nulla dal suo interno può uscirne, nemmeno la luce, essendo la velocità di fuga superiore a c. Uno spazio chiuso in se stesso, tale da rendere impossibile qualsiasi comunicazione. 



"Lettera I" usa la creazione poetica per testare i limiti dell'universo di Einstein, perseguendo una condizione estrema liquidata da Eddington come assurda. Empson non era vincolato né dalla cultura istituzionale dell'astronomia britannica, né dalle leggi della fisica. La sua poesia non prevede rigorosamente un buco nero, ma prende sul serio l'ipotetico estremo astronomico, secondo una tradizione che egli ammirava in Donne e altri: la capacità predittiva delle creazioni letterarie.


Empson si fece un nome al di fuori di Cambridge non tanto attraverso la sua poesia, ma con la sua precoce opera di critica letteraria, Seven Types of Ambiguity, che iniziò come studente universitario nel 1928 e pubblicò nel novembre 1930. Nel saggio definiva l'ambiguità come "qualsiasi sfumatura verbale, per quanto lieve, che dia spazio a reazioni alternative allo stesso pezzo di linguaggio". Abbiamo ambiguità quando "si possono assumere punti di vista alternativi senza un'interpretazione errata". Leggere una poesia significa  perciò esplorare i conflitti all'interno dell'autore. Prendendo dalla storia della letteratura inglese una gran numero di brani (anche se non sempre poesie complete), che vanno da Spenser e Shakespeare, tracciò le complessità del comportamento ambiguo del linguaggio poetico attraverso sette fasi di "disordine logico avanzato". Il caso più estremo, il settimo tipo, esprime, o tradisce, una contraddizione totale, per cui "i due significati della parola, i due valori dell'ambiguità, sono i due significati opposti definiti dal loro contesto, per cui l'effetto totale è quello di mostrare una divisione fondamentale nella mente dello scrittore". Empson mirava principalmente a dimostrare, mediante analisi ingegnose e dettagliate, come funziona la "macchina" della poesia. 



Dall'agosto 1931 al luglio 1934 fu professore di inglese all'Università di Letteratura e Scienza di Tokyo, dove rimase sconvolto dal nazionalismo in pernicioso sviluppo. Il suo secondo saggio, Some Versions of Pastoral (1935), prese forma in Giappone. La Pastorale pone il "complesso nel semplice" e serve per conciliare l'ordine sociale ricevuto. La non ortodossia dell'approccio di Empson alla pastorale, forma letteraria di soggetto bucolico che allude spesso ad atmosfere idilliache e mitiche, è insita nei testi che scelse di analizzare, che vanno dal Paradiso perduto di Milton alla Alice di Lewis Carroll. Eppure l'idea di ciò che il "campestre" rappresenta in tali testi è il nocciolo della sua tesi, debitrice di quelle dell’antropologo James John Frazer contenute nel Ramo d’oro e Il capro espiatorio e ampliate dallo storico della filosofia cantabrigense Francis Cornford riguardo al totemismo e ai legame di sangue nelle società arcaiche, visti come base non solo delle successive pratiche religiose, ma anche della prima conoscenza scientifica del mondo. Allo stesso tempo insider e outsider, l'eroe quasi divino (esemplare ed eccezionale) della pastorale, portavoce sia dei molti che dell'uno, è il tipo del “Cristo e capro espiatorio'': eroe e antieroe, redentore e vittima, riconciliatore e critico. Assimilando e attenuando così le aree di potenziale e reale conflitto nella società, l'eroe pastorale in ultima analisi rappresenta una segreta libertà dalle dottrine politiche e religiose dominanti. Come sintetizzò l’autore, "la letteratura è un processo sociale, e anche un tentativo di riconciliare i conflitti di un individuo in cui si rispecchiano quelli della società”.



Nel 1937 Empson tornò ad est, per insegnare all’Università Nazionale di Pechino, ma, per sua sfortuna, arrivò al suo posto su un treno di truppe giapponesi: si trovò nel pieno della guerra sino-giapponese. Costretto a fuggire dall'avanzata degli invasori nella diaspora delle università della Cina settentrionale, sopportò due anni di ciò che chiamò “la vita selvaggia e le pulci e le bombe". 


Tornato in Inghilterra durante la seconda guerra mondiale, Empson lavorò per la BBC. Dopo essersi trasferito al servizio estero di Londra nel 1941, divenne assistente e poi redattore cinese, organizzando trasmissioni per la Cina e programmi di propaganda per l'Home Service. Alla BBC incontrò l’artista sudafricana Hester Henrietta (Hetta) Crouse [Hester Henrietta Empson], (1915–1996), una donna bella e schietta che lavorava per il servizio in afrikaans. Si sposarono a Londra nel dicembre 1941 e ebbero due figli. Nel 1947 tornò con la sua famiglia all’Università di Pechino, dove si trovò coinvolto nell'assedio comunista della città e fu testimone dell'ingresso trionfante di Mao nel 1949. 


Dalla fine degli anni '30 agli anni '40, Empson redasse una serie di saggi critici correlati, raccolti in The Structure of Complex Words (1951), in cui tentò di dimostrare come le parole chiave di un’opera o di una società uniscono emozioni, sensi e persino visioni del mondo. “Approssimativamente", scrisse, "la morale è che una società in via di sviluppo decide le questioni pratiche dal modo in cui interpreta le parole che ritiene ovvie e tradizionali più che dalle dichiarazioni ufficiali del dogma corrente". 


Nel 1952 Empson tornò in Inghilterra. Dal 1953 al 1971 tenne la cattedra di letteratura inglese presso l'Università di Sheffield, dove si impegnò energicamente in polemiche pubbliche, spinto dal desiderio di correggere quelle che credeva essere le ortodossie sbagliate della critica letteraria moderna, in particolare l'influenza di ciò che aveva definito "neo-cristianesimo".


Egli acquistò infatti grande fama per la sua visione della malvagità del cristianesimo quando pubblicò Milton's God (Il Dio di Milton) nel 1961. Il problema nel suo approccio, che diede ad alcuni recensori l'opportunità di criticare il libro, risiedeva nel fatto che si confrontava con il Dio cristiano attraverso un'opera dell'immaginazione letteraria, nella ardita supposizione che la visione di Milton di Dio potesse essere identificata con la "verità" del vangelo. Sostenendo che il cristianesimo era moralmente riprovevole, Empson elogiava l'integrità di Milton nel superare il mito in poesia, che era tanto più brillante perché imperturbabile. "Il poema è meraviglioso perché è un terribile avvertimento", scrisse in un testo inedito. "Lo sforzo di riconsiderare il Dio di Milton, che rende la poesia così buona solo perché Egli è così disgustosamente cattivo, è fondamentale per la mente europea."



Empson fu nominato baronetto nel 1979. Morì nella sua casa di Londra il 15 aprile 1984 di cirrosi epatica. Le pubblicazioni postume includono diversi saggi dedicati alla letteratura rinascimentale e a Shakespeare, oltre all’edizione completa delle sue opere poetiche.


Riferimenti principali:


Kitt Price, Empson’s Einstein. Science and modern reading, in The Cambridge Companion to Literature and Science, Cambridge University Press, 2018


John Haffenden, Empson, Sir William, in Oxford Dictionary of National Biography, 2006


Kitt Price, Flame far too hot: William Empson's non-Euclidean predicament, 2005


Art Kavanagh, Finite though unbounded. The abolition of infinity in the poetry of William Empson, 1996