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domenica 15 maggio 2022

Nascita e sviluppo della Latteria di Locate Triulzi



La caduta dei prezzi dei cereali, che si manifestò in Lombardia a partire dai primi anni Ottanta dell’Ottocento (effetto della prima Grande Depressione economica mondiale), ebbe conseguenze sulle scelte degli imprenditori agricoli della pianura irrigua per l’utilizzo dei terreni. Nelle zone che da lungo tempo avevano posto la filiera del latte al centro del loro sistema economico, come il Lodigiano e il Basso Milanese, e in quelle che più recentemente avevano puntato sulla produzione dei latticini, (Lomellina, Cremasco e Cremonese), la coltivazione del prato venne ulteriormente estesa e l'allevamento delle vacche da latte conobbe un incremento quantitativo e qualitativo. Analoghi processi si avviarono anche nella pianura bresciana e nel Mantovano, favorendo un'ulteriore crescita delle attività casearie in tutta la pianura lombarda. L'andamento positivo del settore venne confermato anche nella successiva fase di ripresa dei prezzi agricoli e di trasformazione in senso industriale del sistema economico regionale nel capoluogo, nei maggiori centri urbani e nella fascia di collina e di pianura asciutta a ridosso delle Prealpi. La filiera del latte assunse un'importanza sempre maggiore anche nelle province emiliane e in alcune aree del Piemonte orientale, tanto che alla vigilia della Grande guerra si poteva ormai chiaramente identificare un vasto territorio pianeggiante, racchiuso tra i fiumi Sesia, Panaro e Mincio, nel quale di fatto si concentrava quasi tutta la produzione di burro italiano e larga parte di quella di formaggio vaccino. 

L'allargamento oltre i confini regionali dell'antico quadrilatero del latte (Milano, Lodi, Pavia, Codogno) fu accompagnato da una prima industrializzazione delle diverse fasi di lavorazione del latte. Come sottolineava allora Carlo Besana, direttore della Stazione sperimentale di caseificio di Lodi, fondata nel 1871, all'inizio degli anni Ottanta la produzione di burro e formaggio nella Bassa Lombardia restava dispersa in oltre 1800 caseifici annessi alle aziende agricole, che producevano beni destinati all'esportazione, ma che ancora conservavano un assetto tecnico (e igienico) del tutto insoddisfacente. Vent'anni dopo, la situazione si presentava in forma assai diversa. In molte aziende continuavano a funzionare le antiche strutture di lavorazione del latte, ma importanti passi verso il caseificio industriale erano stati compiuti. Nel Lodigiano erano ora in funzione latterie industriali che erano in grado di lavorare, ogni giorno, centinaia di ettolitri di materia prima per produrre burro con macchinari di moderna concezione e con l'uso di fermenti selezionati, come avveniva nei paesi del Nord Europa. Nei primi anni del Novecento la società anonima Polenghi Lombardo, che era diventata la principale azienda italiana attiva nell'esportazione di burro, acquistava quotidianamente latte da 600 aziende agricole, dotate di 15.000 capi di bestiame, e trasformava circa 1200 quintali di materia prima in burro e formaggi. Nel 1904 introdusse in Italia la fabbricazione del latte in polvere sfruttando il procedimento Hatmaker; nel 1911 ottenne anche l’esclusiva del brevetto Trufod per la condensazione e polverizzazione del latte. Questi procedimenti erano eseguiti nei grossi impianti di Lodi, oltre che nelle più̀ piccole latterie di Secugnago, San Fiorano e Castel San Giovanni. 

I progressi del settore non si legavano soltanto alla comparsa di grandi imprese industriali. Tra fine Ottocento e inizio Novecento, in Lomellina, nel Cremonese e nel Basso Bresciano fecero la loro comparsa alcune latterie sociali fondate da imprenditori agricoli che intendevano valorizzare al meglio il latte prodotto nelle loro stalle. Queste società gestivano impianti di dimensioni ridotte, ma le loro strutture produttive erano in grado di trasformare dai 60 ai 100 ettolitri di latte al giorno, mentre in un casone tradizionale raramente si superavano i 6 quintali. 

Altra novità del periodo fu il forte incremento delle esportazioni di formaggio dall'Italia. Prima del varo della nuova tariffa doganale, nell'estate del 1887, le esportazioni di formaggi dall'Italia avevano raggiunto i 50.000 quintali, ma, alla stessa data, se ne importavano oltre 120.000 quintali, in netta prevalenza di produzione svizzera. Dieci anni dopo le esportazioni, attestate a circa 100.000 quintali, superavano le importazioni; si era così avviato un processo di crescita delle vendite all'estero di formaggio italiano che avrebbe avuto il suo culmine alla vigilia della Prima guerra mondiale. A quella data, secondo stime di Carlo Besana, si producevano in Italia circa 2.600.000 quintali di formaggio e se ne esportavano circa 300.000 quintali. Le vendite all'estero erano il frutto del successo sui mercati internazionali di tre sole varietà, il grana, il pecorino e lo stracchino di gorgonzola. La fortuna dello stracchino erborinato era iniziata negli anni Ottanta sui mercati europei, soprattutto su quello inglese, dove questo particolare stracchino faceva concorrenza al roquefort francese, crebbe poi progressivamente nel trentennio successivo, quando venne risolto il problema della stagionatura e della conservazione. 


A quattro anni dall’impianto da parte di Henry Nestlé della prima fabbrica di latte condensato e di «farine lattee» per neonati a Vevey, in Svizzera, gli imprenditori e banchieri austro-tedeschi Mylius, da un secolo attivi in Lombardia nel settore della seta, inauguravano tramite la società Boehringer Mylius e C. il primo stabilimento italiano di latte condensato, a Locate di Triulzi. Così ne parlava Carlo Besana, in qualità di giurato per il settore lattiero caseario dell’Esposizione Industriale Italiana del 1881 di Milano, dove l’azienda “figurò (...) con un obelisco di scatole nella galleria delle classi 24a e 25a e con un apparato completo di condensazione del latte nella galleria delle macchine in azione”

“La fabbrica di Locate fu aperta il 24 aprile 1879. E uno dei più belli opifici industriali che si possono vedere di questo genere. Nel 1881 possedeva 170 operai tra uomini e donne, gran parte dei quali dedicati alla fabbricazione delle scatole di latta. Nell'annata 1880 preparò 1.056.000 scatole di latte condensato, contenenti cadauna una libbra inglese di detto latte. Queste scatole portano la dicitura Italian condensed milk, poiché è l'Inghilterra lo sbocco principale di questa produzione; seguono in ordina decrescente la Germania, l'Olanda, il Giappone, la Francia, la Russia, le Indie, l'Australia, la Spagna, ecc. Lo stabilimento è montato per una lavorazione giornaliera di 20.000 litri di latte, ma nelle epoche ordinarie il latte lavorato non supera metà di questa cifra. Il latte era fornito alla ditta da diciotto cascine nello scorso anno (1881), situate nel perimetro di mezzo chilometro a 6 chilometri dallo stabilimento. La dose di zucchero che si aggiunge al latte prima della condensazione è di circa chil. 13,5 per cento chili di latte, così che la evaporazione nel vuoto, riducendo il volume del latte a poco più di un terzo del volume primitivo, ne deriva che il latte condensato contiene dal 34 al 38 per cento di zucchero di canna e 25 a 30 per cento di acqua in luogo di 87,5, che è la media dell'acqua contenuta nel latte normale. Lo stabilimento di Locate paga il latte 15 a 16 lire l'ettolitro ai fornitori, cioè assai caro, il che è come dire che questo mette la fabbrica di Locate in condizioni non favorevoli per vincere la concorrenza delle fabbriche svizzere, le quali acquistano il latte ad un prezzo minore, sebbene da un numero assai più grande di fornitori. Altra delle difficoltà della fabbrica in discorso è la restituzione del dazio sullo zucchero; dessa venne regolata in questo modo; da ogni partita di latte che passa il confine vengono levate alcune scatole per conto dell’erario, e vien analizzato il latte in esse contenuto; in seguito alla quantità di zucchero di canna risultante dall'analisi si computa la somma da restituirsi alla ditta per l'intiera partita esportata. Il latte condensato con zucchero è destinato all'esportazione, ai lunghi viaggi ed a lunga conservazione. Ma recentemente la fabbrica di Locate iniziò un'altra preparazione, cioè quella del latte condensato senza zucchero pel consumo delle città italiane; infatti, il latte appena portato allo stabilimento vien condensato, poi distribuito in recipienti della capacità di 50, 25 e 12 chilogrammi, che mediante treni diretti vengono in giornata spediti a Torino, Roma, Genova, Bologna, Firenze, Verona, Venezia, Trieste, ecc. Giunto a destinazione, il latte vien allungato colla quantità d'acqua voluta, ossia ricostituito a latte normale e dato al consumo. Ognuno vede i vantaggi grandissimi di questo artifizio pei consumatori di quelle città ove il latte è carissimo perché scarso. E notisi che il latte condensato senza zucchero può conservarsi per alcuni giorni e che, una volta ridiluito, è buono quanto il latte normale fresco, al punto da non poterlo distinguere da questo. Mercè la fabbrica Boehringer Mylius e C. il buon latte lombardo ha potuto penetrare, sotto forma di sciroppo, nelle più lontane contrade del globo e soddisfare ad un bisogno vivamente sentito dalle famiglie nelle grandi città italiane, cioè quello di un latte a buon mercato che sia assolutamente genuino”. 

La “Boehringer Mylius e C. Milano. Fabbrica e commercio latte condensato” cessò la sua attività nel 1883 (formalmente l’anno dopo), quando fu ceduta (probabilmente per il cessato interesse degli eredi Mylius). all’ingegnere di origine ungherese Ignazio Grün (nato a Pecs, ca. 1841), cambiando il nome in Latteria Locate Triulzi, divenuta Società Anonima il 27 gennaio 1901, con altri stabilimenti in Casalpusterlengo e Melegnano, filiali in Landriano e Fiorenzuola d’Arda, e solo più tardi chiamata Latteria San Giorgio


Ignazio Grün, che proveniva da una famiglia di industriali di respiro internazionale, fu uno dei primi mecenati e collezionisti del giovane pittore Emilio Longoni, che dipinse il suo ritratto con violino nel 1891. La passione di Grün per la musica è evidente: fu infatti primo violino nell'orchestra dei dilettanti del Teatro della Scala di Milano. Longoni fu spesso ospite nella tenuta dei Grün a Locate Triulzi ed era amico di famiglia. 


A dirigere la Latteria, Grün chiamò suo nipote Géza Billitz (1861-1933), giovane chimico di grande talento. Nato a Pecs, aveva subito dimostrato le sue attitudini, conseguendo un premio in chimica analitica nelle scuole tecniche della sua città natale. Recatosi a Zurigo a compiere gli studi superiori presso il Politecnico divenne allievo ed assistente del grande chimico tedesco Georg Lunge. Fra altri studi portò a soluzione il problema di chimica tecnologica riguardante la rigenerazione dello zolfo nei residui di fabbricazione della soda Leblanc. Conseguita a vent’anni la laurea, venne assunto in una fabbrica di coloranti a Offenbach. Il richiamo dell’ambiente della ricerca lo riportò, nel 1882, all'insegnamento nel laboratorio per gli allievi chimici a Zurigo e successivamente, alla fine dello stesso anno, su chiamata del Consiglio Accademico del Politecnico Federale, all'insegnamento e alle esercitazioni tecnologiche, bromatologiche, ecc. Varie circostanze, tra le quali principalmente la pressione dello zio imprenditore, lo indussero nell'agosto 1883 ad accettare la direzione della Latteria Locate Triulzi. 

La sua attività industriale fu guidata dalla convinzione che non potesse esistere una tecnica lattiera progredita se non basata su studi severi e sulla applicazione di quanto la scienza fin da allora stava fornendo. Infatti, la Latteria acquistò un grande prestigio in Italia e all’estero. Il latte condensato zuccherato era preparato secondo il metodo Borden, a partire dal latte crudo vaccino: l'eliminazione dei batteri era garantita grazie ad un processo di riscaldamento ad una temperatura di circa 90° a pressione ridotta per pochi secondi. Questa procedura allo stesso tempo inibiva la separazione dei grassi. Quando una certa quantità di acqua è evaporata, si aggiunge lo zucchero, che aumenta la pressione osmotica, rendendo il latte condensato dolcificato un alimento a lunga conservazione. 

Billitz volle superare l'empirismo che allora regnava e iniziò a Locate Triulzi l'applicazione dei fermenti selezionati alla fabbricazione del formaggio grana; successivamente applicò i fermenti alla maturazione delle creme, che rappresentava in Italia una pratica nuova; studiò inoltre la formazione della «erborinatura» del gorgonzola e le sostanze azotate del latte. Interessato alla utilizzazione dei sottoprodotti, iniziò nel 1888 la lavorazione del formaggio margarinato di pasta filata; realizzò un procedimento di idrolisi con acidi minerali della caseina, ottenendo anche il brevetto tedesco; studiò l'importanza alimentare del latte magro e il valore nutritivo del latte condensato scremato; dal lattosio ottenne un esplosivo, che chiamò pentanitrolattina, noto anche sotto il nome di polemite, che non ebbe molto successo perché instabile. 

Nel 1895 pubblicò un articolo sulle sostanze azotate del latte e su un nuovo prodotto, la cioccolata al latte, frutto interamente della ricerca del laboratorio chimico della Latteria di Locate Triulzi. L’anno successivo iniziò la produzione della cioccolata al latte commercializzata con il marchio Lacteobroma, che era venduta anche nelle farmacie e consigliata dai medici come prodotto dietetico. Per primo inoltre studiò, produsse e mise in vendita in Italia lo yogurt e il kefir. Sempre per iniziativa di Billitz, nei primi anni del Novecento fu attivato con macchinari d’importazione un impianto di mungitura meccanica, il primo in Italia. 


L’azienda aprì nel 1890 una serie di spacci per rifornire Milano e anche altre città, mediante collegamento ferroviario notturno, di latte fresco, di cui l’azienda controllava la composizione ai sensi delle norme igieniche vigenti (cfr. G. Billitz, La composizione chimica del latte fornito alla Latteria di Locate Triulzi in relazione al regolamento d’igiene di Milano, in «Annuario della Società̀ chimica di Milano», 1903, nel quale lamentava, sulla scorta di quasi 190.000 analisi condotte presso il suo laboratorio, che i valori indicati dalle autorità milanesi per le sostanze solide nel latte erano troppo rigidi e irrealistici). Questa organizzazione industriale e logistica permetteva all’azienda di annunciare dalle vetrine dei propri spacci la vendita di un «latte puro». Organizzò in tal senso, i noti spacci della «Locate» per il rifornimento di latte fresco alla città di Milano. 


Nei primi decenni del Novecento i prodotti della Latteria di Locate, che era anche diventata Fornitrice della Real Casa, erano venduti per corrispondenza in tutto il paese, come è testimoniato da Simonetta Agnello Hornby in Piano Nobile (2020). 


La Latteria Locate Triulzi si fuse nel 1921 con la Società̀ anonima Gianelli e Majno, sorta a Milano nel 1893, nata “con lo scopo di rifornire Milano di latte sterilizzato in bottiglie, anche per l’alimentazione dei neonati”, costituendo la SA. Latte Condensato Lombardo. Billitz ne fu, con l'avvocato Giovanni Majno, amministratore delegato e, fino alla morte, avvenuta a Milano nel 1933, consigliere e direttore tecnico e scientifico. Fu l’inizio di una storia societaria travagliata, che, attraverso cambi di nome e proprietà, nuovi prodotti (latte Zefiro, burro San Giorgio) e crisi finale, portarono alla chiusura dello stabilimento dopo più di cent’anni di attività e la malinconica cessione dell’area alla speculazione immobiliare.



mercoledì 8 settembre 2021

La fissazione dell'azoto

 


La minaccia della carestia - Nel 1898 il chimico inglese William Crookes tenne un discorso alla British Academy for the Advancement of Science, di cui era presidente. Il discorso era consapevolmente allarmante, proprio come lo sono oggi quelli sul riscaldamento globale. Il suo messaggio era maltusiano, e cioè che la Gran Bretagna rischiava di affrontare la carestia in un futuro non troppo distante, e che l’unica speranza andava cercata nella chimica. La popolazione dell’Inghilterra e del Galles era più che triplicata durante il XIX secolo, e le altre nazioni europee mostravano un aumento comparabile. La quantità di terra arabile era invece aumentata molto poco: era stato perciò necessario aumentare la resa per acro, ottenuta con l’uso di fertilizzanti importati. Cereali come frumento, mais, avena e segale impoveriscono il suolo dei suoi elementi essenziali, tra i quali soprattutto l’azoto. L’azoto nel suolo doveva essere rinnovato, cosa che era stata tradizionalmente realizzata con la rotazione delle colture e con lo spargimento di letame. La rotazione delle colture comporta la coltivazione di legumi, come fagioli e piselli, che sono in grado di fissare l’azoto dell’aria. Esso rimpiazza l’azoto del suolo, ma riduce anche la produzione dei più redditizi cereali. E il letame ricicla solo una parte dell’azoto estratto dal suolo. Con la crescita delle città, il riciclo dell’azoto era meno efficiente di quanto lo fosse per l’agricoltura di sussistenza. Quando il cibo viene portato dalle campagne alle città, l’azoto si perde nelle fogne o nelle latrine e non viene restituito al suolo. Crookes fece notare che azoto supplementare era già introdotto dall’esterno del sistema chiuso così che la Gran Bretagna poteva ancora produrre abbastanza cereali per nutrire la popolazione. Una fonte di azoto era la stessa industrializzazione. L’ammoniaca, contenente azoto, era un prodotto secondario del processo con il quale si trasforma il carbone in coke per l’industria. Inoltre, migliaia di tonnellate d’azoto erano importate ogni anno dalle isole coperte di guano al largo del Perù e dai giacimenti di nitrati in Cile. Ma l’azoto dalla trasformazione del carbone non era sufficiente da solo, e quello importato dal Sudamerica era ciò che oggi chiameremmo una “risorsa non rinnovabile”: sarebbe prima o poi terminato: Crookes prevedeva che, quando fosse accaduto, ci sarebbe stata la carestia. Ciò che era vero per la Gran Bretagna valeva, naturalmente, per tutta l’Europa. Crookes vedeva tuttavia una speranza: “È grazie al laboratorio che la fame può essere trasformata in abbondanza”.

Non c’era carenza di azoto, ma solo di quello legato chimicamente, “fissato” ad altri atomi. L’azoto è l’elemento più abbondante nell’aria, formando circa l’80% dell’atmosfera, ma vi è presente in forma inerte, come gas biatomico N2, che i cereali non sono in grado di utilizzare perché è difficile rompere il triplo legame tra i due atomi, N≡N. La speranza di Crookes era che si potesse trovare un modo di combinare l’azoto atmosferico con idrogeno, carbonio o ossigeno per formare composti che potessero essere usati direttamente come fertilizzanti oppure in essi essere facilmente trasformati. L’ammoniaca (NH3), l’urea ((NH2)CO), l’acido nitrico (HNO3) e il monossido d’azoto (NO) erano tutti prodotti della fissazione, ma gli unici metodi conosciuti per la loro sintesi dall’azoto atmosferico richiedevano così tanta energia da essere economicamente impraticabili. La sfida era di trovare una reazione che non solo potesse funzionare in laboratorio, ma che avesse una elevata resa e bassi costi energetici, in modo che i prodotti potessero essere venduti con profitto.



Processi poco efficienti - Nei primi anni del XX secolo esistevano tre metodi industriali per fissare l’azoto. Il primo, come già ricordato, era il carbone. Circa l’1-1,4% del carbone consiste di composti dell’azoto, che sono un residuo delle proteine vegetali e animali dalle quali è stato originato dai processi naturali. Quando si brucia il carbone, i composti dell’idrogeno salgono lungo il camino e sono persi. Se il carbone viene riscaldato in assenza di aria, tuttavia, come si fa nella produzione di coke per l’industria siderurgica, circa il 12-17% dell’azoto poteva essere recuperato in forma di ammoniaca se si usava un forno convenientemente progettato. L’estrazione dell’azoto dal carbone era importante, ma, anche nella migliore delle ipotesi, poteva fornire meno di un terzo dell’azoto supplementare necessario.



Un altro sistema era noto come il processo cianammide. L’ammoniaca poteva essere sintetizzata dall’azoto atmosferico a partire dall’ossido di calcio in un procedimento in tre fasi. Esso coinvolgeva la sintesi intermedia di carburo di calcio CaC2, un composto abbastanza reattivo da reagire con l’azoto atmosferico per formare calcio cianammide (CaCN2):

CaO + 3C = CaC2 + CO

CaC2 + N2 = CaCN2 + C

CaCN2 + 3H2O = CaCO3 + 2NH3

Tuttavia, anche se il procedimento era perfezionato, la formazione del carburo di calcio richiedeva così tanta energia da essere antieconomica.

Il terzo procedimento industriale combinava semplicemente azoto e ossigeno in monossido di azoto utilizzando una scarica elettrica in ciò che era chiamato il procedimento ad arco elettrico. Tra due elettrodi coassiali veniva formato un arco elettrico, che era diffuso su un disco sottile tramite un forte campo magnetico. La temperatura del plasma sul disco superava i 3000 °C. Ventilando aria attraverso l'arco, una parte dell'azoto reagiva con l'ossigeno formando monossido di azoto (NO). Controllando con attenzione l'energia dell'arco e la velocità di flusso dell'aria si poteva ottenere una resa di NO fino al 4%.

 N2 + O2 = 2NO 

Quando la reazione raggiunge l’equilibrio, ci sono in realtà due reazioni chimiche in atto allo stesso tempo: azoto e ossigeno sono trasformati in monossido d’azoto in una reazione, e il monossido d’azoto si scinde in azoto e ossigeno nell’altra. Il punto d'equilibrio è quello in cui entrambe le reazioni avvengono alla stessa velocità: reagenti e prodotti sì formano e si consumano, ma non esiste alcuna netta discontinuità. Il punto di equilibrio determina la resa del prodotto e può assumere valori dallo 0 al 100%: può essere spostato in un senso o nell’altro cambiando la temperatura e la pressione alle quali avviene la reazione. In questo caso, l’obiettivo è di spostarlo a destra, per formare più monossido d’azoto. 

Per la formazione di monossido d’azoto con il procedimento ad arco elettrico, l’aumento di temperatura spostava il punto di equilibrio nella direzione voluta, ma richiedeva temperature sopra i 3000 °C se si voleva avere una reazione efficiente. Inoltre, una volta che esso veniva prodotto, c’erano ancora problemi, perché doveva essere raffreddato rapidamente altrimenti la maggior parte si sarebbe trasformata di nuovo in azoto e ossigeno.



Questo metodo era stato brevettato nel 1903 dai norvegesi Kristian Birkeland, professore di fisica all'Università di Christiania (Oslo), e Samuel Eyde, ingegnere e industriale chimico. La chimica coinvolta nel processo Birkeland-Eyde non era del tutto nuova: Henry Cavendish, lo stesso William Crookes, Lord Raleigh e altri avevano già studiato l'effetto delle scariche elettriche sulle miscele di azoto e ossigeno. Il processo Birkeland-Eyde fu commercialmente redditizio per alcuni anni solo perché l'energia idroelettrica era all'epoca disponibile quasi gratuitamente in Norvegia. Esso fu utilizzato negli impianti di Rjukan e Notodden, sfruttando la vicinanza di un grande impianto idroelettrico, ma utilizzava un'enorme quantità di energia elettrica, risultando quindi poco efficiente in termini di consumo elettrico. Come per il processo cianammide, la quantità di energia richiesta era economicamente proibitiva. Si costruirono impianti sia per il metodo cianammide, sia per quello ad arco elettrico, ma solo in posti dove era disponibile energia a basso prezzo.

 

Fritz Haber e l’idea della sintesi diretta - Un approccio alternativo era tentare di ottenere l’ammoniaca direttamente dai suoi componenti, azoto e idrogeno. Fu l’idea che sviluppò il grande chimico tedesco Fritz Haber, il “chimico maledetto” perché fu in seguito promotore dell’uso dei gas letali nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Lo studio della sua controversa e, a suo modo, tragica figura offre numerosi spunti di riflessione. Egli fu figlio del suo tempo e delle idee che permeavano la cultura del suo paese. In quanto scienziato visse l’epoca in cui diventò chiaro che era quasi impossibile per un inventore fermarsi allo stadio di benefattore dell’umanità. Nessuna società può, e poteva allora, assicurare che una nuova tecnologia sia utilizzata solo per scopi umanitari. È pertanto difficile imputare a un inventore tutti gli usi che vengono fatti della sua invenzione, soprattutto quando la decisione è presa dal potere politico. D’altra parte, la nostra umanità non consentirà mai che le questioni etiche vengano ignorate, come la questione della responsabilità morale degli scienziati. Se Haber fu una sorta di dottor Faust del Novecento, e di colpe ne ha avute, quella principale è di essere stato il primo, ma non fu sicuramente l’unico.

Haber (1868–1934) era nato a Breslavia (oggi Wroclaw, in Polonia) da una famiglia di ebrei galiziani. Il padre era un imprenditore chimico, in una città che era un microcosmo in fermento: alla fine dell’Ottocento era un miscuglio di etnie, culture e religioni, sviluppatosi tra i poli di un’elegante cultura urbana e della fede nel potere della scienza. Il legame stretto e inedito tra i laboratori universitari di chimica, gli uffici brevetti e l’immediata applicazione industriale delle scoperte appena realizzate favoriva lo sviluppo economico. 



Fra il 1886 e il 1891, Haber studiò all'Università di Heidelberg con Robert Bunsen; in seguito, si trasferì all'Università di Berlino nel gruppo di August Hoffmann e infine con Karl Liebermann. Haber era un convinto nazionalista, in un tempo in cui il nazionalismo era una virtù e un’attitudine degna di lode. Il mondo in cui era cresciuto considerava propri valori fondanti la disciplina, il patriottismo e il rispetto per l’esercito, instillati fin dalla più tenera età. Il sistema scolastico tedesco era di ottimo livello e il grande ruolo attribuito alla scienza poteva far sperare a studiosi e scienziati di giungere ai vertici della gerarchia sociale. In quel clima Haber, che si sentiva un vero tedesco, aveva deciso all’età di 24 anni di farsi battezzare in una chiesa luterana, rinnegando le sue ascendenze e, dicono i maligni, per facilitare la sua carriera scientifica, in una società che già allora considerava gli ebrei con sospetto e un corpo estraneo alla nazione.

Il problema della sintesi diretta a partire dall’azoto e dall’idrogeno atmosferici era la resa estremamente bassa: il punto di equilibrio della reazione in condizioni normali giace molto a sinistra, così, quando si combinano azoto e idrogeno, praticamente non si forma ammoniaca. Diversamente dalla situazione del monossido d’azoto, il punto di equilibrio per la formazione di ammoniaca si muove verso destra (più ammoniaca) con la diminuzione della temperatura, fatto che offriva una qualche possibilità di evitare l’alto costo energetico associato ai metodi allora in uso, ma deve essere associato a un aumento della pressione. In poche parole: alta pressione, bassa temperatura. 

Lavorare con alte pressioni non è facile: anche l’acciaio migliore può rompersi a pressioni di 200 atmosfere. Inoltre, operare a temperature basse sposta il punto d’equilibrio nel senso voluto, ma non consente che la reazione avvenga velocemente. Molte reazioni chimiche non avvicinano velocemente l’equilibrio termodinamico. Ad esempio, il punto d’equilibrio della reazione tra idrogeno e ossigeno per formare l’acqua giace molto a destra (verso la formazione di acqua), tuttavia miscele di idrogeno e ossigeno possono restare per milioni d’anni senza che si formi una quantità apprezzabile d’acqua. Molte reazioni richiedono una specie di spinta per essere avviate. Si parla a questo proposito di energia di attivazione, la barriera energetica da superare perché avvenga la reazione. Per una miscela di idrogeno e ossigeno, la spinta può essere fornita da una scarica o da una fiamma (come purtroppo avvenne con la drammatica e spettacolare esplosione del dirigibile Hindenburg nel 1937). Una scarica elettrica funzionava anche nel metodo ad arco elettrico per ottenere monossido d’azoto da azoto e ossigeno, a causa della natura reattiva dell’ossigeno. Ma una scarica non serviva per la produzione di ammoniaca da azoto e idrogeno, perché l’azoto è molto meno reattivo. Un modo di superare l’energia di attivazione è il calore, cioè far svolgere la reazione ad alte temperature, agitando tutte le molecole. Per la formazione dell’ammoniaca, tuttavia, le alte temperature avevano l’inconveniente di spingere il punto di equilibrio nella direzione sbagliata (producendo meno ammoniaca) e, naturalmente, esse avrebbero consumato molta energia rendendo improbabile un ritorno economico. 



Un altro modo per favorire la reazione è l’uso di un catalizzatore, una sostanza che non vi partecipa direttamente (non cambia il punto d’equilibrio), ma che riduce l’energia di attivazione, facendo in modo che il punto d’equilibrio venga raggiunto più in fretta. Per molte reazioni gassose, come catalizzatori si usano i metalli. Ad esempio, nella marmitta catalitica di un’automobile, platino, rodio e palladio fanno da catalizzatori per trasformare il monossido di carbonio e gli ossidi d’azoto dei gas esausti in composti meno dannosi per l’ambiente. Quando i metalli sono utilizzati come catalizzatori nelle reazioni gassose, i gas generalmente si depositano sulla superficie del metallo, dove possono reagire più facilmente. Quando si formano i prodotti, essi lasciano la superficie metallica del catalizzatore e fanno posto all’insieme successivo di molecole reagenti.


Wilhelm Ostwald - Nel 1900, il chimico tedesco Wilhelm Ostwald (1853-1932), futuro premio Nobel nel 1909 per le sue ricerche sui principi fondamentali che governano l'equilibrio chimico e la velocità di reazione, aveva annunciato di essere riuscito a produrre ammoniaca da idrogeno e azoto ad alta temperatura e pressione utilizzando il ferro come catalizzatore. Fece richiesta per un brevetto e lo comunicò ai giganti dell’industria chimica Hoechst e BASF. Quest’ultima negoziò immediatamente un accordo con lui per esaminare il processo e affidò il controllo al giovane ricercatore Carl Bosch, che fornì una relazione in cui sosteneva che l’ammoniaca prodotta da Ostwald non proveniva dall’azoto atmosferico, ma da contaminanti nel catalizzatore che si stava usando. Ostwald era furioso e disse alla BASF: “Quando affidate il compito a un chimico appena assunto, senza esperienza, che non sa nulla, allora non ne viene fuori nulla di buono”. Alla fine, però, si rese conto che Bosch aveva ragione e ritirò la domanda di brevetto. 

Ostwald si rifece brevettando nel 1902 un processo per la produzione di acido nitrico a partire dall’ammoniaca, che diventò un pilastro della moderna industria chimica.  L'ammoniaca viene convertita in acido nitrico in due fasi. Viene ossidata mediante riscaldamento con ossigeno in presenza di un catalizzatore (oggi si usa il platino con il 10% di rodio), per formare monossido d’azoto e vapore d’acqua. Questo passaggio è fortemente esotermico, il che lo rende una fonte di calore utile una volta avviato:

 4NH3 + 5O2 = 4NO + 6H2O

La seconda fase (combinazione di due fasi di reazione) viene eseguita in presenza di acqua in un apparato di assorbimento. Inizialmente il monossido d’azoto viene nuovamente ossidato per produrre biossido:

2NO + O2 = 2NO2

Questo gas viene quindi facilmente assorbito dall'acqua, ottenendo il prodotto desiderato (acido nitrico, anche se in forma diluita), riducendone di nuovo una parte a monossido d’azoto:

3NO2 + H2O = 2HNO3 + NO

L'NO viene riciclato e l'acido viene concentrato mediante distillazione. In alternativa, se l'ultimo passaggio viene eseguito in presenza di aria:

4NO2 + O2 + 2H2O = 4HNO3

Le condizioni tipiche per il primo stadio, che contribuiscono ad una resa complessiva di circa il 96%, sono la pressione tra 4 e 10 atmosfere e la temperatura di circa 900°C. Inizialmente il processo avveniva in recipienti di gres a bassa pressione, ma l'introduzione dell'acciaio inossidabile ha reso possibili pressioni più elevate, portando a rese più elevate. Il metodo di Ostwald è utilizzato a valle dei processi di sintesi che forniscono l’ammoniaca, la materia prima necessaria.

 


Entra in campo Nernst - Nel 1904 Haber era stato avvicinato dai fratelli Margulies, due chimici industriali di Vienna che lo assunsero come consulente per affrontare il problema. Egli iniziò esaminando l’equilibrio tra idrogeno e azoto a 1000°C in presenza di ferro, come aveva fatto Ostwald, ma ideò un sistema per rimuovere l’ammoniaca non appena si formava. Togliendo l’ammoniaca già prodotta l’equilibrio slittava verso la sua sintesi. Haber riuscì però a produrre solo una piccola quantità di ammoniaca, circa lo 0,01%. Capì che la sintesi avrebbe funzionato dal punto di vista commerciale solo a pressione molto elevata e temperatura più bassa, il che voleva dire che bisognava trovare un catalizzatore migliore del ferro. Fece ai Margulies una relazione piuttosto scoraggiante e pubblicò i suoi risultati nell’articolo del 1905 Thermodynamik technischer Gasreaktionen (La termodinamica delle reazioni dei gas tecnici), opera più interessata all’applicazione industriale della chimica che ai suoi aspetti teorici. Nel testo Haber inserì i risultati dei suoi studi sull’equazione all’equilibrio dell’ammoniaca:

N2 + 3H2 = 2NH3

A 1000 °C si producevano piccolissime quantità di ammoniaca a partire dal biossido di azoto e dall’idrogeno molecolare gassosi. 

Mentre Haber era alle prese con i problemi tecnici della produzione di ammoniaca, un altro grande chimico prussiano, Walther Nernst (1864-1941) stava attraversando un periodo di grandi soddisfazioni professionali, potendo essere considerato uno dei più influenti chimici tedeschi. Nernst aveva studiato all'università a Zurigo, poi a Graz, dove scoprì l'effetto Nernst, cioè che un campo magnetico applicato perpendicolarmente a un conduttore metallico in un gradiente di temperatura dà luogo a una differenza di potenziale elettrico. Successivamente, si trasferì a Würzburg, dove presentò a sua tesi. Ostwald lo volle con sé nel primo dipartimento di chimica fisica a Lipsia. Nernst vi si trasferì come assistente, studiando la termodinamica delle correnti elettriche nelle soluzioni. Promosso docente, insegnò brevemente a Heidelberg e poi si trasferì a Gottinga, dove il governo creò apposta per lui l'Istituto di Chimica Fisica ed Elettrochimica. Derivò anche l'equazione per il potenziale elettrico generato da concentrazioni disuguali di uno ione separato da una membrana permeabile. La sua equazione è ampiamente utilizzata in fisiologia cellulare e neurobiologia.



Nernst aveva inventato nel 1898 la “lampada di Nernst”, una lampadina elettrica che usava una barretta di ceramica incandescente, al posto della costosa e precaria lampadina a filamento di carbonio. La lampadina di Nernst anticipava la lampada ad incandescenza. Vendette il brevetto per un milione di marchi, saggiamente non optando per le royalties perché presto fu introdotta la lampada a filamento di tungsteno riempita di gas inerte. Diventò un uomo molto ricco. 

Nel 1905 propose il suo "nuovo teorema del calore", più tardi noto come Terza legge della termodinamica, con il quale dimostrò che quando la temperatura si avvicina allo zero assoluto, l'entropia si avvicina allo zero, mentre l'energia libera rimane sopra lo zero. Questa fu la sua scoperta più importante, poiché permise ai chimici di determinare dalle misurazioni del calore le energie libere (e quindi i punti di equilibrio) delle reazioni chimiche. Nel 1920 ricevette il premio Nobel per la chimica in riconoscimento per i suoi lavori nel campo della termochimica.

Nel 1906 Nernst volle applicare il suo teorema del calore ai dati pubblicati da altri, per validare la sua scoperta. Scoprì che i risultati di Haber nell’articolo dell’anno precedente non erano conformi alle sue previsioni e gli scrisse per informarlo di questa discrepanza. Nernst inoltre ripeté gli esperimenti di Haber e trovò molta più ammoniaca di quanto riportato dal collega e previsto dai suoi stessi calcoli. Haber, che era appena diventato professore di chimica fisica a Karlsruhe, si sentì umiliato per le critiche di Nernst e volle ripetere di nuovo i suoi esperimenti. Trovò più ammoniaca di quanto ne aveva scoperta in precedenza, ma meno di quella trovata da Nernst, e la quantità misurata corrispondeva quasi esattamente alle sue previsioni teoriche. Si potrebbe pensare a un Nernst felice di questa conferma del suo teorema del calore. 

Nernst invece non era ancora soddisfatto. In una riunione scientifica nel 1907, attaccò i risultati di Haber, ribadendo che erano sbagliati, e dicendo che la sintesi dell’ammoniaca era impossibile da realizzare su scala commerciale. Haber, la cui reputazione come giovane chimico emergente era messa in discussione, non si diede per vinto. Continuò i suoi esperimenti con il chimico inglese Robert Le Rossignol, suo collaboratore a Karlsruhe: portò la pressione a 30 atmosfere, aumentando la resa di 28 volte. Haber incominciava a pensare che la sintesi dell’ammoniaca poteva essere commercialmente fattibile, ma solo trovando un catalizzatore in modo da ridurre la temperatura. Gli sembrò che operare a 200 atmosfere e 600°C era la condizione da raggiungere, prevedendo che ciò avrebbe dato una resa dell’8% di ammoniaca all’equilibrio. Rimuovendo l’ammoniaca appena formata e riciclando l’azoto e l’idrogeno che non avevano reagito, si poteva produrre ammoniaca in modo continuo.


Haber insiste - Haber aveva intanto apportato alcuni miglioramenti al processo ad arco elettrico per la produzione di acido nitrico, suscitando l’interesse della BASF, che volle assumerlo per lavorare sulla fissazione dell’azoto. Nel 1908 firmò un contratto che gli assicurava il 10% dei profitti di qualsiasi metodo industriale avesse sviluppato. Sebbene l’interesse principale della BASF fosse il metodo dell’arco elettrico, Haber era convinto che l’approccio più promettente fosse quello della sintesi diretta che aveva già sperimentato. Nel 1909 trovò un catalizzatore promettente: l’osmio, un elemento raro di cui erano stati isolati solo 100 kg in tutto il mondo. L’osmio era utilizzato come filamento elettrico dalla compagnia di illuminazione Auergesellschaft, per la quale Haber era consulente: ecco perché ebbe a disposizione l’osmio da testare.

La chimica era solo una parte del problema, perché si era di fronte al progetto chimico tecnico più impegnativo mai intrapreso in un ambiente accademico. Il progetto di un reattore che rimuovesse l’ammoniaca man mano che era prodotta, riciclasse il materiale che non aveva reagito e operasse a 200 atmosfere di pressione era in gran parte il compito di Le Rossignol, coadiuvato dal tecnico di Karlsruhe, Friedrich Kirchenbauer. I due progettarono una nuova valvola conica che poteva resistere alle elevate pressioni. Appena i gas ad alta temperatura lasciavano la camera di reazione, venivano usati per preriscaldare il gas in entrata per il ciclo successivo, in modo da non sprecare energia. L’ammoniaca era rimossa appena si formava, e l’azoto e l’idrogeno che non erano stati fissati erano inviati di nuovo alla camera di reazione. Alla fine di marzo del 1909, Haber e Le Rossignol provarono il nuovo reattore con il catalizzatore di osmio e lo alimentarono con l’azoto e l’idrogeno. Appena si formava l’ammoniaca, veniva raffreddata al di sotto del suo punto d’ebollizione e fatta sgocciolare in un recipiente di raccolta. Haber corse per tutto l’istituto dicendo a tutti “Venite giù! C’è l’ammoniaca!”



Haber scrisse alla BASF, comunicando la notizia e incoraggiandoli a comprare le riserve mondiali di osmio, ma, ovviamente, li trovò piuttosto scettici. La BASF era più interessata al processo ad arco elettrico e non era del tutto sicura che le pressioni richieste dalla sintesi dell’ammoniaca di Haber fossero raggiungibili senza danni. Intervenne allora il chimico, professore universitario e ricercatore della BASF Karl Engler, che scrisse al presidente della società convincendolo a una visita nel laboratorio di Haber. Alla fine, ci si accordò per una dimostrazione pratica a Karlsruhe. Per la BASF arrivarono in tre: Heinrich von Brunck, presidente del consiglio di amministrazione, August Bernthsen, direttore della ricerca, e lo stesso Carl Bosch che nove anni prima aveva affossato la domanda di brevetto di Ostwald. Bernthsen chiese con scetticismo quale fosse la pressione necessaria. Haber disse una mezza verità, rispondendo “Almeno cento atmosfere”. Anche questo valore, la metà di quello della dimostrazione che stava per vedere, sconvolse Bernthsen, che disse: “Cento atmosfere? Perché proprio ieri sette atmosfere hanno fatto saltare in aria una delle nostre autoclavi!” Bosch, che sapeva che cosa era in grado di fare l’industria dell’acciaio, confermò. “Penso che possa funzionare”, e von Brunck si impegnò a finanziare lo sviluppo del processo.

Continuando a lavorare sui catalizzatori, Haber scoprì che l’uranio andava bene come l’osmio e, per quanto fosse caro, era più facilmente disponibile. La BASF stava tentando di depositare i suoi brevetti e di tenere le cose il più possibile nascoste, ma Haber comunicò i suoi risultati in una riunione scientifica a Karlsruhe il 10 marzo 1910, parlando di “urgenza straordinaria di legare l’azoto, principalmente per scopi agricoli e in misura molto minore per l’industria degli esplosivi”. Dato che la corsa agli armamenti che avrebbe portato alla Guerra Mondiale era già cominciata, fu un deliberato messaggio trasversale. L’azoto era necessario per la produzione di esplosivi come lo era come fertilizzante: l’elemento esplosivo nella polvere da sparo è il nitrato di potassio. Haber era ben consapevole che il governo tedesco era preoccupato di essere tagliato fuori dalle forniture di nitrati sudamericani da un blocco navale inglese durante una guerra e considerava il suo lavoro fondamentale per la difesa nazionale.

La dichiarazione di Haber fu immediatamente considerata una grande scoperta, ed egli fu inondato di offerte dalle imprese chimiche. La BASF era stata incapace di convincerlo a posticipare l’annuncio, ma egli era stato d’accordo di tacere quanti più dettagli possibile. Ma la voce era oramai uscita: Haber aveva fatto ciò che era sembrato essere impossibile. Due mesi dopo, in una riunione del governo tedesco con le principali imprese del paese, si decise il finanziamento della ricerca nei settori strategici per lo Stato. Il Kaiser, poco modestamente, accettò che venissero fondati degli istituti di ricerca a lui intitolati. Nacquero così gli Istituti Kaiser Wilhelm. Leopold Koppel, che controllava la Auergesellschaft (quella dell’osmio), si offrì di finanziare un istituto di chimica fisica ed elettrochimica a Berlino, a patto che Haber ne fosse il direttore e che potesse richiedere brevetti e ottenere licenze. Si convenne che al finanziamento privato si affiancasse quello pubblico per gli stipendi: i dipendenti dell’Istituto erano equiparati a funzionari pubblici, cosa che si sarebbe rivelata importante quando nel 1933 i nazisti presero il potere e furono liberi di licenziare tutti i funzionari ebrei. Haber aveva raggiunto tutto ciò che desiderava: era universalmente riconosciuto come un grande chimico fisico, dirigeva il Kaiser Wilhelm Institute per la Chimica Fisica ed Elettrochimica di Dahlem, un sobborgo di Berlino, presto sarebbe diventato ricco con il brevetto per l’ammoniaca, era uno stimato cittadino tedesco, addirittura un consigliere del Kaiser. Era il leader scientifico della nuova nazione tedesca.

 

Carl Bosch - Trasformare la sintesi dell’ammoniaca ottenuta nel laboratorio di Haber in un impianto industriale e commerciale non era un compito facile. L’affermazione di Carl Bosch, “Penso che possa funzionare”, era ambiziosa, perché nessuno aveva mai costruito un impianto che potesse operare a pressioni così alte. Quando Bosch disse quelle parole nel 1909, aveva trentacinque anni. Era il figlio di un idraulico esperto e aveva ricevuto un’educazione secondaria in una scuola tecnica invece che in un ginnasio. Dopo il diploma, trascorse un anno in una società siderurgica, dove imparò a fare il modellatore, il meccanico, il carpentiere e il fabbro. Poi andò alla Technische Hochschule di Charlottenburg (la stessa che Haber aveva frequentato pochi anni prima) e studiò da tecnico metallurgico e meccanico, acquisendo esperienza pratica nelle acciaierie. Solo alla fine iniziò a studiare chimica organica, conseguendo il dottorato con Johannes Wislicenus a Lipsia nel 1898. Rimase ancora un anno come suo assistente. Nella sua domanda di assunzione alla BASF elencò non solo i titoli di studio, ma anche le sue competenze pratiche. 



La sintesi industriale dell’ammoniaca sarebbe poi stata conosciuta come processo Haber-Bosch, e Bosch meritò che il suo nome comparisse in evidenza. Il metodo era cominciato con la teoria ed era progredito passo dopo passo verso la pratica: Haber aveva iniziato studiando il problema con impegno solo dopo la disputa teorica con Nernst riguardo alle previsioni di quest’ultimo basate sul suo teorema del calore: Haber aveva stabilito le temperature e pressioni ottimali, per tentativi ed errori. Sempre Haber aveva trovato i catalizzatori che avrebbero reso la reazione possibile alla temperatura desiderata, e Haber, Le Rossignol e Kirchenbauer avevano escogitato un banco di prova che avrebbe prodotto alcune gocce di ammoniaca, mostrando il potenziale del processo. Il processo commerciale, tuttavia necessitava di produrre tonnellate di ammoniaca al giorno. Bosch era un risolutore di problemi, e c’era una gran quantità di problemi per far funzionare la sintesi dell’ammoniaca. Bosch vide le tre principali difficoltà: trovare una fornitura economica di azoto e idrogeno puri, trovare un catalizzatore più efficiente e meno caro, progettare camere di reazione e impianti che potessero reggere una pressione di 200 atmosfere.

L’idrogeno e l’azoto da utilizzare da usare dovevano essere molto puri, altrimenti le impurità introdotte avrebbero corrotto qualsiasi catalizzatore fosse stato usato. L’azoto puro poteva essere ottenuto dalla distillazione frazionata dell’aria, ma l’idrogeno puro era un problema in più. La BASF aveva pronte riserve di carbone, e Bosch decise di produrre idrogeno facendo reagire coke brillante (carbonio puro, ottenuto riscaldando il carbone in assenza di aria) con vapore d’acqua, secondo l’equazione:

C + H2O = H2 + CO

Trovare un catalizzatore era un problema ancor più difficile. Haber aveva iniziato con l’osmio e l’uranio, ma nessuno dei due elementi era adatto per un processo commerciale. Erano entrambi costosi, l’osmio era molto raro, e l’uranio era troppo sensibile alla contaminazione di ossigeno e acqua. Bosch incaricò Bob Stern di testare i catalizzatori, ed egli progettò un apparato ad alta pressione in cui si potevano rapidamente inserire cartucce contenenti 2 grammi di un potenziale catalizzatore. Stern aveva a disposizione trenta di questi impianti di prova che operavano contemporaneamente, verificando ogni campione metallico su cui poteva mettere le mani. Egli trovò che un singolo campione di minerale di ferro di una miniera svedese funzionava bene come l’osmio e l’uranio. Pareva che quantità in tracce di altri materiali fossero la chiave del suo successo come catalizzatore, e Stern incominciò a esaminarli uno per uno. Alla fine, identificò non solo gli agevolatori catalitici, ma anche i “veleni” catalitici che dovevano essere rigorosamente evitati, come lo zolfo, il fosforo e il cloro. Dopo una gran quantità di lavoro, Stern trovò che il catalizzatore più adatto era il ferro, con il quale Ostwald aveva cominciato nel 1900. La differenza era che solo che il giusto tipo di ferro impuro avrebbe funzionato.

Bosch aveva costruito due reattori di prova, che erano posti in recinti di cemento come misura di sicurezza. Dopo 80 ore di attività, entrambi bruciarono. Quando i tecnici esaminarono i reattori, scoprirono che il metallo era diventato friabile e si era fratturato. Siccome il reattore doveva reggere pressioni così elevate, era stato progettato con l’acciaio più resistente disponibile, quello al carbonio. Bosch scoprì che l’idrogeno si era diffuso nelle pareti d’acciaio e aveva poi reagito con il carbonio nell’acciaio e formato gas metano. Quando il metano si era formato, era alla pressione di 200 atmosfere, e aveva subito portato alla disintegrazione delle pareti. La soluzione di Bosch per il problema fu un reattore a doppia camera: una interna e sottile fatta di acciaio senza carbonio chiusa in un rivestimento di acciaio al carbonio che poteva reggere la pressione. Mentre l’idrogeno poteva diffondersi nello strato interno, non poteva danneggiarlo, perché non c’era carbonio per formare metano. Tutto l’idrogeno diffuso attraverso la camera interna verso quella esterna di acciaio al carbonio poteva uscire tramite piccoli fori praticati nel rivestimento.

La filosofia di Bosch era di misurare dovunque fosse possibile. Sensori per la pressione, la temperatura, i gas reagenti, quelli prodotti, i contaminanti furono posti in ogni fase del processo, così egli poteva sapere esattamente quello che stava succedendo nel reattore. Nel maggio del 1910, esattamente dieci mesi dopo la dimostrazione di Haber a Karlsruhe, Bosch aveva costruito un piccolo impianto pilota a ciclo continuo e, nel dicembre dello stesso anno, ne fece uno più grande che produceva 18 kg di ammoniaca al giorno. Lavorando con Haber, Bosch rese la sintesi dell’ammoniaca una realtà commerciale. Nel 1931 fu il primo ingegnere chimico a ricevere il premio Nobel per la chimica.

 

La causa tra i due colossi - Haber e la BASF avevano naturalmente fatto richiesta per un certo numero di brevetti e avevano tenuto segreto il più possibile ciò che stava facendo Bosch. Ma i concorrenti della BASF si rendevano conto di che cosa poteva significare la scoperta di Haber e temevano che la BASF avrebbe monopolizzato la nuova tecnologia. La concorrente Hoechst inoltrò un reclamo secondo il quale il brevetto principale di Haber (la sintesi catalitica di ammoniaca da azoto e idrogeno) non era valido, sulla base che era stato realizzato in precedenza da Nernst nel 1907. La Hoechst aveva ingaggiato Ostwald come consulente per il giudizio, ed egli fornì una perizia di parte secondo la quale il brevetto era solo un’estrapolazione alle alte pressioni della legge di Nernst, che era facilmente prevedibile applicando le leggi della termodinamica, senza bisogno di esperimenti. Secondo Ostwald, tutto ciò che aveva fatto Haber era solo ingegneria.

Se la BASF voleva vincere la causa, ci voleva un suo consulente, e chi meglio di Nernst? Nernst non aveva più interesse alla corsa per l’ammoniaca, perché aveva abbandonato la ricerca in questo campo nel 1907. In cambio di 10.000 marchi all’anno per cinque anni, concordò un contratto di consulenza con la BASF. Due giorni prima dell’udienza per il brevetto, la parte della BASF era pessimista e credeva che la Hoechst avrebbe probabilmente vinto. Quando iniziò l’udienza, tuttavia, Nernst trionfò. L’avvocato della Hoechst, Richard Weidlich, non sapeva che Nernst era sul libro paga della BASF e disse dopo l’udienza: “Il mio principale testimone, Nernst, si presentò a braccetto con Haber (...) e, dopo che avevo elogiato il suo fondamentale contributo alla sintesi dell’ammoniaca, fece un appassionato discorso in cui spiegò che il suo lavoro non aveva alcuna rilevanza tecnica e i suoi risultati avevano solo interesse scientifico. Solo Haber aveva creato i prerequisiti per il successo tecnico, studiando nuovi campi di pressione. Se gli imprenditori chimici non avevano avuto alcun interesse per il suo lavoro [il proprio] era comprensibile. Tuttavia, se un imprenditore avesse rifiutato il processo di Haber avrebbe dovuto essere stato cieco. Gli effetti del discorso di Nernst furono evidenti e anch’io fui impressionato, così dissi sottovoce al mio collega che potevamo andarcene a casa”

Il 12 marzo 1912 la BASF vinse la causa, e alla Hoechst toccò pagare tutte le spese processuali. La lite tra Nernst e Haber era stata composta al meglio, poiché il primo aveva ritirato i suoi giudizi negativi (dietro lauto compenso) e il secondo era diventato un uomo ricco. Haber era giunto a un accordo con la società secondo il quale avrebbe ricevuto 0,015 marchi per chilogrammo di ammoniaca prodotta per tutti i quindici anni di durata del brevetto, il che significava diversi milioni di marchi fino a metà degli anni ‘20. 

Terminata la causa, la BASF era pronta a intraprendere la produzione commerciale dell’ammoniaca e costruì un enorme impianto a Oppau. Lo stabilimento era quasi autosufficiente, perché aveva bisogno solo di aria e acqua, oltre al carbone utilizzato per scaldare i reagenti, produrre il coke e per ottenere l’idrogeno dalla reazione del coke con il vapore d’acqua. L’impianto di Oppau produceva 10 tonnellate di ammoniaca al giorno già alla fine del 1913 e raddoppiò la produzione entro il 1914. Circa il 70% della produzione era utilizzato come fertilizzante. Ma il 28 giugno 1914 tutto cambiò: il nazionalista serbo Gavrilo Princip assassinò l’arciduca Ferdinando d’Austria-Ungheria. Il 1° agosto scoppiò la guerra e l’ammoniaca di Oppau non era più destinata a fertilizzare i campi, ma per armare i cannoni.



La guerra, il Nobel, la fine - Ben presto ci si accorse che quella che doveva essere una guerra lampo era in realtà un massacro infinito di uomini impantanati in trincee fangose, reclusi dal filo spinato, esposti al tiro dei cannoni e delle mitragliatrici. La Germania, che era entrata in guerra con il piglio della giovane potenza che reclamava il suo posto nella storia, si ritrovò con il passare dei mesi sull’orlo del disastro. Le scorte e la capacità produttiva di munizioni, programmati dallo Stato Maggiore tedesco per un breve conflitto, si stavano rivelando totalmente inadeguati. Fu subito formato un gruppo di esperti per uscire dalla trappola tecnologica nella quale si era andato a ficcare il Kaiserreich che combatteva su due fronti: a ovest con i franco-inglesi e a est con i russi. Del gruppo faceva parte Haber, che considerava un suo dovere aiutare la patria in guerra. Il processo tecnologico che aveva sviluppato per la sintesi dell’ammoniaca poteva colmare la disparità di armamenti rispetto al nemico. Era tuttavia comune convinzione che, anche aumentando la potenza di fuoco e inviando nuove truppe al fronte, la guerra non poteva essere vinta in poco tempo. Haber si persuase che una vittoria rapida poteva essere ottenuta solo se alla guerra fosse stata data una nuova dimensione tecnologica, introducendo un elemento di terrore, spostando in avanti le tradizionali linee di pensiero dello Stato Maggiore. Tale trauma doveva essere causato dall’uso di armi chimiche al fronte, in grado non solo di costringere alla fuga o invalidare le prime linee nemiche, ma tali da essere inarrestabili e il più possibile mortali, in modo da consentire alle truppe tedesche, provviste di adeguate protezioni, un’avanzata su un tappeto di morti. Haber era convinto che tale feroce strategia avrebbe costretto il nemico a capitolare rapidamente, salvando così tante vite.

A Ypres, in Belgio, il 22 aprile 1915, Haber supervisionò di persona il primo attacco con gas di cloro (la famigerata iprite) contro le trincee francesi e inglesi. Haber continuò i suoi esperimenti mortali, convinto che bisognava anticipare le analoghe ricerche del nemico per vincere la guerra. Questo fu il suo errore principale: la guerra proseguì per altri tre anni, con la morte in trincea di milioni di uomini. Le armi chimiche letali, usate da tutti i belligeranti (quella più terribile diventò il fosgene), non sortirono l’effetto da lui voluto, e si rivelarono un’inutile atto di ferocia perché meno efficaci delle armi tradizionali sul piano militare. Il loro uso su entrambi i fronti e la scia di morte provocata dal loro utilizzo indiscriminato portarono dopo la guerra alla loro messa bando basata su una sorta di equilibrio del terrore. Il divieto fu violato solamente nel 1935-36 dalle truppe italiane (brava gente) durante l’aggressione fascista all’Etiopia, ultima sciagurata avventura coloniale di una nazione europea. 



Non sarà sfuggita l’analogia tra l’idea di Haber e ciò che sarebbe successo alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando un’inedita arma di distruzione di massa, la bomba a fissione nucleare, fu utilizzata per vincere le ultime resistenze del Giappone, per di più sulle popolazioni civili. Anche in quel caso si sarebbe trovata la giustificazione che un orrore così inedito, portando alla rapida capitolazione del nemico, avrebbe risparmiato numerose vite (soprattutto quelle delle forze americane nel caso si fosse dovuto invadere il Giappone). Forse la differenza tra lo sterminio chimico sul campo di battaglia e quello nucleare sulle città giapponesi sta principalmente nel fatto che il secondo fu efficace e il primo non lo fu.

L’assegnazione del premio Nobel ad Haber nel 1918 per il suo metodo di sintesi dell’ammoniaca non mancò di sollevare indignate proteste in tutto il mondo, al punto che il premio gli fu consegnato solo l’anno successivo, ma la sua reazione aveva reso possibile la produzione su vasta scala di fertilizzanti artificiali per fornire ai campi di cereali l’azoto necessario. Più che altro, contò il fatto che Haber ottenne l’onorificenza presentandosi a Stoccolma come rappresentante di un paese sconfitto.

Dopo la guerra, Haber tornò a dirigere l'Istituto di Fisica ed Elettrochimica Kaiser Wilhelm di Berlino. La sua leggenda nera è alimentata anche dal fatto che si interessò di pesticidi e mise a punto il procedimento per la sintesi dell'acido cianidrico, denominato commercialmente Zyklon B, che era originariamente destinato alla disinfestazione di pidocchi ed altri parassiti, e che fu successivamente utilizzato per assassinare i prigionieri nei campi di sterminio nazisti. Tuttavia, Haber non ebbe nulla a che fare con l’uso che si fece più tardi delle sue scoperte. 

Dopo l’ascesa di Hitler al potere, il nazionalismo statale diventò nazionalismo etnico e razzismo. Haber, nonostante la conversione, nel 1933 divenne l’Ebreo Haber. Lasciata la Germania, si stabilì in Palestina e poi a Basilea, dove morì un anno più tardi. In una commemorazione semiclandestina tenutasi all’Istituto Kaiser Wilhelm, che era stato diretto da lui per ventidue anni, un altro premio Nobel, Max Planck, sottolineò come senza la sintesi dell’ammoniaca la Germania avrebbe perso la guerra dopo pochi mesi, per mancanza di cibo e di munizioni. Planck tenne il suo discorso davanti a una platea di donne, le mogli dei professori. I mariti avevano preferito non esporsi, per “preservare i valori”.


mercoledì 16 giugno 2021

Coleridge e Davy, la chimica e la poesia


Nell’ultimo decennio del Settecento, la fiorente Rivoluzione Industriale, con la crescita della popolazione in Inghilterra, aumentò la necessità di ricerca scientifica per far avanzare i vari settori dell’economia; ad esempio, la chimica avrebbe sostenuto il miglioramento della tecnologia e dell'agricoltura e la botanica di quello dell'approvvigionamento alimentare. I poeti romantici furono testimoni di questa trasformazione ed erano anche interessati alla pratica scientifica come mezzo di miglioramento della società; la scienza aveva il potere di cambiare la società, come la voce di un poeta che indirizzava direttamente alle persone le visioni per un mondo migliore. Da questo punto di vista, il rapporto tra scienza e poesia per i romantici inglesi non era di diffidenza, ma di reciprocità, e esse potevano interagire tra loro, se non associarsi.

Joseph Priestley (1733-1804), famoso uomo di scienza e predicatore eterodosso, scopritore dell'ossigeno, fu anche un veemente oratore che sostenne la causa della Rivoluzione francese. È noto che alcuni poeti nutrivano una profonda simpatia per Priestley. A loro parere, lo scopo fondamentale dei famosi esperimenti di Priestley sull'aria era la rivelazione del principio della vita: "respiro", o combustione, o "fuoco" si traduceva nel "mettere le ali alle [sue] opere teologiche più sublimi". Samuel Taylor Coleridge (1772‑1834) gli dedicò un sonetto, che fu pubblicato nel Morning Chronicle nel 1794 e si concludeva descrivendolo come una specie di santo scientifico: “Meek Nature slowly lifts her matron veil / To smile with fondness on her gazing Son! (La natura mite solleva lentamente il suo velo da matrona / per sorridere affettuosamente a suo Figlio che la fissa!).

Priestley riteneva che la scienza e la religione fossero in definitiva una cosa sola e collegava la sua visione scientifica dell'aria con il potere di Dio. Affermò che la nozione di "immateriale" nel senso moderno poteva essere riformulata nei termini di materiale nel pensiero antico, al fine di supportare la propria teoria materialistica. Scriveva che “ciò che gli antichi intendevano per essere immateriale, era solo un tipo più fine di ciò che ora dovremmo chiamare materia; qualcosa come l'aria o il respiro, che prima fornisce un nome all'anima, o qualcosa come il fuoco o la fiamma, che probabilmente è stato suggerito dal calore del corpo vivente”. Coleridge non poteva accettare il materialismo di Priestley, sebbene ammirasse i suoi risultati scientifici. Per Coleridge, la scienza era un campo stimolante attraverso il quale poteva indagare la comunicazione tra lo spirituale e il materiale, e forniva un mezzo per migliorare le condizioni sociali, sostenendo la fede nel progresso dell'umanità.

Thomas Beddoes (1760-1808), medico laureato a Oxford, chimico, scrittore scientifico e veemente sostenitore della causa della Rivoluzione francese, era uno dei seguaci scientifici di Priestley e fece la sua pratica medica sulla base delle ricerche sull'aria. Recensendo un articolo di Beddoes nella sua effimera rivista, The Watchman, pubblicata per solo dieci numeri nel 1796, Coleridge proclamò il merito sociale della sua pratica medica e lo definì un vero patriota perché aveva presentato un piano per migliorare la dieta del popolo in Inghilterra. Accettando l'idea di Priestley, Beddoes sosteneva che "arie fittizie potrebbero essere vantaggiosamente introdotte nella pratica della medicina". Aveva reso pubblico il suo progetto di istituire un istituto medico, ritenendo che “una piccola istituzione appropriata avrebbe condotto a questo scopo più che una pratica occasionale e dispersa in vent'anni”. Il progetto di Beddoes fu inizialmente considerato difficile da realizzare, considerate le sue idee giacobine. Nel 1798, Beddoes riuscì tuttavia a fondare la Pneumatic Institution for Relieving Diseases by Medical Airs, a Clifton, presso Bristol, sostenuta da finanziatori principalmente dalle Midlands e da Birmingham. Era concepito come un centro medico, con annesso un ospedale dove si tentava di curare con i gas i pazienti le cui patologie erano ritenute incurabili, come la paralisi o la tubercolosi. Nelle città industriali in crescita, c'erano persone disposte a sostenere lo sviluppo di scienze pratiche, educazione e benessere, e uno degli effetti della consapevolezza culturale che avevano prodotto fu il sostegno finanziario che fu ufficialmente offerto nel 1798 a Beddoes dalla agiata famiglia Wedgwood, cioè Josiah Wedgwood, fondatore della nota azienda di ceramica e suo figlio Thomas, scienziato e inventore.

Del circolo di Bristol facevano parte, oltre a Coleridge, l’altro poeta e scrittore Robert Southey e il giovane Humphry Davy (1778-1829). Dopo un breve apprendistato come farmacista, Davy iniziò la sua carriera come uomo di scienza proprio all’Istituto Pneumatico, mentre Coleridge e Southey iniziarono la loro carriera letteraria.

Coleridge conobbe per la prima volta William Wordsworth a Bristol. I due incominciarono a frequentarsi nel Somerset, dove Coleridge si era stabilito nel 1797 in un effimero tentativo di cambiare vita e dedicarsi all’agricoltura. Fu in quel periodo che i due iniziarono il progetto delle Lyrical Ballads, pubblicate nel 1798, che sono considerate la pietra di fondazione del movimento romantico inglese. Quando i due Wedgwood, suoi amici, gli offrirono un assegno annuo per dedicarsi completamente alla letteratura, Coleridge partì per la Germania con Wordsworth, per “completare la sue educazione”. Tornò dopo un anno, deluso anche da questa esperienza. Iniziò a collaborare con il Morning Post di Londra e tornò a frequentare il circolo di Bristol.

Alla Pneumatic Institution, Humphry Davy in qualità di assistente di Beddoes, iniziò a sperimentare l'inalazione di protossido di azoto, o "gas esilarante", scoperto da Priestley nel 1772, che si credeva alleviasse il dolore e curasse malattie senza speranza. Davy registrò gli effetti del gas, osservando le persone che lo avevano provato, tra cui Coleridge. Davy scrisse che, dopo averlo inspirato quattro volte, Coleridge sentiva che "le sensazioni erano molto piacevoli, non così intense o apparentemente locali, ma di un piacere più puro di quanto avesse mai provato prima". L'inalazione di protossido di azoto, sebbene il suo effetto medico non fosse chiaramente noto, creava una sorta di sensazione di benessere indescrivibile a parole. Il gas, appena somministrato alle persone allo scopo di liberarle dai dolori, emancipava anche i loro sentimenti da quelli ordinari, lasciandoli alla ricerca di nuovi termini per esprimere la loro insolita esperienza.

Nel suo libro Researches, Chemical and Philosophical, Chiefly Concerning Nitrous Oxide, pubblicato nel 1800, Davy rilevò che esso attenua considerevolmente la sensazione del dolore, anche quando chi lo assume è ancora semi-cosciente, consigliando il suo utilizzo nella pratica medica. Purtroppo, benché Davy avesse scoperto le sue proprietà anestetiche, passarono altri 44 anni prima che esso fosse utilizzato dapprima nelle estrazioni dentarie e poi nella piccola chirurgia.


Davy fu molto coraggioso, e anche un po’ incosciente, a respirare il gas esilarante quando molti temevano che fosse letale, anche se c’è da dire che egli riporta nel testo la cronaca di suoi esperimenti altrettanto azzardati con il monossido di carbonio, l’ossigeno, l’idrogeno e altri gas. La sua euforica relazione agli effetti della sostanza – “mi ha fatto danzare come un pazzo per il laboratorio, e da allora ha tenuto acceso il mio stato d’animo” – sembrava promettere grandi cose. Beddoes pensava che il protossido d’azoto potesse offrire il mezzo con il quale “l’uomo può, talvolta, arrivare a comandare le cause del dolore e del piacere, con un dominio tanto assoluto quanto quello che ora esercita sugli animali domestici e sugli altri strumenti del suo comodo”. Nel suo libro, Davy più o meno diceva le stesse cose: “Poiché l’ossido nitroso nella sua azione estensiva sembra capace di distruggere il dolore fisico, esso può probabilmente essere usato con profitto durante le operazioni chirurgiche nelle quali non si ha una grande perdita di sangue”. Il problema era che, in quell’epoca, si attribuiva poco interesse al concetto di anestesia, poiché si riteneva che il dolore fosse una parte importante della chirurgia, se non altro perché dimostrava che il paziente era ancora vivo. È impressionante considerare quanti pazienti avrebbero potuto essere risparmiati da inutili sofferenze nei successivi quattro decenni se Davy avesse proseguito lungo questa strada.

Tra il maggio e il luglio del 1800, Davy inalò regolarmente protossido d’azoto. Più tardi parlò della sua esperienza come di un intenso piacere. Sembrava che la creatività fosse potenziata: egli descrisse ciò che definì “emozioni sublimi legate a idee molto lucide” e sperimentò fantasticherie di “immaginazione visiva” che occupavano la sua mente prima del sonno. Successivamente al luglio 1800, Davy abbandonò la sua “abituale pratica di inalazione” anche se continuava “a respirare occasionalmente il gas”, talvolta per “il mero piacere”. Davy aveva nuovi interessi, come la pila di Volta, che avrebbe poi usato per separare sali attraverso quella che oggi viene chiamata elettrolisi. Con alcune batterie in serie isolò il potassio e il sodio,poi calcio, stronzio, bario, magnesio, boro e alluminio. Studiò anche le energie coinvolte nella separazione di questi sali, perciò è considerato uno dei padri dell'elettrochimica moderna.

Altri nella cerchia di Davy a Bristol, così come i pazienti dell’ospedale, provarono il gas con risultati simili. Gli effetti del composto furono sperimentati da Robert Southey il quale, in una lettera indirizzata al fratello, scrisse che “Davy ha inventato un nuovo piacere per il quale il linguaggio non ha nome”. James Webbe Tobin, membro del circolo e futuro abolizionista della schiavitù, paragonò l’esperienza a quella della “rappresentazione di una scena eroica sul palcoscenico, o alla lettura di un sublime passaggio poetico, quando le circostanze contribuiscono a risvegliare i più sottili sentimenti dell’anima”. In tutte queste testimonianze, il gas esilarante sembra abbia fornito una particolare ricettività alle qualità più alte della musica, della poesia e del teatro. 

Tutte queste presunte qualità decretarono il successo del gas, che in effetti era una nuova droga, tra le classi sociali elevate, in cerca di euforia e deboli allucinazioni. Dal 1799 iniziarono i "laughing gas parties", festini a base di gas esilarante che fortunatamente non diventarono un fenomeno allarmante per la scarsa disponibilità della sostanza.


Esistono alcune analogie linguistiche tra l'esperimento dell'inalazione di protossido di azoto e lo scopo alla base della prima edizione delle Lyrical Ballads, pubblicate per la prima volta in forma anonima a Bristol nel 1798. La premessa delle Lyrical Ballads suggerisce che il volume di poesie è una trasformazione poetica di ciò che era stato implicitamente attribuito alla cura medica sperimentale condotta presso l'Istituto Pneumatico. Affermava infatti: “La maggior parte delle seguenti poesie sono da considerarsi esperimenti. Sono stati scritti principalmente allo scopo di accertare fino a che punto il linguaggio della conversazione nelle classi medie e basse della società è adattato agli scopi del piacere poetico”. L'autore usa il termine "esperimento" per descrivere il contenuto del volume e indica nel “piacere poetico” delle opere contenute. I lettori delle Lyrical Ballads che erano in sintonia con le passioni e i personaggi descritti dovevano provare piacere e liberarsi dalla sofferenza causata dal loro precedente distacco dalle vere passioni umane, anche quando leggevano ciò che era tradizionalmente chiamato "poesia".


Quando la seconda edizione delle Lyrical Ballads fu pubblicata nel 1801, Humphry Davy era stato invitato come docente della neonata Royal Institution di Londra. Fu a Londra che ricevette una richiesta dai proprietari delle miniere di carbone nel nord-est dell'Inghilterra e realizzò una lampada di sicurezza per i minatori. Esistevano già altre lampade progettate in quegli anni, ma la più conosciuta è proprio la "lampada Davy". L'avvento della nuova era della poesia rappresentata dalla pubblicazione delle Lyrical Ballads avviene dunque contemporaneamente all'emergere di nuove ricerche scientifiche istituzionalizzate. La preistoria della Royal Institution suggerisce che la professionalità della scienza fosse legata al benessere sociale e che la diffusione della conoscenza scientifica fosse supportata da esigenze educative. Il suo primo presidente, George Finch, ne illustrò il progetto dicendo che essa era nata per "diffondere la conoscenza e facilitare l'introduzione generale di utili invenzioni meccaniche e miglioramenti; e per insegnare, tramite corsi di letture filosofiche ed esperimenti, l'applicazione della scienza alla vita comune”. Sir Benjamin Thompson, il conte Rumford, che era lui stesso un uomo di scienza, raccomandò lezioni sui seguenti argomenti: "calore, combustibile, combustione, abbigliamento, ventilazione, refrigerazione, vegetazione, concimi, digestione, concia, fabbricazione del sapone, sbiancamento e tintura”.

Dato questo contesto, le lezioni di Davy nel 1802 alla Royal Institution comprendevano molti argomenti ed esperimenti chimici correlati. Folle affascinate dal suo carisma seguivano le conferenze, che erano dei veri e propri spettacoli, in cui Davy illustrava le ultime scoperte fisiche e chimiche con esperimenti dal vivo. Il pubblico non era solo composto da colleghi scienziati, ma anche da poeti, appassionati e signore raffinate. Coleridge si informò sulle lezioni di Davy e successivamente ne frequentò molte. Era la prima volta che Coleridge osservava Davy nell'aula magna della Royal Institution. L'edificio era stato completato nel febbraio del 1801 ed era il primo teatro destinato a conferenze scientifiche in Inghilterra. La grandezza dell'edificio di nuova costruzione colpì Coleridge, che scrisse nei suoi taccuini che “Se tutti gli aristocratici [fossero] qui, con quanta facilità Davy potrebbe avvelenarli tutti”. Il radicalismo di Coleridge, tuttavia, era piuttosto irrilevante quando si pensava alla situazione in cui Davy conduceva le sue ricerche e teneva conferenze. L'educazione scientifica era uno degli scopi dell'Istituzione, che comprendevano indagini sulle applicazioni pratiche delle conoscenze scientifiche utili per il miglioramento dei prodotti e delle loro applicazioni. La ricerca scientifica di Davy aveva seguito gli interessi dei ricchi, la maggior parte dei quali erano proprietari terrieri, e quella era un'epoca in cui le preoccupazioni per la produttività agricola e gli interessi filantropici nella povertà rurale erano condivise. Queste richieste divennero presto più pressanti a causa della situazione politica del blocco continentale voluto da Napoleone per mettere in ginocchio l’economia britannica.


Quando assisteva alle lezioni di Davy nel 1802, Coleridge era uno dei principali redattori del Morning Post. Notò che vedeva “La forza del sentimento connessa con la vividezza dell'idea”. Leggere gli appunti di Coleridge sulle conferenze di Davy rende bene l’idea del clima intellettuale dell'epoca, in cui un poeta e giornalista contemporaneo poteva essere affascinato da esperimenti su ossigeno, ossidi, idrogeno, azoto, zolfo, carbonio e vari altri elementi o composti. Introducendo la natura caratteristica dell'ossigeno gassoso, Davy faceva emettere scintille di luce una dopo l'altra, fatto che Coleridge registrava affascinato, soffermandosi sui vari fenomeni della combustione.

Considerando i numerosi riferimenti alle applicazioni pratiche della conoscenza chimica nelle sue note, tuttavia, ciò di cui Coleridge fu maggiormente testimone, anche se non del tutto consapevolmente, fu probabilmente la richiesta di fondo dell'utilità sociale delle ricerche scientifiche. Ad esempio, gli esperimenti di Davy sull'idrogeno, isolato per la prima volta da Henry Cavendish nel 1776, fecero nascere l'idea della pistola a idrogeno. Se l'aria contiene un'alta densità di idrogeno, Coleridge osservò che "esplode... con una vendetta". Ne consegue che la gente arrivò a pensare che fosse possibile applicare il gas idrogeno come una forma di polvere da sparo per un cannone: "Tieni il cannone sopra la bottiglia contenente gas idrogeno - applicaci una fiala di Leida - bang!". La fattibilità di quest'arma era dubbia, ma questa osservazione indica che era ancora l'età della polvere da sparo e l'esercito britannico cercava armi efficaci per vincere le battaglie, e sarebbe stato sicuramente utile per loro se la loro polvere da sparo fosse stata fornita gratuitamente dall'aria. Davy dimostrò anche che l'idrogeno è più leggero dell'aria comune; "Quindi", scrive Coleridge, "Gas idrogeno impiegato per i palloni". Il metodo per fare il sapone fu spiegato nella lezione sulla soda, o carbonato di sodio, che, osserva Coleridge, è "ottenuto dalle ceneri di alghe", reso "puro dal trattamento con calce e alcool" e "combinato con olio forma i saponi”. Il riferimento di Davy alla "sbiancante muriatica" e il suo suggerimento sul suo uso pratico sembrano attrarre Coleridge che era un topo di biblioteca: "Inchiostro da scrittura comune facilmente distrutto dal gas muriatico ossigenato", mentre "Inchiostro da stampa non alterato affatto dal gas - quindi impiegabile nello sbiancamento di stampe e libri antichi”.

Davy identificò l’alluminio nel 1808, ma aveva già osservato la natura caratteristica dei suoi composti, che a quel tempo erano legati all'industria della ceramica. Coleridge scrive:

“L’Allumina, o terra d'argilla – procurata dal solfato di allumine, cioè allume –, soluzione di allume: versare nella potassa caustica / si forma immediatamente un precipitato bianco – questa è allumina pura – insolubile in acqua, ma in essa facilmente diffusa – combinabile con tutti gli acidi - si contrae di volume in proporzione al suo calore - da qui il pirometro di Wedgwood, l'allumina costituisce la base della porcellana e della ceramica - combinata con selce, magnesia e altre terre”.


Dopo aver frequentato le lezioni di Davy nel 1802, Coleridge iniziò a sentire che il significato della ricerca scientifica presso la Royal Institution era in qualche modo diverso da quello che si era aspettato quando sosteneva le pratiche scientifiche di Beddoes. Ciò derivava in parte dal cambiamento della situazione politica della Gran Bretagna, e, probabilmente, in parte a causa della pressione sociale su Davy. Nel 1804 Coleridge scrisse di aver detto a Davy di temere che avesse chinato la testa nel Tempio di Mammona, cioè alla classe dei proprietari terrieri. Ciò che il poeta notò nelle lezioni di Davy era il tentativo di esaudire la loro richiesta di risultati scientifici per migliorare la produzione agricola dei latifondi. In questo contesto, la scienza gli sembrava essere un mezzo più efficace per servire gli interessi dei proprietari terrieri piuttosto che per aiutare i poveri.

Davy era famoso per l’eloquenza durante le sue lezioni, spesso colorata di espressioni poetiche (fu anch’egli poeta dilettante). Fece importanti esperimenti, scoperte e invenzioni, e fu nominato cavaliere nel 1812; divenne presidente della Royal Society nel 1820.

La presenza attiva di Davy come uomo di scienza e divulgatore influenzò Coleridge e Wordsworth, i quali entrambi svilupparono le proprie idee sulla relazione tra poesia e scienza. Davy, alla sua prima conferenza alla Royal Institution nel 1801, aveva proclamato che: “La scienza ha fatto molto per l'uomo, ma è capace di fare ancora di più... e considerando la progressività della nostra natura, possiamo ragionevolmente aspettarci uno stato di maggiore cultura e felicità di quello di cui godiamo attualmente”. La forte convinzione nel progresso è in risonanza con ciò che Wordsworth scrisse nella prefazione alla terza edizione delle Lyrical Ballads nel 1802:

“Se le fatiche degli uomini di scienza dovessero mai creare una rivoluzione materiale, diretta o indiretta, nella nostra condizione e nelle impressioni che abitualmente riceviamo, il Poeta dormirà allora non più di adesso, ma sarà pronto a seguire il passi dell'Uomo di Scienza, non solo in quegli effetti indiretti generali, ma sarà al suo fianco, portando senso in mezzo agli oggetti della Scienza stessa”.

Wordsworth era informato da Coleridge delle lezioni di Davy, e questo riferimento alla collaborazione tra "il poeta" e "l'uomo di scienza" potrebbe essere considerato un'espressione del legame che Wordsworth e Coleridge vedevano tra la loro realizzazione poetica e quella scientifica di Davy.

L’interesse fondamentale di Coleridge per la scienza era dimostrare l'unità del mondo materiale e della mente, non alla maniera del materialismo di Priestley, ma alla ricerca di un potere unificante sulla natura. Per Coleridge, esistevano vari modi per cercare un elemento unificante che comprendesse l'universo materiale e il mondo spirituale. I fenomeni dell'etere e dell'elettricità, ad esempio, diedero vita a pensieri analoghi sulla possibilità di postulare una legge unica al di sotto della superficie del mondo materiale. Coleridge scrisse di non dubitare "[che molte sostanze sono o] non ancora scoperte, o, sebbene conosciute, sono confuse sotto il nome comune di Idrogeno, formando una catena continua di cose dall'Azoto all'Idrogeno... e da dall’idrogeno al carbonio, non per combinazione fittizia ma per co-inerenza primaria”. Egli riteneva che se tutte le sostanze sono collegate tra loro dalla "co-inerenza primaria", il mondo materiale è, fondamentalmente, "indecomponibile". Così la teoria corpuscolare della natura era totalmente rifiutata, e la decomposizione delle sostanze, che Davy aveva condotto nei suoi esperimenti in molti modi, non era considerata come la preoccupazione principale della sua filosofia chimica, o, si potrebbe dire, della sua ricerca filosofica di un principio unificante.


Le preoccupazioni metafisiche di Coleridge forse contribuirono, all'inizio del XIX secolo, alla sua rinuncia alla poesia come forma prediletta di scrittura. La causa di questa nuova attitudine potrebbe essere attribuita, seguendo lo stesso Coleridge, ad una situazione coniugale sempre più insopportabile, o a dolori artritici persistenti, oppure ad una crescente dipendenza dall'oppio (inizialmente utilizzato per alleviare i dolori). Ciò nonostante, egli tornò spesso, in particolare, alla sua incapacità di liberarsi del bagaglio filosofico accumulato quando iniziava a scrivere in versi.

Il 19 luglio 1802 scrisse a William Sotheby a Londra per spiegare perché stava traducendo Gessner dal tedesco. Il lavoro di traduzione sembrava liberarlo: "Volevo svincolarmi dai pensieri metafisici - che, quando mi fidavo delle mie idee, mi colpivano senza motivo - e quando volevo scrivere una poesia, mi trovavo a pensare cose di tutt'altro genere - invece di un branco di poetiche pernici con ali fruscianti di musica, o di anatre selvatiche che modellano il loro volo rapido in forme sempre regolari ... si alzava un'otarda metafisica, sollecitando il suo volo lento, pesante, laborioso, rasoterra, su rifiuti squallidi e livellati."

Molti commentatori hanno deplorato che il giovane Coleridge non abbia riconosciuto che in lui il poeta e il filosofo non si escludono, ma si presuppongono a vicenda. Come dirà lui stesso nella sua Biographia Literaria (1817), “nessuno è mai stato un grande poeta senza essere al tempo stesso un profondo filosofo”. La poesia, per Coleridge, deve sublimare la natura imprimendole il segno di uno spirito arricchito e affinato dallo studio. Quindi non è in questo, nonostante alcuni suoi commenti, che dobbiamo cercare la causa di questa impotenza.

Quello che Coleridge perse davvero a cavallo del secolo è la capacità di godere dell'armonia tra sé e il mondo, i sentimenti e lo spirito, le bellezze della natura e la ricerca astratta. Questa armonia, era la base di tutto il suo pensiero, ma egli non si sentiva più abitato da essa allo stesso modo: la gioia e la speranza che lo alimentavano erano scomparse. Comunque sia, l'ultima poesia degna di nota di Coleridge, Dejection: An Ode (pubblicata in forma definitiva nell’ottobre 1802 sul Morning Post) è un "canto del cigno" che esprime la sua sterilità in termini paradossalmente molto poetici, nonostante la sua ossessione per le otarde metafisiche:


My genial spirits fail; And what can these avail

To lift the smothering weight from off my breast?

It were a vain endeavour, 

Though I should gaze for ever 

On that green light that lingers in the west: 

I may not hope from outward forms to win 

The passion and the life, whose fountains are within.

 

I miei spiriti geniali vengono meno;

e per cosa possono essere utili,

per sollevare il peso soffocante dal mio seno?

Sarebbe uno sforzo vano,

anche se dovessi guardare per sempre

quella luce verde che indugia a occidente:

non potrei sperare di vincere grazie alle forme esteriori

la passione e la vita, le cui fonti sono dentro me.


Seppure con un reale senso di smarrimento, la creatività era ancora presente, come testimonia la varietà delle sue pubblicazioni successive: dalla rivista The Friend a Aids to Reflections e On the Constitution of the Church and State, comprese le Lezioni su Shakespeare e la sua Biographia Literaria, il Coleridge del dopo Dejection moltiplicò le opere, combinando, tra l'altro, analisi di questioni sociali, considerazioni filosofiche, esegesi religiosa, teoria estetica, critica letteraria, opinioni politiche. Questi testi vengono da molti interpretati come uno sforzo da parte dell'autore di spiegare ai suoi lettori (ma anche a se stesso) il filo del suo pensiero su un argomento che inevitabilmente porta ad un altro, poi ad un altro, ad infinitum. Certo, il tutto è spesso irregolare, nonostante il progetto sempre reiterato di Coleridge di produrre un Opus Maximum che riflettesse tutto il suo pensiero, estetico, morale, metafisico, religioso, politico, sociale. Ma questo fallimento dell'impresa totalizzante indica proprio un ancoraggio alla realtà legato al riconoscimento che essa è sempre aperta, sempre sorprendente, sempre, in parte, sfuggente.