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mercoledì 8 settembre 2021

La fissazione dell'azoto

 


La minaccia della carestia - Nel 1898 il chimico inglese William Crookes tenne un discorso alla British Academy for the Advancement of Science, di cui era presidente. Il discorso era consapevolmente allarmante, proprio come lo sono oggi quelli sul riscaldamento globale. Il suo messaggio era maltusiano, e cioè che la Gran Bretagna rischiava di affrontare la carestia in un futuro non troppo distante, e che l’unica speranza andava cercata nella chimica. La popolazione dell’Inghilterra e del Galles era più che triplicata durante il XIX secolo, e le altre nazioni europee mostravano un aumento comparabile. La quantità di terra arabile era invece aumentata molto poco: era stato perciò necessario aumentare la resa per acro, ottenuta con l’uso di fertilizzanti importati. Cereali come frumento, mais, avena e segale impoveriscono il suolo dei suoi elementi essenziali, tra i quali soprattutto l’azoto. L’azoto nel suolo doveva essere rinnovato, cosa che era stata tradizionalmente realizzata con la rotazione delle colture e con lo spargimento di letame. La rotazione delle colture comporta la coltivazione di legumi, come fagioli e piselli, che sono in grado di fissare l’azoto dell’aria. Esso rimpiazza l’azoto del suolo, ma riduce anche la produzione dei più redditizi cereali. E il letame ricicla solo una parte dell’azoto estratto dal suolo. Con la crescita delle città, il riciclo dell’azoto era meno efficiente di quanto lo fosse per l’agricoltura di sussistenza. Quando il cibo viene portato dalle campagne alle città, l’azoto si perde nelle fogne o nelle latrine e non viene restituito al suolo. Crookes fece notare che azoto supplementare era già introdotto dall’esterno del sistema chiuso così che la Gran Bretagna poteva ancora produrre abbastanza cereali per nutrire la popolazione. Una fonte di azoto era la stessa industrializzazione. L’ammoniaca, contenente azoto, era un prodotto secondario del processo con il quale si trasforma il carbone in coke per l’industria. Inoltre, migliaia di tonnellate d’azoto erano importate ogni anno dalle isole coperte di guano al largo del Perù e dai giacimenti di nitrati in Cile. Ma l’azoto dalla trasformazione del carbone non era sufficiente da solo, e quello importato dal Sudamerica era ciò che oggi chiameremmo una “risorsa non rinnovabile”: sarebbe prima o poi terminato: Crookes prevedeva che, quando fosse accaduto, ci sarebbe stata la carestia. Ciò che era vero per la Gran Bretagna valeva, naturalmente, per tutta l’Europa. Crookes vedeva tuttavia una speranza: “È grazie al laboratorio che la fame può essere trasformata in abbondanza”.

Non c’era carenza di azoto, ma solo di quello legato chimicamente, “fissato” ad altri atomi. L’azoto è l’elemento più abbondante nell’aria, formando circa l’80% dell’atmosfera, ma vi è presente in forma inerte, come gas biatomico N2, che i cereali non sono in grado di utilizzare perché è difficile rompere il triplo legame tra i due atomi, N≡N. La speranza di Crookes era che si potesse trovare un modo di combinare l’azoto atmosferico con idrogeno, carbonio o ossigeno per formare composti che potessero essere usati direttamente come fertilizzanti oppure in essi essere facilmente trasformati. L’ammoniaca (NH3), l’urea ((NH2)CO), l’acido nitrico (HNO3) e il monossido d’azoto (NO) erano tutti prodotti della fissazione, ma gli unici metodi conosciuti per la loro sintesi dall’azoto atmosferico richiedevano così tanta energia da essere economicamente impraticabili. La sfida era di trovare una reazione che non solo potesse funzionare in laboratorio, ma che avesse una elevata resa e bassi costi energetici, in modo che i prodotti potessero essere venduti con profitto.



Processi poco efficienti - Nei primi anni del XX secolo esistevano tre metodi industriali per fissare l’azoto. Il primo, come già ricordato, era il carbone. Circa l’1-1,4% del carbone consiste di composti dell’azoto, che sono un residuo delle proteine vegetali e animali dalle quali è stato originato dai processi naturali. Quando si brucia il carbone, i composti dell’idrogeno salgono lungo il camino e sono persi. Se il carbone viene riscaldato in assenza di aria, tuttavia, come si fa nella produzione di coke per l’industria siderurgica, circa il 12-17% dell’azoto poteva essere recuperato in forma di ammoniaca se si usava un forno convenientemente progettato. L’estrazione dell’azoto dal carbone era importante, ma, anche nella migliore delle ipotesi, poteva fornire meno di un terzo dell’azoto supplementare necessario.



Un altro sistema era noto come il processo cianammide. L’ammoniaca poteva essere sintetizzata dall’azoto atmosferico a partire dall’ossido di calcio in un procedimento in tre fasi. Esso coinvolgeva la sintesi intermedia di carburo di calcio CaC2, un composto abbastanza reattivo da reagire con l’azoto atmosferico per formare calcio cianammide (CaCN2):

CaO + 3C = CaC2 + CO

CaC2 + N2 = CaCN2 + C

CaCN2 + 3H2O = CaCO3 + 2NH3

Tuttavia, anche se il procedimento era perfezionato, la formazione del carburo di calcio richiedeva così tanta energia da essere antieconomica.

Il terzo procedimento industriale combinava semplicemente azoto e ossigeno in monossido di azoto utilizzando una scarica elettrica in ciò che era chiamato il procedimento ad arco elettrico. Tra due elettrodi coassiali veniva formato un arco elettrico, che era diffuso su un disco sottile tramite un forte campo magnetico. La temperatura del plasma sul disco superava i 3000 °C. Ventilando aria attraverso l'arco, una parte dell'azoto reagiva con l'ossigeno formando monossido di azoto (NO). Controllando con attenzione l'energia dell'arco e la velocità di flusso dell'aria si poteva ottenere una resa di NO fino al 4%.

 N2 + O2 = 2NO 

Quando la reazione raggiunge l’equilibrio, ci sono in realtà due reazioni chimiche in atto allo stesso tempo: azoto e ossigeno sono trasformati in monossido d’azoto in una reazione, e il monossido d’azoto si scinde in azoto e ossigeno nell’altra. Il punto d'equilibrio è quello in cui entrambe le reazioni avvengono alla stessa velocità: reagenti e prodotti sì formano e si consumano, ma non esiste alcuna netta discontinuità. Il punto di equilibrio determina la resa del prodotto e può assumere valori dallo 0 al 100%: può essere spostato in un senso o nell’altro cambiando la temperatura e la pressione alle quali avviene la reazione. In questo caso, l’obiettivo è di spostarlo a destra, per formare più monossido d’azoto. 

Per la formazione di monossido d’azoto con il procedimento ad arco elettrico, l’aumento di temperatura spostava il punto di equilibrio nella direzione voluta, ma richiedeva temperature sopra i 3000 °C se si voleva avere una reazione efficiente. Inoltre, una volta che esso veniva prodotto, c’erano ancora problemi, perché doveva essere raffreddato rapidamente altrimenti la maggior parte si sarebbe trasformata di nuovo in azoto e ossigeno.



Questo metodo era stato brevettato nel 1903 dai norvegesi Kristian Birkeland, professore di fisica all'Università di Christiania (Oslo), e Samuel Eyde, ingegnere e industriale chimico. La chimica coinvolta nel processo Birkeland-Eyde non era del tutto nuova: Henry Cavendish, lo stesso William Crookes, Lord Raleigh e altri avevano già studiato l'effetto delle scariche elettriche sulle miscele di azoto e ossigeno. Il processo Birkeland-Eyde fu commercialmente redditizio per alcuni anni solo perché l'energia idroelettrica era all'epoca disponibile quasi gratuitamente in Norvegia. Esso fu utilizzato negli impianti di Rjukan e Notodden, sfruttando la vicinanza di un grande impianto idroelettrico, ma utilizzava un'enorme quantità di energia elettrica, risultando quindi poco efficiente in termini di consumo elettrico. Come per il processo cianammide, la quantità di energia richiesta era economicamente proibitiva. Si costruirono impianti sia per il metodo cianammide, sia per quello ad arco elettrico, ma solo in posti dove era disponibile energia a basso prezzo.

 

Fritz Haber e l’idea della sintesi diretta - Un approccio alternativo era tentare di ottenere l’ammoniaca direttamente dai suoi componenti, azoto e idrogeno. Fu l’idea che sviluppò il grande chimico tedesco Fritz Haber, il “chimico maledetto” perché fu in seguito promotore dell’uso dei gas letali nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Lo studio della sua controversa e, a suo modo, tragica figura offre numerosi spunti di riflessione. Egli fu figlio del suo tempo e delle idee che permeavano la cultura del suo paese. In quanto scienziato visse l’epoca in cui diventò chiaro che era quasi impossibile per un inventore fermarsi allo stadio di benefattore dell’umanità. Nessuna società può, e poteva allora, assicurare che una nuova tecnologia sia utilizzata solo per scopi umanitari. È pertanto difficile imputare a un inventore tutti gli usi che vengono fatti della sua invenzione, soprattutto quando la decisione è presa dal potere politico. D’altra parte, la nostra umanità non consentirà mai che le questioni etiche vengano ignorate, come la questione della responsabilità morale degli scienziati. Se Haber fu una sorta di dottor Faust del Novecento, e di colpe ne ha avute, quella principale è di essere stato il primo, ma non fu sicuramente l’unico.

Haber (1868–1934) era nato a Breslavia (oggi Wroclaw, in Polonia) da una famiglia di ebrei galiziani. Il padre era un imprenditore chimico, in una città che era un microcosmo in fermento: alla fine dell’Ottocento era un miscuglio di etnie, culture e religioni, sviluppatosi tra i poli di un’elegante cultura urbana e della fede nel potere della scienza. Il legame stretto e inedito tra i laboratori universitari di chimica, gli uffici brevetti e l’immediata applicazione industriale delle scoperte appena realizzate favoriva lo sviluppo economico. 



Fra il 1886 e il 1891, Haber studiò all'Università di Heidelberg con Robert Bunsen; in seguito, si trasferì all'Università di Berlino nel gruppo di August Hoffmann e infine con Karl Liebermann. Haber era un convinto nazionalista, in un tempo in cui il nazionalismo era una virtù e un’attitudine degna di lode. Il mondo in cui era cresciuto considerava propri valori fondanti la disciplina, il patriottismo e il rispetto per l’esercito, instillati fin dalla più tenera età. Il sistema scolastico tedesco era di ottimo livello e il grande ruolo attribuito alla scienza poteva far sperare a studiosi e scienziati di giungere ai vertici della gerarchia sociale. In quel clima Haber, che si sentiva un vero tedesco, aveva deciso all’età di 24 anni di farsi battezzare in una chiesa luterana, rinnegando le sue ascendenze e, dicono i maligni, per facilitare la sua carriera scientifica, in una società che già allora considerava gli ebrei con sospetto e un corpo estraneo alla nazione.

Il problema della sintesi diretta a partire dall’azoto e dall’idrogeno atmosferici era la resa estremamente bassa: il punto di equilibrio della reazione in condizioni normali giace molto a sinistra, così, quando si combinano azoto e idrogeno, praticamente non si forma ammoniaca. Diversamente dalla situazione del monossido d’azoto, il punto di equilibrio per la formazione di ammoniaca si muove verso destra (più ammoniaca) con la diminuzione della temperatura, fatto che offriva una qualche possibilità di evitare l’alto costo energetico associato ai metodi allora in uso, ma deve essere associato a un aumento della pressione. In poche parole: alta pressione, bassa temperatura. 

Lavorare con alte pressioni non è facile: anche l’acciaio migliore può rompersi a pressioni di 200 atmosfere. Inoltre, operare a temperature basse sposta il punto d’equilibrio nel senso voluto, ma non consente che la reazione avvenga velocemente. Molte reazioni chimiche non avvicinano velocemente l’equilibrio termodinamico. Ad esempio, il punto d’equilibrio della reazione tra idrogeno e ossigeno per formare l’acqua giace molto a destra (verso la formazione di acqua), tuttavia miscele di idrogeno e ossigeno possono restare per milioni d’anni senza che si formi una quantità apprezzabile d’acqua. Molte reazioni richiedono una specie di spinta per essere avviate. Si parla a questo proposito di energia di attivazione, la barriera energetica da superare perché avvenga la reazione. Per una miscela di idrogeno e ossigeno, la spinta può essere fornita da una scarica o da una fiamma (come purtroppo avvenne con la drammatica e spettacolare esplosione del dirigibile Hindenburg nel 1937). Una scarica elettrica funzionava anche nel metodo ad arco elettrico per ottenere monossido d’azoto da azoto e ossigeno, a causa della natura reattiva dell’ossigeno. Ma una scarica non serviva per la produzione di ammoniaca da azoto e idrogeno, perché l’azoto è molto meno reattivo. Un modo di superare l’energia di attivazione è il calore, cioè far svolgere la reazione ad alte temperature, agitando tutte le molecole. Per la formazione dell’ammoniaca, tuttavia, le alte temperature avevano l’inconveniente di spingere il punto di equilibrio nella direzione sbagliata (producendo meno ammoniaca) e, naturalmente, esse avrebbero consumato molta energia rendendo improbabile un ritorno economico. 



Un altro modo per favorire la reazione è l’uso di un catalizzatore, una sostanza che non vi partecipa direttamente (non cambia il punto d’equilibrio), ma che riduce l’energia di attivazione, facendo in modo che il punto d’equilibrio venga raggiunto più in fretta. Per molte reazioni gassose, come catalizzatori si usano i metalli. Ad esempio, nella marmitta catalitica di un’automobile, platino, rodio e palladio fanno da catalizzatori per trasformare il monossido di carbonio e gli ossidi d’azoto dei gas esausti in composti meno dannosi per l’ambiente. Quando i metalli sono utilizzati come catalizzatori nelle reazioni gassose, i gas generalmente si depositano sulla superficie del metallo, dove possono reagire più facilmente. Quando si formano i prodotti, essi lasciano la superficie metallica del catalizzatore e fanno posto all’insieme successivo di molecole reagenti.


Wilhelm Ostwald - Nel 1900, il chimico tedesco Wilhelm Ostwald (1853-1932), futuro premio Nobel nel 1909 per le sue ricerche sui principi fondamentali che governano l'equilibrio chimico e la velocità di reazione, aveva annunciato di essere riuscito a produrre ammoniaca da idrogeno e azoto ad alta temperatura e pressione utilizzando il ferro come catalizzatore. Fece richiesta per un brevetto e lo comunicò ai giganti dell’industria chimica Hoechst e BASF. Quest’ultima negoziò immediatamente un accordo con lui per esaminare il processo e affidò il controllo al giovane ricercatore Carl Bosch, che fornì una relazione in cui sosteneva che l’ammoniaca prodotta da Ostwald non proveniva dall’azoto atmosferico, ma da contaminanti nel catalizzatore che si stava usando. Ostwald era furioso e disse alla BASF: “Quando affidate il compito a un chimico appena assunto, senza esperienza, che non sa nulla, allora non ne viene fuori nulla di buono”. Alla fine, però, si rese conto che Bosch aveva ragione e ritirò la domanda di brevetto. 

Ostwald si rifece brevettando nel 1902 un processo per la produzione di acido nitrico a partire dall’ammoniaca, che diventò un pilastro della moderna industria chimica.  L'ammoniaca viene convertita in acido nitrico in due fasi. Viene ossidata mediante riscaldamento con ossigeno in presenza di un catalizzatore (oggi si usa il platino con il 10% di rodio), per formare monossido d’azoto e vapore d’acqua. Questo passaggio è fortemente esotermico, il che lo rende una fonte di calore utile una volta avviato:

 4NH3 + 5O2 = 4NO + 6H2O

La seconda fase (combinazione di due fasi di reazione) viene eseguita in presenza di acqua in un apparato di assorbimento. Inizialmente il monossido d’azoto viene nuovamente ossidato per produrre biossido:

2NO + O2 = 2NO2

Questo gas viene quindi facilmente assorbito dall'acqua, ottenendo il prodotto desiderato (acido nitrico, anche se in forma diluita), riducendone di nuovo una parte a monossido d’azoto:

3NO2 + H2O = 2HNO3 + NO

L'NO viene riciclato e l'acido viene concentrato mediante distillazione. In alternativa, se l'ultimo passaggio viene eseguito in presenza di aria:

4NO2 + O2 + 2H2O = 4HNO3

Le condizioni tipiche per il primo stadio, che contribuiscono ad una resa complessiva di circa il 96%, sono la pressione tra 4 e 10 atmosfere e la temperatura di circa 900°C. Inizialmente il processo avveniva in recipienti di gres a bassa pressione, ma l'introduzione dell'acciaio inossidabile ha reso possibili pressioni più elevate, portando a rese più elevate. Il metodo di Ostwald è utilizzato a valle dei processi di sintesi che forniscono l’ammoniaca, la materia prima necessaria.

 


Entra in campo Nernst - Nel 1904 Haber era stato avvicinato dai fratelli Margulies, due chimici industriali di Vienna che lo assunsero come consulente per affrontare il problema. Egli iniziò esaminando l’equilibrio tra idrogeno e azoto a 1000°C in presenza di ferro, come aveva fatto Ostwald, ma ideò un sistema per rimuovere l’ammoniaca non appena si formava. Togliendo l’ammoniaca già prodotta l’equilibrio slittava verso la sua sintesi. Haber riuscì però a produrre solo una piccola quantità di ammoniaca, circa lo 0,01%. Capì che la sintesi avrebbe funzionato dal punto di vista commerciale solo a pressione molto elevata e temperatura più bassa, il che voleva dire che bisognava trovare un catalizzatore migliore del ferro. Fece ai Margulies una relazione piuttosto scoraggiante e pubblicò i suoi risultati nell’articolo del 1905 Thermodynamik technischer Gasreaktionen (La termodinamica delle reazioni dei gas tecnici), opera più interessata all’applicazione industriale della chimica che ai suoi aspetti teorici. Nel testo Haber inserì i risultati dei suoi studi sull’equazione all’equilibrio dell’ammoniaca:

N2 + 3H2 = 2NH3

A 1000 °C si producevano piccolissime quantità di ammoniaca a partire dal biossido di azoto e dall’idrogeno molecolare gassosi. 

Mentre Haber era alle prese con i problemi tecnici della produzione di ammoniaca, un altro grande chimico prussiano, Walther Nernst (1864-1941) stava attraversando un periodo di grandi soddisfazioni professionali, potendo essere considerato uno dei più influenti chimici tedeschi. Nernst aveva studiato all'università a Zurigo, poi a Graz, dove scoprì l'effetto Nernst, cioè che un campo magnetico applicato perpendicolarmente a un conduttore metallico in un gradiente di temperatura dà luogo a una differenza di potenziale elettrico. Successivamente, si trasferì a Würzburg, dove presentò a sua tesi. Ostwald lo volle con sé nel primo dipartimento di chimica fisica a Lipsia. Nernst vi si trasferì come assistente, studiando la termodinamica delle correnti elettriche nelle soluzioni. Promosso docente, insegnò brevemente a Heidelberg e poi si trasferì a Gottinga, dove il governo creò apposta per lui l'Istituto di Chimica Fisica ed Elettrochimica. Derivò anche l'equazione per il potenziale elettrico generato da concentrazioni disuguali di uno ione separato da una membrana permeabile. La sua equazione è ampiamente utilizzata in fisiologia cellulare e neurobiologia.



Nernst aveva inventato nel 1898 la “lampada di Nernst”, una lampadina elettrica che usava una barretta di ceramica incandescente, al posto della costosa e precaria lampadina a filamento di carbonio. La lampadina di Nernst anticipava la lampada ad incandescenza. Vendette il brevetto per un milione di marchi, saggiamente non optando per le royalties perché presto fu introdotta la lampada a filamento di tungsteno riempita di gas inerte. Diventò un uomo molto ricco. 

Nel 1905 propose il suo "nuovo teorema del calore", più tardi noto come Terza legge della termodinamica, con il quale dimostrò che quando la temperatura si avvicina allo zero assoluto, l'entropia si avvicina allo zero, mentre l'energia libera rimane sopra lo zero. Questa fu la sua scoperta più importante, poiché permise ai chimici di determinare dalle misurazioni del calore le energie libere (e quindi i punti di equilibrio) delle reazioni chimiche. Nel 1920 ricevette il premio Nobel per la chimica in riconoscimento per i suoi lavori nel campo della termochimica.

Nel 1906 Nernst volle applicare il suo teorema del calore ai dati pubblicati da altri, per validare la sua scoperta. Scoprì che i risultati di Haber nell’articolo dell’anno precedente non erano conformi alle sue previsioni e gli scrisse per informarlo di questa discrepanza. Nernst inoltre ripeté gli esperimenti di Haber e trovò molta più ammoniaca di quanto riportato dal collega e previsto dai suoi stessi calcoli. Haber, che era appena diventato professore di chimica fisica a Karlsruhe, si sentì umiliato per le critiche di Nernst e volle ripetere di nuovo i suoi esperimenti. Trovò più ammoniaca di quanto ne aveva scoperta in precedenza, ma meno di quella trovata da Nernst, e la quantità misurata corrispondeva quasi esattamente alle sue previsioni teoriche. Si potrebbe pensare a un Nernst felice di questa conferma del suo teorema del calore. 

Nernst invece non era ancora soddisfatto. In una riunione scientifica nel 1907, attaccò i risultati di Haber, ribadendo che erano sbagliati, e dicendo che la sintesi dell’ammoniaca era impossibile da realizzare su scala commerciale. Haber, la cui reputazione come giovane chimico emergente era messa in discussione, non si diede per vinto. Continuò i suoi esperimenti con il chimico inglese Robert Le Rossignol, suo collaboratore a Karlsruhe: portò la pressione a 30 atmosfere, aumentando la resa di 28 volte. Haber incominciava a pensare che la sintesi dell’ammoniaca poteva essere commercialmente fattibile, ma solo trovando un catalizzatore in modo da ridurre la temperatura. Gli sembrò che operare a 200 atmosfere e 600°C era la condizione da raggiungere, prevedendo che ciò avrebbe dato una resa dell’8% di ammoniaca all’equilibrio. Rimuovendo l’ammoniaca appena formata e riciclando l’azoto e l’idrogeno che non avevano reagito, si poteva produrre ammoniaca in modo continuo.


Haber insiste - Haber aveva intanto apportato alcuni miglioramenti al processo ad arco elettrico per la produzione di acido nitrico, suscitando l’interesse della BASF, che volle assumerlo per lavorare sulla fissazione dell’azoto. Nel 1908 firmò un contratto che gli assicurava il 10% dei profitti di qualsiasi metodo industriale avesse sviluppato. Sebbene l’interesse principale della BASF fosse il metodo dell’arco elettrico, Haber era convinto che l’approccio più promettente fosse quello della sintesi diretta che aveva già sperimentato. Nel 1909 trovò un catalizzatore promettente: l’osmio, un elemento raro di cui erano stati isolati solo 100 kg in tutto il mondo. L’osmio era utilizzato come filamento elettrico dalla compagnia di illuminazione Auergesellschaft, per la quale Haber era consulente: ecco perché ebbe a disposizione l’osmio da testare.

La chimica era solo una parte del problema, perché si era di fronte al progetto chimico tecnico più impegnativo mai intrapreso in un ambiente accademico. Il progetto di un reattore che rimuovesse l’ammoniaca man mano che era prodotta, riciclasse il materiale che non aveva reagito e operasse a 200 atmosfere di pressione era in gran parte il compito di Le Rossignol, coadiuvato dal tecnico di Karlsruhe, Friedrich Kirchenbauer. I due progettarono una nuova valvola conica che poteva resistere alle elevate pressioni. Appena i gas ad alta temperatura lasciavano la camera di reazione, venivano usati per preriscaldare il gas in entrata per il ciclo successivo, in modo da non sprecare energia. L’ammoniaca era rimossa appena si formava, e l’azoto e l’idrogeno che non erano stati fissati erano inviati di nuovo alla camera di reazione. Alla fine di marzo del 1909, Haber e Le Rossignol provarono il nuovo reattore con il catalizzatore di osmio e lo alimentarono con l’azoto e l’idrogeno. Appena si formava l’ammoniaca, veniva raffreddata al di sotto del suo punto d’ebollizione e fatta sgocciolare in un recipiente di raccolta. Haber corse per tutto l’istituto dicendo a tutti “Venite giù! C’è l’ammoniaca!”



Haber scrisse alla BASF, comunicando la notizia e incoraggiandoli a comprare le riserve mondiali di osmio, ma, ovviamente, li trovò piuttosto scettici. La BASF era più interessata al processo ad arco elettrico e non era del tutto sicura che le pressioni richieste dalla sintesi dell’ammoniaca di Haber fossero raggiungibili senza danni. Intervenne allora il chimico, professore universitario e ricercatore della BASF Karl Engler, che scrisse al presidente della società convincendolo a una visita nel laboratorio di Haber. Alla fine, ci si accordò per una dimostrazione pratica a Karlsruhe. Per la BASF arrivarono in tre: Heinrich von Brunck, presidente del consiglio di amministrazione, August Bernthsen, direttore della ricerca, e lo stesso Carl Bosch che nove anni prima aveva affossato la domanda di brevetto di Ostwald. Bernthsen chiese con scetticismo quale fosse la pressione necessaria. Haber disse una mezza verità, rispondendo “Almeno cento atmosfere”. Anche questo valore, la metà di quello della dimostrazione che stava per vedere, sconvolse Bernthsen, che disse: “Cento atmosfere? Perché proprio ieri sette atmosfere hanno fatto saltare in aria una delle nostre autoclavi!” Bosch, che sapeva che cosa era in grado di fare l’industria dell’acciaio, confermò. “Penso che possa funzionare”, e von Brunck si impegnò a finanziare lo sviluppo del processo.

Continuando a lavorare sui catalizzatori, Haber scoprì che l’uranio andava bene come l’osmio e, per quanto fosse caro, era più facilmente disponibile. La BASF stava tentando di depositare i suoi brevetti e di tenere le cose il più possibile nascoste, ma Haber comunicò i suoi risultati in una riunione scientifica a Karlsruhe il 10 marzo 1910, parlando di “urgenza straordinaria di legare l’azoto, principalmente per scopi agricoli e in misura molto minore per l’industria degli esplosivi”. Dato che la corsa agli armamenti che avrebbe portato alla Guerra Mondiale era già cominciata, fu un deliberato messaggio trasversale. L’azoto era necessario per la produzione di esplosivi come lo era come fertilizzante: l’elemento esplosivo nella polvere da sparo è il nitrato di potassio. Haber era ben consapevole che il governo tedesco era preoccupato di essere tagliato fuori dalle forniture di nitrati sudamericani da un blocco navale inglese durante una guerra e considerava il suo lavoro fondamentale per la difesa nazionale.

La dichiarazione di Haber fu immediatamente considerata una grande scoperta, ed egli fu inondato di offerte dalle imprese chimiche. La BASF era stata incapace di convincerlo a posticipare l’annuncio, ma egli era stato d’accordo di tacere quanti più dettagli possibile. Ma la voce era oramai uscita: Haber aveva fatto ciò che era sembrato essere impossibile. Due mesi dopo, in una riunione del governo tedesco con le principali imprese del paese, si decise il finanziamento della ricerca nei settori strategici per lo Stato. Il Kaiser, poco modestamente, accettò che venissero fondati degli istituti di ricerca a lui intitolati. Nacquero così gli Istituti Kaiser Wilhelm. Leopold Koppel, che controllava la Auergesellschaft (quella dell’osmio), si offrì di finanziare un istituto di chimica fisica ed elettrochimica a Berlino, a patto che Haber ne fosse il direttore e che potesse richiedere brevetti e ottenere licenze. Si convenne che al finanziamento privato si affiancasse quello pubblico per gli stipendi: i dipendenti dell’Istituto erano equiparati a funzionari pubblici, cosa che si sarebbe rivelata importante quando nel 1933 i nazisti presero il potere e furono liberi di licenziare tutti i funzionari ebrei. Haber aveva raggiunto tutto ciò che desiderava: era universalmente riconosciuto come un grande chimico fisico, dirigeva il Kaiser Wilhelm Institute per la Chimica Fisica ed Elettrochimica di Dahlem, un sobborgo di Berlino, presto sarebbe diventato ricco con il brevetto per l’ammoniaca, era uno stimato cittadino tedesco, addirittura un consigliere del Kaiser. Era il leader scientifico della nuova nazione tedesca.

 

Carl Bosch - Trasformare la sintesi dell’ammoniaca ottenuta nel laboratorio di Haber in un impianto industriale e commerciale non era un compito facile. L’affermazione di Carl Bosch, “Penso che possa funzionare”, era ambiziosa, perché nessuno aveva mai costruito un impianto che potesse operare a pressioni così alte. Quando Bosch disse quelle parole nel 1909, aveva trentacinque anni. Era il figlio di un idraulico esperto e aveva ricevuto un’educazione secondaria in una scuola tecnica invece che in un ginnasio. Dopo il diploma, trascorse un anno in una società siderurgica, dove imparò a fare il modellatore, il meccanico, il carpentiere e il fabbro. Poi andò alla Technische Hochschule di Charlottenburg (la stessa che Haber aveva frequentato pochi anni prima) e studiò da tecnico metallurgico e meccanico, acquisendo esperienza pratica nelle acciaierie. Solo alla fine iniziò a studiare chimica organica, conseguendo il dottorato con Johannes Wislicenus a Lipsia nel 1898. Rimase ancora un anno come suo assistente. Nella sua domanda di assunzione alla BASF elencò non solo i titoli di studio, ma anche le sue competenze pratiche. 



La sintesi industriale dell’ammoniaca sarebbe poi stata conosciuta come processo Haber-Bosch, e Bosch meritò che il suo nome comparisse in evidenza. Il metodo era cominciato con la teoria ed era progredito passo dopo passo verso la pratica: Haber aveva iniziato studiando il problema con impegno solo dopo la disputa teorica con Nernst riguardo alle previsioni di quest’ultimo basate sul suo teorema del calore: Haber aveva stabilito le temperature e pressioni ottimali, per tentativi ed errori. Sempre Haber aveva trovato i catalizzatori che avrebbero reso la reazione possibile alla temperatura desiderata, e Haber, Le Rossignol e Kirchenbauer avevano escogitato un banco di prova che avrebbe prodotto alcune gocce di ammoniaca, mostrando il potenziale del processo. Il processo commerciale, tuttavia necessitava di produrre tonnellate di ammoniaca al giorno. Bosch era un risolutore di problemi, e c’era una gran quantità di problemi per far funzionare la sintesi dell’ammoniaca. Bosch vide le tre principali difficoltà: trovare una fornitura economica di azoto e idrogeno puri, trovare un catalizzatore più efficiente e meno caro, progettare camere di reazione e impianti che potessero reggere una pressione di 200 atmosfere.

L’idrogeno e l’azoto da utilizzare da usare dovevano essere molto puri, altrimenti le impurità introdotte avrebbero corrotto qualsiasi catalizzatore fosse stato usato. L’azoto puro poteva essere ottenuto dalla distillazione frazionata dell’aria, ma l’idrogeno puro era un problema in più. La BASF aveva pronte riserve di carbone, e Bosch decise di produrre idrogeno facendo reagire coke brillante (carbonio puro, ottenuto riscaldando il carbone in assenza di aria) con vapore d’acqua, secondo l’equazione:

C + H2O = H2 + CO

Trovare un catalizzatore era un problema ancor più difficile. Haber aveva iniziato con l’osmio e l’uranio, ma nessuno dei due elementi era adatto per un processo commerciale. Erano entrambi costosi, l’osmio era molto raro, e l’uranio era troppo sensibile alla contaminazione di ossigeno e acqua. Bosch incaricò Bob Stern di testare i catalizzatori, ed egli progettò un apparato ad alta pressione in cui si potevano rapidamente inserire cartucce contenenti 2 grammi di un potenziale catalizzatore. Stern aveva a disposizione trenta di questi impianti di prova che operavano contemporaneamente, verificando ogni campione metallico su cui poteva mettere le mani. Egli trovò che un singolo campione di minerale di ferro di una miniera svedese funzionava bene come l’osmio e l’uranio. Pareva che quantità in tracce di altri materiali fossero la chiave del suo successo come catalizzatore, e Stern incominciò a esaminarli uno per uno. Alla fine, identificò non solo gli agevolatori catalitici, ma anche i “veleni” catalitici che dovevano essere rigorosamente evitati, come lo zolfo, il fosforo e il cloro. Dopo una gran quantità di lavoro, Stern trovò che il catalizzatore più adatto era il ferro, con il quale Ostwald aveva cominciato nel 1900. La differenza era che solo che il giusto tipo di ferro impuro avrebbe funzionato.

Bosch aveva costruito due reattori di prova, che erano posti in recinti di cemento come misura di sicurezza. Dopo 80 ore di attività, entrambi bruciarono. Quando i tecnici esaminarono i reattori, scoprirono che il metallo era diventato friabile e si era fratturato. Siccome il reattore doveva reggere pressioni così elevate, era stato progettato con l’acciaio più resistente disponibile, quello al carbonio. Bosch scoprì che l’idrogeno si era diffuso nelle pareti d’acciaio e aveva poi reagito con il carbonio nell’acciaio e formato gas metano. Quando il metano si era formato, era alla pressione di 200 atmosfere, e aveva subito portato alla disintegrazione delle pareti. La soluzione di Bosch per il problema fu un reattore a doppia camera: una interna e sottile fatta di acciaio senza carbonio chiusa in un rivestimento di acciaio al carbonio che poteva reggere la pressione. Mentre l’idrogeno poteva diffondersi nello strato interno, non poteva danneggiarlo, perché non c’era carbonio per formare metano. Tutto l’idrogeno diffuso attraverso la camera interna verso quella esterna di acciaio al carbonio poteva uscire tramite piccoli fori praticati nel rivestimento.

La filosofia di Bosch era di misurare dovunque fosse possibile. Sensori per la pressione, la temperatura, i gas reagenti, quelli prodotti, i contaminanti furono posti in ogni fase del processo, così egli poteva sapere esattamente quello che stava succedendo nel reattore. Nel maggio del 1910, esattamente dieci mesi dopo la dimostrazione di Haber a Karlsruhe, Bosch aveva costruito un piccolo impianto pilota a ciclo continuo e, nel dicembre dello stesso anno, ne fece uno più grande che produceva 18 kg di ammoniaca al giorno. Lavorando con Haber, Bosch rese la sintesi dell’ammoniaca una realtà commerciale. Nel 1931 fu il primo ingegnere chimico a ricevere il premio Nobel per la chimica.

 

La causa tra i due colossi - Haber e la BASF avevano naturalmente fatto richiesta per un certo numero di brevetti e avevano tenuto segreto il più possibile ciò che stava facendo Bosch. Ma i concorrenti della BASF si rendevano conto di che cosa poteva significare la scoperta di Haber e temevano che la BASF avrebbe monopolizzato la nuova tecnologia. La concorrente Hoechst inoltrò un reclamo secondo il quale il brevetto principale di Haber (la sintesi catalitica di ammoniaca da azoto e idrogeno) non era valido, sulla base che era stato realizzato in precedenza da Nernst nel 1907. La Hoechst aveva ingaggiato Ostwald come consulente per il giudizio, ed egli fornì una perizia di parte secondo la quale il brevetto era solo un’estrapolazione alle alte pressioni della legge di Nernst, che era facilmente prevedibile applicando le leggi della termodinamica, senza bisogno di esperimenti. Secondo Ostwald, tutto ciò che aveva fatto Haber era solo ingegneria.

Se la BASF voleva vincere la causa, ci voleva un suo consulente, e chi meglio di Nernst? Nernst non aveva più interesse alla corsa per l’ammoniaca, perché aveva abbandonato la ricerca in questo campo nel 1907. In cambio di 10.000 marchi all’anno per cinque anni, concordò un contratto di consulenza con la BASF. Due giorni prima dell’udienza per il brevetto, la parte della BASF era pessimista e credeva che la Hoechst avrebbe probabilmente vinto. Quando iniziò l’udienza, tuttavia, Nernst trionfò. L’avvocato della Hoechst, Richard Weidlich, non sapeva che Nernst era sul libro paga della BASF e disse dopo l’udienza: “Il mio principale testimone, Nernst, si presentò a braccetto con Haber (...) e, dopo che avevo elogiato il suo fondamentale contributo alla sintesi dell’ammoniaca, fece un appassionato discorso in cui spiegò che il suo lavoro non aveva alcuna rilevanza tecnica e i suoi risultati avevano solo interesse scientifico. Solo Haber aveva creato i prerequisiti per il successo tecnico, studiando nuovi campi di pressione. Se gli imprenditori chimici non avevano avuto alcun interesse per il suo lavoro [il proprio] era comprensibile. Tuttavia, se un imprenditore avesse rifiutato il processo di Haber avrebbe dovuto essere stato cieco. Gli effetti del discorso di Nernst furono evidenti e anch’io fui impressionato, così dissi sottovoce al mio collega che potevamo andarcene a casa”

Il 12 marzo 1912 la BASF vinse la causa, e alla Hoechst toccò pagare tutte le spese processuali. La lite tra Nernst e Haber era stata composta al meglio, poiché il primo aveva ritirato i suoi giudizi negativi (dietro lauto compenso) e il secondo era diventato un uomo ricco. Haber era giunto a un accordo con la società secondo il quale avrebbe ricevuto 0,015 marchi per chilogrammo di ammoniaca prodotta per tutti i quindici anni di durata del brevetto, il che significava diversi milioni di marchi fino a metà degli anni ‘20. 

Terminata la causa, la BASF era pronta a intraprendere la produzione commerciale dell’ammoniaca e costruì un enorme impianto a Oppau. Lo stabilimento era quasi autosufficiente, perché aveva bisogno solo di aria e acqua, oltre al carbone utilizzato per scaldare i reagenti, produrre il coke e per ottenere l’idrogeno dalla reazione del coke con il vapore d’acqua. L’impianto di Oppau produceva 10 tonnellate di ammoniaca al giorno già alla fine del 1913 e raddoppiò la produzione entro il 1914. Circa il 70% della produzione era utilizzato come fertilizzante. Ma il 28 giugno 1914 tutto cambiò: il nazionalista serbo Gavrilo Princip assassinò l’arciduca Ferdinando d’Austria-Ungheria. Il 1° agosto scoppiò la guerra e l’ammoniaca di Oppau non era più destinata a fertilizzare i campi, ma per armare i cannoni.



La guerra, il Nobel, la fine - Ben presto ci si accorse che quella che doveva essere una guerra lampo era in realtà un massacro infinito di uomini impantanati in trincee fangose, reclusi dal filo spinato, esposti al tiro dei cannoni e delle mitragliatrici. La Germania, che era entrata in guerra con il piglio della giovane potenza che reclamava il suo posto nella storia, si ritrovò con il passare dei mesi sull’orlo del disastro. Le scorte e la capacità produttiva di munizioni, programmati dallo Stato Maggiore tedesco per un breve conflitto, si stavano rivelando totalmente inadeguati. Fu subito formato un gruppo di esperti per uscire dalla trappola tecnologica nella quale si era andato a ficcare il Kaiserreich che combatteva su due fronti: a ovest con i franco-inglesi e a est con i russi. Del gruppo faceva parte Haber, che considerava un suo dovere aiutare la patria in guerra. Il processo tecnologico che aveva sviluppato per la sintesi dell’ammoniaca poteva colmare la disparità di armamenti rispetto al nemico. Era tuttavia comune convinzione che, anche aumentando la potenza di fuoco e inviando nuove truppe al fronte, la guerra non poteva essere vinta in poco tempo. Haber si persuase che una vittoria rapida poteva essere ottenuta solo se alla guerra fosse stata data una nuova dimensione tecnologica, introducendo un elemento di terrore, spostando in avanti le tradizionali linee di pensiero dello Stato Maggiore. Tale trauma doveva essere causato dall’uso di armi chimiche al fronte, in grado non solo di costringere alla fuga o invalidare le prime linee nemiche, ma tali da essere inarrestabili e il più possibile mortali, in modo da consentire alle truppe tedesche, provviste di adeguate protezioni, un’avanzata su un tappeto di morti. Haber era convinto che tale feroce strategia avrebbe costretto il nemico a capitolare rapidamente, salvando così tante vite.

A Ypres, in Belgio, il 22 aprile 1915, Haber supervisionò di persona il primo attacco con gas di cloro (la famigerata iprite) contro le trincee francesi e inglesi. Haber continuò i suoi esperimenti mortali, convinto che bisognava anticipare le analoghe ricerche del nemico per vincere la guerra. Questo fu il suo errore principale: la guerra proseguì per altri tre anni, con la morte in trincea di milioni di uomini. Le armi chimiche letali, usate da tutti i belligeranti (quella più terribile diventò il fosgene), non sortirono l’effetto da lui voluto, e si rivelarono un’inutile atto di ferocia perché meno efficaci delle armi tradizionali sul piano militare. Il loro uso su entrambi i fronti e la scia di morte provocata dal loro utilizzo indiscriminato portarono dopo la guerra alla loro messa bando basata su una sorta di equilibrio del terrore. Il divieto fu violato solamente nel 1935-36 dalle truppe italiane (brava gente) durante l’aggressione fascista all’Etiopia, ultima sciagurata avventura coloniale di una nazione europea. 



Non sarà sfuggita l’analogia tra l’idea di Haber e ciò che sarebbe successo alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando un’inedita arma di distruzione di massa, la bomba a fissione nucleare, fu utilizzata per vincere le ultime resistenze del Giappone, per di più sulle popolazioni civili. Anche in quel caso si sarebbe trovata la giustificazione che un orrore così inedito, portando alla rapida capitolazione del nemico, avrebbe risparmiato numerose vite (soprattutto quelle delle forze americane nel caso si fosse dovuto invadere il Giappone). Forse la differenza tra lo sterminio chimico sul campo di battaglia e quello nucleare sulle città giapponesi sta principalmente nel fatto che il secondo fu efficace e il primo non lo fu.

L’assegnazione del premio Nobel ad Haber nel 1918 per il suo metodo di sintesi dell’ammoniaca non mancò di sollevare indignate proteste in tutto il mondo, al punto che il premio gli fu consegnato solo l’anno successivo, ma la sua reazione aveva reso possibile la produzione su vasta scala di fertilizzanti artificiali per fornire ai campi di cereali l’azoto necessario. Più che altro, contò il fatto che Haber ottenne l’onorificenza presentandosi a Stoccolma come rappresentante di un paese sconfitto.

Dopo la guerra, Haber tornò a dirigere l'Istituto di Fisica ed Elettrochimica Kaiser Wilhelm di Berlino. La sua leggenda nera è alimentata anche dal fatto che si interessò di pesticidi e mise a punto il procedimento per la sintesi dell'acido cianidrico, denominato commercialmente Zyklon B, che era originariamente destinato alla disinfestazione di pidocchi ed altri parassiti, e che fu successivamente utilizzato per assassinare i prigionieri nei campi di sterminio nazisti. Tuttavia, Haber non ebbe nulla a che fare con l’uso che si fece più tardi delle sue scoperte. 

Dopo l’ascesa di Hitler al potere, il nazionalismo statale diventò nazionalismo etnico e razzismo. Haber, nonostante la conversione, nel 1933 divenne l’Ebreo Haber. Lasciata la Germania, si stabilì in Palestina e poi a Basilea, dove morì un anno più tardi. In una commemorazione semiclandestina tenutasi all’Istituto Kaiser Wilhelm, che era stato diretto da lui per ventidue anni, un altro premio Nobel, Max Planck, sottolineò come senza la sintesi dell’ammoniaca la Germania avrebbe perso la guerra dopo pochi mesi, per mancanza di cibo e di munizioni. Planck tenne il suo discorso davanti a una platea di donne, le mogli dei professori. I mariti avevano preferito non esporsi, per “preservare i valori”.


domenica 2 dicembre 2018

Decreto Sicurezza



Il Decreto Sicurezza è la negazione dei valori democratici, dei valori costituzionali, di quelli cristiani tanto declamati. È un provvedimento fascista, contro il quale è necessaria una mobilitazione nelle forme più svariate. Chi non si schiera è complice di questo abominio.

mercoledì 15 aprile 2015

Il convegno che mai si fece (Schouten, Cartan e Levi Civita)

Una delle manifestazioni culturali di punta promosse ogni anno dal regime fascista era il Convegno Volta, la cui prima edizione si tenne nel 1931 e che, ad anni alterni, si occupava di scienza. Al consesso, organizzato dall'Accademia d'Italia e programmato nel mese di ottobre, erano invitati scienziati italiani e stranieri tra i più prestigiosi nella loro disciplina. La prima edizione, che sanciva i progressi della fisica nucleare italiana, fu organizzata da Enrico Fermi e vide la partecipazione, tra gli altri, di Niels Bohr, Guglielmo Marconi, Marie Curie. Fu in quell'occasione che si risolse la confusione terminologica riguardante le particelle neutre, assegnando il termine neutrone alla sola particella neutra presente nel nucleo, mentre per quella più piccola ed evanescente Fermi propose il nome neutrino

Il Convegno Volta del 1938, dedicato all'Africa per celebrare i recenti fasti imperiali dell'Italia, si svolse subito dopo l'introduzione delle prime leggi razziali, quelle che il 5 settembre 1938 avevano decretato l’espulsione degli studenti ebrei dalle scuole italiane e la sospensione dal servizio di tutti gli insegnanti e dei liberi docenti ebrei. In realtà sul Convegno non vi furono effetti sostanziali derivanti dalla discriminazione per il semplice motivo che nessuno scienziato ebreo doveva partecipare. 

Nei primi mesi del 1939 si incominciò a organizzare il IX convegno, che doveva essere dedicato a un tema matematico, la geometria differenziale. Incominciarono a partire i primi inviti agli scienziati stranieri, naturalmente dopo aver verificato attentamente che non fossero membri della "razza ebraica". Destò ad esempio qualche dubbio il francese Cartan, che si chiamava Élie, ma si accertò che il nome giudaico era solo una coincidenza.  

Le risposte all'invito, diverse in base alle idee, al carattere e alla sensibilità degli invitati, furono varie. Il matematico olandese Jan Arnoldus Schouten (1883 - 1971), specialista di geometria differenziale e di calcolo tensoriale, professore a Delft, non usò mezze misure per far capire agli organizzatori che era stato un errore invitarlo: 
"Signori, non ho potuto rispondere immediatamente all'amichevole invito dell'Accademia Reale d'Italia a partecipare al Convegno Volta del 1939 perché volevo prima sapere se sarebbero stati invitati gli scienziati ebrei italiani e stranieri. Ho pertanto scritto personalmente al professor Severi. La sua risposta non lascia sfortunatamente alcun dubbio al riguardo. Mi vedo pertanto costretto a rifiutare il vostro amichevole invito. Vi invito tuttavia a non considerare questo rifiuto come un atto contro l'Italia: ho il più grande rispetto per la scienza italiana e i sentimenti più amichevoli per i colleghi italiani. Mi è però impossibile partecipare a un congresso sulla geometria differenziale dal quale saranno esclusi, per questioni razziali, degli intellettuali italiani e stranieri quali Tullio Levi Civita, Guido Fubini, Beniamino Segre, D. van Dantzig e Ludwig Berwald". 
La seconda risposta che qui ci interessa arrivò dalla Francia, da uno dei più grandi specialisti transalpini di geometria differenziale e di teoria dei gruppi di Lie: Élie Cartan (1869 - 1951). Con Schouten aveva pubblicato diversi articoli, e conosceva la lettera dell'olandese, che lo aveva inserito tra i destinatari per conoscenza. Dopo un po' di tempo decise di partecipare al Convegno, scrivendo al fascista Severi, unico matematico nell'Accademia d'Italia. Non è un caso che si rivolgesse direttamente a lui, perché i due si erano incontrati più volte. Insieme ad esempio avevano fatto parte della commissione che aveva assegnato le prime due medaglie Fields al Congresso di Oslo del 1936 (a Levi Civita era stata vietata la partecipazione per un’intervista rilasciata negli Stati Uniti che velatamente criticava il regime). 
"Ho l'onore di accusare il ricevimento dell'invito che mi avete fatto avere di partecipare al IX Convegno Volta che avrà luogo a Roma il prossimo ottobre. Sono molto onorato di questo invito e vi ringrazio. Parteciperò senza dubbio a questa manifestazione, salvo eventi imprevisti, e mi farà sicuramente molto piacere passare qualche giorno con i colleghi matematici di Roma". 
Non si trattava, come vedremo, di condivisione da parte di Cartan delle leggi razziali. La lettera del francese nascondeva in realtà un desiderio: poter incontrare Tullio Levi Civita. L'anno precedente l'italiano aveva inviato al francese un suo articolo, e Cartan gli aveva risposto con una lettera piuttosto lunga e più personale di quanto fosse sua abitudine scrivere. Eccone un brano: 
"Fubini, che ho visto recentemente [il matematico italiano di origine ebraica era transitato da Parigi prima di recarsi esule negli Stati Uniti], mi ha detto di numerosi nostri amici matematici italiani. È inutile dirvi quali siano i miei sentimenti. Spero che la signora Levi Civita e voi siate in buona salute e abbiate approfittato delle vacanze". 
Levi Civita, che aveva letto la lettera di Schouten perché era il secondo destinatario per conoscenza, rispose a Cartan dicendo: 
"[A voi vadano] Tutti i miei ringraziamenti per la simpatia che mi esprimete a seguito delle recenti manifestazioni antisemite. Fino ad ora non so nulla di ufficiale, ma ho già saputo abbastanza, o direi piuttosto troppo, dai giornali". 
Il IX Convegno Volta alla fine non si fece, perché il primo settembre era scoppiata la guerra e molti invitati dei paesi belligeranti erano impossibilitati a partecipare. Levi Civita morì alla fine del '41, ignorato dal mondo accademico italiano. La notizia della sua morte raggiunse Parigi solo nel luglio del 1942. Poiché era membro dell'Accademia di Francia, si decise di commemorarlo il 18 settembre, con un ricordo scritto proprio da Cartan. Anche in Francia erano entrate in vigore le leggi razziali, ma un ebreo morto si poteva pur ricordarlo: 
"Ma ciò che ha permesso alla fama del nostro confratello di uscire dal cerchio degli specialisti è il ruolo che ha giocato nella storia del calcolo differenziale assoluto, sono le numerose applicazioni che ne ha ottenuto". 
Dopo la guerra fu ritrovato il testo dell'intervento di Cartan previsto per il Convegno Volta: nell'introduzione era pieno di elogi per i lavori di Levi Civita.

Riferimento:

sabato 11 aprile 2015

I matematici italiani e le leggi razziali


Le premesse della discriminazione degli ebrei in Italia c'erano già tutte, soprattutto dopo le feroci campagne di stampa denigratorie organizzate a partire dal 1933 da giornalisti legati al regime fascista come Telesio Interlandi o da uomini di potere come Roberto Farinacci, eppure il Duce in persona, ancora nel febbraio 1938, dichiarava su L'informazione diplomatica che il governo non avrebbe preso misure di alcun tipo contro i cittadini di religione ebraica. Ma il legame sempre più stretto con la Germania nazista, culminato nella visita a Roma di Hitler nel mese di maggio e nella sigla l'anno successivo del Patto d'Acciaio, fecero in pochi mesi precipitare la situazione in direzione della catastrofe.

Il 24 giugno Mussolini ricevette il giovane antropologo Guido Landra, illustrandogli la propria nuova posizione circa la questione razziale, e ordinando di creare un Ufficio Studi sulla razza, con l’obiettivo di mettere a punto in pochi mesi “i punti fondamentali per iniziare la campagna razziale in Italia”. Landra si mise all’opera e, attenendosi alle direttive del Duce, redasse un decalogo destinato a essere diffuso. In seguito, Landra fu incaricato di riunire un comitato di dieci "studiosi" ideologicamente allineati, i quali accettarono di figurare come firmatari del documento.

Il 14 luglio 1938 fu pubblicato su Il Giornale d'Italia e altri organi di stampa il Manifesto degli Scienziati Razzisti, fondamento ideologico dell'antisemitismo. Il documento sosteneva l'esistenza delle razze umane e, al capitolo 9, dichiarava che :
GLI EBREI NON APPARTENGONO ALLA RAZZA ITALIANA. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.
Inizialmente firmato dai dieci scienziati fascisti contattati da Landra (medici, zoologi e antropologi), il Manifesto ricevette nei giorni successivi l'adesione di altri 180 scienziati e di 140 intellettuali e uomini di cultura, fascisti e anche cattolici.

Proprio La difesa della razza si intitolava la rivista quindicinale che vide la luce il 5 agosto successivo, con una copertina che mostrava un gladio romano che separava la pura razza italica da quella giudaica e da quella africana. Diretta da Interlandi e con segretario di redazione un giovane Giorgio Almirante, la rivista, nei suoi cinque anni di vita, ospitò vari articoli di divulgazione pseudoscientifica, firmati dai fascistissimi luminari del Manifesto, ma anche da alcuni insospettabili alla luce della loro successiva carriera. Nel primo numero, si potevano leggere bestialità come queste:

 
La campagna ideologica per il razzismo precedette di poco i primi provvedimenti di legge. Con il regio decreto del 5 settembre 1938 si disponeva l’espulsione immediata di tutti gli studenti ebrei dalle scuole italiane di ogni ordine e grado, la sospensione dal servizio di tutti gli insegnanti e dei liberi docenti ebrei, nonché del personale scolastico. Il provvedimento aveva il carattere d’urgenza, in quanto all’inizio di ottobre sarebbero cominciati l’anno scolastico e quello accademico. Il successivo decreto-legge del 15 novembre ribadiva l’esclusione degli studenti, degli insegnanti e di tutti gli altri dipendenti “di razza ebraica” dalla scuole pubbliche e private e dalle università, e inoltre si faceva divieto di adottare libri di testo scritti da autori ebrei. Non era certamente un caso che la discriminazione iniziasse proprio dalla scuola, vista dal regime come strumento principale di indottrinamento dei giovani.


L’impatto di questi provvedimenti fu drammatico per la comunità ebraica: vennero espulsi 96 professori universitari e 193 assistenti, 279 presidi e professori di scuola media, più di 100 maestri elementari, 200 liberi docenti, 114 autori di libri di testo, 5400 studenti elementari e medi, 200 studenti universitari. Cominciava per gli ebrei italiani un cammino senza ritorno che li avrebbe sospinti sempre più ai margini della vita sociale e produttiva.

Ormai la macchina della persecuzione si era messa in moto. Nel regio decreto-legge del 17 novembre si proibivano i matrimoni misti, era decretata l’espulsione degli ebrei da tutti gli impieghi pubblici, si limitava il loro diritto di proprietà. Tra le poche eccezioni ai divieti c’erano i parenti dei caduti in guerra o per la causa fascista, gli iscritti al Partito nazionale fascista e tutti quegli ebrei che avevano acquisito benemerenze eccezionali, Il 22 dicembre si collocavano in congedo assoluto i militari ebrei appartenenti alle Forze Armate.

Le leggi razziali vennero applicate con particolare zelo negli istituti culturali, anche i più importanti. Molti matematici ebrei, tra i più grandi della loro generazione, furono vittime della follia razzista. Più che i loro contributi scientifici, ricordo in queste righe ciò che dovettero patire.

Ai soci ebrei dell’Accademia dei Lincei, assorbita dall’Accademia d’Italia nel 1934 per volere di Mussolini, il grande prestigio non bastò a evitare l’espulsione: il Regio Decreto del 1 dicembre dichiarava decaduti i soci ebrei dell'Accademia. Albert Einstein, membro straniero dell’Accademia sin dal 1921, venuto a conoscenza, delle leggi razziali promulgate dal Governo Italiano, scrisse il 3 ottobre 1938 una lettera nella quale chiedeva conferma di quanto appreso dai giornali. Poiché non ebbe risposta, lo scienziato tedesco inviò il 15 dicembre una seconda lettera, con la quale chiedeva di essere escluso dalla lista dei soci stranieri. Il 2 gennaio del 1939 il presidente dei Lincei, il mineralogista Federico Millosevich, rispose comunicando di prendere atto delle sue dimissioni.

Accademico dei Lincei era Guido Castelnuovo (1865 - 1952), tra i padri della geometria algebrica italiana, che fu costretto ad abbandonare ogni incarico,e tuttavia reagì, oramai settantatreenne, contribuendo all'organizzazione di corsi clandestini di livello universitario per studenti ebrei. Sfuggito ai rastrellamenti nazisti, dopo la liberazione di Roma (4 giugno 1944), fu nominato commissario del CNR, con il compito di avviarne la riorganizzazione dopo il periodo bellico. Componente della commissione di epurazione della ricostituita Accademia dei Lincei nel 1944-46, fu poi eletto presidente dell'organismo, carica che mantenne quasi fino alla morte. Nel 1950 era stato nominato senatore a vita.

Sua figlia Emma Castelnuovo (1913 - 2014), laureatasi in matematica nel 1936, dopo un periodo come bibliotecaria presso l'Istituto di matematica dell'Università di Roma, nell'agosto del 1938 vinse la cattedra di insegnante di scuola media ma, dopo alcuni giorni, fu sospesa dal servizio a causa delle leggi razziali. Tra il 1939 al 1943 insegnò nella scuola israelitica clandestina e poi, dopo la guerra, avrebbe contribuito al rinnovamento della didattica della geometria euclidea e della matematica in generale.


Un altro grande vecchio della matematica italiana, Vito Volterra (1860 - 1940), forse la figura più prestigiosa dell’Accademia dei Lincei negli anni Venti, venne colpito dai provvedimenti razziali. Senatore del Regno dal 1905, patriota e volontario nella Grande guerra, a Volterra il fascismo non era mai piaciuto. Nel 1931 era stato uno dei dodici professori universitari italiani a rifiutarsi di prestare il Giuramento di fedeltà al Fascismo ed era stato dispensato dal servizio per incompatibilità con le generali direttive politiche del governo. Dovette abbandonare anche le sue molte cariche nelle accademie scientifiche italiane. Costretto all’esilio, tornò in Italia poco prima di morire. Il fascismo tentò di cancellarne persino la memoria. Quando morì, l'11 ottobre 1940, la scomparsa di una delle figure più illustri della cultura italiana passò pressoché inosservata: nessuna delle istituzioni scientifiche italiane ebbe il coraggio di ricordare ufficialmente il grande matematico, uno dei principali fondatori dell'analisi funzionale e della teoria delle equazioni integrali, maestro della biologia matematica. L’unica commemorazione fu tenuta da Carlo Somigliana (1860 - 1955) nell'Accademia Pontificia di cui Volterra era membro dal 1936.


Le leggi razziali colpirono un altro grande matematico, filosofo e divulgatore di origine ebraica. Federigo Enriques (1871 - 1946), tra i più importanti esperti di geometria algebrica, fu colpito dalle leggi razziali e costretto ad abbandonare l'insegnamento e qualsiasi altro impiego di carattere culturale. Negli anni della discriminazione razziale insegnò a Roma nella scuola ebraica clandestina fondata da Guido Castelnuovo e riuscì a pubblicare alcuni articoli in forma anonima sul Periodico delle Matematiche, organo della Mathesis (di cui era stato presidente dal 1919 al 1932, opponendosi alla riforma della scuola di Giovanni Gentile perché troppo orientata verso la cultura umanistica). Durante l'occupazione tedesca visse nascosto. Tornò a insegnare all'Università nel 1944 per altri due anni fino alla morte, avvenuta a Roma il 14 giugno 1946.


Guido Fubini (1879 - 1943), noto soprattutto per il teorema in analisi matematica che ne porta il nome, considerato tra i fondatori della moderna geometria proiettiva differenziale, era prossimo alla pensione quando entrarono in vigore le leggi razziali. Temendo per sé e la famiglia, ebbe la buona idea di partire per gli Stati Uniti accettando l’invito di insegnare a Princeton. Morì a New York nel 1943.


Questo breve panorama di odiosa discriminazione si conclude con il nome di Tullio Levi Civita (1873 - 1941), i cui lavori sul calcolo tensoriale avevano contribuito alla formulazione della teoria della relatività da parte di Einstein. Membro della Royal Society inglese, accademico dei Lincei e dell’Accademia pontificia, si oppose al fascismo. Con l’entrata in vigore delle leggi razziali, gli fu vietato l'accesso alla biblioteca del suo Istituto di Matematica dell'Università di Roma. Fu poi allontanato dall’insegnamento e visse isolato dalla comunità scientifica. La sua salute andò peggiorando fino alla morte, avvenuta per infarto a Roma il 29 dicembre 1941. 


A questo punto ci si potrebbe domandare quale fu l’impatto delle leggi razziali sui matematici italiani non ebrei. Ebbene, fu lo stesso che nelle altre categorie, scientifiche e non: un misto di conformismo, di pauroso silenzio, di collaborazionismo per cogliere un’occasione di carriera. Se un matematico di punta come Francesco Severi (1879 - 1961), fascista dagli anni ‘20, trovò normale, dopo aver suggerito nel 1931 il giuramento di fedeltà al regime, che il fascismo prendesse la strada del razzismo (fu lui a cacciare Levi Civita), salvo poi pentirsi dopo la guerra, altri, altrettanto bravi nella disciplina, si adeguarono al nuovo, freddo, clima. Molti di loro, tra i quali Mauro Picone, riuniti il 10 dicembre 1938, dichiararono senza vergogna che: 
“La scuola matematica italiana, che ha acquistato vasta rinomanza in tutto il mondo scientifico, è quasi totalmente creazione di scienziati di razza italica” (...) “Essa, anche dopo le eliminazioni di alcuni cultori di razza ebraica, ha conservato scienziati che, per numero e qualità, bastano a mantenere mantenere elevatissimo il tono della scienza scienza matematica italiana, e maestri che con la loro intensa opera di proselitismo scientifico assicurano alla Nazione elementi degni di ricoprire tutte le cattedre necessarie”. 
Il danno che le leggi razziali portarono alla matematica italiana e alla sua immagine fu in realtà gravissimo, e la reazione internazionale non mancò di sottolinearlo. Ma di questo parlerò un’altra volta.