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venerdì 8 marzo 2024

La guerra italiana contro la malaria

 


Il grande storico francese Fernand Braudel scrisse poco prima di morire che
«Sebbene pericolosa, la peste, importata dall'India e dalla Cina attraverso relazioni a distanza, è una straniera temporanea nel Mediterraneo. La malaria ha lì una sede permanente. Fa da sfondo al quadro della patologia mediterranea». In effetti, la presenza della malaria in ampie porzioni del territorio italiano è ampiamente documentata fin da tempi molto antichi e il flagello era endemico già ai tempi dell'antica Roma.

La malaria, che ogni anno mieteva migliaia di vittime, era tra i problemi sanitari più urgenti e gravi che il governo dell’Italia unita si trovò ad affrontare, perché riguardava ampie zone del territorio, desolate, inabitabili e improduttive proprio a causa della malattia. Particolarmente colpite erano le campagne intorno a Roma, l’agro pontino, la Maremma toscana, la Sardegna, il Veneto, la Romagna, la Puglia, la Calabria, la Basilicata, anche se nel passato più remoto ci sono stati sicuramente periodi in cui l'influenza della malaria aveva coperto estensioni territoriali molto più ampie, sia per il cambiamento delle condizioni climatiche, sia per le variazioni della dinamica delle popolazioni, sia per eventi storici che avevano causato l'abbandono dei lavori di regolazione idraulica nelle zone soggette a impaludamento.

Del problema non si ebbe un quadro preciso fino all’inchiesta agraria promossa dalla Camera dei deputati negli anni 1877-1886, che mise in luce le miserevoli condizioni delle popolazioni nelle campagne. La stima del numero dei colpiti dalla malaria era impresa non facile, perché le distanze, la distribuzione frammentata della popolazione, la mancanza di presidi medici, rendevano complicato un conteggio preciso.

Nel 1882 il senatore valtellinese Luigi Torelli, più volte ministro, si occupò del problema: stilò la prima bozza di una carta geografica in cui erano segnalate le aree italiane colpite da malaria; delle 69 province, solo 6 erano completamente esenti dal morbo, mentre 21 presentavano territori con malaria gravissima, 29 con malaria grave, 13 con malaria leggera; risultava inoltre che le zone colpite erano anche quelle più fertili, tanto che Torelli stimò che circa due milioni di ettari di terreno coltivabile erano lasciati incolti e altrettanti venivano sfruttati in modo insufficiente; negli stessi anni fu valutato che il numero di morti annuali dovuto direttamente alla malattia si aggirava intorno ai ventimila, a cui si dovevano aggiungere i morti causati da complicazioni dovute al morbo.


Un aspetto importante riguarda infatti la struttura della mortalità registrata nelle aree malariche, che è solo in parte attribuibile ai decessi direttamente causati da questa malattia. Infatti, lo stato di debilitazione causato dalla malaria, anche quando questa infezione non è direttamente mortale, rende i soggetti malarici più facilmente preda di altre forme morbose (legate principalmente all'apparato respiratorio e gastrointestinale). D’altra parte, un attacco di malaria (soprattutto in caso di recidive) può aggravare altri tipi di infezioni già in corso. Inoltre, i figli di madri malariche nascevano spesso sottopeso e, anche se non contraevano la malaria, erano soggetti a rischi eccezionalmente elevati di morte, anche dopo il primo anno di vita, soprattutto per infezioni gastrointestinali e polmonari, come la tubercolosi.

Inizialmente, per spiegare le ragioni dell’infezione, si pensò che fossero i terreni paludosi a produrre la malattia, ma se questo poteva essere plausibile per il Nord, dove gli acquitrini abbondavano, non poteva valere per il Sud: in molte zone non paludose, era sufficiente il calore e un piccolo grado di umidità per favorire la “fermentazione” del terreno (la “mal aria”) e dar luogo alla malattia. Nel tentativo di arginare il problema, furono progettati interventi di bonifica a partire dall’Agro romano, che lambiva la capitale. La prima legge in materia fu promossa dall'ingegnere e deputato Alfredo Baccarini (1826-1890, Legge 25 giugno 1882, n. 269) con la quale lo stato, consapevole dei limiti dell'azione dei privati, perseguì un intervento organico di impegno sociale e sanitario contro la malaria. La bonifica avrebbe dovuto provvedere al prosciugamento e al risanamento dei laghi, degli stagni, delle paludi e delle terre paludose.


Negli ultimi trent'anni dell’Ottocento, un folto gruppo di scienziati italiani, come Giovanni Battista Grassi, Angelo Celli, Camillo Golgi, Ettore Marchiafava, Amico Bignami, Giuseppe Bastianelli, si impegnò per risolvere l’enigma della malaria e divenne noto come
gruppo romano di malariologia, perché la maggior parte delle persone coinvolte lavorava a Roma e molte delle ricerche cliniche sull’argomento furono realizzate presso l’ospedale Santo Spirito della capitale, che ospitava degenti maschi provenienti dalle zone malariche vicine e nei momenti critici giungeva a curare fino a mille degenti.

Negli anni 1878 e 1879, due eminenti patologi, Corrado Tommasi-Crudeli (1834-1900) e il tedesco Edwin Klebs (1834-1913), decisero di unire le loro forze per studiare insieme la causa della malaria nell’agro romano e per questo furono ospitati da Stanislao Cannizzaro nel laboratorio di chimica di Roma. I due isolarono dal suolo delle zone paludose un microbo, da loro chiamato Bacillus malariae, e pubblicarono due memorie negli atti della Regia accademia dei Lincei, sostenendo che il germe si rinveniva nelle zone malariche e poteva essere coltivato in laboratorio; asserirono inoltre che, inoculato nei conigli, procurava febbre e ingrossamento splenico.

Ettore Marchiafava (1847-1935), allievo di Tommasi-Crudeli, rinvenne organismi simili a quelli descritti da Tommasi Crudeli e Klebs nel sangue di tre individui morti per malaria perniciosa; nella loro milza e nel midollo osseo era inoltre presente un pigmento nerastro simile a quello riscontrato dai colleghi nei conigli, lo stesso pigmento presente negli organi di individui deceduti per malaria e che già altri avevano descritto, attribuendolo ad accumuli di melanina. Sembrava che la malaria avesse finalmente trovato la sua causa (un batterio).

Nel 1880, il maggiore medico francese Charles Louis Alphonse Laveran (1845 – 1922), ex studente di Pasteur, che dal 1878 lavorava presso l’ospedale militare di Costantina, in Algeria, rese noto di aver analizzato il sangue prelevato da numerosi ricoverati malarici. Mentre le autopsie mettevano tutte in evidenza la tipica pigmentazione bruna, nel sangue prelevato da individui vivi poté osservare che i leucociti erano colmi di melanina e erano presenti cellule di dimensioni variabili e dotate di movimento ameboide, libere o aderenti ai globuli rossi; osservò inoltre cellule flagellate, dotate di movimenti rapidi. Le sue comunicazioni, però, destarono inizialmente scarsa eco, in quanto, sull’onda delle scoperte batteriologiche, non si poteva pensare che una malattia fosse provocata da protozoi; tuttavia, un altro medico, Eugène Richard, che lavorava in un ospedale vicino a quello di Laveran, confermò le sue osservazioni. Il lavoro di Laveran, Traité des fièvres palustres, fu pubblicato nel 1884.

Nel frattempo, in Italia non tutti erano d’accordo con le conclusioni di Tommasi-Crudeli e Klebs. Uno dei più convinti oppositori della teoria batterica era da tempo Guido Baccelli (1830-1916), professore di clinica medica presso l’Università di Roma e in seguito anche senatore e ministro, che da anni sosteneva che la malattia era dovuta a un’infezione dei globuli rossi e nel 1878 aveva pubblicato su incarico del Governo l’ampio trattato La malaria di Roma, presentato all’Esposizione universale di Parigi.

Si decise allora di ricorrere al giudizio di Camillo Golgi (1843-1926), che in seguito (1898) avrebbe scoperto l’organulo cellulare che da lui prende il nome, premio Nobel per la Medicina (1906), la cui fama di istologo era ormai da tempo consolidata, e al parassitologo Edoardo Perroncito (1847-1936). Un gruppo di scienziati, coordinati da Perroncito e Golgi, ripeterono a Pavia gli esperimenti, utilizzando il protocollo di Tommasi-Crudeli e Klebs, che prevedeva un esame istologico condotto qualche ora dopo il prelievo, ma ottennero risultati ambigui; si poteva pensare che il ritardo nell’osservazione avesse contaminato il prelievo. Batteri simili a quelli rinvenuti da Tommasi-Crudeli e Klebs, vennero infatti rinvenuti anche in sangue prelevato da soggetti sani. Nel frattempo, Marchiafava, nel 1882, aveva conosciuto Laveran, che si era recato a Roma per verificare presso l’ospedale Santo Spirito se anche i malarici dell’agro pontino presentavano nel sangue gli organismi da lui osservati in Algeria; il medico francese aveva mostrato i preparati al collega, che da quel momento aveva cominciato a nutrire seri dubbi sulle conclusioni di Tommasi - Crudeli. Marchiafava e l’igienista Angelo Celli (1857–1914) ripresero ad analizzare numerosi campioni di sangue di persone con la malaria e infine i due, che disponevano di mezzi tecnici migliori, poterono confermare che il responsabile della malattia era un protozoo, da loro denominato Plasmodium e non un batterio; i loro risultati vennero suffragati dalle osservazioni degli assistenti di Marchiafava, Bignami e Bastianelli. La causa della terzana maligna, il Plasmodium falciparum, fu infine individuato nel 1889 da Marchiafava e Celli, in seguito all’ideazione di un metodo di colorazione ottimale per identificare i parassiti negli strisci di sangue; si chiarì, in questo modo, che quasi esclusivamente al P. falciparum erano attribuibili le forme cliniche delle febbri e gli episodi mortali di malaria. La comunità scientifica, così, si convinse che Laveran, Marchiafava, Bignami e Bastianelli avevano ragione; i riscontri clinici ottenuti da Tommasi-Crudeli e Klebs potevano essere attribuiti a infezioni non riconducibili alla malaria.

C’era ora da capire se la periodicità con cui si manifesta l’attacco febbrile (le febbri malariche hanno accessi periodici per cui si distinguono la terzana, la quartana e altre forme periodiche meno diffuse) fosse provocata da due o più distinte specie di plasmodio, oppure se lo stesso parassita provocasse sintomatologie diverse in base a non meglio specificati fattori ambientali.

Camillo Golgi, che continuava ad interessarsi al problema, studiò numerosi pazienti, ponendo particolare attenzione alle variazioni della loro temperatura e prelevò loro il sangue a intervalli regolari sia durante gli accessi febbrili che nei periodi di remissione. L’osservazione al microscopio gli permise di notare che nel caso di malati affetti da quartana, i corpi pigmentati raggiungono il loro pieno sviluppo nell’intervallo fra i due accessi febbrili; inizia allora la divisione cellulare del parassita e subito dopo la temperatura del paziente si innalza. Nel 1885 dimostrò che i due diversi tipi di febbre malarica, la terzana e la quartana, sono provocati da due specie di plasmodio diverse: Plasmodium vivax, responsabile della terzana benigna, e Plasmodium malariae, responsabile della quartana. Nel 1889 dimostrò che gli attacchi febbrili si verificano nel momento in cui i merozoiti (stadio del ciclo del plasmodio) rompono i globuli rossi e si liberano nel circolo sanguigno. Gli accessi febbrili si manifestano nel momento in cui le cellule del parassita, riprodottesi all’interno del globulo rosso umano (fase di sporulazione), distruggono l’emazia, fenomeno che nella terzana avviene ogni 48 ore, nella quartana ogni 72; fuoriuscite nel plasma, si immettono in nuovi globuli rossi, aumentando il livello di infestazione. La precisa classificazione delle due specie, P. malariae e P. vivax si deve a Giovanni Battista Grassi (1854-1925) e al suo assistente Raimondo Feletti, mentre nel 1897, l’americano William H. Welch (1850 – 1934) descriverà il P. falciparum e infine nel 1922, John W. W. Stephens il P. ovale.

Dal punto di vista clinico, gli studi di Golgi permisero di formulare una diagnosi rapida e precisa della presenza della patologia e la somministrazione del chinino qualche ora prima dell'accesso febbrile permise di evitare la riproduzione del plasmodio, liberando il paziente dall’infezione. Nel 1894 Bignami e Bastianelli riprodussero i sintomi della malaria in un volontario sano, iniettandogli per via intradermica una goccia di sangue prelevato da un paziente malarico.

Bisognava comprendere come la malattia venisse trasmessa all’uomo; era questa la chiave per poter attuare un intervento preventivo efficace. Da tempo, in molti pensavano che le zanzare fossero in qualche modo coinvolte nella trasmissione della malattia; agli inizi del Settecento Giovanni Maria Lancisi aveva suggerito che fosse un liquido velenoso inoculato dalla zanzare a produrre le febbri e aveva consigliato di prosciugare le zone in cui vi era ristagno di acqua, luoghi ideali per lo sviluppo delle larve. Nel frattempo, si cominciavano a scoprire molte malattie trasmesse da invertebrati e in molti casi era stato individuato il ciclo completo di molti parassiti.

La scoperta più interessante per l’avanzamento delle indagini sulla malaria era stata fatta a Taiwan dal medico scozzese Patrick Manson (1844-1922), fondatore della medicina tropicale, che per la prima volta aveva verificato che una parassita, la filaria, poteva essere ospitato da un insetto, la zanzara Culex fatigans. Forte di questa scoperta, avanzò l’idea che qualcosa di simile avvenisse anche per il plasmodio: il globulo rosso protegge i parassiti dall’attacco dei globuli bianchi e può penetrare, quando questa punge l’uomo, nella zanzara, dove il parassita potrebbe completare il suo ciclo. Tornato nel Regno Unito, Manson divenne insegnante medico e consigliere del British Colonial Office; in questa veste, conobbe nel 1894 Ronald Ross (1857 – 1932), ufficiale medico dell’Indian Medical Service e pensò che questi, a contatto con zone dove la malaria era molto diffusa, avrebbe potuto trovare riscontri alla sua teoria. Fra Manson e Ross si stabilì una fitta corrispondenza: Manson insisteva perché l’amico “seguisse i flagelli” che si trovavano negli ammalati, nei tessuti delle zanzare, mentre Ross lo teneva informato dei suoi progressi.

Ma quali zanzare? Ross non era uno zoologo e le sue conoscenze sui vari generi di zanzara erano piuttosto approssimate: inizialmente ebbe anche difficoltà a fare le prime dissezioni sugli insetti e comunque non annotò con precisione su quali specie conducesse i suoi esperimenti. Andando alla cieca, rivolse le sue iniziali attenzioni su generi non coinvolti nell’infestazione (Aedes e Culex), come del resto stavano facendo negli stessi anni nei laboratori romani, non ottenendo risultati.

Nel frattempo, anche Grassi, Bignami e Celli stavano cercando di risolvere l’enigma; puntando sull’ipotesi dell’inoculazione, che stava acquistando sempre maggior credito rispetto a quella secondo cui stadi immaturi del parassita potevano essere presenti nel terreno, cercavano di trasmettere la malaria, facendo pungere da zanzare allevate in laboratorio individui malarici e poi liberando le stesse zanzare in stanze con volontari sani per verificare se in essi si sviluppasse la malattia; lavorando con le Culex, però, i risultati ottenuti erano sempre negativi. Nella primavera del 1898 Grassi intuì quale era stato l’errore in cui erano incorsi fino ad allora: non diverse specie di zanzare potevano disseminare la malattia, ma una sola.

L’idea di Grassi era semplice: dal momento che gli uomini si muovono nelle varie regioni italiane, mentre i luoghi malarici hanno una localizzazione costante, la causa della malattia deve essere legata soprattutto alla distribuzione di una determinata specie di zanzara nelle zone malariche, dato che zone con condizioni ambientali simili possono non presentare la malattia. Del resto, in Italia erano da tempo note zone infestate da zanzare, ma in cui la malaria non era presente. Nell’agosto del ‘98, Grassi aveva risolto il problema e identificato negli “zanzaroni” (Anopheles claviger) i vettori della malaria.


Naturalmente, completate le indagini biogeografiche, restava da verificare che effettivamente negli zanzaroni avviene una parte del ciclo del plasmodio. Grassi, allora, chiese aiuto a Bignami e Bastianelli, che accettarono di seguire il suo protocollo sperimentale; Grassi si sarebbe occupato di procurare gli zanzaroni, con cui sarebbero stati punti individui sani, mai vissuti in zone malariche. In novembre si fece l’esperimento fondamentale: un soggetto sano fu punto dalle zanzare sospette, sviluppò la malattia e guarì una volta che gli fu somministrato il chinino.

Del chinino, estratto dalla corteccia dell'albero della china di origine andina, erano note le proprietà antifebbrili sin dal Seicento. Antonio de la Calancha, un gesuita vissuto nel XVII secolo in Sud America, scrisse nel 1633 di un "albero che chiamano "l'albero della febbre" la cui corteccia trasformata in una polvere (...) e data come bevanda, guarisce le febbri e le terzane”. Il nome Inca di questo albero era quina, ma non ci sono prove che essi riconoscessero il suo valore per il trattamento della malaria, ma semplicemente la sua capacità di prevenire i brividi indotti dal freddo. Furono i missionari gesuiti i primi a usare la corteccia d'albero polverizzata per curare la malaria e così divenne nota come “polvere dei gesuiti”. Il cardinale Juan de Lugo ne aprì la strada all'uso a metà del XVII secolo a Roma. Nel 1742, Linneo gli diede il nome “chinchona”, probabilmente perché aveva sentito la leggenda della contessa di Chinchon, moglie del viceré spagnolo di Lima, che sarebbe stata guarita dalla malaria grazie all'uso della corteccia in polvere.


Nel corso dei decenni successivi furono fatti diversi tentativi per isolare un principio attivo puro dalla corteccia di china, ma tutti fallirono. Nel 1819 Friedrich Ferdinand Runge isolò quella che chiamò "base cinese", e un anno dopo Pierre-Joseph Pelletier e Joseph-Bienaimé Caventou estrassero una sostanza dalla corteccia della
Cinchona cordifolia con acido seguito da neutralizzazione con alcali e ottennero una sostanza identica alla “base cinese”, che chiamarono chinino. Campioni di questo alcaloide della china furono messi a disposizione dei medici negli ospedali di Parigi e presto molti di loro riferirono dell'efficacia del chinino come trattamento per la malaria.

Il problema fondamentale per i chimici che tentarono di isolare il principio attivo del chinino fu che esso fa parte di un gruppo di isomeri difficilmente distinguibili. Intorno al 1853, Louis Pasteur, trattò la polvere di Chinchona con acido solforico diluito, che diede un nuovo prodotto di degradazione che in seguito fu chiamato chinotossina. Il passo fondamentale per svelare la chimica alla base di questa degradazione fu infine compiuto nel 1908 dal chimico tedesco Paul Rabe, che ne dedusse correttamente la struttura. Il chinino è stato da tempo sostituito da farmaci sintetici meno tossici come la mepacrina (1932), la clorochina (1939), la primachina (1946), la meflochina (1979) e i derivati dell'artemisinina dalla pianta cinese Artemisia annua, ma è tuttora utilizzato come aroma alimentare nelle acque toniche e nella preparazione di vari aperitivi e digestivi.

Al chiudersi del 1898, però, molti erano ancora i problemi da risolvere: le diverse febbri malariche si sviluppano avendo come vettore la stessa specie di zanzara? Come e dove gli insetti si infettano? Solo nell’uomo o anche in altri animali si completa il ciclo di sviluppo del plasmodio? Tra il 1899 e il 1902 il gruppo romano dimostrò che il ciclo vitale del plasmodio si completa all’interno del corpo dell’insetto - in cui avviene la riproduzione sessuale -, mentre nell’uomo avviene la riproduzione asessuata. I ricercatori dimostrarono inoltre che le larve sono sempre immuni, e quindi la malattia non può essere ereditaria; solo le femmine di alcune specie di anofeli veicolano la malattia e se non esistono uomini affetti da malaria, la regione ne è esente.

Il governo italiano si mosse tempestivamente per promuovere interventi antimalarici, anche grazie all’elevato livello scientifico della compagine parlamentare, in cui erano presenti, sia fra i deputati che fra i senatori, medici, igienisti, esperti in malattie del lavoro; dalla fine degli anni Novanta a tutta l’età giolittiana, inoltre, anche il livello scientifico della burocrazia italiana era altissimo e collaborò all’impresa di risanamento in piena sintonia con i medici, che segnalavano una situazione drammatica. Angelo Celli, che era stato eletto alla Camera dei Deputati nel 1892, presentò agli inizi del Novecento una proposta di legge molto articolata e moderna. Per parte sua, il medico e istologo Giulio Bizzozero (1846-1901), mentore e maestro di Golgi, nominato in Senato nel 1890, nel suo intervento sulla proposta sottolineò come il chinino non fosse soltanto un mezzo di cura, ma dovesse anche essere utilizzato per prevenire la malattia: dato che la malaria viene trasmessa da una persona all’altra per mezzo delle zanzare, che ricevono il parassita da un malato e lo immettono in un altro, il soggetto malarico è pericoloso come qualunque persona affetta da malattia infettiva, per cui spetta allo Stato predisporre i mezzi per impedire il contagio. Lo stesso Grassi intervenne in molti suoi scritti, definendo il chinino indispensabile alle popolazioni delle zone malariche come l’acqua e l’aria; la sua somministrazione, dunque, doveva essere fornita gratuitamente.

Si rendeva necessario che lo Stato assumesse il monopolio di produzione del farmaco in modo da evitare abusi da parte di eventuali speculatori; per rendere facile l'acquisto del prezioso medicinale anche nei territori più isolati e arretrati, doveva essere venduto non soltanto nelle farmacie, ma anche presso gli spacci di sali e tabacchi; la cosa sollevò le proteste della potente categoria dei farmacisti, ma le insistenze dei medici ricercatori fecero sì che ottenesse l’approvazione del parlamento. Il chinino, inoltre, sarebbe stato distribuito a prezzo di favore alle pubbliche amministrazioni e alle imprese a rischio, purché venisse somministrato gratuitamente ai dipendenti; il suo prezzo sarebbe stato contenuto e i proventi per la sua vendita sarebbero stati reinvestiti per la battaglia antimalarica.

Nel disegno di legge passò l’idea che la cura con il chinino era un vero e proprio rimedio sociale e pertanto doveva essere distribuito gratuitamente per mezzo del medico comunale o uno specifico ufficiale sanitario e a tale proposito in seguito si decise che i comuni potessero consorziarsi per il mantenimento degli ufficiali sanitari. La malaria contratta nei luoghi di lavoro, nel caso che procurasse morte o inabilità, doveva essere considerata alla stessa stregua di un infortunio sul lavoro; i proprietari terrieri erano invitati a utilizzare le reticelle metalliche, per impedire alle Anopheles di penetrare nelle abitazioni e si stanziavano sussidi per coloro che avrebbero provveduto in tal senso; le reticelle, comunque dovevano essere presenti, nelle zone malariche, nelle stanze occupate dalle guardie di finanza, del personale addetto alle strade, nei locali per il servizio ferroviario e in quelli dei consorzi di bonifica. In realtà, in un territorio dove molte famiglie vivevano ancora in capanne di frasche e fango, sprovviste di finestre, le zanzariere erano improponibili (quando non venivano usate impropriamente per passare il pomodoro per la salsa o per rudimentali grill). Il trattamento con il chinino sembrava la via più facile e diretta per eradicare il morbo.

Al chiudersi del secolo, il governo operò in due direzioni: mise a punto leggi che proseguivano quanto già iniziato a partire dagli anni Ottanta per favorire il risanamento del territorio nazionale attraverso mezzi tecnico-idraulici e agronomici, e promosse l’uso del chinino, non solo come cura, ma anche per la prevenzione dell’infestazione.

La legge sul chinino di Stato fu approvata il 4 luglio 1895 grazie all'iniziativa parlamentare del deputato ed editore Federico Garlanda. Al deputato padovano Leone Wollemborg, fondatore della prima cassa rurale italiana, si deve la legge "Provvedimenti per agevolare lo smercio del chinino" del 23 dicembre 1900.


Su espressa richiesta parlamentare di Celli, la produzione di chinino venne affidata alla Farmacia centrale militare di Torino, che si approvvigionava annualmente di solfato di chinina per produrre tavolette compresse, poi distribuite nelle farmacie e negli spacci. La vendita al pubblico su tutto il territorio nazionale iniziò a partire dal 1903 e, dal momento che la malaria era stata definita malattia professionale, fu fatto obbligo ai datori di lavoro (proprietari terrieri, aziende ferroviarie, appaltatori di opere pubbliche che si svolgevano in territori malsani) di pagare una tassa proporzionale al numero di dipendenti; in questo modo fu sancito il principio del diritto dei poveri e degli operai ad avere gratuitamente il chinino profilattico e curativo. Spettava ai comuni promuovere nei loro territori la campagna antimalarica e far sì che fossero presenti strutture sanitarie idonee per la somministrazione del farmaco. Molti, fra cui lo stesso Grassi, avrebbero preferito che le spese per il consumo e la somministrazione del chinino fossero sostenute dallo Stato, mentre Celli, conscio delle resistenze che questa decisione avrebbe provocato, mediò fra le diverse esigenze. Lo Stato emanò anche precise disposizioni - del resto già presenti a partire dal 1865 - che imponevano ai proprietari terrieri di intervenire con lavori di scolo, di bonifica e miglioria dei terreni, assicurando ai proprietari dei terreni bonificati l’esenzione dall’imposta fondiaria per vent’anni.

La campagna, partita con tanto entusiasmo, si trovò di fronte a difficoltà insormontabili, legate soprattutto al fatto che moltissimi comuni, soprattutto nel Sud, non potevano fornire un servizio adeguato perché non erano finanziariamente in grado di assumere personale specializzato, o retribuivano con salari talmente bassi i medici condotti, che essi erano costretti a esercitare anche la libera professione, dedicando ben poco tempo alla campagna antimalarica. La popolazione, inoltre, era dispersa su ampi territori, per cui raggiungere i pazienti malati era estremamente difficile e i contagiati, per parte loro, difficilmente si recavano dal medico, sia perché il tragitto era troppo lungo, sia perché non avevano fiducia nella terapia.

Si decise allora di ricorrere all’istituzione di una “stazione sanitaria rurale” (dispensario) che aveva il compito di raccogliere dati statistici sull’entità del problema: doveva verificare quanti erano nella zona le persone infette e quante quelle sane, attraverso il prelievo e l’esame di campioni di sangue, per stabilire quale tipo di infestazione fosse stata contratta e poi decidere come e quando somministrare l’adeguata terapia preventiva o curativa. La stazione sanitaria era spesso affiancata da distaccamenti mobili che battevano la zona alla ricerca della popolazione da esaminare. Nei dispensari lavoravano spesso giovani medici, convinti sostenitori delle teorie di Celli e Grassi che ben presto si resero conto che perché la campagna antimalarica giungesse a buon fine era necessario convincere i contadini e gli operai, e per far questo era fondamentale rendersi utili in modo più diretto, curando altre malattie e consigliando semplici norme igieniche.

Grazie a questi provvedimenti, la mortalità a causa della malaria calò drasticamente, passando da circa 16.000 vittime nel 1895 a 7.838 decessi nel 1905.


Nel primo decennio del ventesimo secolo furono promulgati ben ventidue provvedimenti legislativi che affrontarono il modo per attuare efficacemente le opere di bonifica; dalla lettura dei provvedimenti, emerge come i legislatori fossero sensibili alle conseguenze igienico sanitarie di tali interventi.

Prima dello scoppio della guerra, in molte province italiane la malaria sembrava finalmente controllabile: a fronte di una mortalità di 490 individui ogni milione di abitanti nel 1900, si giunse nel 1914 a 57 morti, anche se i dati erano approssimati per difetto, in quanto spesso, per esempio, la mortalità infantile non veniva registrata e inoltre non si teneva conto delle persone che la malaria rendeva inabili al lavoro, numero non diminuito nel tempo. Lo scoppio della prima guerra mondiale, con i soldati al fronte in zone paludose e malariche, favorì un riacutizzarsi del morbo. Dopo la disfatta di Caporetto, gli austriaci che dal 1917 erano nelle aree del Piave, con la volontà di ostacolare il passaggio all'esercito italiano nel 1918 al loro ritiro lasciarono dietro di sé ingenti danni: nel basso Piave, dove era stata debellata la malaria, per 1/3 si ebbe una recrudescenza.

Con l'avvento al governo del Partito Nazionale Fascista la lotta per la bonifica divenne nella propaganda la bellicosa "guerra alle acque”, ma, pur favorendo i grandi investimenti, la bonifica agraria entrò in contrasto con il sistema feudale del latifondo. Le proteste dei latifondisti meridionali, che furono anche ricevuti da Mussolini, ottennero le provvisorie dimissioni del sottosegretario all'agricoltura Serpieri e la limitazione delle sanzioni sugli espropri. Continuava anche il contrasto alla malaria: per intervento diretto di Mussolini veniva autorizzata la sperimentazione sulle persone di nuove terapie. Giacomo Peroni e Onofrio Cirillo operarono su duemila operai dell'Opera Nazionale Combattenti in Toscana e Puglia, separati in due gruppi di studio. Nel primo fu sospesa ogni cura con il chinino per osservarne il decorso, mentre il secondo era trattato con iniezioni intramuscolari di "smalarina" (farmaco antimalarico a base di sali di mercurio e antimonio messo a punto dal medico sardo Guido Cremonese, docente di igiene alla regia università di Roma). L'esperimento, che si basava sulla constatazione che le persone curate per la sifilide non si ammalano di malaria (e soprattutto sul fatto che il commercio mondiale del chinino era controllato dagli olandesi) fu concluso nel 1929 dichiarando risultati positivi, ma un nuovo esame del Consiglio superiore di sanità su 395 persone in Sardegna ne sancì la tossicità.

Zone di endemismo malarico sono rimaste in Italia sino agli anni Sessanta dello scorso secolo, lungo delta del Po, in Sardegna e nell’Agro Pontino. Solo l’introduzione del controverso DDT dopo la Seconda guerra mondiale ha portato al totale sradicamento di questa malattia in Italia, nel resto d’Europa, negli Stati Uniti e negli altri paesi industrializzati. Nei paesi più poveri è tuttora responsabile di centinaia di migliaia di morti.

lunedì 1 novembre 2021


“Hokypoky penny a lump”
Gelati, povertà e italiani nella Dublino di Joyce

 


Nel capitolo Lotofagi dell’Ulisse di Joyce, Leopold Bloom pensa a Hokypoky penny a lump (“hoky poky un penny al pezzo”) in riferimento al sacramento dell'Eucaristia, e i capitoli successivi mostrano questa misteriosa sostanza venduta per le strade da venditori italiani. Era una forma di granita a buon mercato che, come altri preparati con il ghiaccio del tempo, era implicata in molti focolai di malattie in Europa e in America.

Rocce erranti mostra il marinaio con una gamba sola vicino a Eccles Street “girando intorno al carretto dei gelati di Rabaiotti", che probabilmente sta partendo per la giornata dalla vicina Madras Place dove Antonio Rabaiotti, osserva l’esperto di Joyce Don Gifford, "aveva una flotta di carretti a mano che vendevano ghiaccioli e gelati nelle strade di Dublino". Circe inizia con la gente nel malfamato rione di Monto che si accalca attorno a uno di questi carretti: "Intorno alla gondola ferma di Rabaiotti il gelataio, bisticciano uomini e donne rachitici. Hanno in mano cialde con palle di neve color carbone e rame. Succhiando, si dileguano lentamente." In Eumeo Bloom e Stephen incontrano lo stesso carrettino: "Adiacente all'orinatoio per uomini sentì che girava un carrello di gelati con un un gruppo di italiani, presumibilmente, i quali discutendo in maniera calorosa facevano librare in aria la garrulità del loro idioma vivace in modo particolarmente animato, essendovi alcune divergenze tra le parti in causa". L'associazione di questo carretto con l'impurità e la cattiva salute difficilmente può essere casuale.

Gli ultimi tre decenni del XIX secolo videro una moda passeggera per i pezzi di ghiaccio tritato aromatizzato a buon mercato chiamati "hokey pokey", che erano apprezzati soprattutto dai bambini dei ceti più poveri. In una nota sulle James Joyce Online Notes, Harald Beck cita diversi articoli di giornale che, intorno all'anno 1880, si riferiscono a questo prodotto di nuova popolarità. Il numero di Era del 21 luglio 1878 parlava di una canzone da music hall con un linguaggio identico a quello di Bloom: "Mr. Wilfred Roxby [...] ha cantato un divertente brano volgare con un coro su un venditore ambulante che vendeva Hokey-pokey, un centesimo al pezzo." Un numero del 1881 del Tinsley's Magazine definì il termine per coloro che non lo conoscevano: "Hokey-pokey è il nome volgare per il gelato venduto per strada, venduti per un centesimo in una bancarella all'aperto vicino al "deposito" di Liverpool." Il 3 dicembre 1881 il Manchester Times elencò gli ingredienti: "Si dice che l'articolo genuino sia composto da latte, farina di mais, zucchero e uova, tutti bolliti insieme e poi congelati in piccoli pezzi".



L’origine del nome hokey-pokey, o hokypoky è controversa. Alcuni lo fanno derivare da due espressioni italiane come “oh che poco” oppure “ecco un poco”, relative alla minuscole quantità di prodotto venduto dai venditori ambulanti italiani. Essi esercitavano a Dublino una sorta di monopolio del prodotto, ma troviamo dei gelatai Rabaiotti, emigrati dalla zona di Bardi in provincia di Parma, in testimonianze coeve e successive provenienti dal Galles meridionale e da Londra. 

Secondo altri, la derivazione sarebbe più antica e andrebbe ricondotta a Hocus pocus, una frase senza senso usata come "formula magica" per "fare accadere qualcosa". In passato fu un termine comune adottato da illusionisti, giocolieri o altri simili intrattenitori (tipo "abracadabra"). Nell'inglese britannico, il moderno significato prevalente è "sciocchezza inventata, imbroglio", che potremmo avvicinare a certe formule utilizzate nei giochetti per Halloween o nella saga di Harry Potter. Le origini della locuzione rimangono comunque oscure. Alcuni, tra i quali probabilmente lo stesso Joyce, credono che provenga da una parodia della liturgia cattolica romana dell'eucaristia, che contiene la frase "Hoc est enim corpus meum". Questa spiegazione risale alle speculazioni del prelato anglicano John Tillotson, che scrisse nel 1694: "Con ogni probabilità i comuni giochi di parole "hocus pocus" non sono altro che un'aberrazione di hoc est corpus, con un'imitazione comica dei sacerdoti della Chiesa di Roma nel loro trucco della transustanziazione". In ogni caso, hokey-pokey ha fatto fortuna, diventando il nome di uno dei dolci tradizionali della Nuova Zelanda e anche quello di un ballo figurato da scampagnate che viene ballato in cerchio, forse ispirato dal richiamo dei venditori citato da Joyce:

"Hokey pokey penny a lump.
Have a lick make you jump".

Nel 2008, un religioso anglicano, il canonico Matthew Damon, prevosto della cattedrale di Wakefield, nello Yorkshire occidentale, affermò che i movimenti di danza erano una parodia della tradizionale messa cattolica latina. Fino alle riforme del Vaticano II, il sacerdote eseguiva i suoi movimenti di fronte all'altare e non ai fedeli, che non potevano sentire molto bene le parole, né capire il latino, né vedere chiaramente i suoi movimenti. Durante il rito eucaristico, il sacerdote diceva Hoc est corpus meum, che significa "Questo è il mio corpo". Ciò indusse il politico scozzese Michael Matheson nel 2008 a sollecitare l'azione della polizia "contro gli individui che usano la canzone e la danza per schernire i cattolici". L'affermazione di Matheson è stata considerata ridicola dai fan di entrambe le squadre di calcio rivali di Glasgow, il Celtic (cattolici) e i Rangers (protestanti) e si organizzò sui social media dei tifosi di entrambi i club perché entrambe le parti si unissero a cantare la canzone nel derby del 27 dicembre 2008 all'Ibrox Stadium, quello dei Rangers.

Miscugli ricchi e montati del tipo che oggi porta il nome di gelato esistevano nel XIX secolo, ma erano troppo costosi per i poveri. Il "gelato" venduto per strada in genere non conteneva affatto crema e sarebbe stato più simile alle granite o ai ghiaccioli di oggi. Nei primi anni, le persone consumavano questi gelati da piccoli bicchieri da un penny la cui forma conica e le pareti spesse facevano apparire le quantità maggiori di quelle che erano e il cui nuovo utilizzo (erano semplicemente puliti con un panno e riempiti) faceva ammalare innumerevoli persone. All'inizio del secolo le città avevano iniziato a vietare gli antigienici bicchieri e i venditori iniziarono a servire i pezzi di ghiaccio tritato e sciroppato su delle cialde, come notato all'inizio di Circe. (I termini di Joyce, "palle di neve color carbone e rame", si riferiscono ai coloranti che erano aggiunti per identificare particolari sapori). Un venditore italiano a New York introdusse i bicchieri di carta nel 1896, e ci sono segnalazioni di gelati britannici arrotolati in coni di carta marrone, ma i coni di cialda commestibili non apparvero che alla Fiera mondiale di St. Louis nel 1904.

All'epoca della pubblicazione di Ulisse, i carretti erano un ricordo del passato. Il London Times del 4 novembre 1919 li descrisse come ricordi sgradevoli di una Dublino scomparsa: "Il tempo vola e Dublino non può più essere riconosciuta con il naso. Un sistema di drenaggio principale ha pulito il Liffey, e il cestino delle aringhe rosse è raro come quello del venditore di vongole di un tempo, una leggenda ora, o del più antico venditore di Hokey Pokey a un penny al pezzo, a cui non credono nemmeno i bambini." Può sembrare strano collegare il gelato con la fogna a cielo aperto che era il Liffey, o con gli odori sgradevoli dei frutti di mare non refrigerati, ma la connessione era del tutto giustificata. Per tutta la seconda metà del XIX secolo il consumo di gelato fu ripetutamente implicato in gravi epidemie, e i gelati di strada furono tra i peggiori responsabili.

In un articolo intitolato When Ice Cream Was Poisonous: Adulteration, Ptomaines, and Bacteriology in the United States, 1850-1910, nel Bulletin of the History of Medicine (2012) Edward Geist riassume alcuni degli sconvolgenti resoconti, che iniziarono con l'invenzione del congelatore a manovella del gelato nel 1843, ma peggiorarono in pochi decenni: "Durante gli anni ‘80, l'avvelenamento da gelato crebbe da fenomeno isolato fino a raggiungere proporzioni epidemiche (...) Entro la metà del decennio, l'avvelenamento da gelato era diventato oggetto di battute popolari". I numerosi casi, che a volte provocarono centinaia di vittime, suscitarono un intenso dibattito sulle cause. Adulteranti chimici o metallici, prodotti della putrefazione batterica di prodotti alimentari e batteri stessi furono tutti ipotizzati come i responsabili, ma col passare del tempo le prove puntavano sempre più in modo definitivo sui batteri, e in particolare sulla contaminazione batterica del latte.

Geist presta solo poca attenzione ai gelati economici dei carretti di strada, ma è probabile che le condizioni terribilmente antigieniche in cui erano prodotti, e quella che chiama "la famigerata pratica di ricongelare il gelato fuso invenduto e servirlo a ignari clienti" il giorno successivo, peggiorò di molto un problema comune. Egli osserva che "nel 1898 Modern Medicine affermò che mangiando un gelato comprato in una bancarella di strada ad Anversa, morirono quaranta persone, la maggior parte dei quali bambini". Intorno alla fine del secolo, osserva, i ricercatori isolarono da campioni di formaggio un ceppo dimostrabilmente patogeno del batterio del colon ora noto come Escherichia coli. I medici vittoriani ed edoardiani collegarono i prodotti del gelato alla scarlattina (Streptococcus pyogenes) nel 1875, alla salmonella (Bacillus enteriditis) nel 1905 e 1909, e alla febbre tifoide (Salmonella enterica) nel 1892, 1894, 1897 e 1904. Anche la tubercolosi era nota per essere trasmessa dal latte contaminato.


Il riferimento alle malattie trasmissibili tramite il cibo in Circe è uno dei tanti nel romanzo, coerente con la diffidenza espressa da Bloom verso le fonti comuni di cibo e bevande nei Lestrigoni ("Un giovane pallido con la faccia che trasudava sugna ripulì bicchiere coltello forchetta e cucchiaio con il suo tovagliolo. Nuove schiere di microbi"), e, leggermente più avanti nello stesso capitolo ("Pulisci via i microbi col fazzoletto. Il tizio dopo di te ce ne riversa un’altra manciata col suo."). Le usanze alimentari antigieniche sono ricordate anche nell’allusione ai molluschi tossici in Nausicaa ("Pover’uomo quell’O'Connor, moglie e cinque figli avvelenati da cozze proprio qui. La fogna. Senza speranza"). Tali descrizioni danno per scontata la città povera, sporca, maleodorante e malsana che era Dublino nel 1904. 

lunedì 20 agosto 2018

Scienza sul Tamigi (2): Martin, Snow e Bazalgette

La prima parte dell'articolo si trova a questo link

John Martin, il visionario 

Il primo ad affrontare il problema del risanamento del Tamigi e, più in generale, dell’assetto urbanistico di Londra, fu un bizzarro pittore, inventore e architetto autodidatta del Nord. John Martin era originario del Northumberland, dove era nato nel 1789. Svolse il suo apprendistato a Newcastle, studiando e copiando incisioni di opere di artisti celebri, come Claude Lorrain e Salvator Rosa. Nel 1806 si trasferì a Londra, dove si sposò e si manteneva dando lezioni di disegno. Alcuni suoi dipinti furono accolti dalla Royal Academy of Arts a partire dal 1812. Negli anni successivi, si impose all'attenzione del pubblico con tele di ampie dimensioni che avevano come soggetto episodi biblici o mitici, oppure vedute immaginarie ispirate ai più tempestosi paesaggi di William Turner. Grazie alla vendita delle sue opere, ottenne una certa tranquillità economica. Nei primi anni ’30 dell’Ottocento divenne famoso per diverse illustrazioni, con soggetto episodi dell'Antico Testamento, che gli diedero una certa notorietà negli ambienti romantici francesi. Negli ultimi anni si occupò di progetti per il miglioramento urbanistico di Londra, con particolare attenzione ai sistemi portuali, idrici e fognari.

Molti lo hanno dipinto come un visionario, ma l'inquinamento del Tamigi e i problemi delle infrastrutture del trasporto di Londra erano questioni urgenti e reali, ed egli, come molti altri, pensò che proporre soluzioni adeguate poteva essere un modo per fare fortuna. La sua passione per l'ingegneria civile era un aspetto delle sue inclinazioni commerciali (fu anche un prolifico inventore, con numerosi brevetti). La sua origine modesta e la mancanza di istruzione possono averlo indotto a investire troppo (tempo, denaro, energia) in imprese che promettevano di garantirgli prestigio sociale, fama e denaro. 


Martin dedicò quasi due terzi del suo tempo e enormi somme di denaro allo sviluppo di progetti ingegneristici sempre più ambiziosi. Dalla fine degli anni ’20, fino agli ultimi anni della sua vita, pubblicò una serie di piani dettagliati e proposte per trasformare i sistemi fognari e di trasporto di Londra. Sebbene i suoi modelli fossero seriamente considerati al più alto livello, nessuno di loro fu realizzato. La sua reputazione di pittore di scenari fantasiosi non lo aiutò, così come il fatto che la Grande Puzza non era ancora capitata. In retrospettiva, i piani di Martin possono sembrare 'visionari' come i suoi dipinti, ma fu il primo a pensare di arginare il Tamigi, cosa che sarebbe avvenuta solo dopo la sua morte. 


Forse perché privo di protezioni importanti, le sue idee urbanistiche furono giudicate con sufficienza, come in questo sprezzante articolo della rivista satirica The Punch della prima metà del 1843:

MIGLIORAMENTI DELLA METROPOLI 
“Un gruppo di gentiluomini si incontra talvolta per discutere di questo argomento delizioso; e in una delle recenti riunioni, un certo signor Martin è stato patetico per aver dedicato una vita lunga e faticosa alle fogne e ai pozzi neri della sua città natale. Quattordici lunghi anni ha lavorato per ingrandire le vie sotterranee e i corsi d'acqua della Babilonia moderna; ed è evidente che non morirà felice fino a quando il sudiciume di Londra non fluttuerà - a due penny alla tonnellata - sulla brughiera di Bagshot. Il signor Martin era emozionato quasi fino alle lacrime quando parlò dei suoi sforzi per portare il letame della metropoli in periferia; e il suo ambizioso desiderio di costruire un terrapieno lungo le rive del Tamigi è una bella illustrazione della forza dell'immaginazione che, nella ricerca di un oggetto amato, dimentica l'esistenza del molo, la necessità di vendere carbone da un chiatta, la correttezza di permettere al commercio di esistere ancora, e gli interessi acquisiti del comune venditore di carbone. Il signor Martin avrebbe voluto sulle rive del Tamigi una serie di terrazze, i palazzi e i laboratori di fognature per la pratica della chimica. Questo è tutto molto bello in teoria, ma ai nostri occhi (non volendo dire nulla di Martin) sembra piuttosto difficile da mettere in pratica. "La rosa con qualsiasi altro nome avrebbe un profumo altrettanto dolce;" e per quanto gentile sia l'appellativo che potremmo dargli, temiamo che ci vorrà uno zelo straordinario per la scienza per trovare incantesimi nelle fogne e nei pozzi neri. Se il signor Martin può morire felice solo a condizione di portare a termine le sue idee sul Tamigi e sul suo contenuto, dobbiamo necessariamente prevedere ciò di cui dovremmo sinceramente pentirci: una miserabile conclusione della sua esistenza”. 
Martin propose anche una linea ferroviaria circolare, che si estendeva da est di Londra, attraverso quella che allora era periferia settentrionale attraverso i campi aperti verso ovest (dove c’è oggi il centro) e verso sud fino a Greenwich. Come spesso gli accadde, le sue idee furono rubate da altri, in questo caso la Commissione Metropolitana, che, nello stesso momento in cui Martin pubblicò le sue proposte, propose il piano di circondare il centro di Londra con una rete di stazioni ferroviarie capolinea e impedire ai treni di arrivare nel centro della città. Martin continuò a lavorare fino alla morte, che avvenne nel 1854 sull'Isola di Man.



John Snow e la nascita dell’epidemiologia

Il 31 agosto 1854, dopo che alcuni piccoli focolai di colera si erano verificati in altre zone della città, ne capitò uno molto grave nel quartiere di Soho, nei dintorni di Broad Street. In tre giorni morirono 127 persone e, nella settimana successiva, gran parte della popolazione aveva lasciato il quartiere. Il 10 settembre erano già morte circa 500 persone, e il tasso di mortalità nel quartiere aveva raggiunto il 12,8% (alla fine dell’epidemia morirono 616 persone). La creazione delle fogne nel 1849 fu ritenuta responsabile da alcuni di questo nuova comparsa del morbo. Secondo alcune voci locali, le nuove fogne avevano liberato miasmi mortali da fosse sepolcrali nascoste della Grande Peste del 1665. Tuttavia, nonostante queste idee fantasiose, fu a causa di questa epidemia di colera a Broad Street che avrebbe trionfato la forza della ragione.


La teoria secondo la quale il colera si propaga attraverso l’aria era già stata contestata dal medico John Snow (1813-1858), che aveva pubblicato nel 1849 il saggio On the Mode of Communication of Cholera, nel quale, pur non conoscendo ancora che la malattia era trasmessa da un vibrione, addebitava il diffondersi delle epidemie all'acqua contaminata.

Egli, originario di York, si era laureato a Londra nel 1844 e, nel 1850, era stato ammesso al Royal College of Physicians. L’epidemia di Soho gli diede l’opportunità di verificare sul campo le sue idee, con un lavoro di indagine e raccolta di dati che fa di lui il padre della moderna epidemiologia. Con l’aiuto del reverendo Henry Whitehead, vice-curato della chiesa di San Luca a Soho, che conosceva profondamente il quartiere e i suoi abitanti, Snow interrogò centinaia di persone e raccolse informazioni sui morti, edificio dopo edificio, riuscendo a stabilire che essi si concentravano nelle immediate vicinanze di una pompa dell’acqua in Broad Street (oggi Broadwick Street). I suoi studi sulla diffusione dell’epidemia furono abbastanza convincenti da indurre la municipalità di Soho a chiudere la pompa (più per disperazione che per reale convinzione), rimuovendone la leva. Sebbene questo fatto sia comunemente associato alla fine dell’epidemia, Snow, da vero uomo di scienza, era dubbioso dei suoi stessi successi. Così scrisse:
“Non ci sono dubbi che la mortalità è diminuita drasticamente, come ho già detto, a causa della fuga della popolazione, che è cominciata subito dopo l’inizio del contagio, e i casi erano già molto diminuiti già prima che fosse bloccato l’uso dell’acqua, al punto che è impossibile stabilire se il pozzo ancora conteneva il veleno del colera in uno stato attivo, o se, per qualche motivo, l’acqua ne era stata liberata”.

Nella seconda edizione del suo saggio sulle modalità di diffusione del colera, uscito l’anno successivo all'epidemia di Broad Street, Snow utilizzò per la prima volta una carta con un’apposita simbologia per illustrare il legame tra la qualità dell’acqua nelle pompe stradali e i casi di colera. La sua concezione era semplice ed efficace: una mappa urbana semplificata, con le strade principali e gli edifici. Le pompe d’acqua erano simboleggiate da punti e etichette in caratteri maiuscoli. I casi di colera erano illustrati nel loro esatto indirizzo, con il numero dei morti rappresentato da colonne di barrette disposte all'interno di ogni singolo edificio parallelamente alla strada, in un modo che ricorda i corpi dei morti delle pestilenze allineati per essere portati via dai monatti.


Snow, che fece uso dei metodi della statistica per la sua ricerca sul campo, disegnò anche delle celle per rappresentare le aree più vicine a ogni singola pompa. E proprio la cella intorno alla pompa di Broad Street era quella che comprendeva gli edifici con il maggior numero di morti a causa del colera. Ecco le sue parole da una lettera all’editore del Medical Times and Gazette:
“Procedendo verso il punto, scoprii che quasi tutte le morti erano avvenute a una breve distanza dalla pompa [di Broad Street]. C’erano solamente dieci morti nelle case situate decisamente più vicino a un’altra pompa. In cinque di questi casi le famiglie delle persone decedute mi informarono che essi erano sempre andati alla pompa di Broad Street perché preferivano la sua acqua a quella delle pompe più vicine. In tre altri casi, i morti erano bambini che andavano a scuola vicino alla pompa di Broad Street (…) Riguardo poi alle morti avvenute nell'area appartenente alla pompa, c’erano 61 casi nei quali fui informato che le persone decedute erano solite bere l’acqua pompata a Broad Street, sia costantemente, sia di tanto in tanto (…) Il risultato dell’indagine, dunque, è che non c’è stato alcun particolare focolaio o prevalenza di colera in questa parte di Londra, tranne che tra le persone che erano solite bere l’acqua dalla pompa sopra menzionata”.
Come capita troppo spesso, le tesi di Snow, passata l’emergenza, furono oggetto di aspre critiche. La prestigiosa rivista medica The Lancet, tuttora autorevole, mise in dubbio l’ipotesi della contaminazione oro-fecale, che era troppo sgradevole per essere presa in considerazione dal pubblico e dalla comunità scientifica vittoriani. La teoria del miasma continuò a essere preferita da chi aveva il potere di decidere e la pompa di Broad Street venne successivamente rimessa in funzione.


Uno dei principali alleati di Chadwick nel far approvare il Cholera Bill del 1846, Sir Benjamin Hall (l'uomo da cui prese nome il Big Ben) finì in diretto confronto con Snow. Egli era diventato presidente del Board of Health nel 1854 e si era messo subito al lavoro per cercare di regolamentare fabbriche maleodoranti come quelle del gas e della bollitura di ossa, che riteneva inquinassero la metropoli e che fossero i principali veicoli di malattie. John Snow fu invitato da vari produttori a testimoniare contro le proposte di Hall. Lo fece il 5 marzo 1855 davanti a una commissione parlamentare presieduta da Hall. Gli argomenti di Snow non riuscirono a convincere Hall a modificare le sue convinzioni. Non era una sorpresa. Le teorie di Snow erano molto minoritarie. Poco dopo il dibattito, iniziò la guerra di Crimea, che mostrò fino a che punto Snow era lontano dal superare lo scetticismo pubblico. L'eroina della Crimea era Florence Nightingale, che ottenne una tale fama, grazie al ruolo di infermiera e benefattrice nella guerra, che le sue teorie sull'infermieristica basate sulla teoria del miasma avrebbero dominato la medicina inglese per buona parte del secolo.

John Snow morì d’infarto nel 1858, ricordato più per i suoi studi sul dosaggio dell’etere e del cloroformio ad uso chirurgico che per quello sul colera di Soho. La sua rivalutazione postuma dovette attendere qualche decennio: il vibrione del colera, identificato per la prima volta nel 1854 dall'anatomista italiano Filippo Pacini, fu studiato dettagliatamente nel 1884 dal medico tedesco Robert Koch, che provò l’origine batteriologica della malattia. In seguito, si scoprì che il pozzo pubblico responsabile del focolaio era stato scavato a soli tre piedi (circa 1 m) di distanza da un vecchio pozzo nero che aveva incominciato a disperdere batteri fecali. Solo nel 1890 il ministro della Sanità britannico John Simon riconobbe l’importanza dello studio di Snow.

Jerome K. Jerome, ancora, ci offre una testimonianza di come nel 1886 le idee di Snow avessero fatto breccia, almeno tra la classe colta, perché i protagonisti di Tre uomini in barca sanno che molte malattie sono trasmesse dall’acqua inquinata:
“Abbiamo provato l'acqua del fiume una volta, più avanti ne viaggio, ma non è stato un successo. Stavamo scendendo a valle e avevamo attraccato per prendere il tè in un'ansa vicino a Windsor. La nostra tazza era vuota, e si trattava di proseguire senza il nostro tè o prendere l'acqua dal fiume. Harris era per provarla. Disse che sarebbe andato tutto bene se avessimo fatto bollire l'acqua. Disse che i vari germi di veleno presenti nell'acqua sarebbero stati uccisi dalla bollitura. Così, riempito il nostro bollitore con acqua di ansa del Tamigi, la bollimmo; ed eravamo molto attenti a controllare che bolliva.
(...) George disse che non voleva tè e svuotò la tazza nell'acqua. Anche Harris non si sentiva assetato e ne seguì l'esempio. Avevo bevuto metà del mio, ma avrei voluto non averlo fatto.
Chiesi a George se pensava che avrei preso la febbre tifoidea.
Disse: "Oh, no" pensava che avevo davvero buone possibilità di evitarlo. Ad ogni modo, se l'avessi presa o meno, l’avrei saputo entro una quindicina di giorni”.
La mappa del medico di York non consentì solo di risalire alle cause di un focolaio di colera, dando il via alle moderne ricerche epidemiologiche, ma costituì un evento fondamentale nella storia della sanità pubblica e spinse a ripensare lo sviluppo delle città, dimostrando la necessità di efficienti reti fognarie e di distribuzione dell’acqua potabile.

Collegando l’incidenza del morbo a potenziali cause geografiche, la mappa di Snow aveva anticipato quello che oggi chiamiamo diagramma, o tassellatura, di Voronoi, che prende il nome dal matematico russo Georgii Voronoi, il quale se ne occupò nella sua forma generale nel 1908. Nella sua forma più semplice, cioè nel caso del piano euclideo, esso è una partizione dello stesso, determinata dalle distanze rispetto a un insieme finito di punti.


Dato un insieme finito di punti S, il relativo diagramma di Voronoi suddivide il piano in regioni a forma di poligoni convessi in modo tale che a ogni punto pS, detto generatore o seme, sia associata una regione V(p) i cui punti siano più vicini a p che ad ogni altro punto in S. Detto in modo meno formale, ogni regione poligonale contiene i punti che sono più vicini a ciascun punto generatore. I lati di ogni poligono contengono invece i punti che sono equidistanti tra il punto generatore e quelli più vicini.


I diagrammi di Voronoi hanno numerose applicazioni pratiche nella vita quotidiana. Ad esempio, sono utilizzati nei sistemi informativi geografici per trovare i servizi più vicini ad un determinato indirizzo. Così, considerando i luoghi dove si trovano certi servizi (ospedale, scuola, fermata dell’autobus, farmacia, ecc.) come punti generatori, è possibile determinare le aree più vicine a ciascun punto. Essi possono anche consigliare la scelta del luogo dove aprire un esercizio commerciale in modo che sia sufficientemente lontano dai luoghi in cui è situata la concorrenza.

Snow costruì le sue regioni considerando i luoghi delle pompe dell’acqua come punti generatori, riuscendo in tal modo ad associare le morti per colera ad una precisa pompa, quella di Broad Street. Un’idea semplice può essere davvero rivoluzionaria, a patto che a qualcuno venga in mente.

Bazalgette e la fine dell’incubo 

Fortunatamente, attraverso una combinazione di pressione pubblica e sofferenza nasale insopportabile, il Parlamento nel 1858 decise di agire invece di rimandare il problema a un'altra stagione calda. Fu quasi per caso che Sir Benjamin Hall, divenuto il principale assertore della teoria dei miasmi, promosse un atto del Parlamento che si rivelò decisivo per migliorare la salute dei londinesi. Fece approvare il Metropolitan Board of Works, che apportò molti miglioramenti ambientali e sanitari a Londra, e soprattutto, nominò Joseph Bazalgette (1819 – 1891) come capo ingegnere. 

Lasciamo perdere i motivi della decisione, ancora legati a una teoria sbagliata, ma resta il fatto che il fiume di Londra stava finalmente ricevendo le cure necessarie. La riforma del Tamigi comprendeva non solo l'implementazione di un sistema fognario, ma anche la costruzione di argini lungo le sue sponde. Con queste riforme, la Grande Puzza cominciò lentamente a dissiparsi e i londinesi poterono fare sospiri di sollievo, non solo per l'aria pulita, ma anche per gli altri benefici che accompagnavano la realizzazione del provvedimento. 

Il Metropolitan Board of Works di Hall fu in grado di superare secoli di interessi acquisiti legati alla natura parrocchiale del governo di Londra, basato sulle piccole parrocchie ecclesiastiche. Questa forma di governo era stata la ragione principale dell'inerzia nell'affrontare i crescenti problemi di salute pubblica della metropoli. Le prerogative della parrocchia erano limitate a mantenere basse le tasse locali e non avrebbero certamente favorito la costosa soluzione ingegneristica al problema delle acque reflue di Londra che Bazalgette avrebbe proposto. 

Il disegno delle fognature di Joseph Bazalgette fu una delle più incredibili imprese ingegneristiche del diciannovesimo secolo. Bazalgette, figlio di un capitano della marina militare, discendeva da una famiglia di ugonotti fuggiti dalla Francia. Iniziò la sua carriera lavorativa progettando linee ferroviarie e facendo esperienza in Irlanda nel settore della bonifica di terreni. Dal 1842 aprì il proprio studio. Nel 1856 diventò ingegnere capo del Metropolitan Board of Works, dove rimase fino 1889. 

I lavori iniziarono nel 1859 e impiegarono vent'anni per essere completati. L'ultima epidemia di colera fu nel 1866 nell'East End di Londra, una zona non ancora collegata al sistema di Bazalgette. L’opera di Bazalgette salvò innumerevoli vite, guadagnandogli il titolo di cavaliere nel 1874. 

Gli scarichi vennero realizzati nella parte inferiore del Tamigi e, per risparmiare tempo e risorse, il progetto prevedeva di riversare i liquami nel mare sfruttando il reflusso della marea presso la foce del fiume. Il progetto contemplava la costruzione di innovative stazioni di pompaggio. Intanto si completò il sistema di argini, per un totale di 3,5 miglia. 

Queste strutture restrinsero il letto del fiume e ne aumentarono la velocità di flusso, determinando un effetto "rinfrescante" che contribuì alla pulizia del fiume. Inoltre, gli argini erano progettati per funzionare come strade, alleviando la congestione nella metropoli affollata. La struttura fu anche concepita per ospitare una metropolitana, oggi la District Line. L'impegno di Bazalgette per la qualità era incrollabile, distinguibile nella scelta dei materiali, come il cemento Portland invece del cemento romano standard. 


Bazalgette si assicurò che il flusso di acqua sporca proveniente dalle vecchie fogne e dai fiumi sotterranei fosse intercettato e deviato lungo nuove fognature a un livello più basso, costruite dietro agli argini sul lungofiume, e portato lontano. Calcolò quanto dovessero essere larghi i collettori della fogna e poi raddoppiò la misura. Senza questa profetica scelta, il sistema di drenaggio di Londra sarebbe stato sopraffatto negli anni '50 del secolo scorso. La grandezza del suo lavoro e l'influenza che ebbe su Londra a metà del diciannovesimo secolo sono incarnate da questo giudizio a lui riferito:
"Se gli spiriti maligni che noi moderni chiamiamo colera, tifo e vaiolo, un giorno dovessero partire alla ricerca dell'uomo che è stato, negli ultimi trenta o quaranta anni, il loro nemico mortale in tutta Londra, probabilmente si dirigerebbero a St. Mary's, a Wimbledon." 

La conoscenza di come fossero diffuse le malattie epidemiche a seguito delle indagini di John Snow a Soho, e la costruzione del sistema fognario da parte del Metropolitan Board of Works consentirono a Londra di evitare ulteriori epidemie di colera. Gli ultimi casi furono segnalati alla fine degli anni ’60 dell’Ottocento. Negli anni successivi all'intervento di Bazalgette, il Tamigi perse definitivamente la reputazione di fiume più sporco e inquinato del mondo.