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giovedì 14 novembre 2019

Guglielmo Libri, matematico, bibliofilo, ladro

Guglielmo Brutus Icilius Timeleone Libri Carucci dalla Sommaja (1803 – 1869), o, più semplicemente, Guglielmo Libri, proveniva da una delle più antiche famiglie di Firenze. La sua biografia su Wikipedia lo classifica subito sotto due etichette: Matematici italiani del XIX secolo e Criminali italiani, il che suscita una certa curiosità. Matematici sani di mente o folli, geniali o mediocri, barbuti o rasati ne abbiamo, ma un matematico tra i criminali costituisce un caso unico.

Nel 1816 Libri entrò all'Università di Pisa con l’intenzione di studiare legge, ma dopo poco tempo iniziò a interessarsi ai corsi di matematica e filosofia naturale. La sua carriera di ricercatore in matematica iniziò mentre era ancora studente, quando pubblicò il primo articolo, la Memoria ... sopra la teoria dei numeri nel 1820, anno in cui si laureò a Pisa. Fu un inizio promettente, che ricevette elogi da molti dei matematici di allora, come Babbage, Cauchy e Gauss. Dal 1821 fu membro dell'Accademia dei Georgofili e nel 1824 fu nominato socio corrispondente dell'Accademia delle Scienze di Torino, dopo l’apprezzato studio Mémoire sur divers points d'analyse. Tale era la qualità dei suoi primi lavori che fu chiamato alla cattedra di fisica matematica a Pisa nel 1823. Senza dover rinunciare alla carica, forse a causa di una malattia, riuscì a ottenere un congedo permanente dopo un solo anno accademico per poter visitare i principali centri scientifici d’Europa.

L'anno successivo visitò Parigi e fu ben accolto dai migliori matematici e fisici del tempo, tra i quali Laplace, Poisson, Ampère, Fourier e Arago. Tornò in Toscana nell'estate del 1825, e, nel giro di pochi anni, pubblicò diverse memorie matematiche e fisiche scegliendo come lingua il francese per dare maggiore diffusione ai suoi risultati. Queste memorie riguardavano la teoria dei numeri (tema poco frequentato in Italia), la risoluzione di equazioni indeterminate con l'uso delle serie, le funzioni discontinue e la teoria del calore.

In questo periodo iniziò a interessarsi di storia della scienza, con lo scopo dichiarato di portare alla luce scoperte e fatti del passato dimenticati o sconosciuti e di mostrare come in campo scientifico l'Italia fosse stata all'avanguardia. Gli interessi storici lo indirizzarono alla ricerca di manoscritti e documenti d'archivio e alimentarono la sua grande passione per i libri.

Al ritorno dal viaggio a Parigi, l'Accademia dei Georgofili lo nominò direttore della biblioteca, ma dopo poco più di un anno, nel dicembre 1826, rassegnò le dimissioni e si rifugiò in campagna per dedicarsi esclusivamente allo studio. In pochi mesi erano scomparsi parecchi volumi e, invitato a rendere conto del fatto, si giustificò in modo poco convincente; l'Accademia preferì evitare lo scandalo e mise a tacere la vicenda.

Nel giugno 1830 tornò a Parigi, dove riallacciò le amicizie strette durante il primo soggiorno e riprese gli studi matematici, continuando anche a coltivare gli interessi storici. Il clima politico nella capitale francese era però notevolmente cambiato. Carlo X Borbone aveva introdotto misure sempre più reazionarie, provocando un crescente e generale malcontento che culminò nella rivoluzione della fine di luglio e l’ascesa del più liberale Luigi Filippo d’Orleans al trono di Francia (con il malcontento dei repubblicani come Évariste Galois). Il ventisettenne Libri vi partecipò attivamente e, nel gennaio 1831, fece ritorno in Toscana pieno di fervore rivoluzionario.

Il desiderio di ottenere una costituzione dal granduca Leopoldo lo spinse a organizzare con un gruppo di congiurati un’azione che avrebbe dovuto sorprendere Leopoldo al teatro della Pergola la sera del giovedì grasso, ma il complotto fallì. Di nuovo trattato con indulgenza (gli furono confiscati i beni, ma non la pensione di professore emerito), Libri fu costretto a lasciare Firenze e a non tornarvi senza autorizzazione. Preferì recarsi in Francia (prima nel Sud, dove conobbe l’esule Mazzini, poi a Parigi), dove sapeva di avere molti amici tra gli uomini di scienza, che lo avrebbero sostenuto. Il suo essere un nobile, unito alla fama di valente matematico, gli apriva parecchie porte. Ammirato nei salotti e assai amichevole, abile conversatore, autore di arguti epigrammi, elegante adulatore, buon scrittore sia in francese che in italiano, esperto di storia, mise a frutto le sue doti e divenne cittadino francese tre anni dopo. Nello stesso anno 1833 fu nominato all'Académie des Sciences per succedere a Legendre, morto pochi mesi prima. Libri sicuramente prese molto seriamente il suo ruolo nell'Accademia, ma sorse un certo risentimento causato dal fatto che non era un vero francese e molti incominciavano a non apprezzare i suoi modi troppo affettati e, per qualcuno, arroganti.

Arago, il segretario perpetuo dell’Accademia, nel 1833 lo aiutò a ottenere un’ulteriore nomina al Collegio di Francia, dove insegnò calcolo infinitesimale. L’anno successivo Libri ottenne l’incarico di assistente di calcolo delle probabilità alla Sorbona. La sua amicizia con Arago fu di certo utile per ottenere quelle prestigiose cariche, tuttavia, per motivi che riguardavano probabilmente divergenze accademiche e politiche (Libri era favorevole alla monarchia liberale, Arago era un repubblicano), i due, da amici, divennero acerrimi nemici. Arago era una figura prestigiosa e potente nella comunità scientifica del tempo e, averlo come avversario significava alienarsi l’amicizia di molti matematici e fisici. Un rivale di Libri fu anche il giovane Joseph Liouville, seguace di Arago anche in politica, che per molti anni lo attaccò: i due non perdevano l’occasione di discutere e screditarsi a vicenda durante le riunioni dell’Accademia, soprattutto nel 1843, quando una loro disputa scientifica ebbe anche risvolti politici ed ebbe eco sulla stampa non specializzata.

Liouville era persona con la quale era meglio non litigare, perché era un matematico apprezzato che era di solito in grado di fornire una soluzione più elegante di quelle fornite da Libri nelle sue memorie. Una conseguenza poco nota di queste dispute fu che, in risposta a un attacco di Libri, nel 1846 Liouville fece conoscere, prima all’Academie e poi sull'influente Journal de mathématiques pures et appliquées che aveva fondato nel 1836, l’opera di Évariste Galois sulla teoria delle equazioni polinomiali che fino ad allora era rimasta praticamente sconosciuta.

Risalgono a questo periodo alcuni articoli di analisi matematica, fra cui quelli sulla teoria delle equazioni differenziali lineari. Il merito principale di Libri in questo campo fu l'aver attirato per primo l'attenzione sull'analogia fra le equazioni differenziali lineari e quelle algebriche, cosa che favorì in modo sostanziale lo sviluppo della teoria.

La sua opera migliore nei decenni ’30 e ’40 fu tuttavia senza dubbio quella sulla storia della matematica. Dal 1838 al 1841 pubblicò quattro volumi della Histoire des sciences mathématiques en Italie, depuis la renaissance des lettres jusqu'à la fin du dix-septième siècle (Storia delle Scienze Matematiche in Italia dal Rinascimento al XVII secolo). Nelle note che occupano circa la metà di ogni volume egli metteva a disposizione degli studiosi importanti documenti inediti o faticosamente reperibili, come l'introduzione e la parte algebrica del Liber abaci di Fibonacci e il Trattato d'abaco, più tardi attribuito a Piero della Francesca. Egli voleva scrivere due ulteriori volumi, ma non concluse mai il progetto. Si trattava di un’opera importante, con una rara conoscenza delle fonti, e un tentativo di collegare lo sviluppo della matematica ai principali fatti della storia italiana, ma che per i francesi peccava di eccessivo nazionalismo (da che pulpito…). Degna di nota è anche una biografia di Galileo Galilei pubblicata nel 1841.


La conoscenza di Libri dei testi originali, di cui riportava ampie citazioni, derivava dal fatto che egli era diventato un collezionista appassionato e compulsivo di manoscritti e testi a stampa rari e antichi, ma, soprattutto, un abile e insospettabile ladro. Le sue appropriazioni indebite erano già cominciate a Firenze, ma, come vedremo, gran parte della sua attività criminale avvenne in parecchie biblioteche francesi. Quando uscì il quarto volume della Histoire, nel 1841, egli possedeva circa 1800 manoscritti, tra i quali si potevano annoverare opere di Cartesio, Eulero, d’Alembert, Arbogasto, Galileo, Leibniz, Mersenne e Gassendi. La sua collezione crebbe al punto che nel 1847 comprendeva oltre quarantamila volumi a stampa, provenienti da aste, acquisizioni di importanti fondi privati e, in parte, come fu provato in seguito, da appropriazione indebita.

Nel 1841 Libri fu nominato Ispettore delle Librerie di Francia. Questa nomina può per certi versi apparire sorprendente, dato che si era inimicato molti esponenti dell’Accademia e i potenti gesuiti per le sue posizioni anticlericali. D’altra parte, egli era senza dubbio un grande esperto e aveva inoltre un amico nel governo, lo storico e importante deputato conservatore, più volte ministro, François Guizot, che lo aiutò a raggiungere tale incarico. Ben presto incominciarono le voci di volumi mancanti dalle biblioteche, che spesso coincidevano con le visite del nuovo ispettore. Ciò portò a un’indagine, ma non se ne fece nulla.

Nel 1848 anche in Francia successe un quarantotto. Dopo l’ennesima rivoluzione e la nascita della Seconda Repubblica, Libri seppe che un mandato d’arresto stava per emesso nei suoi confronti con l’accusa di aver rubato o falsificato preziosi libri antichi. Il suo amico e protettore Guizot era stato rimosso dalla sua carica di primo ministro ed esiliato in Inghilterra: egli era senza appoggi. Libri non aspettò di essere arrestato ma s’imbarcò il più presto possibile verso Londra, dove sostenne di essere un rifugiato politico. Prima di lasciare la Francia fece in modo che più di trentamila dei suoi libri e manoscritti fossero inviati nel suo luogo d'esilio.

A Londra fu ben accolto e trattato come un eroe. Nella capitale inglese egli aveva l’amico italiano Antonio Panizzi, che era il direttore della Biblioteca del British Museum, che gli fece conoscere De Morgan. Libri riuscì a convincere i suoi nuovi amici che le accuse contro di lui erano state fatte dai francesi perché era italiano. De Morgan scrisse molti articoli in sua difesa. Diceva ad esempio:
“(…) in campo scientifico non poteva essere un francese, ma rimase un italiano. Uno dei suoi principali scopi è stato di dare alle ricerche italiane, che i francesi non hanno mai ben considerato, il loro giusto valore (…) Sospettiamo che l’animosità politica abbia generato questa calunnia, e che il vero credo nelle menti degli uomini malvagi sia che i collezionisti rubino sempre, e pertanto che l’accusa debba per forza essere vera”. 
Il 22 giugno 1850, tuttavia, Libri fu ritenuto colpevole in contumacia delle accuse rivoltegli e fu condannato a dieci anni di prigione e fu rimosso dai ruoli della Légion d'honneur, dell'Università, del Collège de France e dell'Académie des Sciences. Non poteva di sicuro tornare in Francia. Nonostante fosse giunto a Londra senza danaro, conduceva una vita agiata. Il suo capitale erano i volumi che aveva spedito prima della fuga, e che aveva incominciato a vendere in numerose aste pubbliche.


Inoltre, nel 1857, grazie all'aiuto dei vecchi amici come Guizot, riuscì a rientrare in possesso di 15.000 suoi libri di origine non sospetta. In seguito alle accuse, Libri spesso denunciò persecuzioni politiche, di solito con qualche ragione. Nei suoi scritti di autodifesa spesso descrisse lo stato disorganizzato di molte biblioteche istituzionali e la necessità della loro riorganizzazione, un argomento su cui c'erano poche discussioni. Allo stesso tempo sfruttò il disordine, la catalogazione inadeguata o incompleta e la mancanza di sicurezza in queste istituzioni per guadagno illecito. Accusato di furti, a volte dimostrava che numerosi altri documenti rubati dalle stesse istituzioni erano o erano stati offerti in vendita sul mercato libero e sosteneva di aver acquistato gli articoli in buona fede. Con precisione dichiarò che il mercato dei libri e dei manoscritti dell'antichità era pieno di materiale di provenienza discutibile o confusa.

Nel 1861 curò due importanti vendite di libri e manoscritti. Produsse un catalogo contenente 7.628 lotti, che furono venduti in aprile e in luglio. Nel repertorio, Libri, con modernità di linguaggio e metodo, illustrava le ragioni dello studio della storia della scienza in generale e della matematica in particolare, inaugurando un nuovo stile: la descrizione era arricchita con note storiche sull'autore e sullo stampatore, con dettagli sconosciuti e curiosità che fanno tuttora dei suoi repertori delle fonti utili per i bibliofili, ma anche per gli storici. Così scriveva:
"La collezione che sta per essere venduta è composta in gran parte da libri relativi alle scienze (in particolare alla matematica) e alla sua storia, considerata nella più vasta accezione, cioè comprendente molte opere di biografia, bibliografia, storia letteraria e anche letteratura in generale, necessarie a gettar luce sul progresso della mente umana (….) indipendentemente da uno scopo di immediata e pratica utilità, colui che desidera applicarsi allo studio del progresso della conoscenza umana, dovrebbe porsi un problema di ordine più grande. Dovrebbe, nell'esaminare con attenzione la strada seguita dagli inventori, godere di scoprire, passo dopo passo, almeno per quanto è possibile, il metodo da loro seguito per giungere a tale invenzione. Tralasciare il cammino lungo il quale la natura umana dovette passare per arrivare a tale o talaltra scoperta – per esempio, non fermarsi a un teorema matematico, finché nelle mani di Lagrange o Gauss esso ha assunto la sua forma definitiva – sarebbe agire come un naturalista che tentasse solamente di studiare gli insetti solo in base alla forma delle meravigliose farfalle, senza rivolgere la minima attenzione ai bruchi, alle larve meno perfette che successivamente sono destinate a trasformarsi in quegli stessi lepidotteri (…) Ciò che è già stato fatto così bene per la storia letteraria dovrebbe essere eventualmente intrapreso, come si è già iniziato a fare, per la storia delle scienze. Solo perché ci sono più persone che hanno letto Shakespeare o Dante di quante ce ne sono che capiscono Copernico o Fermat, diventa manifesto perché ciò che potrebbe essere definito “curiosità della letteratura” è più comune, e molto più diffuso, di quanto è suscitato dai libri, come semplice forma di un’epoca nella storia della scienza".

Come dobbiamo considerare i contributi di Libri sapendo che in effetti era un ladro è un falsario? Le due aste del 1861 comprendevano testi fondamentali originali, molti dei quali con lunghe note esplicative: senza la sua insana passione per il possesso di queste opere, probabilmente la nostra conoscenza di parti della storia della scienza sarebbe lacunosa. Può essere irritante sapere che egli li mise a disposizione per tornaconto personale (le due aste gli fruttarono l’enorme cifra di un milione di franchi), e il nostro giudizio morale non può essere indulgente, ma è indubbio che egli diede un grande impulso al collezionismo dei libri scientifici. Ebbe anche il merito di aver posto in evidenza l'importanza di Fermat e aver recuperato alcuni suoi manoscritti sconosciuti.

A partire dal 1868 la salute di Libri cominciò a declinare e, poiché non poteva ritornare in Francia, lasciò la sua terra d’esilio per tornare nella natia Italia. Egli trascorse i suoi ultimi giorni in Toscana, in una villa di Fiesole, dove si spense nel 1869. Intanto, in Francia, Léopold Delisle, amministratore generale della Bibliothèque Nationale, incominciò una lunga inchiesta per stabilire una volta per tutte se Libri era stato davvero colpevole delle accuse rivoltegli nel 1850. L’esito delle indagini fu che Libri era stato davvero un ladro su vasta scala. Nel 1888 il governo francese chiese di riacquistare i libri e i manoscritti che egli aveva rubato e venduto. Molti dei preziosi documenti furono infine restituiti dalle autorità inglesi dopo lunghe trattative, reintegrando parzialmente i patrimoni delle biblioteche saccheggiate. Il resto della collezione era stato acquistato nel 1884 dallo Stato italiano e depositato a Firenze nella Biblioteca Medicea Laurenziana. Altri manoscritti e volumi non furono più ritrovati, ma talvolta qualcuno di essi viene alla luce in qualche parte del mondo. Ad esempio, dopo la stampa, il manoscritto della memoria parigina di Abel sulle funzioni trascendenti andò smarrito, e soltanto nel 1952 parte di esso fu ritrovato a Firenze. Le otto pagine ancora mancanti del manoscritto sono state ritrovate negli anni Novanta tra i documenti che Libri aveva portato in Italia, ponendo fine a un secolo e mezzo di ricerche. Ancora, nel 2009, uno studente olandese fece una ricerca su Google con i termini "lettera autografata" e "Cartesio". Entrò così nel catalogo della biblioteca dell'Harveford College, vicino a Filadelfia, che menzionava una lettera di Cartesio a Mersenne del 27 maggio 1641, relativa alla pubblicazione delle Meditazioni metafisiche. Questa lettera era stata trafugata dall'Institut de France da Guglielmo Libri. Il collegio americano restituì questo documento all'istituzione francese nel 2010.

Sono riuscito a scrivere questo post senza citare Nomen omen, anzi, no, ora l'ho fatto.

martedì 12 marzo 2019

Charles Babbage, la Macchina Analitica e Ada Lovelace


Nel 1864, Charles Babbage (1791–1871) che abbiamo già incontrato tra i membri della Analytical Society, dal 1828 al 1839 professore a Cambridge, pubblicò a Londra un’autobiografia, Passages From The Life of a Philosopher, dedicata al Re d’Italia Vittorio Emanuele II, in memoria di suo padre. Ciò perché: 
“Nel 1840, il re, Carlo Alberto, invitò i sapienti d'Italia a riunirsi nella sua capitale [allora era Torino]. Su richiesta del suo Analista più dotato, ho portato con me i disegni e le spiegazioni del Macchina Analitica. Questi sono stati accuratamente esaminati e la loro verità è stata riconosciuta dai migliori figli d’Italia. Al re, Vostro padre, sono debitore per il primo riconoscimento pubblico e ufficiale di questa invenzione”. 
Più oltre, ci informa che: 
“Nel 1840 ricevetti dal mio amico Signor Plana una lettera che mi invitava con insistenza a raggiungere Torino per l'allora prossimo incontro dei filosofi italiani. In quella lettera, Plana dichiarò di aver chiesto con ansia a molti miei compatrioti le funzioni e il meccanismo della Macchina Analitica”. 

Plana era il vogherese Giovanni Plana (1781-1864) matematico e astronomo, allievo del grande Joseph-Louis Lagrange e amico di gioventù di Henry Beyle, il futuro Stendhal, con il quale aveva studiato a Grenoble. Dopo aver dimostrato le sue qualità all’École Polytechnique di Parigi, nel 1811 Lagrange lo raccomandò per la cattedra di Astronomia a Torino, dove fu anche insegnante di matematica alla scuola di artiglieria. Nello stesso anno diventò socio dell’Accademia delle Scienze di Torino. Sarebbe rimasto nel capoluogo piemontese per il resto della vita. I suoi interessi furono molteplici, e comprendevano l’analisi matematica, la fisica matematica la geodesia, oltre alla meccanica celeste. Plana fu famoso soprattutto per aver pubblicato nel 1832 a Torino i tre massicci volumi della Théorie du mouvement de la lune, opera per la quale ebbe numerosi riconoscimenti internazionali. 

L'incontro a cui aveva invitato Babbage ebbe luogo all'Accademia delle Scienze di Torino. Si trattava del secondo congresso degli scienziati italiani. L'invito a Babbage nel 1840 fu quindi il riconoscimento del suo lavoro ai più alti livelli internazionali all'interno della comunità scientifica. Babbage non ebbe bisogno che glielo chiedessero due volte: imballati i suoi progetti, i disegni e le descrizioni della Macchina Analitica, si recò a Torino. 

Quella dell’Accademia torinese non era l’oggi consueta conferenza di sessanta minuti, compreso il tempo per le domande. Babbage trascorse diversi giorni a Torino con l'élite della comunità scientifica e tecnica italiana. La presentazione appassionò gli scienziati italiani e proseguì in seminari ristretti. Particolarmente interessato a questi seminari, nei quali per la prima volta si discusse di concatenamento delle operazioni di calcolo, ci fu l'ingegnere e matematico Luigi Federico Menabrea (1809-1896), il quale in seguito descrisse il progetto di Babbage in un'opera che pubblicò in francese a Ginevra nel 1842, Notions sur la machine analytique de Charles Babbage. Essa può essere considerata la prima nella disciplina dell'informatica. 


Alla carriera scientifica, Menabrea affiancò quella di militare, che gli valse onori e gloria. Diventato generale e poi senatore del Regno e nobile, fu posto nel 1867 da Vittorio Emanuele II a capo del governo. Menabrea, monarchico convinto e appartenente alla Destra Storica, per ottenere il pareggio di bilancio dopo le costosissime spese militari della Seconda Guerra d'Indipendenza, introdusse la famigerata tassa sul macinato, che andava a colpire soprattutto le classi popolari. Ci furono numerose proteste e dimostrazioni in Emilia-Romagna, sedate dall'esercito con un bilancio di 250 morti e 1000 feriti. Menabrea insomma contribuì in modo significativo alla nascita dell'informatica e fu contemporaneamente il propugnatore del più odioso balzello della storia italiana. Così gira il mondo.

La Macchina Analitica, che faceva seguito alla Macchina Differenziale progettata negli anni precedenti e mai realizzata per insormontabili problemi tecnici e finanziari, occupava dal 1834 quasi interamente l’interesse del matematico e inventore inglese. Anch’essa non fu mai realizzata concretamente, ma è un parere universalmente condiviso che essa anticipò i moderni computer. 


Ma che cos’era in realtà la Macchina Analitica di Babbage? L’autobiografia ce ne fornisce una descrizione abbastanza completa prima e dopo aver parlato del suo viaggio a Torino. 
“Per descrivere i successivi miglioramenti della Macchina Analitica sarebbero necessari molti volumi. Propongo qui di indicare solo alcune delle sue funzioni più importanti e di dare a coloro le cui menti sono debitamente preparate alcune informazioni che rimuoveranno quelle vaghe nozioni di meraviglia, e persino della sua impossibilità, con le quali è circondata nelle menti di alcuni dei più illuminati. 
A coloro che hanno familiarità con i principi del telaio Jacquard e che hanno familiarità con le formule analitiche, un'idea generale dei mezzi con cui il motore esegue le sue operazioni può essere ottenuta senza troppe difficoltà. Nell'Esposizione del 1862 c'erano molti splendidi esempi di telai simili. 
È noto come il fatto che il telaio Jacquard sia in grado di tessere qualsiasi disegno immaginato dall’uomo. È anche pratica costante per artisti esperti essere impiegati dai produttori nella progettazione di modelli. Questi modelli vengono quindi inviati ad un artista particolare, che, mediante una determinata macchina, esegue dei buchi in una serie di schede di cartoncino in modo tale che, quando quelle carte vengono posizionate in un telaio Jacquard, esso esegue i sui suoi prodotti secondo il modello esatto progettato dall'artista. 
Ora, il produttore può usare, per l'ordito e la trama del suo lavoro, fili che sono tutti dello stesso colore; supponiamo che siano fili bianchi o non sbiancati. In questo caso il tessuto sarà di un solo colore; ma su di esso ci sarà un modello damascato, come l'artista ha progettato. Ma il produttore potrebbe usare le stesse carte e inserire nell’ordito fili di qualsiasi altro colore. Ogni filo potrebbe anche essere di un colore diverso o di una diversa tonalità di colore; ma in tutti questi casi la forma del modello sarà esattamente la stessa, solo i colori saranno diversi. L'analogia della Macchina analitica con questo processo ben noto è quasi perfetta. 
La Macchina analitica è composta da due parti: 
1. L’archivio (store) in cui sono collocate tutte le variabili su cui operare, nonché tutte quelle quantità derivanti dal risultato di altre operazioni. 
2. Il mulino (mill), in cui vengono sempre portate le quantità che devono essere utilizzate per il calcolo. 
Ogni formula che si può richiedere di calcolare alla Macchina Analitica consiste in determinate operazioni algebriche da eseguire su determinate lettere e in alcune altre operazioni a seconda del valore numerico assegnato a tali lettere. 
Vi sono quindi due serie di carte. La prima serve a comandare la natura delle operazioni da eseguire: queste sono chiamate carte operative. L'altra serve a comandare le particolari variabili su cui tali carte sono obbligate a funzionare: queste ultime sono chiamate carte variabili. Ora, il simbolo di ogni variabile o costante è posto in cima a una colonna capace di contenere qualsiasi numero di cifre richiesto. 
In base a questa disposizione, quando si deve calcolare una formula, deve essere messa insieme una stringa di schede operative, che contengono la serie di operazioni nell'ordine in cui si verificano. Un altro gruppo di carte deve quindi essere preparato, per richiamare le variabili nel mulino, secondo l'ordine in cui devono essere eseguite. Ogni carta operazionale richiederà altre tre carte, due per rappresentare le variabili e le costanti e i loro valori numerici su cui deve agire la scheda dopo l’operazione precedente e una per indicare la variabile su cui deve essere posizionato il risultato aritmetico di questa operazione.
Ma ogni variabile ha al di sotto di essa, sullo stesso asse, un certo numero di ruote marcate sui loro denti con le dieci cifre: su queste si può collocare qualsiasi numero che la macchina è in grado di memorizzare. Ogniqualvolta le variabili vengono ordinate nel mulino, queste cifre verranno introdotte e su di esse verrà eseguita l'operazione indicata dalla carta precedente. Il risultato di questa operazione verrà quindi sostituito nell’archivio.
La Macchina Analitica è quindi una macchina di natura più generale. Qualunque sia la formula che è necessario sviluppare, la legge del suo sviluppo deve essere indicata ad essa da due serie di carte. Quando queste sono stati posizionate, la Macchina lavora su quella particolare formula. Il valore numerico delle sue costanti deve quindi essere collocato sulle colonne delle ruote sotto di esse e, quando viene impostata, la Macchina in movimento, calcolerà e stamperà i risultati numerici di quella formula. Ogni insieme di carte realizzato per qualsiasi formula, in qualsiasi momento futuro, ricalcolerà quella formula con qualsiasi costante richiesta.

Pertanto, la Macchina Analitica possiede una propria libreria. Ogni insieme di carte, una volta creato, riprodurrà in qualsiasi momento i calcoli per i quali è stato in precedenza organizzato. Può quindi essere inserito Il valore numerico delle sue costanti”.
La spiegazione continua con l’esempio, fatto di persona all’amico fisico e matematico irlandese James MacCullagh (1809–1847), che lo accompagnò a Torino, di come la macchina poteva eseguire calcoli per valutare funzioni trigonometriche e logaritmiche, una volta fornita degli opportuni comandi sotto forma di schede perforate che essa stessa poteva preparare. Babbage era in grado anche di valutare i tempi di esecuzione: 
"Supponendo che la velocità delle parti mobili del meccanismo non sia superiore a quaranta piedi al minuto, non ho dubbi che:
• Sessanta addizioni o sottrazioni possono essere completate e stampate in un minuto.
• Una moltiplicazione di due numeri, ciascuno di cinquanta cifre, in un minuto.
• Una divisione di un numero con 100 cifre per un altro di 50 in un minuto.
(…) 
È impossibile costruire macchine che occupano uno spazio illimitato; ma è possibile costruire macchine finite e usarle in un tempo illimitato. È questa sostituzione dell'infinito del tempo per l'infinito dello spazio di cui ho fatto uso, per limitare le dimensioni della Macchina e tuttavia per mantenere il suo potere illimitato".

Fateci caso: la Macchina Analitica possedeva già tutti gli elementi di un moderno computer come si imparano in un corso di alfabetizzazione informatica. Dal punto di vista dell’hardware, essa possedeva delle unità di ingresso (schede perforate), una memoria (archivio), un’unità centrale di elaborazione (mulino) e l’unità di uscita (stampante). Il software era costituito dall’insieme delle istruzioni e dei dati perforati sulle schede, secondo un determinato algoritmo.

Torniamo alla relazione di Menabrea del 1842 e alle conseguenze del viaggio di Babbage a Torino per parlare del contributo fornito allo sviluppo della Macchina Analitica dalla seconda importante protagonista di questa storia, Augusta Ada Byron, meglio nota come Ada Lovelace (1815-1852). Il suo ruolo come “madre dell’informatica” per aver collaborato con Babbage è stato messo in discussione recentemente, soprattutto dopo che in Gran Bretagna si era proposto di mettere il suo ritratto sulla banconota da 50 sterline come tributo alla scienza al femminile. Si è acceso un rovente dibattito tra denigratori e agiografi, questi ultimi rappresentati soprattutto da femministe. 


Ada Lovelace era la figlia legittima di Lord Byron e di Anne Isabella Milbanke, chiamata Annabella, un'ereditiera colta e appassionata di matematica, con la quale si sposò e andò ad abitare a Londra. Come molte delle relazioni sentimentali del’eccentrico poeta, l’unione (che a Byron interessava per motivi economici e sociali) ben prestò terminò, non prima che i due avessero una figlia, Ada, che non vide mai il padre, Giovane debole e malata, Ada ebbe un’educazione matematica discreta, per volere della madre che era angosciata dalla paura che potesse diventare poetessa come il padre, “pazzo, cattivo e pericoloso da frequentare”

Ada ebbe vari maestri di matematica, tra i quali l'anziano William Frend, suocero di Augustus De Morgan e insegnante di Annabella quando era giovane. Nessuno di questi riuscì davvero a infondere alcun vero entusiasmo o abilità nella ragazza. Più tardi Ada conobbe Mary Somerville, la traduttrice matematica e divulgatrice scientifica e, nel 1833, Charles Babbage e rimase affascinata dalle scienze matematiche. Ricevette alcune lezioni informali dalla Somerville che diventò la sua ispiratrice. Intanto, l'8 luglio 1835 sposò William King-Noel, conte di Lovelace, diventando così Ada Lovelace.

Determinata a conoscere finalmente la disciplina, Ada riuscì a persuadere Sophia, moglie di De Morgan, a diventare sua insegnante per corrispondenza. Le lettere superstiti della loro relazione matematica a distanza mostrano chiaramente che, anche se Ada era ovviamente in possesso di una mente brillante e curiosa, non riusciva a far propri molti importanti concetti fondamentali e la sua preparazione non andò mai oltre quella di uno studente del primo anno di università. Definirla una matematica è perciò abbastanza esagerato. Dorothy Stein, che ha analizzato in dettaglio la corrispondenza matematica De Morgan - Ada, scrive nella sua biografia Ada: A Life and a Legacy (1985): 
“A ventotto anni, [...] e dopo dieci anni di studio intermittente ma a volte intensivo, Ada era ancora una promettente "giovane principiante".” 
Non essendo riuscita a penetrare i segreti della matematica, Ada rivolse la sua attenzione all'occupazione principale dell’amica e ispiratrice Mary Somerville: la traduttrice scientifica. Su consiglio del fisico Charles Wheatstone, amico di Babbage, decise di tradurre dal francese la Memoria di Menabrea. Ecco che cosa scrisse Babbage a questo proposito: 
“Qualche tempo dopo l’uscita della Memoria (…), la defunta Contessa di Lovelace mi informò che aveva tradotto il libro di Menabrea. Le chiesi perché non aveva scritto lei stessa un articolo originale su un argomento di cui era così intimamente a conoscenza. A ciò, la signora Lovelace rispose che l’idea non le era mai venuta in mente. Ho quindi suggerito di aggiungere alcuni appunti alla Memoria di Menabrea; un'idea che fu immediatamente adottata. 
Discutemmo assieme i vari chiarimenti che avrebbero potuto essere introdotti: ne ho suggeriti diversi, ma la selezione era interamente sua. Così fu per la trattazione algebrica dei vari problemi, tranne, in effetti, quello relativo ai numeri di Bernoulli, che mi ero offerto di fare per togliere Lady Lovelace dall’incombenza. Su ciò mi segnalò una correzione, avendo rilevato un grave errore che avevo commesso nella trattazione. Le note della Contessa di Lovelace si estendono per circa tre volte la lunghezza della Memoria originale. La loro autrice è entrata pienamente in quasi tutte le difficilissime e astratte questioni connesse all'argomento. (…) 
Queste due memorie prese insieme forniscono, per coloro che sono in grado di comprendere il ragionamento, una dimostrazione completa: che tutti gli sviluppi e le operazioni di analisi sono ora in grado di essere eseguiti da macchine. [evidenziato nell’originale] 
Quando venne a sapere della traduzione di Ada, Babbage si rese conto di avere una grande opportunità per un po’ di pubblicità e suggerì che la Lovelace avrebbe dovuto abbellire il suo lavoro con le proprie note sulla Macchina Analitica, un consiglio che la giovane donna lusingata colse con destrezza. È evidente dall'ampia corrispondenza tra di loro e dall’autobiografia, che Babbage controllava e supervisionava ogni singolo punto delle note di Lovelace ed è difficile dire quanto fossero l'originale contributo di Ada e quanto Babbage esprimesse attraverso di lei. 

Per valutare le note alla traduzione del saggio di Menabrea sulla Macchina Analitica si dovrebbe prendere in considerazione soprattutto questo fatto: tutto ciò che la Lovelace sapeva dell’invenzione lo aveva appreso da Babbage o, indirettamente, da Menabrea. A questa traduzione Ada Lovelace aggiunse una serie di annotazioni che descrivevano i possibili usi della Macchina. Ma il calcolatore era stato concepito, progettato e parzialmente costruito da Babbage ben prima che lei fosse coinvolta nella vicenda. 


Il Memoriale di Menabrea, che Ada aveva tradotto, conteneva già esempi di programmi per la Macchina Analitica che Babbage aveva usato per illustrare le sue lezioni a Torino e aveva sviluppato alcuni anni prima. L'unico nuovo esempio di programma sviluppato nelle note è quello di determinare i cosiddetti numeri di Bernoulli. Nell’autobiografia, Babbage sostiene che Ada suggerì il programma, che poi scrisse. La corrispondenza suggerisce che Ada fu coinvolta attivamente nello sviluppo del programma, ma questa unica circostanza non fa di lei il primo programmatore di computer. La sua luce, per quanto vivida, fu solo riflessa.

lunedì 12 novembre 2018

Vita logica e morte illogica di George Boole


George Boole è famoso per i suoi lavori sulla logica matematica, che aprirono la strada allo sviluppo dell’informatica e al mondo contemporaneo. In realtà fu un genio versatile, uno di quelli che nel mondo anglosassone chiamano polymath, termine riservato alle poche persone in grado di eccellere in quasi tutti campi del sapere. 

Era nato, primo di quattro figli, il 2 novembre 1815 a Lincoln, in Inghilterra, in una famiglia di mezzi modesti, con un padre che era sicuramente più un buon compagno che un buon capofamiglia. Il padre John era infatti un calzolaio che non dedicava molto impegno alla sua attività, perché nutriva una grande passione per la scienza e la tecnologia, in particolare per l'applicazione della matematica agli strumenti scientifici. Questo amore per il sapere fu chiaramente ereditato da George. John fu infatti il primo insegnante di matematica del figlio, e ne incoraggiò la passione per il sapere. Insieme costruirono macchine fotografiche, caleidoscopi, microscopi, telescopi e una meridiana. 

Dopo aver studiato il latino da un insegnante privato, George Boole imparò da solo il greco. A 14 anni era diventato così abile da provocare una piccola polemica. Tradusse un’opera del poeta greco Meleagro, che suo padre orgogliosamente fece pubblicare, suscitando la reazione di un insegnante locale, che dubitò che un quattordicenne avesse potuto scrivere con tanta profondità. A quel tempo George frequentava l'Accademia commerciale di Bainbridge a Lincoln, dove era entrato nel 1828. Questa scuola non forniva il tipo di educazione linguistica e scientifica che avrebbe desiderato, ma era ciò che i suoi genitori potevano permettersi. George fu tuttavia in grado di imparare il francese, l’italiano e il tedesco, studiando da solo anche le materie scientifiche che una scuola commerciale non trattava. La sua capacità di leggere le lingue straniere lo favorì negli studi matematici da quando, a 16 anni, lesse il Calcul Différentiel di Lacroix, ricevuto in regalo da un amico. 

Alla stessa età George dovette trovarsi un impiego retribuito per sostenere i genitori e i fratelli, poiché suo padre non era più in grado di provvedere alla famiglia, in quanto la sua attività era fallita. Dopo aver lavorato per tre anni come insegnante nelle scuole private, decise, nel 1834, di aprire una sua piccola scuola a Lincoln. Sarebbe stato un insegnante privato di lingue e matematica per i successivi 15 anni. Con pesanti responsabilità verso la famiglia, è notevole che abbia comunque trovato il tempo di continuare la propria istruzione. John Boole frequentava spesso la Lincoln Mechanics Institution, che era essenzialmente un’associazione culturale che promuoveva la lettura, le discussioni e le lezioni sulla scienza. Era stata fondata nel 1833 dal matematico Sir Edward Bromhead, membro della Royal Society, che viveva a poche miglia da Lincoln. Nel 1834 John Boole divenne il curatore della biblioteca. Senza il beneficio di una scuola d'élite, ma con una famiglia unita e l'accesso a libri eccellenti, in particolare quelli prestati da Bromhead, George mostrò presto le sue doti. Mantenne il suo interesse per le lingue, iniziò a studiare seriamente la matematica, principalmente le equazioni differenziali e il calcolo delle variazioni legate ai lavori di Lacroix, Laplace e Lagrange, perfezionando scrupolosamente le sue abilità con letture ripetute, finché non comprese il loro uso del calcolo differenziale e integrale. Lesse e con profitto anche i Principia di Newton. 

La motivazione iniziale di George Boole di studiare matematica era di approfondire la sua comprensione della scienza pratica, in particolare meccanica, ottica e astronomia. Con l'avanzare della sua padronanza dell'argomento, riconobbe che la matematica è estremamente eccitante e creativa a pieno titolo. Nel 1838, scrisse il suo primo articolo matematico (sebbene non il primo ad essere pubblicato), Su alcuni teoremi nel calcolo delle variazioni, concentrandosi a migliorare i risultati della Méchanique Analytique di Lagrange. 

All'inizio del 1839 Boole si recò a Cambridge dove conobbe il giovane matematico Duncan F. Gregory (1813-1844), editore del Cambridge Mathematical Journal (CMJ). Gregory aveva fondato questo giornale nel 1837 e lo curò fino a quando la sua salute peggiorò nel 1843 (morì all'inizio del 1844, a soli 30 anni). Gregory divenne un importante mentore per Boole. Con il sostegno di Gregory, che gli insegnò come scrivere un articolo matematico, Boole entrò nel mondo delle pubblicazioni nel 1841. 

Nei suoi primi anni di carriera, Boole pubblicò una trentina di articoli, tutti tranne due nel CMJ e, dal 1846, nel The Cambridge and Dublin Mathematical Journal, che ne aveva preso l’eredità. Si occupò di argomenti matematici standard, principalmente equazioni differenziali, integrazione e calcolo delle variazioni. L’articolo del 1841 Sull'integrazione di equazioni differenziali lineari con coefficienti costanti fornì un miglioramento significativo al metodo di Gregory per risolvere tali equazioni differenziali, basato su uno strumento standard in algebra, lo sviluppo in frazioni parziali. 

Nel 1841 uscì anche il suo primo articolo sugli invarianti, un’opera che avrebbe persuaso Eisenstein, Cayley e Sylvester a sviluppare l'argomento. Arthur Cayley (1821-1895), futuro professore a Cambridge e uno dei più prolifici matematici della storia, scrisse la sua prima lettera a Boole nel 1844, complimentandosi con lui per l’eccellente lavoro. Diventò un caro amico, che sarebbe andato a Lincoln a trovare Boole e stare con lui negli anni prima che Boole si trasferisse a Cork, in Irlanda. Nel 1842 Boole iniziò una corrispondenza con Augustus De Morgan (1806-1871) che diede inizio ad un'altra costante amicizia.

Nel 1843 Boole concluse un lungo lavoro sulle equazioni differenziali, combinando una sostituzione esponenziale e una variazione dei parametri con il metodo della separazione dei simboli. L’articolo era troppo lungo per il CMJ. Gregory, e più tardi De Morgan, lo incoraggiarono allora a presentarlo come memoria alla Royal Society. Il primo referee respinse il lavoro di Boole, ma il secondo lo raccomandò per la medaglia d'oro per la migliore opera matematica scritta negli anni 1841-1844: questa raccomandazione fu accettata. Nel 1844, la Royal Society pubblicò l’opera di Boole e gli assegnò la medaglia d'oro, la prima attribuita a un matematico. L'anno seguente, nel giugno 1845, Boole tenne una conferenza alla riunione annuale della British Association for the Advancement of Science a Cambridge. Ciò portò a nuovi contatti e amici, in particolare William Thomson (1824-1907), il futuro Lord Kelvin, che era professore di filosofia naturale presso l'Università di Glasgow.

Non molto tempo dopo aver iniziato a pubblicare articoli, Boole era ansioso di trovare un modo per ottenere un titolo in un’istituzione prestigiosa. Valutò l’ipotesi di frequentare l'Università di Cambridge per ottenere una laurea, ma gli fu consigliato che soddisfare i vari requisiti richiesti avrebbe probabilmente interferito seriamente con il suo programma di ricerca, per non parlare dei problemi di ottenere finanziamenti. Alla fine, nel 1849, ottenne la nomina alla cattedra di matematica al Queen's College di Cork, in Irlanda. In questa sede egli insegnò per il resto della sua vita. Boole si inserì nella vita accademica, godendo di un certo grado di indipendenza finanziaria e di un nuovo senso di libertà. A marzo dell'anno successivo scrisse al suo amico e corrispondente William Thomson: 
"Posso dire in tutta onestà che provo un piacere sempre maggiore nei miei nuovi compiti".

Nel 1847 pubblicò la sua prima opera di logica, Mathematical Analysis of Logic, seguita da Laws of Thought del 1854. Inoltre, durante questo periodo, Boole pubblicò decine articoli di matematica tradizionale, e solo un articolo di logica. Nel 1851 gli fu conferita la laurea ad honorem presso l'Università di Dublino. 

Per capire come Boole abbia sviluppato, in così poco tempo, la sua straordinaria algebra della logica, è utile ripercorrere le linee generali del dibattito sui fondamenti dell'algebra che era stato iniziato dai matematici affiliati all'Università di Cambridge nell'Ottocento prima dell’inizio della sua carriera matematica. 

Il XIX secolo si aprì in Inghilterra con una stasi della matematica. I matematici inglesi erano in lotta con i matematici continentali sulla priorità nello sviluppo del calcolo infinitesimale, che portò gli inglesi a seguire la notazione di Newton, e i continentali quella di Leibniz. Uno degli ostacoli da superare nell'aggiornamento della matematica inglese era il fatto che i grandi sviluppi dell'algebra e dell'analisi erano stati costruiti su basi dubbie, e c'erano matematici inglesi che erano piuttosto espliciti riguardo a queste carenze. Nell'algebra ordinaria, a preoccupare era l'uso di numeri negativi e dei numeri immaginari. 

Il primo grande tentativo tra gli inglesi di chiarire i problemi fondamentali dell'algebra fu il Treatise on Algebra, 1830, di George Peacock (1791-1858). Una seconda edizione apparve in due volumi, negli anni 1842-1845. Egli divise l’argomento in due parti: la prima era l'algebra aritmetica, vale a dire l'algebra dei numeri positivi (che non consentiva operazioni come la sottrazione nei casi in cui il risultato non era un numero positivo), la seconda era l'algebra simbolica, che non era governata da una specifica interpretazione, come nel caso dell'algebra aritmetica, ma solo da leggi formali. Nell'algebra simbolica non c'erano restrizioni all'uso della sottrazione, ecc. 

La terminologia dell'algebra era alquanto diversa nel diciannovesimo secolo rispetto a quanto si usa oggi. In particolare, non si usava la parola "variabile"; la lettera x era chiamata simbolo, da cui il nome "algebra simbolica".

Peacock riteneva che, affinché l'algebra simbolica fosse un metodo utile, le sue leggi dovevano essere strettamente correlate a quelle dell'algebra aritmetica. A questo proposito, introdusse il principio della permanenza delle forme equivalenti, che collegava i risultati dell'algebra aritmetica a quelli dell'algebra simbolica. Questo principio consisteva di due parti:
1. I risultati generali nell'algebra aritmetica appartengono alle leggi dell'algebra simbolica.
2. Ogni volta che un'interpretazione di un risultato di algebra simbolica ha senso nell'impostazione dell'algebra aritmetica, il risultato dà un risultato corretto in aritmetica.

Un interessante uso dell'algebra fu introdotto nel 1814 da François-Joseph Servois (1776-1847), che affrontò le equazioni differenziali separando la parte dell'operatore differenziale dalla parte della funzione algebrica. Con questo nuovo metodo simbolico considerava un'equazione differenziale, per esempio:


 e la scriveva nella forma Operatore (y) = cos(x). Ciò si otteneva (formalmente) ammettendo:

Portando a un’espressione dell’equazione differenziale come:


A questo punto entrava in gioco l'algebra simbolica, semplicemente trattando l'operatore D2 come se fosse un polinomio algebrico ordinario. Questa applicazione dell'algebra catturò l'interesse di Gregory, che pubblicò sul suo giornale diversi articoli sul metodo della separazione dei simboli, cioè la separazione tra operatori e oggetti. Egli si occupò anche dei fondamenti dell'algebra, dando un’interpretazione che Boole condivise quasi alla lettera. Gregory aveva abbandonato il principio di Peacock sulla permanenza delle forme equivalenti a favore di tre semplici leggi, una delle quali Boole considerava semplicemente una convenzione di notazione. Sfortunatamente, queste leggi non erano sufficienti a giustificare neanche i risultati più elementari dell'algebra, come quelli che implicano la sottrazione. 

In On the foundation of algebra (1839), il primo di quattro articoli di De Morgan su questo argomento apparsi sulle Transactions of the Cambridge Philosophical Society, si trova un tributo alla separazione dei simboli in algebra, e l'affermazione che i moderni algebristi di solito considerano i simboli come denotanti operatori (ad esempio, l'operazione derivativa) invece di oggetti come numeri. La nota in calce: 
"Il professor Peacock è il primo, credo, che ha distinto chiaramente la differenza tra ciò che ho chiamato i rami tecnico [sintattico] e logico [semantico] dell'algebra" 
riconosceva a Peacock il merito di essere stato il primo a separare quelli che vengono ora chiamati gli aspetti sintattici e semantici dell'algebra. Nel secondo documento di fondazione (nel 1841) egli propose quello che considerava un insieme completo di otto regole per operare con l'algebra simbolica. 

La strada verso la fama logica di Boole cominciò in modo curioso. All'inizio del 1847 fu stimolato a iniziare le sue indagini sulla logica da una disputa banale ma pubblica tra De Morgan e il filosofo scozzese Sir William Hamilton (1788-1856) – da non confondersi con il suo contemporaneo, il matematico irlandese Sir William Rowan Hamilton (1805-1865). Questa disputa ruotava attorno a chi spettasse il merito dell'idea di quantificare il predicato (ad esempio, "Tutto A è tutto B", "Tutto A è una parte di B", ecc.). Osservando la disputa a distanza, Boole intuì che i due approcci rivali potevano essere sintetizzati: ogni classe di oggetti poteva essere rappresentata da un singolo simbolo, mentre le relazioni tra classi potevano essere rappresentate da equazioni algebriche che collegavano i simboli. Nel giro di pochi mesi, Boole scrisse la sua monografia di 82 pagine, Mathematical Analysis of Logic, An Investigation of the Laws of Thought on which are founded the Mathematical Theories of Logic and Probabilities, fornendo un approccio algebrico alla logica aristotelica. (Pare che questa monografia e il libro di De Morgan, Formal Logic, apparvero lo stesso giorno nel novembre 1847). Boole stesso descrisse l’opera come: 
"Un'indagine sulle leggi fondamentali di quelle operazioni della mente con cui viene eseguito il ragionamento; per dar loro espressione nel linguaggio simbolico di un calcolo e, su questa base, per stabilire la scienza della logica e costruire il suo metodo; fare di quel metodo stesso la base di un metodo generale per l'applicazione della dottrina matematica delle probabilità; e infine per raccogliere dai vari elementi di verità riportati nel corso di queste indagini alcuni probabili indizi riguardanti la natura e la costituzione della mente umana".
Boole accettava pienamente la logica di Aristotele. Gli obiettivi di Boole erano "andare sotto, sopra, e oltre" quella costruzione: 
1. Fornendole basi matematiche che coinvolgono equazioni; 
2. Estendendo la classe di problemi che poteva trattare mediante la valutazione della validità per la risoluzione delle equazioni; 
3. Espandendo la gamma di applicazioni che poteva trattare, ad es. dalle proposizioni che hanno solo due termini a quelle che ne hanno arbitrariamente molti. 

Più specificamente, Boole concordava con ciò che aveva detto Aristotele, ma ritenne necessario aggiungere qualche concetto., Boole ridusse le quattro forme proposizionali della logica di Aristotele alle formule sotto forma di equazioni, di per sé un'idea rivoluzionaria. In secondo luogo, nel campo dei problemi della logica, l'aggiunta di Boole della risoluzione di equazioni alla logica - un'altra idea rivoluzionaria - comprendeva la dottrina di Boole secondo cui le regole di inferenza di Aristotele (i "sillogismi perfetti") devono essere integrate da regole per la risoluzione delle equazioni. Terzo, nel campo delle applicazioni, il sistema di Boole poteva gestire proposizioni e argomenti a più termini, mentre Aristotele poteva gestire solo proposizioni e argomentazioni di soggetto-predicato a due termini. 


Queste opere ampliarono l'orizzonte della matematica attraverso la logica simbolica. La matematica classica era incentrata sui concetti di forma e numero: quando venivano impiegati i simboli, venivano solitamente interpretati in termini di numero. Boole introdusse l’idea di interpretare i simboli come classi o insiemi di oggetti: lo studio di insiemi definiti di oggetti poteva essere affrontato attraverso la matematica. De Morgan elogiò il lavoro di Boole sulla logica dicendo:
"Il sistema logico di Boole è solo una delle tante prove di genialità e pazienza combinate ... Che i processi simbolici dell'algebra, inventati come strumenti di calcolo numerico, dovrebbero essere competenti per esprimere ogni atto di pensiero e per fornire la grammatica e il dizionario di un sistema di logica onnicomprensivo non sarebbe stato creduto fino a che non fosse stato dimostrato."
In The Laws of Thought, Boole utilizzò testi di Baruch Spinoza (1632-77) e altri filosofi e esaminò questi testi da un punto di vista logico. Perciò Boole rafforzò il ruolo della logica e questo ebbe un impatto importante sulla filosofia, in particolare attraverso il Circolo di Vienna che, nei primi anni ‘20 del Novecento, sviluppò la filosofia analitica. Dopo la morte di Boole furono scoperti numerosi manoscritti che mostrano che egli intendeva pubblicare un altro libro in cui le sue scoperte nella logica dovevano informare la sua visione personale della filosofia. 


Sebbene l'algebra logica di Boole non sia l'algebra booleana degli insiemi con le operazioni di unione, intersezione e complemento, tuttavia lo scopo delle due algebre è lo stesso, cioè fornire una logica che contempli equazioni per il calcolo delle classi e la logica proposizionale. Il nome "algebra booleana" fu introdotto da Charles Sanders Peirce (1839-1914), poi adottato dal filosofo di Harvard Josiah Royce (1855-1916) intorno al 1900, e infine da tutti. Si riferiva essenzialmente alla versione moderna dell'algebra della logica, introdotta nel 1864 da William Stanley Jevons (1835-1882), una versione che Boole aveva respinto. Per questo motivo, alla parola "booleano" è preferibile il nome di algebra “di Boole” per descrivere l'algebra della logica che Boole effettivamente sviluppò nelle sue opere.

Boole fu colpito dalle capacità computazionali del suo nuovo tipo di algebra. Era sorpreso di scoprire che la sua algebra poteva essere applicata all'arduo compito di risolvere complessi problemi di logica aristotelica. Non fu la prima persona a confondere la logica con il pensiero, e per molti anni pensò di aver scoperto il modo in cui la mente umana funziona e morì deluso dal fatto di non essere riconosciuto per questo. Ma ciò che aveva effettivamente scoperto è come funziona la logica formale. Aveva sviluppato un modo pratico per rappresentare e risolvere matematicamente complessi problemi logici. Durante la sua vita, non ebbe che la sua algebra sarebbe stata la base per una rivoluzione di grande scala, Tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo, la sua logica trovò una pratica applicazione quando fu ampiamente utilizzata per verificare le implicazioni di contratti assicurativi complessi. Ma la logica booleana trovò la sua vera casa tecnologica a metà del XX secolo, quando il pioniere americano del computer Claude Shannon dimostrò nella sua tesi magistrale che i circuiti elettrici binari (quelli che sono rappresentati come solo o "chiusi" o "aperti") si comportano secondo le leggi dell'algebra booleana. Shannon mostrò che la logica complessa poteva essere rappresentata nei circuiti binari, che divennero la base per i computer digitali. 

Durante gli ultimi dieci anni della sua carriera, dal 1855 al 1864, Boole pubblicò altri articoli e due libri di matematica, uno sulle equazioni differenziali e uno sulle equazioni alle differenze parziali, che costituivano il suo primo amore matematico. A Treatise on Differential Equations fu pubblicato nel 1859. Boole fu molto felice quando ricevette la notizia che l'Università di Cambridge aveva adottato questa sua opera lavoro come libro di testo. Tenendo conto dell'impatto del suo lavoro matematico negli ultimi 20 anni, Boole rivide la sua produzione e comprese che molti dei suoi metodi e tecniche in relazione ai problemi di calcolo dovevano essere rivalutati, a causa della loro gamma potenzialmente più ampia di applicazioni. Così si mise al lavoro sul suo quarto e ultimo libro, un libro di testo intitolato A Treatise on the Calculus of Finite Difference. Lo scopo di questo nuovo testo era quello di far luce sulle connessioni tra equazioni alle differenze e equazioni differenziali, mentre metteva a fuoco la potenza dei metodi dell'operatore astratto applicati a una nuova area della matematica. In questo periodo arrivarono importanti onorificenze, dalla Royal Society (Fellowship, 1857), dalla Cambridge Philosophical Society (Membro onorario, 1858) e dall’Università di Oxford (Doctor Civilis Legis, Alto dottorato honoris causa).

A Cork, nel 1850, il futuro caposcuola della logica algebrica conobbe Mary Everest, che era la nipote del Colonnello George Everest, il Topografo Generale dell’India da cui il monte più alto del mondo prese poi il nome. A partire dal 1852, George Boole divenne l’insegnante privato di matematica di Mary e, quando il padre di lei morì nel 1855 senza lasciarle alcun mezzo di sostentamento, Boole le propose di sposarlo. La cerimonia ebbe luogo l’11 settembre 1855. Nonostante una grande differenza d’età (lei aveva 17 anni di meno), si trattò di un matrimonio felice, dal quale nacquero cinque figlie, una delle quali, Alicia, più tardi maritata Stott (1860-1940), sarebbe diventata una valente matematica, esperta nella geometria dimensionale (fu lei a coniare il termine politopo).


Mary Everest Boole era una donna intelligente, che sopravvisse al marito per 52 anni, durante i quali fu divulgatrice delle idee e delle scoperte di George, con una libertà di spirito e concezioni pedagogiche che l’hanno resa a suo modo un’icona del femminismo. Ella, tuttavia ebbe una grande responsabilità proprio nella sua morte. Vediamo come andarono i fatti, secondo il resoconto che ne diede Alexander Macfarlane in Lectures on Ten British Mathematicians of the Nineteenth Century (New York, 1916):
“Un giorno del 1864 egli percorse a piedi le due miglia dalla sua residenza al College sotto un violento acquazzone, e fece lezione con gli abiti bagnati. La conseguenza fu un’infreddatura con febbre, che ben presto si trasformò in una polmonite e pose fine alla sua carriera (…)”. 
Boole non aveva mai goduto di salute robusta. Riguardo alla sua delicata costituzione, Mary Boole disse che soffriva di una "Malattia ereditaria dei polmoni, aggravata dalla residenza in un clima umido, con un sistema nervoso sensibile al massimo grado".

Ciò che la maggior parte delle persone non sa è che George Boole fu assai probabilmente ucciso dall'omeopatia, o almeno da una sua interpretazione eccessivamente letterale. Sfortunatamente per lui, il padre di Mary era stato un fervente seguace delle teorie mediche di Samuel Hahnemann, il fondatore dell’omeopatia, e gli Everest avevano vissuto per anni nella residenza parigina del medico tedesco in rue de Milan, dove anche la futura signora Boole era diventata una discepola delle sue idee eterodosse.

Mary Boole, affascinata dal principio dei simili, cardine del pensiero omeopatico, e cioè che Similia similibus curantur (I simili si curano con i simili), pensò, forse su consiglio di un medico ciarlatano, che il freddo era la miglior cura per un raffreddore e che bisognava esporre George alle stesse condizioni che lo avevano fatto ammalare. Lo mise a letto e gli gettò addosso alcuni secchi d’acqua fredda. Per la donna questo trattamento, che oggi giudicheremmo crudele e avventato, era perfettamente logico. Per diversi giorni Boole rimase a letto mentre Mary bagnava le lenzuola. Il matematico, geniale ma assai ingenuo, lasciò fare, si ammalò di polmonite e morì. Vano fu il tentativo di un medico, il professor Bullen, chiamato troppo tardi al suo capezzale, di curarlo con metodi tradizionali. Boole morì l’8 dicembre 1864 a soli 49 anni. Il certificato di morte indicò la causa del decesso in una pleuro-polmonite e stabilì che la durata della malattia era stata di 17-19 giorni. Fu sepolto nel cimitero della chiesa di St. Michael a Blackrock, nella contea di Cork.


La veridicità di queste vicende è testimoniata da diverse fonti, tra le quali una significativa lettera scritta dalla figlia più piccola, Ethel sposata Voynich, che diventò una grande intellettuale e scrittrice apprezzata. Ethel non nasconde di attribuire alla madre la colpa della morte del padre:
(…) Mia sorella Mary Hinton, che fu sua amica, e che raccolse diversi aneddoti sulla famiglia, mi disse che, almeno secondo Mary Ann [la sorella di Boole], la causa della morte prematura di papà fu ritenuta la fede della Signora [Mary Everest Boole] in un certo bizzarro dottore che prescriveva cure con acqua fredda per ogni cosa. Qualcuno, non sono in grado di ricordare chi, pare che sia entrato in casa e abbia trovato il papà “che tremava tra lenzuola bagnate”. Ora, per quanto mi riguarda, sono incline a credere che ciò possa essere accaduto. Gli Everest sembra proprio che fossero una famiglia di gente eccentrica, che seguiva degli eccentrici. Il padre della Signora a quanto pare adorava Mesmer e Hahnemann e la stessa Signora seguì le teorie fino alla morte”. 
Di sicuro Hahnemann non avrebbe mai “curato” Boole con il metodo sciocco e disgraziato utilizzato da Mary Everest. Il principio dei simili riguarda i principi attivi, i rimedi, che il medico deve utilizzare per produrre una malattia artificiale simile a quella reale, che ad essa si sostituisce per poi scomparire. Le dosi da utilizzare devono essere ridotte al minimo indispensabile, in modo da minimizzare o annullare gli effetti sfavorevoli. Questi rimedi sono somministrati in dosi infinitesimali e opportunamente “dinamizzati”, al punto che è difficile trovarne traccia nella soluzione acquosa o nello zucchero. L’omeopatia fu la causa della morte di Boole solo perché interpretata in modo aberrante. Utilizzata correttamente, essa semplicemente non avrebbe avuto alcun effetto.


lunedì 25 luglio 2016

La passione matematica del giovane Stendhal

La Vita di Henry Brulard, Ricordi di egotismo, di Stendhal, cioè Henri Beyle (1783-1842), uscito postumo nel 1890 e scritto in Italia tra il novembre 1835 e il marzo 1836, è di sicuro il frammento autobiografico più lungo che ci sia giunto dello scrittore francese. Si tratta di un libro disordinato, il cui unico filo conduttore è quello cronologico, con il racconto dei primi diciassette anni della sua vita. Stendhal, cinquantaduenne, decide di dare voce ai suoi ricordi, che confluiscono in un'autobiografia intitolata come sempre con uno pseudonimo, questa volta il nome di un suo prozio monaco dalla testa enorme, a cui si diceva che assomigliasse. La Vita è il resoconto amaro e disilluso di un uomo che decide di raccontare i dettagli e non l’epica della sua vita, non i momenti più esemplari, ma i fatti “minori”, come l’infanzia in una opprimente Grenoble, la perdita della madre, l’odio per un padre ottuso e autoritario, il suo amore per la matematica, fino al suo arrivo a Parigi e la crisi delle sue illusioni giovanili. 

Henri Beyle vive i suoi primi anni nell’epoca della Rivoluzione, il cui vento giunge infiacchito nel periferico Delfinato e nell’intellettualmente asfittico ambiente borghese in cui vive la famiglia, dove la sua unica conquista è l’amore per la letteratura. Così scrive nella sua “autobiografia mascherata da romanzo”: 
 “All’epoca della morte di mia madre, verso il 1790, la mia famiglia era […] composta da M. Gagnon padre, sessant’anni; M. Romani Gagnon, suo figlio, venticinque anni; Séraphie, sua figlia, ventiquattro anni; Elisabeth, sua sorella, sessantaquattro anni; Chérubine Beyle, suo genero, quarantatré anni: Henri, figlio di Chérubine, sette anni; Pauline, sua figlia, quattro anni; Zenaide, sua figlia, due anni. Sono questi i personaggi del triste dramma della mia giovinezza, che mi riporta alla mente quasi solo sofferenza e profonda insoddisfazione morale”
Nel 1796, Henri Beyle, a tredici anni, entra nella Scuola Centrale dell’Isère, a Grenoble, appena creata dalla Convenzione: non è un ragazzino felice. La sua infanzia, fino ad allora solitaria, si è svolta in una casa governata duramente, dove non gli sono permessi gli svaghi. I suoi precettori sono stati dei preti, tra i quali il detestato Abate Raillane, la cui tirannia è durata dal 1792 al 1794. 

La Scuola Centrale segna il suo incontro con la libertà. Finalmente può uscire di casa senza essere accompagnato, e può scegliersi degli amici tra gli allievi. Frequenta la scuola per tre anni: chi legge la Vita di Henry Brulard è colpito dalla ripetuta asserzione del suo amore per la matematica: 
“La passione per la matematica assorbiva talmente il mio tempo che Félix Faure m’ha detto che portavo allora i capelli troppo lunghi, tanto mi lamentavo della mezz’ora che bisognava perdere per farli tagliare. […] Amo ancora la matematica per se stessa, come non ammettendo l’ipocrisia e il vago, le mie due bestie nere […] la convivenza con un ipocrita mi dà un inizio di mal di mare […] avevo già un disgusto mortale per le donne oneste e l’ipocrisia che è loro indispensabile […] l’ipocrisia, ai miei occhi, erano mia zia Séraphie, la signora Vignon (amica di Séraphie), e i loro miseri preti”
Dato che i sentimenti si mescolano con l’amore per lo studio, è utile esaminare affetti e avversioni di Beyle per i suoi parenti: prima di tutto c’è il padre, Chérubin Beyle, avvocato del Parlamento locale, cavaliere della Legion d’Onore, vicesindaco di Grenoble, speculatore sfortunato, individuo poco intelligente e di scarsa sensibilità. Per lui il figlio prova solo disprezzo: “Era un uomo decisamente poco amabile e non mi amava come persona ma come figlio che doveva perpetuare la stirpe […]. La smania di allontanarmi da Grenoble, cioè da lui, e la mia passione per la matematica […] mi indussero a vivere in profonda solitudine dal 1797 al 1799”.


La madre di Henri, nata Gagnon, donna cresciuta leggendo Dante e il Tasso, era morta quando lui aveva sette anni, provocandogli un dolore profondo. Aveva una sorella, la terribile zia Séraphie, che la sostituì nell’educazione di Henri. Romain Colomb, cugino ed esecutore testamentario di Stendhal, rivela che Séraphie era il “governatore” della casa: “Lei non amava che poche cose sulla terra, ma detestava suo nipote Henri, favorito del signor Gagnon padre, e non si lasciava sfuggire alcuna occasione per testimoniargli la sua avversione”

All’opposto, tra gli affetti, c’era il nonno materno Gagnon, medico dallo spirito illuminista, che Henri adorava e che si era battuto per l’istituzione della nuova Scuola a Grenoble e sollecitava nuovi finanziamenti per rendere decorosa la struttura.


Nella Vita di Henry Brulard, Beyle scrive che fu proprio frequentando la Scuola avvenne la sua “caduta nella matematica”. Non si può escludere che ciò avvenne proprio per reazione alle idee del genitore: “Mio padre detestava la matematica per motivi religiosi, credo: la perdonava solo quando serviva e rilevare la pianta delle sue tenute”

Henri Beyle, invece, incominciando a studiarla con crescente interesse, inizia a capire che “la matematica considera solo un aspetto particolare degli oggetti (la loro quantità), ma ha il fascino di dire, su questo aspetto, solo cose certe, solo la verità e quasi tutta la verità”

Anche nello studio della matematica, tuttavia, il giovane non è soddisfatto, perché ben presto si rende conto della mediocrità dei suoi insegnanti: 
“Quanto più amavo la matematica, tanto più disprezzavo i miei insegnanti, M. Dupuy e M. Chabert”. [Essi] “sono ipocriti come i preti che vengono a dire la messa da mio nonno, e la cara matematica non è altro che un imbroglio? Non sapevo come raggiungere la verità. Ah! Come avrei ascoltato avidamente, allora, una parola sulla logica e sull’arte di trovare la verità!” 
Henri impara l’algebra sul “disgustoso Bezout”, a cui preferisce il Clairaut, meno dogmatico, i cui Elementi di algebra (pubblicato per la prima volta nel 1747) si estendono fino alla risoluzione delle equazioni di quarto grado. Presto il rancore per il padre si estende a tutta la città di Grenoble: “Cominciavo a dirmi seriamente: bisogna prendere una decisione e uscire da questa melma. Avevo solo una possibilità al mondo. La matematica. Ma me la si spiegava così stupidamente che non facevo alcun progresso. […] Ciò nonostante, Bezout era la mia sola risorsa per partire da Grenoble. Ma Bezout era così una bestia! (…) Era una testa come quella di M. Dupuy, il nostro enfatico professore […] quest’uomo così vuoto […] questo grande Dupuy ci spiegava le proposizioni come una serie di ricette per fare l’aceto”. Sebastien Henri Dupuy de Bordes, esperto di geometria, era stato insegnante del giovane Napoleone Bonaparte alla Scuola Reale di Artiglieria di Valence, ma Stendhal lo considerava un ignorante, incapace di comprendere anche una sola frase di ciò che ampollosamente insegnava agli allievi.

L’alternativa era Chabert: “Mio nonno conosceva un borghese di vedute ristrette, di nome Chabert, che teneva lezioni private […] Gli piaceva il Clairaut, ed era una cosa immensa metterci in contatto con quell’uomo di genio e farci uscire un po’ dal piatto Bezout. Aveva il Bossut, l’abbé Marie, e ogni tanto ci faceva studiare un teorema su questi autori. Aveva anche in manoscritto qualche cosetta di Lagrange, delle cose adatte alla nostra piccola portata”. Ma Chabert “aveva sempre […] l’aria di un farmacista che conosce delle buone ricette, ma niente lasciava capire come queste ricette nascessero le une dalle altre, nessuna logica, nessuna filosofia in quelle testa”. La curiosità gli fa consultare “gli articoli matematici di d’Alembert sull’Enciclopedia, [ma] il loro tono di presunzione, l’assenza di culto per la verità mi impressionarono fortemente e, d’altra parte, ci capivo poco”

Il giovane Beyle aveva aspettative smisurate e confuse sulla matematica: 
“A quattordici anni, nel 1797, immaginavo che la matematica pura, che io non ho mai studiato, arrivasse a comprendere tutti o quasi gli aspetti delle cose e che, approfondendone lo studio, sarei giunto a sapere delle cose certe, indubitabili, e che avrei potuto mettermi alla prova, senza limitazioni, su tutto”. 
Così volle intestardirsi per capire come mai meno per meno fa più: 
“Come potevo rassegnarmi, quando mi accorsi che nessuno sapeva spiegarmi com’era che meno per meno fa più (- × - = +, è uno dei fondamenti della scienza chiamata algebra). Facevano anche di peggio: oltre a non spiegarmi questo problema (che certamente si può spiegare perché conduce alla verità), me lo presentavano con delle argomentazioni evidentemente poco chiare anche per coloro che me le esponevano. M. Chabert, assillato dalle mie domande, era a disagio, ripeteva la sua lezione, proprio quella su cui chiedevo dei chiarimenti, e sembrava che volesse dirmi: Ma questa è la consuetudine, tutti accettano questa spiegazione”
È interessante notare come la ricerca morale che lo attira verso la matematica (verità contro ipocrisia) porterà il giovane Beyle persino a sfiorare una questione essenziale: la validità del quinto postulato di Euclide. 
“Si può immaginare quale livore si impadronì del mio animo quando cominciai la Statique di Louis Monge, fratello dell’illustre Monge, e che sarebbe poi venuto a fare gli esami di ammissione all’ècole Polytechnique. [Beyle si sbaglia, la Statique del 1788 è proprio dell’illustre Gaspard Monge!]. […] Quell’insigne bestione di Louis Monge ha scritto all’incirca così: Due linee parallele possono essere considerate incrociantisi se le si prolunga all’infinito. Ebbi l’impressione di leggere un catechismo e, oltretutto, uno dei più scalcinati. Chiesi inutilmente spiegazioni a M. Chabert. “Figliolo, dice assumendo quell’aria paterna […], figliolo, lo capirete più avanti”, e il mostro, avvicinandosi alla sua tavoletta di tela cerata e tracciando due linee parallele e molto vicine, mi dice “Vedete bene che all’infinito si può dire che s’incontrano”. Ero lì per lasciar perdere tutto. A quel punto un confessore, abile e buon gesuita, avrebbe potuto convertirmi commentando la massima: “Vedete bene che tutto è errore, o meglio, che non c’è niente di falso, niente di vero, tutto è convenzione”. 


In realtà, come si sa, pochi anni prima che Stendhal stendesse queste righe, si era giunti a considerare indimostrabile questo postulato, che era quindi, in quanto postulato, proprio una convenzione. Non rispettandolo, Lobačevskij, Bolyai e l’onnipresente Gauss avevano fondato le geometrie non euclidee. 

Per fortuna il giovane Henri può contare su un aiuto inaspettato:
[…] da qualche tempo sentivo parlare di un giovane, noto giacobino, che di matematica ne sapeva di più di M. Dupuy e M. Chabert, ma che non ne faceva mestiere […]. Non so come abbia potuto, timido com’ero, avvicinarmi a M. Gros. […] Ci disse: - Cittadini, da dove cominciamo? Bisognerebbe vedere a che punto siete. – Dunque, abbiamo fatto le equazioni di secondo grado. E, da persona sensata, si mise a spiegarci le equazioni, cioè, per esempio, la costruzione di un quadrato a + b, che ci faceva elevare alla seconda potenza: a2 + 2ab + b2. L’ipotesi che il primo membro dell’equazione fosse un inizio di quadrato; il complemento di questo quadrato, ecc. ecc. ecc. Si schiudevano i cieli per noi, o almeno per me. Vedevo finalmente il perché delle cose: non c’era più una ricetta da farmacista caduta dal cielo per risolvere le equazioni. Provavo un piacere intenso, analogo a quello della lettura di un romanzo appassionante. […] Gros […] mi aveva conquistato”

Henri Beyle non prende in giro nessuno sulle sue capacità: “Può darsi che ci sia orgoglio nella qualifica di eccellente matematico che mi è stata attribuita. Non ho mai saputo il calcolo differenziale e integrale”. Anche senza conoscere queste cose, egli esce dalla Scuola Centrale di Grenoble come primo in matematica, più bravo di altri otto che, qualche settimana più tardi, furono ammessi all’École Polytechnique di Parigi. C’è da dire che allora si poteva essere ammessi alla prestigiosa istituzione con un programma che comprendeva “aritmetica, geometria, trigonometria, algebra e sezioni coniche” e non il calculus

Per presentarsi all’esame d’ammissione all’École Polytechnique, Henri Beyle lascia Grenoble, la famiglia, la Scuola Centrale dell’Isére e il suo mondo. Suo padre lo saluta piangendo: “la sola impressione che mi fecero le sue lacrime, fu che lo trovai molto brutto”. Giunge a Parigi nel novembre 1799, appena dopo il 18 brumaio in cui Napoleone aveva preso il potere con un colpo di stato e si era fatto nominare Primo Console.


Ma i grandi cambiamenti avvengono anche nella testa del giovane.
“Al mio arrivo a Parigi due grandi oggetti di desideri duraturi e intensi caddero di colpo nel nulla. Avevo adorato Parigi e la matematica. Parigi senza montagne mi ispirò un disgusto così profondo che arrivava quasi alla nostalgia. La matematica era per me come lo scheletro di un falò ormai spento […] Li detestavo persino un po’, nel novembre 1799, perché li temevo. Ero deciso a non sostenere l’esame […] 
Improvvisamente nostalgico della piccola Grenoble, disilluso sul suo futuro come matematico, per due o tre settimane si sente sospeso sul vuoto, si ammala. Beyle si riprende grazie all'intervento provvidenziale di un cugino benestante e influente: Pierre Daru, il quale si adopera per fargli ottenere un impiego al ministero della guerra, dandogli modo di partire per l'Italia a seguito dell'esercito napoleonico di riserva. Ma anche questa sistemazione non sarà definitiva: diventerà uno scrittore e, dal 1814, si farà chiamare Stendhal.