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giovedì 25 agosto 2022

I Canti di Bilitis


Pochi corpi letterari esercitano un potere quasi trascendente come quello di Saffo, aforista e poetessa di Lesbo. Nel 1894, un poeta e scrittore francese affermò di aver scoperto l'equivalente poetico di Saffo in versi incisi all'interno di una tomba cipriota da una cortigiana di nome Bilitis. La stragrande maggioranza dell'eredità classica dell'Occidente è andata perduta a causa del fuoco, del decadimento, dell’incuria e della semplice sfortuna. Eppure, Pierre Louÿs (1870 – 1925) affermava di aver tradotto un centinaio di poesie di Bilitis. Già poeta d'avanguardia molto rispettato, Louÿs usò Les chansons de Bilitis come un'opportunità per esplorare temi erotici che erano in gran parte proibiti nella società di fine secolo (anche quando Rimbaud, Verlaine e Baudelaire iniziarono a percorrere un terreno simile). Louÿs utilizzò questo personaggio per affrontare temi come il lesbismo e la prostituzione. La poetessa scriveva: “Mi schiaccia così forte che mi spezzerò, piccola creatura fragile che so di essere; ma una volta che è in me nient'altro esiste, e potrei farmi tagliare le quattro membra senza svegliarmi dalla mia estasi”. I Canti di Bilitis, una delle migliori bufale letterarie della Francia di fine Ottocento, sarebbero diventati un classico nella cultura bohémienne, e il libro è passato come una sorta di samizdat erotico nella cultura underground per tutto il XX secolo. Bilitis fu una creazione della mente di Louÿs, ma il "suo" verso era puro. 

Quando Les Chansons de Bilitis apparve per la prima volta nelle librerie nel dicembre 1894, furono presentate come traduzioni fedeli fatte da 'P. L.’ di poesie greche finora sconosciute rinvenute sulle pareti di una tomba del VI secolo a.C., recentemente scoperta a Cipro. L’autrice fu chiamata Bilitis, una giovane donna nata da padre greco e madre fenicia, contemporanea e conoscente di Saffo. Il volume è suddiviso in tre sezioni principali che narrano dapprima la giovinezza e l'adolescenza di Bilitis nella Panfilia rurale, sulla costa meridionale dell'odierna Turchia, e il suo amore per il giovane Lykas, con il quale ha una figlia che abbandonerà; poi la sua prima età adulta a Mitilene, la capitale dell'isola di Lesbo, dove ha una relazione appassionata con una giovane compagna, Mnasidika, che "sposa" ma che alla fine la tradirà; e infine i suoi ultimi anni a Cipro, dove diventa prostituta sacra e infine conduce una vita di licenza sessuale e baldoria dionisiaca. Tre epitaffi, che si dice decorino il suo sarcofago, concludono la sua storia. 

Ad accompagnare le novantatré poesie (le pagine dei contenuti elencano un centinaio di titoli, ma sette sono indicate come "non tradotte") c'è un'introduzione, sempre di "P. L.’, che propone una breve biografia della poetessa e racconta la storia della scoperta della sua tomba da parte di un eminente archeologo tedesco, il professor G. Heim. Una breve nota di chiusura fa riferimento al tomo originale dell’accademico sulle poesie, presumibilmente pubblicato a Lipsia nel 1894, e alla sua ambizione di fornire un "atlante" di tutti gli oggetti trovati nella tomba di Bilitis, poi esposti in un museo a Larnaka. 

La poesia di apertura di questa prima edizione, La Rivière dans la forêt (Il fiume nella foresta), introduce l'atmosfera erotica che pervade la raccolta: 
“Je me suis baignée seule dans la rivière de la forêt. Sans doute je faisais peur aux naïades, car je les devinais à peine et de très loin, sous l'eau obscure. 

Je les ai applées. Pour leur ressembler tout à fait, j'ai tressé derrière ma nuque des iris noirs comme mes cheveux, avec des grappes de giroflées jaunes. 

D'une longue herbe flottante, je me suis fait une ceinture verte, et pour la voir je pressais mes seins en penchant un peu la tête. 

Et j'appelais: «Naïades! naïade! jouez avec moi, soyez bonnes.» Mais les naïades sont transparentes, et peut-être, sans le savoir, j'ai caressé leurs bras légers”. 

Ho fatto il bagno da sola nel fiume della foresta. Devo aver spaventato le Naiadi perché riuscivo a malapena a vederle, lontano nell'acqua scura. 

Le ho chiamate. Per assomigliar loro, ho intrecciato degli iris neri come i miei capelli, intorno al collo, con grappoli di fiori gialli. 

Con una lunga erbaccia galleggiante, mi sono fatta una cintura verde, e per vederla ho stretto i seni e ho piegato un po' la testa. 

E ho chiamato: 'Naiadi! Naiadi! giocate con me, siate buone. Ma le Naiadi sono trasparenti e forse, senza accorgermene, ho accarezzato le loro morbide braccia. 
La mistificazione continuò quando una seconda edizione di Les Chansons fu pubblicata nel 1898, ora con il nome di Louÿs ma ancora "traduites du grec". Molte delle poesie erano state sostanzialmente riviste e il volume era ora ampliato a 146 poesie con altri dodici titoli "non tradotti". Questa edizione, la cui prima poesia era diventata L'arbre, divenne la base del testo che conosciamo oggi. 
“Je me suis dévêtue pour monter à un arbre; mes cuisses nues embrassaient l'écorce lisse et humide; mes sandales marchaient sur les branches. 

Tout en haut, mais encore sous les feuilles et à l'ombre de la chaleur, je me suis mise à cheval sur une fourche écartée en balançant mes pieds dans le vide. 

Il avait plu. Des gouttes d'eau tombaient et coulaient sur ma peau. Mes mains étaient tachées de mousse, et mes orteils étaient rouges, à cause des fleurs écrasées. 

Je sentais le bel arbre vivre quand le vent passait au travers; alors je serrais mes jambes davantage et j'appliquais mes lèvres ouvertes sur la nuque chevelue d'un rameau”. 

Mi sono svestita per salire su un albero; le mie cosce nude abbracciavano la scorza liscia e umida; i miei sandali procedevano sui rami. 

Sulla cima, ma ancora sotto le foglie e all’ombra del calore, mi sono messa a cavallo su una forcella isolata bilanciando i miei piedi nel vuoto. 

C’era altro. Delle gocce d’acqua cadevano e colavano sulla mia pelle. Le mie mani erano macchiate di muschio, e le mie dita dei piedi erano rosse, a causa dei fiori schiacciati. 

Sentivo un bell’albero vivere quando il vento passava attraverso; allora chiusi ancor più le mie gambe e appoggiai le mie labbra aperte sulla nuca chiomata di un ramoscello. 
La malizia editoriale di Louys generò alcune divertenti reazioni accademiche che coinvolsero studiosi che affermavano una precedente conoscenza degli originali greci, suggerivano varianti ai testi di Louÿs o addirittura producevano nuove traduzioni, come fece la scrittrice Jean Bertheroy, senza rendersi conto che erano false. È difficile sapere se tutti questi interventi fossero seri o se, in alcuni casi, le persone stavano semplicemente giocando con lo scherzo. Chi conosce il tedesco potrebbe aver individuato un indizio nel nome del dotto professore: G. Heim = geheim = segreto. Questi interventi hanno, tuttavia, contribuito alla leggenda che circonda la raccolta. 

Louÿs è una figura controversa per la sensibilità moderna. Donnaiolo incallito, dandy, si sentiva molto a suo agio in compagnia di prostitute e, quando si stancò della sua amante algerina Zohra ben Brahim, la consegnò brutalmente a una vita di povertà e prostituzione. Contrario a Dreyfus, aveva sempre sostenuto che l’ufficiale ebreo era colpevole e che l'Affaire aveva indebolito gravemente la Francia. Di carattere difficile, riuscì a litigare con molti dei suoi contemporanei, tra cui in particolare André Gide e Claude Debussy. Da spendaccione, costantemente a corto di soldi, faceva affidamento sul fratello maggiore Georges (un eminente diplomatico) per finanziare il suo stile di vita. E morì da cocainomane chiuso in casa, nel 1925, all'età di 54 anni. 

Les Chansons mostrano molte e suggestive immagini. Accesero l'immaginazione erotica di numerosi artisti, tra cui George Barbier e l'ungherese Willy Pogany, le cui figure senza veli illustrano le prime traduzioni in inglese del romanziere e sceneggiatore Alvah C. Bessie. La raccolta contiene descrizioni di incontri eterosessuali e lesbici, come Les Prêtresses de l'Astarté (Le sacerdotesse di Astarte), che raffigura feste al chiaro di luna in onore della dea mediorientale della guerra e dell'amore sessuale. 
“Les prêtresses de l’Astarté font l’amour au lever de la lune; puis elles se relèvent et se baignent dans un bassin vaste aux margelles d’argent. 

De leurs doigts recourbés, elles peignent leurs chevelures, et leurs mains teintes de pourpre, mêlées à leurs boucles noires, semblent des branches de corail dans une mer sombre et flottante. 

Elles ne s’épilent jamais, pour que le triangle de la déesse marque leur ventre comme un temple; mais elles se teignent au pinceau et se parfument profondément. 

Les prêtresses de l’Astarté font l’amour au coucher de la lune; puis dans une salle de tapis où brûle une haute lampe d’or, elles se couchent au hasard”. 

Le sacerdotesse di Astarte fanno l'amore al sorgere della luna; poi si alzano e si bagnano in una grande piscina dal bordo d'argento. 

Con le loro dita curve si pettinano le trecce, e le loro mani color porpora, intrecciate nei loro ricci neri, sembrano rami di corallo in un mare scuro e mutevole. 

Non si depilano mai, in modo che il triangolo della dea segni il loro ventre come un tempio; ma si tingono con un pennello e si profumano pesantemente. 

Le sacerdotesse di Astarte fanno l'amore al tramonto della luna; poi in una stanza tappezzata dove arde un'alta lampada dorata, si sdraiano al caso. 
Perché allora Les Chansons è rimasto in stampa in edizioni rispettabili e cosa li distingue da altre opere erotiche a lungo dimenticate dell'epoca? Un fattore potrebbe essere l'erudizione alla base del libro. Se i dotti professori hanno davvero risposto seriamente alle poesie di Bilitis, non deve essere stata una sorpresa, dal momento che all'inizio dei vent'anni Louÿs stava sviluppando una buona reputazione sia come scrittore che come studioso dilettante impegnato, anche se spinoso e controverso, del mondo ellenico, con una particolare attenzione all'influenza greca nel Vicino Oriente: la decadente Alessandria piuttosto che la classica Atene. Prima che Les Chansons apparisse alla fine del 1894, Louÿs aveva già intrapreso traduzioni del poeta greco del I secolo a.C. Meleagro, originario dell'attuale Giordania, così come dei Dialoghi delle cortigiane di Luciano, nato intorno al 120 d.C. nella Siria romana. Un primo volume della poesia di Louÿs, Astarté, fu pubblicato nell'aprile 1892. Quattro anni dopo, il suo romanzo Afrodite, storia della cortigiana Chrysis ambientata nell'antica Alessandria, divenne un best-seller.


L’erudizione di Louys si fondava su una biblioteca in continua crescita di libri rari e manoscritti, che contava più di 20.000 titoli entro il 1914. In effetti, per tutta la vita, Louÿs avrebbe fornito indizi di essere un accademico frustrato, come si evince dai cataloghi ossessivi e quasi scientifici e le classificazioni delle pratiche sessuali trovate nelle sue carte e nella sua vasta collezione di testi e fotografie erotiche, fino agli articoli che iniziò a pubblicare nel 1919, quando dimostrò che alcune delle opere di Molière erano state in realtà scritte da Corneille. Inizialmente Louÿs aveva inteso corredare le poesie nella sua prima edizione di Les Chansons con un'ampia serie di note filologiche, sotto il proprio nome o quello di G. Heim. Mentre questa idea fu abbandonata, la conoscenza dettagliata di Louÿs della cultura greca del Vicino Oriente contribuì a infondere nelle poesie un vivido - e, per molti lettori contemporanei, del tutto credibile - ritratto di questo mondo perduto. 

Il successo duraturo di Les Chansons deve più, tuttavia, alle loro qualità poetiche e artistiche, che furono immediatamente apprezzate da influenti contemporanei come Jules Renard e Maurice Maeterlinck. Henri de Régnier fu catapultato in “trasporti erotici”, mentre Mallarmé dichiarò la collezione “une merveille”. Le poesie possono creare un'impressione di ingenuità e fluidità melliflua, ma Louÿs disse a suo fratello Georges che la prima edizione aveva richiesto otto mesi di lavoro intenso e duemila pagine di bozze. La seconda edizione, molto rivista e ampliata, avrebbe scritto in seguito, aveva chiesto quattro anni di duro lavoro. Le carte dell'autore includono un diario che specifica quando ogni canzone è stata composta, nonché ampie note preparatorie, compresi degli elenchi di termini con le voci "non utilizzato", "da ripetere" e "da evitare". Nulla fu lasciato al caso. 

La struttura tripartita della collezione permise a Louÿs di plasmare un avvincente arco narrativo in cui il lettore segue Bilitis dall'innocenza giovanile e dal primo amore, attraverso un'appassionata esplorazione dei sensi, fino a una maturità caratterizzata in definitiva da una malinconia stanca del mondo. I tre epitaffi forniscono una tenera coda al suo viaggio. Imitando iscrizioni simili su lapidi classiche, i paragrafi conclusivi del terzo epitaffio recitavano: 
“Ne me pleure pas, toi qui t’arrêtes : on m’a fait de belles funérailles ; les pleureuses se sont arraché les joues ; on a couché dans ma tombe mes miroirs et mes colliers. 

Et maintenant, sur les pâles prairies d’asphodèles, je me promène, ombre impalpable, et le souvenir de ma vie terrestre est la joie de ma vie souterraine”. 
Non piangete per me, voi che vi fermate qui: mi è stato dato un bel funerale; le persone in lutto si strapparono le guance; i miei specchi e le mie collane furono posti nella mia tomba. 

E ora cammino sui pallidi prati di asfodelo, ombra impalpabile, e i ricordi della mia vita terrena sono la gioia della mia vita negli inferi. 
All'interno di questa narrazione, Louÿs riesce a rimanere dalla parte della prudenza, evitando il linguaggio e le immagini molto espliciti delle sue altre poesie erotiche e delle canzoni "segrete" di Bilitis, che furono pubblicate solo dopo la sua morte. Anche la scelta della prosa ritmica in una forma di quattro paragrafi che suggeriva un sonetto non era casuale. Le poesie di Bilitis suscitarono un interesse contemporaneo per il poema in prosa, incoraggiato dal lavoro di Baudelaire, Rimbaud e Mallarmé. L'uso della prosa rifletteva la convinzione di Louÿs nella suo intrinseco valore e la sua difficoltà. Già nel 1889 aveva scritto a Léon Blum che la prosa a cui aspirava sarebbe stata "rythmée comme la poësie". Altrove scrisse "Prima della mia prima pagina di prosa, ho sentito che ci volevano sette anni di formazione in poesia per avere un senso del ritmo, altrimenti la prosa non è niente”

Les Chansons colpirono chiaramente molti lettori: Henri de Régnier scrisse a Louÿs che la Principessa de Polignac (Winnaretta Singer) e le sue amiche erano diventate piuttosto emotive quando parlavano dell'amante di Bilitis, Mnasidika. Si potrebbero liquidare tali reazioni come sentimentalmente pruriginose, ma ciò significherebbe ignorare l'elemento forte dell'esperienza vissuta nel libro. Gide, ad esempio, vide nel ritratto di Bilitis l'influenza dei viaggi di Louÿs in Algeria nell'estate del 1894 e il suo incontro con una giovane prostituta. La travolgente disperazione e gelosia di Bilitis quando viene abbandonata da Mnasidika è un ritratto convincente di un amante respinto. 

Lo stesso Louÿs riteneva che Les Chansons fossero particolarmente originali sotto due aspetti correlati. In primo luogo, nella loro rappresentazione onesta del sesso, che andava oltre la morale cristiana contemporanea fino al disinibito mondo antico. Come scrisse in una lettera al fratello “'la question pudeur n'est jamais posée”. In secondo luogo, l'accettazione dell'amore lesbico come qualcosa di naturale e puro nella parte centrale dell'opera. Nella stessa lettera, Louÿs affermava che le lesbiche erano state descritte in precedenti opere letterarie come femmes fatales o degenerate. Le poesie di Bilitis furono la prima volta "qu'on écrit une idylle (il corsivo è suo) sur ce sujet-là" ("che un idillio è stato scritto su questo argomento"). La poesia Le Passé qui survit ("l passato che vive) descrive le emozioni appassionate generate dalla prima notte di nozze di Bilitis e Mnasidika: 
“Je laisserai le lit comme elle l’a laissé, défait et rompu, les draps mêlés, afin que la forme de son corps reste empreinte à côté du mien. 

Jusqu’à demain je n’irai pas au bain, je ne porterai pas de vêtements et je ne peignerai pas mes cheveux, de peur d’effacer les caresses. 

Ce matin, je ne mangerai pas, ni ce soir, et sur mes lèvres je ne mettrai ni rouge ni poudre, afin que son baiser demeure. 

Je laisserai les volets clos et je n’ouvrirai pas la porte, de peur que le souvenir resté ne s’en aille avec le vent.” 

Lascerò il letto come lei lo ha lasciato, disfatto e sgualcito, le lenzuola aggrovigliate, in modo che la forma del suo corpo rimanga impressa accanto al mio. 

Non andrò ai bagni fino a domani, né indosserò alcun vestito, né mi pettinerò i capelli, per paura di cancellare le sue carezze. 

Stamattina non mangerò, né stasera, e non metterò né rossetto né cipria sulle labbra, perché il suo bacio rimanga con me. 

Lascerò le persiane chiuse e non aprirò la porta, per paura che il ricordo persistente della nostra notte svanisca con il vento. 

Allo stesso tempo, prendendo spunto dai Dialoghi di Luciano, Louÿs mostra poche illusioni sull'esperienza reale delle prostitute e esprime grande simpatia per loro. Mentre ci sono brevi periodi di gioia e cameratismo nella terza sezione principale del libro, ci sono anche descrizioni di noia, malinconia, la manipolazione cinica dei clienti (che sono salutati come un Adone, Ares o Ercole qualunque siano le loro fattezze), la prostituzione dei bambini, la caduta delle donne di mezza età nella povertà quando perdono la loro bellezza e l'onnipresente minaccia di violenza che crea bisogno di protettori. 

Le poesie ebbero una fruttuosa vita culturale. Rodin, per esempio, realizzò dei bei disegni ispirati a Les Chansons de Bilitis e disse che dopo averli lette, c'era un po' di Louÿs in tutto ciò che faceva. L'amicizia di dodici anni di Debussy con lo scrittore, che fece da testimone al matrimonio del compositore nel 1899 con Lily Texier, con l'interruzione dei rapporti solo dopo il tentato suicidio di Lily nel 1904, portò alle sue Trois Chansons de Bilitis (La flûte de Pan, La chevelure e Le tombeau des Naïades), canzoni per voce femminile e pianoforte che sono una parte molto amata del suo repertorio. Il compositore tornò alla collezione in modo più elaborato nel 1900, creando Musique de scène pour les chansons de Bilitis (noto anche come Chansons de Bilitis) per la recitazione di dodici poesie di Louÿs. Questi brani sono stati scritti per due flauti, due arpe e celesta. Secondo fonti contemporanee, la recitazione e la musica erano accompagnate da tableaux vivants. A quanto pare si è svolta una sola rappresentazione privata dell'intera creazione, a Venezia. Debussy non pubblicò la partitura, ma in seguito adattò sei delle dodici composizioni per pianoforte con il titolo Six Epigraphes Antiques nel 1914. 

Forse la storia più curiosa, tuttavia, è quella della fondazione delle Figlie di Bilitis a San Francisco nel 1955, la prima organizzazione lesbica per i diritti civili e politici negli Stati Uniti. Durante i suoi quattordici anni di esistenza, le Figlie tennero convegni, pubblicarono una rivista mensile The Ladder e organizzarono altre attività educative, oltre a premiare uomini che simpatizzavano per la loro causa. Alla domanda sul nome del gruppo, si dice che due delle fondatrici abbiano commentato: "Se qualcuno ce lo chiedesse, potremmo sempre dire che apparteniamo a un club di poesia"

Il film francese del 1977 Bilitis , diretto dal fotografo David Hamilton e interpretato da Patti D'Arbanville e Mona Kristensen, era basato sul libro di Louÿs, come indicato nei titoli di testa. Riguarda una ragazza del ventesimo secolo e il suo risveglio sessuale. Era segnato da un erotismo un po’ patinato, ma la rivista britannica Time Out affermò che "sorprendentemente, sopravvive un forte accenno dello spirito erotico di Louys, trasmesso principalmente attraverso il modo di recitare efficace e l'equilibrio dei due personaggi principali". La bella colonna sonora di Francis Lai contribuì al successo della pellicola.


sabato 20 agosto 2022

L’impostura Marc Ronceraille

 


La prestigiosa collana Ėcrivains de Toujours delle Éditions du Seuil, che aveva pubblicato dal 1951 una serie di monografie su numerosi poeti e scrittori francesi e stranieri, dedicò il suo centesimo numero, quello del primo aprile 1978, a uno scrittore mai esistito, Marc Ronceraille. 

Il volume si apriva con una piccola rassegna stampa tratta da quotidiani non precisati, nella quale si potevano trovare articoli come questo, datato 19 aprile 1973 
“Il giovane scrittore Marc Ronceraille è morto ieri sul massiccio del Monte Bianco. Esperto alpinista, era partito da solo per una lunga ascesa. Il suo corpo è stato trovato intorno alle tre, ai piedi di una ripida parete. Le cause dell'incidente sono sconosciute ed è probabile che, in assenza di testimoni, saranno difficili da stabilire. Marc Ronceraille, che aveva esordito in modo straordinario con il suo romanzo "l'Architaupe" (con quattro segnalazioni al premio Goncourt), aveva trentadue anni”. 
Secondo la biografia che compare nel volume, Marc Ronceraille era nato nel gennaio 1941 nel piccolo comune di Saint-Jean-d’Angèly, nel dipartimento della Charente-Maritime. Divenne prima celebre con lo sport. Campione di Francia nel 1959 degli 800 metri, fece parte della squadra francese ai giochi olimpici di Roma nel 1960, dove giunse ai quarti di finale. Dopo gli studi di diritto e sociologia, entrò a 22 anni come redattore creativo all’Agenzia Polypublicité, di cui fu nominato direttore artistico nel 1966, lo stesso anno in cui pubblicò la sua prima raccolta di versi, Sol mémorable (Suolo memorabile). Il romanzo l’Architaupe (L’Arcitalpa) uscì nel 1969 e gli valse quattro segnalazioni al premio Goncourt ed ebbe l’apprezzabile tiratura di trentamila copie. Scrisse poi due altre raccolte di poesie: Runes e L'Imagerie mécanique du professeur Batave (L’immaginario meccanico del professor Batave, 1970). Avrebbe anche composto poesie erotiche. Nel 1971 divenne direttore generale aggiunto dell’Agenzia pubblicitaria Delta, dove curò in particolare il lancio di alcuni modelli di una grande casa automobilistica. Gran conquistatore di femmine, ebbe una lunga relazione con l’attrice Fabienne Corot, conclusa nel 1972, che alimentò le cronache mondane. Poi, dopo un silenzio di due anni, la tragica morte sulle Alpi. 

Il libro, ormai introvabile e che è possibile consultare solo parzialmente sul portale Gallica della Biblioteca Nazionale di Francia, conteneva, oltre alle opere fittizie dell’autore e molte belle fotografie, una serie di contributi coordinati dal critico letterario Claude Bonnefoy (1929-1979), noto per aver pubblicato un libro-intervista con Michel Foucault e le biografie letterarie di Eugene Ionesco, Jean Genet e Samuel Beckett e, particolare significativo, alcuni articoli sulla crisi dell’editoria e sul senso delle biografie degli scrittori in un’epoca dominata dallo strutturalismo che contestava questo tipo di approccio. 

Il saggio introduttivo, di cui presento una sintesi, rende bene la grande raffinatezza di questa impostura letteraria: 

La logique du désordre 
Quoi de la mort, 
sinon que l’os porte trace encore un temps 
et que quelques mots demeurent qu’employa le defunt ? 

La logica del disordine 
Che dire della morte, 
se non che l'osso porta ancora tracce per un po' 
e che restano poche parole che usava il defunto? 

Questi emblematici versi di Suolo memorabile assumono improvvisamente una nuova risonanza con la morte di Marc Ronceraille sull’alta montagna che amava e che lo attraeva come tutte le figure dell'impossibile. La poesia che sembrava universale o improvvisamente astratta diventa particolare, illumina un destino. 

La parola del poeta appare premonitrice. Ora, anche se alcuni testi non sono ancora noti, la sua opera è chiusa. Spezzato in pieno svolgimento, ma chiuso. Le poche parole che Ronceraille ha lasciato sono parole che contano e che, possiamo augurarci, rimarranno. 

Ci si poteva aspettare molto da questo giovane scrittore, e prima di tutto che avrebbe continuato - una volta tolto il silenzio che osservava da quasi tre anni - la sua esplorazione delle profondità del linguaggio e del lato inferiore della ragione. Poeta, romanziere, si era ben presto, senza mai cadere in un formalismo gratuito, posto all'avanguardia della sua generazione. La sua evoluzione, con l’audacia e le apparenti contraddizioni a volte sconcertanti, è in realtà molto coerente. 

Marc Ronceraille aveva venticinque anni quando pubblicò il suo primo libro di poesie: Sol mémorable . In questa raccolta, leggermente eterogenea, si sente ancora, qua e là, l'eco dei grandi antenati - del guinzaglio di Saint-John Perse, della nostalgia ontologica di Pierre Oster o, su un registro completamente diverso, i tentativi di Tzara o Breton per liberare la fantasia e far parlare le parole: 
“Non usciamo. Le cifre battono l'ora. Dita tagliate, strade bloccate, fine di fiumi impassibili. Conigli lascivi, laghi, ciglia e lassativi alla sassifraga. Luci al neon nere dopo la rivolta. Metterai, signora, una sanguisuga sulla tua salpingite [infiammazione delle tube, NdR].”. 
Ma già, se accettiamo questi pochi punti gettati nelle direzioni più opposte e che derivano sia da questo gusto per il gioco, da questa passione per gli estremi che ha poi manifestato anche nella sua vita, sia da un naturale desiderio di appropriarsi delle esperienze e le conquiste della poesia moderna, - le sue poesie, già, portavano il suo segno. In una forma forse meno elaborata, meno nuova che nelle raccolte successive, appare un rifiuto del sentimento poetico (“Affare parziale, mi taglio il cuore, / pungo le case con un'erezione di cilindri d'acciaio”), la sua ossessione per un'identità spezzata (“io l'altro / dentro le orecchie / che respiro? / chi mi vede? / Il mio corpo torna da luoghi che non conosco”), e quelli che si potrebbero chiamare i suoi guai con il tempo e con la memoria. Suolo memorabile, il titolo indica abbastanza quale desiderio di radicamento lo abitasse, quale paura di perdere il contatto con la realtà: la terra della sua infanzia o il suolo della tradizione. 

Anche nei suoi testi più rivoluzionari dove poesia e cultura si denunciano e si consumano ("... parole apprese /, lebbra della lingua / parlo maestro, cane, poliziotto / ..."). Ronceraille manterrà la sua preoccupazione di ritrovare le sue radici, la nostalgia di un punto di ancoraggio, di una verità sepolta e criptabile. Così, a questi limpidi versi di Suolo memorabile

"Chemins creux 
ou, mes empreintes dans les leurs, 
j’apprends de mes ancêtres 
le chant du sabotier". 

Cammini sommersi 
dove, le mie impronte nelle loro, 
imparo dai miei antenati 
la canzone del fabbricante di zoccoli. 

fa eco a questa strofa più ruvida di Rune

"De ces graphics la trace habile met l’ 
ardoise glaireuse et le mur au rang des 
pisseux textes sacres oü l’entremel- 
ement des traits porte message mal codé". 

Di queste grafiche la traccia abile mette 
l’ardesia glaciale e il muro nel rango di 
pisciosi testi sacri dove l'intreccio 
dei tratti trasmette un messaggio mal codificato. 

Che questa fosse una domanda essenziale per lui, lo testimonia il suo unico romanzo. L'Architaupe (L’Arcitalpa), apparso tre anni dopo Suolo memorabile e quasi contemporaneamente a Rune, ha proprio come tema l'ossessione per un sapere svanito, una storia perduta, il desiderio di riconnettersi attraverso questo sapere e questa storia con una cultura ancestrale. Se Martial Régnier, l'eroe del romanzo, si impegna a perquisire il giardino, a scavare la cantina e la dispensa della vecchia fattoria dove si è rifugiato dall'alienante trambusto parigino, non è nella speranza di scoprire un tesoro, ma di appropriarsi di tutti i ricordi di questa terra, di questa casa e, così, diventare un uomo di campagna, erede di una tradizione, un uomo che trova finalmente il suo equilibrio in un tempo e in un luogo. Terapia assurda, tentativo affascinante, in apparenza folle e che porta al delirio, ma che trae origine dal bisogno doloroso di trovare un fondamento, anche nell'aldilà della memoria e nell'attraversamento dell'in-esprimere allo stesso tempo la lacerazione dell'essere. Tutto, poi, nell'abisso, diventa segno: 
"Scavando sempre l’argilla strato dopo strato il Cretaceo Oligocene limo strati palinsesti costruttore su costruttore muratura pietra scolpita pietra erosa oggetti dimenticati vecchi segni geroglifici cruciverba promemoria…” 
Lo scavo di Martial è una ricerca e una lettura del passato e allo stesso tempo si perde nella moltitudine delle tracce. Ma forse questo è lo scopo di ogni ricerca. 

Il tema de L'Architaupe, per la sua stessa ampiezza, non è un tema che i giovani autori di solito affrontano con successo. Fin dall'inizio, tuttavia, in questo primo romanzo, Ronceraille ha rivelato la sua maestria, un'arte sorprendente di minare il reale attraverso l'immaginario e di orchestrare le varie forme romantiche. Certo, il suo modo di giocare con tutti i modi di scrivere, di passare dal tono della narrazione classica ai sussulti di una sintassi esplosa, per quanto abile fosse e tanto giustificata dalle necessità della narrazione, gli valse tante critiche quanto elogi. Ma lungi dall'essere, come insinuava Raymond Loubieres, "una festa delle imitazioni, un faticoso inventario delle moderne stravaganze", la storia di L'Architaupe rappresentava, anche nelle interruzioni del ritmo o nel moltiplicarsi dei punti di vista, le avventure di un personaggio ossessionato dal desiderio di unità e tuttavia condannato all'espropriazione. In verità, la scrittura del romanzo, per le sue stesse metamorfosi, obbediva a quella che si potrebbe chiamare la logica del disordine. 

In Runes e, ancor più, in L'Imagerie mecanique du professeur Batave, la sua ultima raccolta, Ronceraille sviluppa questa logica, non senza qualche eccesso volutamente provocatorio. Tuttavia bisogna vedere cosa si nasconde in questa ricerca e in questi eccessi (che ammettevano tutte le contraddizioni). Ronceraille, così facendo, mette in questione la poesia. Ma si è posto solo il problema di trovare nella dissezione del linguaggio, come l'eroe dell'Architaupe nella terra sventrata, una parola primaria, “matrice, dice, del grido e del canto”. Può anche esprimere allo stesso tempo il disagio dell'essere e l'agonia di una retorica troppo ben detta - quanto rimpianta. 

Tuttavia, anche nelle sue ultime raccolte, Ronceraille, coltivando gli estremi, mantenne la presenza di una voce purissima, di un canto quasi limpido, reso confinante, alternato, scontrandosi tra frasi smontate e immagini ipertrofiche con un dire di una semplicità tutta classica. Questo approccio complesso, a volte ambiguo, che lo ha portato a essere paragonato al Jekyll e Hyde della letteratura, rende difficile assegnare a questo poeta un posto preciso nei movimenti contemporanei. I suoi contributi, reali come sono, non sono stati riconosciuti come tali da alcuni autori d'avanguardia apparentemente molto vicini a lui, ma che gli hanno rimproverato le sue piroette, il suo rifiuto dei dibattiti teorici, che hanno ulteriormente irritato la sua celebrità di atleta o di playboy, le sue chiassose e famose relazioni amorose con una star dello schermo o la sua amicizia con scrittori brillanti e spensierati, indifferenti alle tradizioni messe in discussione, nottambuli come lui.


Per creare Marc Ronceraille e renderlo famoso, Claude Bonnefoy aveva bisogno della complicità di Denis Roche, membro del comitato di lettura di Le Seuil e direttore della collana Écrivains de toujours. Fu anche aiutato da altri noti scrittori e critici. Il suo progetto di scrivere un libro interamente dedicato a Marc Ronceraille fu sostenuto da Paul Flamand, allora direttore di Le Seuil. La burla di Bonnefoy e dei suoi complici aveva solide basi: il prestigio della collana, quello stesso del curatore, l’interesse per gli scrittori morti giovani e, a loro modo, maledetti. Gli indizi che potessero svelarla erano tuttavia evidenti: la data di pubblicazione, il primo di aprile, il fatto che di Ronceraille nessuno degli addetti ai lavori avesse mai sentito parlare, la provata inesistenza dei suoi amici e della sua fidanzata attrice, la mancanza di qualsiasi traccia del passato sportivo. 

Quando uscì il volume, lo scrittore e giornalista Bernard Pivot invitò Claude Bonnefoy alla sua trasmissione Apostrophes su Antenne 2 per presentarlo. Ma, alla fine, svelò l’arcano e il successo riscosso dal libro di Claude Bonnefoy fu subito infranto. Sono state fatte varie ipotesi sui motivi dell’impostura di Bonnefoy, ma nessuno li ha mai chiariti definitivamente. Credo fosse solamente il gusto di un bel pesce d'aprile.

sabato 4 gennaio 2014

Il cinico inganno di Domenico Nizzola


A torto considerato un tardo seguace delle idee e delle poetiche del Gruppo ’63, Domenico Nizzola, morto ieri sera a Parma dopo lunga malattia, ne fu il più accanito critico. Solo recentemente, in una lunga intervista a Maria Clara Bottoni comparsa su “Il Murri”, aveva confessato la sua indifferenza per le tematiche sociali, che aveva trattato per solo cinico gioco letterario, e soprattutto l’insofferenza per il “verso lungo” alla Pagliarani, che aveva trasfigurato il testo poetico fino a trasformarlo in un racconto frammentato e discontinuo. Così, nel dire che le sue opere vere, del tutto sottovalutate dalla critica ancora imbevuta di strutturalismo e di ideologia politica, erano comparse con lo pseudonimo di Giovanni Casella (si tratta delle raccolte di sonetti e ballate Chiesina di campagna, 1975, Inverno dai nonni, 1979, e Dietro il vecchio canterano, 1991, dalle atmosfere decisamente pascoliane e surrealiste), ha sostenuto che la cosiddetta neoavanguardia aveva ridotto la poesia italiana “a un gran circo di sperimentazioni, di acrobati del verso libero e della prosa zoppicante scambiata per poesia, di giocolieri della lotta di classe in salsa poetica”. 

Due anni fa, nel breve saggio Smontare il giocattolo (neoavanguardista) (Chiodini, Pisa, 2012), prendendosi gioco della critica, aveva rinnegato il poema Roberto resiste (1988), che gli aveva dato fama e premi letterari, rivelandone le banali modalità di costruzione, definite “un gioco dalle regole tanto semplici da essere sfuggite agli ingegneri meccanici della critica”. Così iniziava l’opera, con un doppio sonetto alquanto irregolare che aveva fatto innamorare migliaia di lettori sprovveduti e fatto gridare al miracolo più di un critico militante: 

Mi dice lo scrittore che il lavoro è faticoso, e concede, generoso, 
che lavorare seduti al caldo è un bel vantaggio, – che coraggio! – 
ma anche per loro ci sono le giornate nere, un cielo ombroso, 
e che è più affidabile un manufatto, cui rende omaggio, 
di un’opera che non sai, anche se hai scritto appassionatamente, 
se piacerà al lettore, tardiva misura di valore, e che la pagina 
accoglie tollerante ogni delirio e non protesta indifferente 
mentre è più leale l’armatura di miniera, che geme e, immagina, 
scricchiolando se caricata troppo, avverte del crollo rovinoso. 
Non c’è allarme – assicura – nella sua attività, e non si sente 
se il lavoro non è fatto con grazia, se non è armonioso. 
Tutto ciò causa angoscia, l’intellettuale soffre di sovente, 
e si dà al bere, al fumo e non dorme per il nervoso, 
al punto che per il dolore molti muoiono precocemente. 

Roberto ascolta muto, Roberto resiste, ma sale presto di pressione, 
aspetta che lo scrittore abbia finito il suo sfogo, forse sincero, 
per dire che quelli che parlano tanto non sanno la situazione, 
che il nervoso viene a chi lavora, che fa fatica per davvero. 
Provi il lamentoso, un giorno solo, magari per un capriccio, 
a stare tutto solo in cima a un traliccio, e tira forte il vento 
che pare una barchetta dentro la tempesta, e in quell’impiccio 
vede le persone a terra come formiche e vorrebbe per portento 
non aver due mani, ma dieci cento, per reggersi e serrar la vite 
e tenere il disegno e fissare il moschettone della cintura: 
non è certo situazione rilassante. E poi, se anche ci riuscite, 
rifarlo il giorno dopo, e per anni, con la stessa paura, 
sempre che prima non cedete e tra i poveracci finite 
che per incidente misurano quanto la terra è dura. 

Così Nizzola commentava nel primo capitolo del pamphlet: 

«Si trattava di costruire un testo poetico che si rivelasse “sociale e democratico”, come ancora andava di moda, e che allo stesso tempo fosse abbastanza elitario per compiacere la critica, che amava ed ama chi parla del popolo in maniera accessibile solo agli intellettuali. Se poi qualche parte fosse stata incomprensibile e avesse sollevato interpretazioni contrapposte, allora tanto meglio: avrei mantenuto più gente nelle riviste d’avanguardia. (…) 

Mi piaceva un brano de La chiave a stella di Primo Levi, quando il protagonista, alter ego dello scrittore, conversa con il tecnico montatore Faussone sulle differenze e le analogie tra le loro professioni: 

(…) Gli ho risposto che fare confronti è difficile; che tuttavia, avendo fatto anche mestieri simili al suo, gli dovevo dare atto che lavorare stando seduti, al caldo e a livello del pavimento, è un bel vantaggio, ma (…) le giornate balorde capitano anche a noi. Anzi: ci capitano più di sovente, perché è più facile accertarsi se è in “bolla d’aria” una carpenteria metallica che non una pagina scritta; così può capitare che uno scriva con entusiasmo una pagina, o anche un libro intero, e poi si accorga che non va bene e (…) mediti di cambiare mestiere, aria, e pelle; e magari di mettersi a fare il montatore. (…) la carta è un materiale troppo tollerante. Le puoi scrivere sopra qualunque enormità, e non protesta mai: non fa come il legname delle armature nelle gallerie di miniera, che scricchiola quando è sovraccarico e sta per venire il crollo. Nel mestiere di scrivere la strumentazione e i segnali d’allarme sono rudimentali (…) Ma se una pagina non va se ne accorge chi legge, quando ormai è troppo tardi, e allora si mette male (…) 

(…) i nervi degli scrittori tendono a essere deboli: ma è difficile decidere se i nervi si indeboliscono per causa dello scrivere, e della prima accennata mancanza di strumenti sensibili a cui delegare il giudizio sulla qualità della materia scritta, o se invece il mestiere di scrivere attragga preferenzialmente la gente predisposta alla nevrosi. È comunque attestato che diversi scrittori erano nevrastenici (…) e che altri sono addirittura finiti in manicomio (…); parecchi, poi, senza arrivare alla malattia conclamata, vivono male, sono tristi, bevono, fumano, non dormono più e muoiono presto”. 

Tali considerazioni portano Faussone a questa risposta: 

“Il fatto è che di lavorare si parla tanto, ma quelli che ne parlano più forte sono proprio quelli che non hanno mai provato. Secondo me, il fatto dei nervi che saltano, al giorno d’oggi, capita un po’ a tutti (…) A proposito di nervi: non creda mica che quando uno è lassù in cima, da solo, e tira vento, e il traliccio non è ancora controventato e è ballerino come una barchetta, e lei vede a terra le persone come le formiche, e con una mano sta attaccato e con l’altra mena la chiave a stella e le farebbe comodo di avere una mano numero tre per reggere il disegno e magari anche una mano numero quattro per spostare il moschettone della cintura di sicurezza; bene, le stavo dicendo, non creda mica che per i nervi sia una medicina. A dirle la verità, così sui due piedi non le saprei dire di un montatore che è finito in manicomio, ma so di tanti, anche miei amici, che sono venuti malati e hanno dovuto cambiare mestiere”. 

Lo scrittore, ammettendo che nel suo settore le malattie professionali sono poche, concede la vittoria dialettica al suo interlocutore, il quale, non volendo un successo di misura, conclude affermando che “Uno non può mica ammalarsi a forza di scrivere. Tutt’al più, se scrive con la biro, gli può venire un callo qui. E anche per gli infortuni, è meglio lasciar perdere”


Era senza dubbio il brano che serviva per iniziare la mia opera. Con qualche semplice parafrasi lo trasformai, e così divenne famoso, senza che nessuno si accorgesse della mediocre parodia che avevo deliberatamente congegnato, senza che qualche poeta laureato o professore si fosse preso la briga di notare le analogie evidenti con Primo Levi, che era morto suicidandosi l’anno prima e non poteva certo protestare. Il resto del poema, per i rimanenti 392 versi, fu costruito in modo analogo utilizzando brani di altri autori. Era come giocare a Lego usando mattoncini che si chiamano Pratolini, Cassola, Pessoa, Pavese, Zavattini, Guattari, Campanile, Deleuze, Vamba e molti altri. Mi divertii moltissimo». 

L’ultima opera poetica di Nizzola compare a chiusura del saggio di autodenuncia, a voler sancire in modo ironico il cinico e metodico inganno che aveva perpetrato ai danni di gran parte del mondo letterario italiano: 

‘63 + ‘77 = ‘48! 

Colto da ebete straniamento. 
da illusionistica epifania, 
con rizomatico travestimento, 
m’inabissai nella poesia. 
Con Bachtin sul comodino 
e mise en abyme cognitiva, 
gustai Celati con Arbasino, 
e Balestrini appena usciva. 
Fumata Malerba con gli Indiani, 
tergendo un po’ di Sanguineti, 
mi risvegliavo l’indomani 
territorializzando i miei secreti. 
Farsesco nonsenso della vita 
e sbeffeggiante batter d’ali, 
decisi un giorno di farla finita 
con siffatte seghe mentali.



sabato 20 luglio 2013

Prontuario di clinica letteraria

ad uso degli specializzandi in medicina editoriale


La conoscenza delle sindromi letterarie più comuni è un requisito indispensabile per gli operatori clinici impiegati in strutture pubbliche o private per la cura degli scrittori compulsivi o semplicemente inetti, come ad esempio nelle case di tolleranza letteraria. Questo breve articolo è un invito all'istituzione di un prontuario clinico, con alcuni esempi considerati tra i più significativi.

Bulemia (gr. Βουλή): mania degli scrittori di voler dare consigli di scrittura. Lo scrittore bulemico avverte l’irrefrenabile impulso di dare ricette sul bello scrivere in ogni occasione, salvo poi smentirle, rigettarle, in quella successiva, Al di là di epoche, stili, correnti letterarie o biografie personali, si può sostenere che esistono due tipi di scrittori: quelli che danno consigli su come scrivere e quelli che si fanno giustamente i fatti loro. Gli uni sono convinti di poter dire qualsiasi cosa sulla poesia, sul racconto, sul romanzo, e così via, solo perché hanno avuto la fortuna di imbattersi in un editore compiacente. Gli altri invece non sono mai stati pubblicati, forse perché il loro anonimato deriva dall'inesistenza: l’insieme degli scrittori che non danno consigli è infatti da sempre inesorabilmente vuoto.

Colpo dello Strega: improvvisa e dolorosissima mialgia dorsale che colpisce i favoriti di un premio letterario che poi non lo vincono. Anche scrittori apparentemente indifferenti alle glorie editoriali e mondane ne soffrono. Si narra che al Campiello del 1994, all'annuncio della vittoria di Antonio Tabucchi con Sostiene Pereira, ben due finalisti si accasciarono al suolo colpiti da acuti dolori dorsali. Il c. d. s. si cura con il riposo e una dieta a base di letture di scrittori che ottennero soltanto riconoscimenti postumi. Nel 2012 la sconfitta allo Strega di G. C. causò un c. d. s. così forte al punto che si temette potesse smettere di scrivere. Purtroppo invano.

Displagia (lat. plagium): anormale sviluppo stilistico e lessicale in un testo letterario, consistente in genere in una evidente ripetizione, letterale o in parafrasi, di frasi o concetti di altri autori. Se la ripetizione è smaccatamente evidente si è in presenza di una neoplagia. Non sempre la diagnosi di d. è agevole, anche perché c’è chi ritiene che la storia del pensiero sia oramai così lunga che è stato scritto tutto, pertanto i nuovi autori non possono far altro che ripetere l’esistente, magari con le stesse parole. Per questo motivo non necessariamente la d. è indice di dolo: esistono prove accertate di totale identificazione con un autore da parte di un altro autore. Il caso più noto di questo accidente letterario è quello del francese Pierre Menard, che, nel primo dopoguerra, non volle rifare il Don Chisciotte, né adattarlo all’epoca contemporanea, ma volle identificarsi totalmente con Cervantes e riscrivere parola per parola il Don Chisciotte senza peraltro copiarlo.

È stato inoltre rilevato da recenti studi clinici francesi che il fenomeno si può manifestare percorrendo all'inverso la freccia del tempo; si tratta della cosiddetta displagia per anticipazione, nella quale l’autore che ripete un’opera è vissuto o ha operato precedentemente all'autore considerato l’ispiratore.

Un esempio di questo caso è fornito dall'opera di Arnaldo Biserani (1905-1963), che è stato uno dei più grandi poeti e pittori inventati del ‘900. Esponente di spicco dell’avanguardia romagnola, ha per certi versi anticipato le tematiche e gli stili della beat generation e del gruppo ’63, ma impregnati dello spirito solare della sua terra. Questa sua Maiali nell’alba (1952) è stata da alcuni accostata alla nota Urlo di Allen Ginsberg, che è tuttavia di tre anni posteriore:

Sono andato con la macchina nuova 
all'allevamento dei maiali del Donnini 
su fino a Mirandola, e li ho visti. 
Ho visto le bestie migliori 
della mia generazione 
distrutte dalla follia, ingrassate, nude, 
trascinarsi nei recinti negri all'alba 
in cerca di un sollievo astioso, 
un pastone nel truogolo celeste, 
nella dinamo stellata nel meccanismo 
della notte. Con gli occhi vuoti 
sedevano grugnendo nell'oscurità 
chiedendosi il perché e il come 
di una vita vissuta per diventare 
costine e salami, prosciutti e ciccioli, 
per i Biserani come me, angeli 
sterminatori dell’Apocalisse suina. 

In Milano (1959) qualcuno ha visto echi del Pagliarani di La ragazza Carla:

A Milano in un lungo inverno scuro, quando il sole è cosa di Romagna, 
incontro la cassoela untuosa, le puntine, le cotenne, i salamini 
nella verza accogliente come una vagina innamorata; alla sera mi portano
in un ristorante di pesce a Lambrate, nella sera metallica e nebbiosa 
di treni e di tram e gente che si aggira insonnolita e gelida 
e trovo nel menù il rombo di nuovo, e le sue forme regolari 
e schiacciate di pesce geometrico, con la superficie prodotto 
delle diagonali, quattro lati, paralleli due a due, ingobbiti 
dalla pressione dell’acqua, ma io ordino un gran fritto misto, 
che dicono che qui è più fresco che al porto di Rimini, 
può darsi ma non lo sanno fare e sa di bombolone riscaldato, 
allora prendiamo la macchina e andiamo a bere un digestivo 
in centro, dove i camerieri hanno più puzza sotto il naso 
dei clienti ricchi, industriali e negozianti con il gozzo 
da macellaio che ordinano vischi d’annata per loro e le due-tre
puttane che li accompagnano fumando Muratti e Mercedes. 
Usciamo sotto le colonne e la nebbia è sparita, tira aria di neve, 
allora ci congediamo e ci diamo appuntamento per la mostra 
di Fontana l’indomani, e io sono contento, tra i primi fiocchi 
illuminati dai fanali, di tornare al caldo, mettermi in pigiama, 
e sedermi sul water che mi scappa anche da cagare. 

Labirintite s. f. sing. (gr. λαβύρινθος): sindrome letteraria che colpisce gli imitatori scadenti di Jorge Luis Borges. Lo scrittore labirintitico soffre di mancanza di equilibrio, pertanto utilizza uno stile letterario ricco di riferimenti culturali, vagamente arcano, quando non ce n’è assolutamente bisogno. Fa inoltre un eccessivo uso di metafore, quali quella del labirinto o della biblioteca, di frequente derivanti dai concetti della matematica del Novecento. Il labirintitico utilizza concetti arditi per fatti banali, spesso facendo riferimento a testi inesistenti.

Un esempio di scrittore colpito da questa malattia è il parmigiano Secondo Barezzi (1968), indeciso tra il minimalismo delle sue storie e lo stile inutilmente erudito:

“Tra gli intricati scaffali della Ipercoop, nel reparto Frutta e Verdura, con i prodotti esposti con meticoloso ordine su banconi che ricordano una tassellatura universale dell’orticoltura, Paolo Barani indossò il guanto di plastica trasparente e prese in mano una cipolla. Ricordò che nella Biblioteca Universitaria di Bologna esiste una copia dell’Erbarium Alchemicum del Sangalli su cui, di fianco a una rappresentazione a colori del comune bulbo, una mano coeva scrisse che gli strati della cipolla sono indefiniti e tuttavia non infiniti. Vide la propria immagine riflessa nella parete a specchio, aborrendola come la propria paternità recente. Prese un mazzo di cipolle, lo infilò nel sacchetto e lo pesò sulla bilancia. Schiacciò poi il tasto corrispondente al prodotto, come aveva fatto migliaia di volte nell’interminabile Conad della lontana e ineffabile Fidenza. Appiccicò l’etichetta sul sacchetto, lo ripose nel carrello, le cui ruote disegnavano con il movimento immaginarie e dolorose cicloidi. Passò nel reparto Salumeria e si sentì come Martin Fierro ai confini dell’Uruguay”.

Logotomia, s. f. sing (gr. λόγος e τομή): intervento editoriale d’urgenza per salvare ciò che si può dell’opera letteraria di autori eccessivamente verbosi e barocchi. La l. consiste nell'eliminazione di parole, incisi, frasi, periodi, capitoli considerati non necessari o dannosi, la cui presenza è considerata alla stregua di un arto cancrenoso. Si consideri ad esempio il seguente brano:

“Ci sono luoghi in Campania che sono un buco nero. Sì, un buco nero che attira tutto a sé e non restituisce niente. Tutto, nel buco nero, viene attratto e non esce più: danaro, energie, speranze, illusioni, intelligenza, amore. E questo buco nero in cui finiscono danaro, energie, speranze, illusioni, intelligenza e amore si chiama Camorra. La Camorra è il buco nero della Campania, un oggetto che chiude, che imprigiona, e quindi non è aperto, non libera. Girando vorticosamente su stesso, il buco nero che si chiama Camorra è la maledizione della Campania. Terribile. Insaziabile. La Camorra è terribile, insaziabile, un buco nero nel cuore della Campania.” 

Un intervento di logotomia leggera porterebbe al seguente risultato: “Ci sono luoghi in Campania che sono un buco nero che attira tutto a sé e non restituisce niente. Tutto, nel buco nero, viene attratto e non esce più: danaro, energie, speranze, illusioni, intelligenza, amore. E questo buco nero si chiama Camorra. La Camorra è un oggetto che chiude, che imprigiona. Girando vorticosamente su stesso, il buco nero è la maledizione della Campania. Terribile. Insaziabile. un buco nero nel cuore della Campania.”

Un editore più severo, o più pietoso, attuerebbe questo ulteriore intervento logotomico: “Ci sono luoghi in Campania che sono un buco nero che attira tutto a sé: danaro, energie, speranze, illusioni, intelligenza, amore. E questo buco nero si chiama Camorra. Terribile. Insaziabile.” .

Omeropatia, s. f. sing. (gr. ‘Ομηρος e πάθος): teoria letteraria secondo la quale è sufficiente inserire una parola tratta dall'Iliade o dall'Odissea per fare di un testo qualsiasi un’opera degna di essere letta. Se, ad esempio, si inserisce ίππος (cavallo) ogni diecimila parole scritte da Baricco, si dirà che il racconto è una preparazione omeropatica di grado 4 applicata a Baricco, dove la cifra indica l’esponente negativo della diluizione della parola omerica (1/10.000 = 10−4). I sostenitori dell’omeropatia pensano che la parola omerica inserita sia in grado di modificare il campo testuale, trasferendo ad esso le sue proprietà vibrazionali benefiche. Per alcuni autori sono necessarie elevate concentrazioni di parole omeriche, per cui il testo rischia di contenerne troppe, rendendolo poco agevole la lettura. Gli omeropati considerano indispensabili diluizioni 2 o 3 (1/100 o 1/1.000) per autori come Tamaro o Faletti.


mercoledì 26 giugno 2013

Piccola antologia dei poeti inesistenti (15): Pio Né

La vita di Pio Né è stata estremamente breve. Di lui si sa che nacque a Viù nel 1950 e morì a Bra nel 1977. Poeta della sintesi, era giunto a concezioni estetiche radicali meditando sulla sillaba primordiale Aum dopo un breve soggiorno in India. Si era poi avvicinato all'estrema sinistra, militando in AO. La sua unica raccolta, intitolata Po, venne rifiutata da tutti gli editori ai quali si era rivolto. Sentendosi incompreso persino dai suoi compagni di militanza (le sue poesie Mao e Che non erano state accettate dal Quotidiano dei Lavoratori), cadde in una profonda depressione dalla quale non si risollevò più. 

La critica, anche quella politicamente non schierata, ha rivalutato recentemente l’opera di Pio Né, particolarmente dopo la pubblicazione di Po da parte della casa editrice Ut. Ardito sperimentatore linguistico, il poeta faceva uso esclusivamente di monosillabi, convinto che le parole più lunghe siano una “sovrastruttura dei sentimenti”, frutto di un “imperialismo linguistico della quantità”. Coerentemente, colpito dalla morte in una sparatoria di un brigatista, gli dedicò, pur non condividendo la scelta della lotta armata, questi versi pieni di rispetto nei quali Ugo Re (Poeti essenziali degli anni ‘70, Ka, Rho, 2010) ha intravisto l’eco del Carducci di Pianto antico

Oh! 
Tu vai giù, 
via dal sol, 
tu non più, 
sei or là: 
a che pro? 

Poeta dalla forte identità politica, Pio Né non rinunciava a cantare anche le piccole cose della vita, come in questa delicata poesia d’amore: 

Tu 
In me 
con te 
c’è il re. 
Il sé, 
si sa, 
sta per es, 
ma l’io, l’io, 
è più in. 
Se son giù 
ci sei tu, 
e io lo so: 
sì, ti ho. 


Proprio in Po, la poesia che dà il titolo alla raccolta, sono riscontrabili forti sintomi del male di vivere che lo aveva colpito. Dedicata all'industrializzazione di Torino e al dramma dell’immigrazione dal meridione, l’opera vede nel fiume inquinato la metafora della crisi della società italiana. Il lessico essenziale dell’inizio si trasforma in una serie di timbri stranieri, quasi che il flusso di coscienza del poeta porti il suo linguaggio a immergersi nell'elemento idrico fino a perdersi nella glossolalia: 

Po 
Che ne è 
del Po? 
E di me? 
Lui va, 
non più blu 
a est, chi lo sa. 

E chi è 
del sud, 
ora in blu 
sa che più 
non va giù: 
ei fu. 

Lui con me, 
nel Po, 
che non è 
più il Po. 
No! Don’t stop, 
Po, flow! 

Je suis, 
là–bas 
dans l’eau, 
dans l’eau 
que n’est pas 
bleu, plus. 

Je suis mort, 
en toi, Pô, 
in der Tot, 
Pol Pot. 
Più può 
Pio Né. 

Pio Né si tolse la vita nella casa di un’amica, lasciando un biglietto con scritta la sola parola Boh. Il suo funerale a Torino fu teatro di scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, come di rito.

venerdì 22 marzo 2013

Arnaldo Biserani poeta

Il 19 marzo 1963 moriva tragicamente il pittore e poeta Arnaldo Biserani (1905-1963). Di lui ci rimane solo una fotografia che lo ritrae intorno al 1955, schietto rappresentante della gente di Romagna. La sua fama di pittore, e la complessità della sua opera che copre trent’anni di storia dell’arte contemporanea italiana, ha purtroppo messo in secondo piano il Biserani poeta, che non è azzardato definire una delle figure più complesse e significative del periodo. Nel cinquantenario della morte è doveroso ripercorrere il suo cammino perché anche il grande pubblico incontri e apprezzi la sua perizia letteraria. 

L’uomo Biserani, così come lo ricordano la sorella Adua e gli amici, era dotato di un carattere gioviale ed estroverso, nel quale ogni tanto emergevano momenti di vero e proprio spleen, soprattutto se alle dodici e mezza non era ancora pronto in tavola. Sin da piccolo amava gli scherzi, che poi commentava con la sua grassa, inconfondibile, risata. Ciò non gli impedì mai di essere un curioso e accanito divoratore di libri, soprattutto di poesia, ma anche romanzi e saggi letterari. Giunse ad accumulare più di trenta libri, che furono donati dagli eredi alla biblioteca di Porto Corsini, dove gli studiosi possono consultarli. 

Alla fine degli anni ’20 si accostò alla poesia, stimolato dalla lettura di Ungaretti. Il suo ermetismo non è tuttavia disperato, ma impregnato dello spirito solare della sua terra. Scriveva in dialetto e in italiano, in rima o con verso libero, secondo l’estro del momento e in funzione di ciò che aveva mangiato. La sua prima poesia, Pulpàtta (Polpetta), fu pubblicata nel 1930 sulla rivista letteraria “Parnaso ravennate”. Ecco una traduzione in italiano, che rende solo in parte l’intima musicalità del vernacolo e le insondabili geometrie lessicali di quest’opera impregnata di misticismo: 

Patata, aglio, prezzemolo, uova,
l’uomo ha tanti ingredienti 
di cui non si rende conto, 
e pensa come una polpetta 
che loda la propria polpettità 
ignorando le mani che la fecero. 

Più mature e tuttavia più semplici le poesie contenute nella raccolta Sardine impanate fritte alla fermata del treno (1937), nella quale l’alternarsi dei codici linguistici riflette gli stati d’animo dell’autore, sempre attento agli atti semplici della vita quotidiana, soprattutto in cucina. Rileggiamo da questa raccolta un’opera che, più di altre, riflette il carattere libero dell’autore, capace di esprimere un amore universale in controtendenza con le incombenti leggi razziali. Si intitola I funghi.

Figli del bosco e dell’acqua, 
i funghi sono detestati dai vegetali, 
perché non lavorano 
e vivono a spese degli altri. 
I funghi sono gitani, 
arrivano improvvisi 
e improvvisi spariscono, 
con note di violino. 
Tanti funghi sono delinquenti, 
velenosi, allucinogeni, osceni, 
possono uccidere, possono fare impazzire. 
Ma quelli buoni sono buoni, 
c’è scritto anche nel nome, 
e se sposano il riso 
si coprono di un manto 
di burro e prezzemolo. 


Biserani torna un’ultima volta alla poesia nella seconda metà degli anni Cinquanta, pubblicando infine Cicciolata (1962) qualche mese prima della sua morte prematura. Si tratta di uno smilzo volumetto di una trentina di opere, vero e proprio testamento spirituale, che anticipa molte delle correnti letterarie della fine del secolo, dal Gruppo ’63 alla beat generation. Le sue tematiche si aprono alla questione sociale, gli stili si fanno più incisivi, le tecniche compositive più sperimentali. La raccolta si apre con Maiali nell’alba, che qualche critico come il Dell’Orto ha voluto accostare con impudenza ad Allen Ginsberg, ma che a suo modo anticipa le attuali sensibilità animaliste: 

Sono andato con la macchina nuova 
all’allevamento dei maiali del Baretti 
su fino a Mirandola, e li ho visti. 
Ho visto le bestie migliori 
della mia generazione 
distrutte dalla follia, ingrassate, nude, 
trascinarsi nei recinti negri all'alba 
in cerca di un sollievo astioso, 
un pastone nel truogolo celeste, 
nella dinamo stellata nel meccanismo 
della notte. Con gli occhi vuoti 
sedevano grugnendo nell'oscurità 
chiedendosi il perché e il come 
di una vita vissuta per diventare 
costine e salami, prosciutti e ciccioli, 
per i Biserani come me, angeli 
sterminatori dell’Apocalisse suina. 

Più intimista è Quelle ciliegie, opera sospesa sul filo del ricordo dell’infanzia, nella quale troviamo anche la sorella Adua, con la quale visse per tutta la vita, nonostante le sue numerose avventure sentimentali. Il tono colloquiale, che la traduzione in italiano tradisce inevitabilmente, e il metro libero, danno al componimento i toni di un vero e proprio flusso di coscienza:

Stanotte ero lì che non avevo più sonno 
e sono uscito intanto che l’Adua dormiva, 
e mi è venuto in mente quell’orto incantato, 
dove noi bambini andavamo a rubare 
ciliegie, mugnéghe e anche gli zucchetti 
perché c’era la fame, mica come adesso, 
allora ho preso la bici e ho pedalato forte: 
ho sentito il campanone delle tre e mezza, 
dall’altra parte della statale, verso i colli. 
Quasi mi perdevo, ma certe strade poi 
le memorizzi, come gli uccelli migratori, 
che non c’è Africa che li faccia scordare 
il nido o la gronda rugginita dove sono nati. 
Dietro un magazzino di vernici, al buio, 
dove c’era il casolare dei ferraresi, 
ho trovato un pezzo di siepe di bosso, 
che era quella che eroici scavalcavamo, 
e un albero, un vecchio ciliegio storto, 
che aveva su tante belle ciliegie rosse, 
che mi sono arrampicato e ho raccolto, 
saranno state un chilo, un chilo e mezzo. 
Ne ho mangiata qualcuna e le altre 
le ho messe nella borsa sulla canna 
e sono tornato indietro che anche Coppi 
mica mi prendeva, tanto che andavo. 
Son tornato a casa e mi sono disteso, 
e ho preso sonno mentre il sole sorgeva. 
Mia sorella mi sveglia alle dieci 
e mi dice sei tornato in quell’orto, vero? 
Quelle ciliegie le ricordo anch’io. 


La solitudine e i guai della maturità sono l’oggetto di Riccione ’61, ispirata da una notte estiva nella città romagnola, trascorsa in compagnia dell’amico e collega Dello Feltraro, da lui sempre considerato uno sfigato approfittatore. Il contrasto tra l’atmosfera di vacanza e lo stato d’animo dei protagonisti è un archetipo dell’incomunicabilità dell’uomo moderno. Per la prima e unica volta nella sua opera poetica, il Biserani non ha fame:

Abbiamo bevuto, invorniti, fatto il giro dei bar 
nella lunga notte delle tedesche allegre e disponibili. 
Luci al neon sopra le Spaten provvisorie, poca schiuma, 
e risate e pingpong e minigolf nel luna-park estivo. 
A un certo punto mi dice che gli è venuta fame, 
ma non ha soldi che ha lasciato il giubbotto in stanza, 
allora gli dico, patacca, è già la terza volta che lo fai, 
ma mi hai preso per un coglione? Torniamo indietro, 
che a me ‘sto Nico Fidenco mi ha rotto i maroni, 
che non ho digerito e poi a noi di cinquant’anni 
invorniti e incazzati le tedesche mica ce la danno. 

La raccolta contiene anche un paio opere ermetiche, in una sorta di ritorno alle radici della sua poesia, mediato dal Giappone e dalla lettura dei francesi come Èluard. Commuovente questa perla, con la quale rende omaggio all’eterno femminino romagnolo: 

Nel brodo dei ricordi, 
le donne preziosi tortellini, 
fumanti di vita. 


Echi di America e beat generation, oltre a sorprendenti conoscenze geometriche, caratterizzano infine la poesia che chiude la raccolta, Milano, forse l’ultima composta in italiano dal Biserani, sempre legata ai temi che gli sono più cari. Con questi versi emblematici concludo il suo ricordo. 

A Milano in un lungo inverno scuro, quando il sole è cosa di Romagna, 
incontro la cassoela untuosa, le puntine, le cotenne, i salamini 
nella verza accogliente come una vagina innamorata; alla sera mi portano
in un ristorante di pesce a Lambrate, nella sera metallica e nebbiosa 
di treni e di tram e gente che si aggira indefinita e gelida 
e trovo nel menù il rombo di nuovo, e le sue forme regolari 
e schiacciate di pesce geometrico, con la superficie prodotto 
delle diagonali, quattro lati, paralleli due a due, ingobbiti 
dalla pressione dell’acqua, ma io ordino un gran fritto misto, 
che dicono che qui è più fresco che al porto di Rimini, 
può darsi ma non lo sanno fare e sa di bombolone riscaldato, 
allora prendiamo la macchina e andiamo a bere un digestivo 
in centro, dove i camerieri hanno più puzza sotto il naso 
dei clienti ricchi, industriali e negozianti con il gozzo 
da macellaio che ordinano vischi d’annata per loro e le due-tre 
puttane che li accompagnano fumando Muratti e Mercedes. 
Usciamo sotto le colonne e la nebbia è sparita, tira aria di neve, 
allora ci congediamo e ci diamo appuntamento per la mostra 
di Fontana l’indomani, e io sono contento, tra i primi fiocchi 
illuminati dai fanali, di tornare al caldo, mettermi in pigiama, 
e sedermi sul water che mi scappa anche da cagare.

Per chi desiderasse approfondire la conoscenza del Biserani pittore, raccomando l'illuminante e documentato saggio dell'amica e collega Maria Clara Bottoni, su BAU 2.0, che esce in contemporanea con questo articolo.