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martedì 16 settembre 2014

Il Torrente Epperò


Il Torrente Epperò nasce dalle appendici del Monte Cunno, nel Pennino Fosco-Lugano. Dopo aver formato il L’ago Erore e la Cascata Rovinosa, scorre nella Val Nerchia e si butta via. Attraversa i comuni di Sollazzo, Spasso e Baraonda Sottana, dove è attraversato da tre armeni ponti di sospensione. Sulle sue rive omertose si pratica la pesca dell’orchio maggiore, dalle carni privilegiate, che si conserva fino alla data indicata sul tetro della confezione. Può contenere tracce di anidride solforosa e di frutta a guscio (aracnidi). Famoso anche l'infrattamento concupiscente, esercitato con grande soddisfazione di critica e di pubblico (da qui il nome dell’idromino). 

Sulle sponde dell’Epperò si combattè nel 1795 la battaglia anonima, che vide confrontarsi le forze rivoluzionarie e quelle perpendicolari alla Direzione, che vide la vittoria delle prime sulle seconde esattamente in questo ordine. Da quel momento la Val Nerchia fu contesa avanti e indietro, con grande soddisfazione fino al Monte Cunno. Nell’anniversario della battaglia si svolge una magnifica celebrazione con gli abitanti che vanno a Spasso in ordine sparso. 

Tra le bellezze storico-culturali della valle si segnala la Certosa di Baraonda, circondata da capitelli gotici e bodoniani, in grassetto sottolineato, con il ciclo di freschi di Santa Patanza, capolavoro della scuola del Gonorrea (ca. 16 settembre 1514).

venerdì 7 febbraio 2014

Un incontro


(da un mio racconto inedito di dieci anni fa, ambientato nel 1176) 

Con i nostri compagni di viaggio fummo ospiti dello Spedale del Tempio, vicino alla chiesa di Santa Maria. Fu all'ingresso di quella magione che conobbi Oberto Leccacorvi. Era di nobile famiglia e nipote di vescovo, ma si faceva chiamare fra Teofilo. 

Era un vecchio di sessant'anni, ancor più piccolo di me, con un collo gracile, il viso emaciato, gli occhi nerissimi, la fronte rugosa e aggrinzita, le narici schiacciate, la bocca prominente, le labbra tumide, il mento sfuggente e affilatissimo, la barba da capro, le orecchie villose e appuntite, i capelli irti e arruffati, i denti aguzzi, il cranio a punta, malamente ricoperto da un sudicio cappuccio; una protuberanza al centro del petto lo faceva sembrare un uccello e il suo corpo, sempre chinato in avanti, era agitato da movimenti convulsi.

Portava il saio dei penitenti e, in un certo modo, lo era: molti anni prima aveva ucciso il giovane nobile Stefano Vicedomini, della cui promessa sposa s'era invaghito. Pentitosi, si era spogliato di tutti i suoi beni, aveva risarcito la famiglia della vittima, ottenendo il perdono dei parenti e della giustizia secolare, e aveva affrontato un lungo digiuno; per più di vent'anni aveva vissuto da eremita nelle selve della pieve di Fiorenzuola. Si diceva che fosse stato lui ad indicare agli inviati di Bernardo cistercense il luogo, al Carretum, dove si era posata una colomba giunta dal cielo. E il santo colà aveva deciso di fondare la chiesa e il convento di Chiaravalle della Colomba. 

Tornato in città, ai tempi della guerra con Parma, aveva predetto la caduta di un bolide infuocato che aveva abbattuto parte della torre di Santa Maria di Campagna e si era poi perso nel Po. Tre anni più tardi sognò un'aquila di ferro che si posava sulle torri della città, presagendo la distruzione delle stesse ad opera del Barbarossa. Nonostante il suo abbigliamento e le sue doti profetiche, non apparteneva ad alcun ordine regolare o secolare ed era malvisto, se non esecrato da Vallombrosani, Ospitalieri e Benedettini. Aveva tuttavia un piccolo pugno di seguaci, attratti dal suo carisma perverso e dalle sue abilità dialettiche. 

Fermò il nostro gruppo e ci apostrofò con voce ispirata. "Salvate le vostre anime! Fermatevi e tornate alle vostre case! Non andate a lordarvi con lo sterco della Bestia! E' a Roma che Romolo uccise suo fratello e Nerone sua madre, che Giulio Cesare fu assassinato e i santi Pietro e Paolo suppliziati e Lorenzo arso vivo! Roma, tutti i giorni tu fai strazio del popolo di Dio! I cardinali vanno in giro ardenti di cupidigia, pieni di simonia, conducendo mala vita, senza fede e senza religione. Vendono Dio e sua madre, tradiscono il loro Maestro, divorano tutto. Troppo essi fanno disperare i fedeli! Che cosa fanno dell'oro di cui si riempiono con gli oboli? Non ne fanno certo né strade, né ponti, né ospedali! E più di tutti dannato è il figlio di Caino, il compare di Giuda, il sodale di Simon Mago, colui che indegnamente siede sul trono di Pietro e fornica con le meretrici, corrompe i giovani, depreda i sudditi! A lui non è dovuta nessuna riverenza e nessuna devozione! Fermatevi, romei, volgete il passo e abbandonate la strada di Sodoma e Gomorra!" 

Se a Piacenza la storia di Teofilo e le sue nobili origini non fossero state conosciute, sicuramente per quelle parole sarebbe stato arrestato e poi arso vivo. In più il momento politico era poco opportuno per discorsi che, criticando il papato, potevano essere intesi come filo-imperiali in una città ribelle. Ma quelle invettive potevano anche essere interpretate come rivolte all'antipapa fatto eleggere dal Barbarossa ed erano pronunciate da un duce senza esercito, da un mezzo profeta mezzo matto che non rappresentava un pericolo, come invece succedeva con i càtari e altri eretici, il cui numero aumentava di giorno in giorno in tutte le città lombarde. E quelle parole esprimevano anche un sentimento che, seppure con toni più attenuati, era condiviso da molti fedeli. 

L'impressione che quest'incontro fece sui presenti fu molto diversificata. Mentre Lanfranco rideva e io non sapevo che cosa rispondere, i poveri pellegrini fiamminghi, che non capivano il volgare dell'uomo e poco sapevano anche di latino, si guardavano l'un l'altro con fare interrogativo. Quello che sembrava il loro capo, uno spilungone biondo come il grano e dalla pesante mascella quadrata, dopo un breve conciliabolo con alcuni compagni, fece segno al gruppo di entrare nello Spedale. Abbozzando un sorriso imbarazzato, disse: "Fiat foluntas Teei. Packhs tibi, frater." 

Teofilo, non domo, fermò allora le tre donne del gruppo, in verità tutte piuttosto bruttine, investendole con la continuazione della sua predica: "E voi femmine, che siete più facili prede della lussuria e della corruzione, abbandonate la via di Roma! La maggior parte di quelle che vanno alla nuova Babilonia soccombe, poche di coloro che tornano conservano la castità. Non v'è città d'Italia in cui non ci sia una pellegrina divenuta adultera o prostituta!" Gli uomini del gruppo s'affrettarono a circondare le compagne per difenderle dall'invasato. Nel loro barbaro linguaggio lanciarono a Teofilo delle invettive catarrose e spinsero le compagne dentro l'edificio. 

Lanfranco si limitò a guardare di sbieco quell'individuo, sibilando un sintetico "Ma va' a cagà" e infilando la porta. Solo io rimasi sul posto, colpito da qualcosa d'indefinibile nelle parole che avevo udito. Cercai di calmarlo. Gli spiegai che Lanfranco ed io non eravamo romei, ma diretti a Modena per i lavori della Cattedrale. Placò un poco il suo tono apocalittico e chiese chi fossi. Mi presentai come Raimondino da Campione, apprendista scultore. Alle mie parole disse "La tua è arte vana. A che servono quelle torri di Babele, quando basta una croce in un bosco per pregare?" Mi scrutò da capo a piedi e si allontanò accennando un segno di benedizione.

mercoledì 8 gennaio 2014

Il diavolo e Simon Flagg

Premessa

Non conoscevo questo splendido racconto matematico di Arthur Porges (1915-2006) prima che me ne parlasse l’amico Antonello Musiani qualche giorno fa, dicendo che  “io, bambino, [lo] trovai su Linus dei miei fratelli maggiori. me ne innamorai all'istante”. Dopo la sua segnalazione, ho scoperto che l’autore, matematico di formazione, è stato un prolifico autore di racconti brevi, soprattutto nei due decenni tra il 1950 e il 1970. Il racconto fu pubblicato nel 1954 con il titolo The Devil and Simon Flagg, e ho trovato l’originale sul sito del divulgatore e scrittore Simon Singh (autore tra l’altro, de L’ultimo teorema di Fermat). In italiano comparve su Linus n. 41 dell'agosto 1968. Adesso si può trovare in I numeri nel cuore di Ciliberto, Saleri e Strickland (Springer, 2008), testo che non posseggo ed è al di fuori delle mie possibilità economiche (l’e-book costa 23,80 €).

Mi è piaciuta l’idea di tradurlo da solo e di sottoporlo ai miei lettori, sicuro che la versione italiana che si trova in commercio sarà senz’altro migliore. D’altra parte, la diffusione della conoscenza è uno degli obiettivi del mio blog, e di sicuro da questo lavoricchio non trarrò alcun beneficio economico (oltretutto Popinga è sotto licenza Creative Commons).


Il diavolo e Simon Flagg

Il Diavolo è un grande esperto di indovinelli. Talvolta appare e, senza neanche fare una decente offerta, comincia a farti domande, e, se non sei capace di rispondere, ti porta via.
Una delle prime ballate inglesi è The False Knight on the Road (Il finto cavaliere sulla strada), che è un dialogo a domanda e risposta che comincia:

 “O dove stai andando?”
Disse il finto cavaliere sulla strada.
“Sto andando a scuola”,
Disse il ragazzino, e stette fermo lì.

Gli studiosi ci dicono che il finto cavaliere è il Diavolo, ma il risoluto ragazzino lo supera. In molte leggende scandinave e baltiche, il Diavolo compra un’anima, ma concede di liberarla se è in grado di rispondere a certe domande, per esempio: “Quanto dista il cielo dalla terra?”. Ci sono due risposte a questa domanda, “Dovresti saperlo tu, perché sei caduto per tutto il tragitto”, una risposta che apparentemente soddisfa il Diavolo, e l’altra “Un passo, perché mio nonno ha un piede nella fossa e uno in cielo”.
Un’altra situazione è il contrario di questa: il mortale è liberato se è capace di fare al Diavolo una domanda alla quale egli non sa rispondere, o di affidargli un compito che non è capace di eseguire.

Dopo diversi mesi della più ardua ricerca, che comportava lo studio di innumerevoli manoscritti sbiaditi, Simon Flagg riuscì – a evocare il diavolo. Come medievista competente, sua moglie si era dimostrata preziosissima. Egli, un semplice matematico, era a stento preparato a decifrare grafie latine, soprattutto quando erano rese più complicate da rari termini della demonologia del decimo secolo, così era fortunato che ella avesse un talento speciale per questi documenti.

Terminate le schermaglie preliminari, Simon e il diavolo si sedettero per negoziare lealmente.  Il diavolo era di cattivo umore, in quanto Simon aveva ingegnosamente aggirato diversi dei suoi più sicuri stratagemmi, individuando facilmente gli ami mortali nascosti in ciascuna esca tentatrice.
“Immagina di ascoltare una mia proposta per uno scambio”, suggerì alla fine Simon. “Almeno, è senza trucchi”.
 Il diavolo fece girare nervosamente con la mano la punta della sua coda, più di quanto un uomo possa giocherellare con il suo mazzo di chiavi.
Naturalmente, si sentì colpito.
“Bene” accettò con voce irritata: “Non può fare alcun male. Ascoltiamo la tua proposta.”
“Ti farò una certa domanda, “cominciò Simon, e il diavolo si animò, “alla quale bisogna rispondere entro ventiquattr’ore. Se non sei capace di farlo, dovrai pagarmi centomila dollari. Si tratta di una richiesta modesta paragonata a quanto puoi ottenere. Non miliardi, non Elena di Troia, o una pelle di tigre. Naturalmente non ci dovranno essere ritorsioni di sorta se vinco io”.
“Di sicuro!” grugnì il diavolo. “E qual è la tua posta?”
“Se perdo, sarò tuo schiavo per un certo periodo di tempo. Nessun tormento, nessuna perdita dell’anima, non certo per soli centomila dollari. Né metterò in pericolo parenti o amici. Sebbene,” osservò pensosamente, “ci siano delle eccezioni”.
Il diavolo aggrottò le sopracciglia, tirando stizzito la coda forcuta. Infine, con un violento strattone che gli fece fare una smorfia di dolore, smise.
“Scusa”, disse piattamente, “io mi occupo solo di anime. Nessuna riduzione in schiavitù. La quantità dello spontaneo, appassionato servizio che ricevo dagli uomini ti sorprenderebbe. Tuttavia, ecco quel che farò. Se non sarò capace di rispondere alla tua domanda nel tempo stabilito, non riceverai centomila miserabili dollari, ma qualsiasi somma ragionevole mi chiederai. In più, ti offro salute e felicità per il resto della tua vita. Se risponderò… bene, conosci le conseguenze. Questo è il massimo che posso offrire”. Prese dall’aria un sigaro acceso e sbuffò in vigile silenzio.

Simon guardava senza vedere. Piccole gocce di sudore gli spuntarono sulla fronte. Nell’intimo del suo cuore sapeva che cosa significavano i termini perentori del diavolo. Allora i muscoli della mascella si strinsero. Avrebbe dovuto giocare la sua anima, in modo che nessuno, uomo, bestia o demonio, potesse rispondere alla sua domanda in ventiquattro ore.
“Includi mia moglie in quella fornitura di salute e felicità, e sono d’accordo,” disse “andiamo avanti”.
Il diavolo fece un cenno d’assenso. Tolse il mozzicone di sigaro dalla bocca, lo guardò con disgusto, e lo toccò con l’artiglio dell’indice. Di colpo si trasformò in una grande mentina rosa, che succhiava con rumoroso piacere.

“Riguardo alla tua domanda,” disse, “deve avere una risposta, o il nostro contratto viene annullato. Nel Medio Evo, la gente amava porre indovinelli. Alcuni mi giunsero come paradossi, come quello del villaggio con un solo barbiere che rade tutti quelli, e solo quelli, che non si radono da soli. “Chi rade il barbiere?” chiedevano. Ora, come ha messo in evidenza Russell, quel “tutti” rende tale domanda priva di significato e perciò senza risposta”.
“La mia domanda è proprio una domanda, non un paradosso”, lo assicurò Simon.
“Molto bene. Risponderò. Che cos’è quel sorrisetto?”
“Niente,” rispose Simon, che cambiò espressione.
“Hai buonissimi nervi,” disse il diavolo, approvando seriamente, mentre prendeva dall’aria una pergamena. “Se avessi scelto di comparire come un mostro che unisce le migliori caratteristiche del vostro gorilla con quelle del Grande Kleep Venusiano, un animale (presumo che ciò si possa chiamare il fascino di un occhio solo), mi stupirei del tuo autocontrollo.“
“Non hai bisogno di fare alcuna prova,” disse frettolosamente Simon. Prese il contratto che gli era stato porto, concesse che era tutto in ordine e aprì il suo coltellino da tasca.
“Solo un momento”, protestò il diavolo. “Lascia che lo sterilizzi; potresti essere infettivo.” Tenne la lama tra le labbra, soffiò delicatamente, e l’acciaio avvampò rosso ciliegia. “Eccoti. Ora un tocco della punta con un po’ di ahh…inchiostro, e siamo pronti. Seconda riga dal fondo, prego, l’ultima è la mia”.
Simon esitò, fissando l’umida punta rossa.
“Firma,” lo sollecitò il diavolo, raddrizzando le spalle, e Simon lo fece.

Quando la sua firma fu aggiunta con uno svolazzo, il diavolo si fregò le mani, diede a Simon un’occhiata apertamente di possesso, e disse allegramente: “Che mi si ponga la domanda. Non appena avrò risposto, dovrò corre via. Ho giusto il tempo per un altro cliente stasera”.
“Benissimo” disse Simon. Prese profondamente fiato. “La mia domanda è questa: è vero l’Ultimo Teorema di Fermat?”
Il diavolo deglutì. Per la prima volta la sua aria di sicurezza si indebolì.
“L’ultimo cosa di chi?” domandò con voce sorda.
“L’Ultimo Teorema di Fermat. È una congettura matematica che Fermat, un matematico francese del diciassettesimo secolo, disse di aver provato. Tuttavia, la sua dimostrazione non fu mai messa per iscritto, e ad oggi nessuno sa se il teorema è vero o falso”. Le sue labbra si contrassero brevemente mentre guardava l’espressione del diavolo. “Bene, ecco,  a te la risposta”.

“Matematica!” Esclamò il diavolo con orrore, “Pensi che io abbia tempo da perdere per imparare quella roba? Ho studiato il Trivium e il Quadrivium, ma per quanto riguarda l’algebra – diciamo”, soggiunse risentitamente, “che genere di domanda da farmi è questa?”
Il viso di Simon era stranamente rigido, ma i suoi occhi brillavano. “Tu piuttosto correresti 75 mila miglia per riportare qualche cosa delle dimensioni della Diga di Hoover, immagino!” lo derise “Il tempo e lo spazio sono inezie per te, vero? Bene, mi dispiace, io preferisco questo. È un argomento semplice”, aggiunse con voce piatta. “Solo una questione di numeri interi positivi”.
“Che cos’è un numero intero positivo?” esplose il diavolo. “O un numero intero, per quale questione?
“Per dirla più formalmente”, disse Simon ignorando la domanda del diavolo, “Il Teorema di Fermat afferma che non esistono soluzioni razionali non banali dell’equazione Xn + Yn = Zn per n positivo intero maggiore di 2”.
“Che cosa vuol dire?”
“Sei tu che dai le risposte, ricorda”.
“E chi deve giudicare, tu?”
“No” rispose Simon gentilmente. “Dubito di esser qualificato, anche dopo aver studiato il problema per anni. Se tu arrivi a una soluzione, la sottoporremo a ogni buona rivista di matematica, e i loro referee decideranno. E tu non puoi tirarti indietro – il problema ovviamente ha una soluzione: o il teorema è vero, o è falso. Nessun nonsenso di logica polivalente, bada bene. Determina solamente quale dei due, e provalo in ventiquattr’ore. Dopo tutto un uomo, scusami, un demonio della tua intelligenza e vasta esperienza di sicuro può imparare un po’ di matematica in questo lasso di tempo”.
“Mi ricordo ora del brutto periodo che ho passato su Euclide  quando studiavo a Cambridge,” disse tristemente il diavolo. “Le mie dimostrazioni erano sempre sbagliate, e ciò nonostante era comunque tutto così ovvio. Lo potevi vedere direttamente dai disegni”. Indurì la mascella. “Ma ce la posso fare. Ho fatto anche cose più difficili. Una volta andai su una stella distante e portai indietro un quarto di gallone di neutronio giusto in sedici…”
“Lo so,” lo interruppe Simon. “Sei molto bravo in certi trucchetti”.
“Trucchi, nient’affatto!” fu la replica stizzita. “È una tecnica così difficile, ma .. non importa, mi affretto alla biblioteca. A domattina a quest’ora”.
“No,” lo corresse Simon. “Abbiamo firmato mezz’ora fa. Torna esattamente entro ventitré ore virgola cinque. Non farti mettere fretta,” aggiunse ironicamente mentre il diavolo dava un’occhiata sorpresa alla pendola.
“Bevi qualcosa e conosci mia moglie prima di andar via”.
“Non bevo mai sul lavoro. E non ho tempo di fare conoscenza con tua moglie… ora”. E scomparve.


Nello stesso istante entrò la moglie di Simon.
“Sempre a sbriciare alla porta?” La riprese Simon, senza rancore.
“Naturalmente,” disse con la sua voce roca. “E, caro, vorrei sapere, quella domanda, è davvero difficile? Perché, se non lo è… Simon sono così preoccupata!”
“È difficile, va tutto bene”. Simon era piuttosto spavaldo. “Ma la maggior parte della gente a prima vista non se ne rende conto. Vedi,” continuò, cadendo automaticamente nel suo atteggiamento da  professore di matematica, “tutti possono trovare due numeri interi i cui quadrati sommati danno un altro quadrato. Per esempio, 32+42=52, cioè 9+16=25, giusto?”
“Uh huh.” Lei gli sistemò la cravatta.
“Ma quando provi a trovare due cubi che si sommano per dare un altro cubo, o potenze più alte che si comportano allo stesso modo, non sembra che ce ne sia alcuno. Tuttavia,” concluse con enfasi, “nessuno è stato capace di provare che non esistono tali numeri. Capito ora?”
“Naturalmente”. La moglie di Simon aveva sempre capito le definizioni matematiche, per quanto astruse. D’altra parte, la spiegazione fu ripetuta finché non lo capì, il che lasciava pochissimo tempo per le altre attività.
“Vado a fare del caffè per entrambi”, disse, e si svincolò.

Quattro ore più tardi, mentre sedevano assieme ad ascoltare la Terza di Brahms, ricomparve il diavolo.
“Ho già imparato i fondamenti di algebra, trigonometria e geometria piana!” annunciò trionfalmente.
“Lavoro rapido”, si complimentò Simon. “Sono sicuro che non avrai alcuna difficoltà con le geometrie sferiche, analitiche, proiettive, descrittive e non-euclidee”.
“Il diavolo trasalì. “Ce ne sono così tante?” domandò con voce flebile.
“Oh, quelle sono solo alcune”. Simon aveva l’aria allegra adatta a un latore di buone notizie.
“Ti piaceranno le non-euclidee,” disse bugiardo. “Là non hai da preoccuparti dei disegni: non dicono nulla! E poiché odiavi Euclide, comunque…”
Con un grugnito il diavolo svanì come un vecchio film. La moglie di Simon ridacchiò.
“Caro,” canticchiò, “Sto cominciando a pensare che lo hai messo con le spalle al muro”.
“Shh,” disse Simon, “L’ultimo movimento. Magnifico!”

Sei ore più tardi, ci fu un lampo fumoso, e il diavolo era tornato. Simon notò le borse cresciute sotto i suoi occhi. Trattenne un gran sorriso. “Ho imparato tutta quella geometria,” disse il diavolo con soddisfazione simulata. “Sta diventando più facile, ora. Sono quasi pronto per il tuo piccolo enigma”.
Simon scosse la testa. “Stai cercando di andare troppo in fretta. Pare che tu abbia ignorato basi tecniche quali il calcolo, le equazioni differenziali, e i metodi delle differenze finite. Allora… ecco…”
“Mi serviranno tutti quelli?” si lamentò il diavolo. Si sedette e fregò le sue palpebre gonfie, soffocando uno sbadiglio.
“Non te lo so dire,” rispose Simon con voce inespressiva. “Ma su questo “piccolo enigma” si è tentato praticamente ogni tipo di matematica esistente, ed è ancora irrisolto. Ora, secondo me…” Ma il diavolo non era dell’umore di ricevere consigli da Simon. Questa volta fece persino una distratta scomparsa mentre era seduto.
“Penso che sia stanco,” disse la signora Flagg. “Povero diavolo.” Non c’era alcuna visibile compassione nei suoi toni.
“Lo sono anch’io,” rispose Simon. “Andiamo a letto. Non sarà di ritorno fino a domattina, immagino”.
“Forse no,” concordò lei, aggiungendo con contegno, “ma indosserò il pizzo nero, nel caso che…”

Era il pomeriggio seguente. Bach sembrava in qualche modo appropriato, così avevano messo su un disco della Landowska.
“Ancora dieci minuti,” disse Simon. “Se non sarà di ritorno con una soluzione, abbiamo vinto. Gli renderò merito; poteva ottenere un dottorato nella mia scuola in un giorno, con lode! Tuttavia…”
Ci fu un sibilo. Nuvole sulfuree rosate spuntarono come funghi. Il diavolo era in piedi sul tappeto di fronte a loro, circondato da un vapore disgustoso. Le spalle flosce, gli occhi erano iniettati di sangue, e le zampe artigliate, ancora ghermenti un fascio di carte, si agitavano violentemente per la fatica e la tensione.
Silenziosamente, con una specie di rabbiosa dignità, scagliò le carte sul pavimento, dove le calpestò brutalmente con gli zoccoli fessi. Poi, il suo aspetto inquieto a poco a poco si rilassò e un sorriso sarcastico gli contorse la bocca.

“Hai vinto, Simon,” disse, quasi un sussurro, guardandolo con rispetto ammirato. “Neanch’io posso imparare abbastanza matematica in così poco tempo per un problema così difficile. Più mi ci addentravo e peggio diventava. Fattorizzazione non unica, ideali… Baa!! Sai che,” confidò, “neanche i migliori matematici di altri pianeti, tutti molto lontani dal tuo, lo hanno risolto? Perché, c’è un tizio su Saturno (sembra qualcosa come un fungo sui trampoli) che risolve mentalmente le equazioni alle derivate parziali; e persino lui si è arreso.” Il diavolo singhiozzò. “Addio.” Scomparve con una specie di sfiancata precisione.


Simon baciò con passione la moglie. Dopo un bel po’ di tempo lei si ritrasse dalle sue braccia.
“Caro,” disse corrucciata, osservando il suo viso assente, “che cosa c’è adesso che non va?”
“Niente, tranne il fatto che mi sarebbe piaciuto vedere il suo lavoro, sapere quanto vicino è andato alla soluzione. Ho lottato con questo problema per…” Si staccò stupito non appena il diavolo ricomparve come un fulmine. Satana sembrava stranamente in imbarazzo.

“Mi sono dimenticato,” mormorò. “Ho bisogno di… ah!” Si chinò verso le carte sparpagliate, raccogliendole e accarezzandole delicatamente. “Ti interessa di sicuro,” disse, evitando lo sguardo di Simon. “Impossibile fermarsi proprio ora. Perché, se potessi provare solo un semplice piccolo lemma”.
Vide l’interesse avvampante in Simon, e fece sfoggio della sua aria apologetica. “Diciamo,” grugnì, “hai lavorato su questa cosa, ne sono certo. Hai provato con le frazioni continue? Fermat deve averle usate, e… spostati un attimo, per favore”. Ciò bastò alla signora Flagg, Egli si sedette di fronte a Simon, ripiegò la sua coda, e indicò una giungla di simboli.

La signora Flagg sospirò. Improvvisamente il diavolo sembrò una figura famigliare, di poco diversa dal vecchio professor Atkins, il collega di suo marito all’università. Tutte le volte che due matematici si riuniscono su un problema stuzzicante… Rassegnata lasciò la stanza, con la tazza del caffè in mano. C’era di sicuro in vista una lunga sessione. Lo sapeva. Dopo tutto, era la moglie di un professore.

domenica 15 dicembre 2013

Il testo descrittivo, anche se


Oggi ho finalmente trovato su un libro di scuola le dritte giuste per scrivere un testo descrittivo, perché la mia ambizione è di dedicarmi al mestiere di scrittore famoso. Sono istruzioni che variano a seconda dell’oggetto della descrizione, che non deve essere per forza un oggetto, ma è sempre oggetto anche se è una persona, un animale, o luogo, è una cosa della grammatica. Meglio però che mi limiti a un oggetto, tanto per cominciare, anche se uno può cominciare descrivendo una persona, un animale, un luogo all’aperto o uno al coperto, anche se forse è più difficile. Ne approfitto subito per raccontarvi delle crocchette per il mio gatto Moretto e lo farò seguendo alla lettera le indicazioni del libro, anche se non è una lettera, ma un testo descrittivo, appunto. 

Dunque, ho comprato le crocchette per Moretto e la prima cosa che devo fare è fornire una descrizione dettagliata dell’oggetto, specificando tante cose, anche se è solo una voce, ma sono tante cose. Le crocchette sono fatte di una scatola di cartone leggero, a forma di parallelepipedo, di colore giallo come sfondo, anche se c’è sopra la foto di un gatto che si sbarlecca i baffi con la lingua e c’è scritto il nome della marca, anche se non posso dirla per non fare pubblicità. In realtà le crocchette sono dentro la scatola, e mi sono confuso un po’, anche se quando dico prendo le crocchette, io prendo la scatola, perché altrimenti si sparpagliano da tutte le parti. 

Le crocchette sono appunto fatte di tante parti, ciascuna delle quali si chiama crocchetta, che è un nome singolare, mentre crocchette è plurale. Adesso devo dire la forma e il colore, anche se il colore varia proprio a seconda della forma, oppure è la forma che cambia con il colore. Ci sono le crocchette rotonde che sono verdi perché sono alle verdure, anche se sono quelle che piacciono di meno a Moretto, che le lascia nella ciotola quasi tutte. Poi, anche se non posso dire poi perché non vengono dopo, ma sono mescolate, ci sono le crocchette quadrate, che sono colorate di marrone e sono alla selvaggina, anche se non ho mai capito che animale è la selvaggina. La selvaggina può essere una lepre, un fagiano, se sei un leone può essere una gazzella, ma qui non è specificato, anche se non credo che importino le gazzelle dall’Africa per fare le crocchette dei gatti. L’ultimo tipo sono le crocchette rosse, che hanno una forma difficile da descrivere, perché sono come tre quadrati messi in circolo, come una croce ma senza un braccio, anche se non voglio dire con questo che Gesù era mutilato, solo che la forma è così. Queste crocchette sono al manzo, che è un tipo di mucca giovane che può essere maschio o femmina, anche se lo chiamano pure bovino. 

Adesso tocca alle dimensioni, che sono piccole, perché la bocca dei gatti non è grande come quella dei cani, anche se tutti questi animali hanno i canini, che sono denti e non cani piccoli. L’utilizzo è quello che le crocchette servono ai gatti per mangiare, che quando le mangiano fanno croc croc e da qui deriva il nome, anche se i gatti mangiano tante altre cose, come il paté, la muss, i bocconcini, che sono detti cibi umidi, e poi anche i pesci, che chissà perché non sono detti umidi anche se sono pesci e vivono nell’acqua. E poi se gli va mangiano anche il prosciutto, i topi, le mosche e le lucertole. Adesso devo dire le modalità di funzionamento ed è la parte più difficile, perché è tutto un tirare su di colpo, sgranocchiare e poi buttar giù, anche se i gatti non masticano come noi e allora ogni tanto vomitano e si vede che hanno mandato giù anche delle crocchette intere. Se non vomitano, le crocchette seguono il loro percorso più naturale ed escono a fine gatto sotto forma di cacca, anche se non è igienico e allora ci vuole sempre una lettiera con la sabbiolina pulita, meglio se fa la palla. 


Segue che devo dire la provenienza delle crocchette e raccontare il modo in cui ne sono venuto in possesso. Sulla scatola c’è scritto MADE IN ITALY, per cui sono state fatte qui in Italia, anche se non capisco perché se sono fatte in Italia lo devono scrivere in inglese, come se io andassi a bere una birra a Monaco (quella di Baviera, che è in Germania) e sui boccali tedeschi ci trovo scritto FATTA IN GERMANIA in italiano. Sul come ne sono venuto in possesso ho già detto che le ho comprate, mica le ho rubate, non è che per scrivere un testo descrittivo di un oggetto devo conservare lo scontrino, sempre che il commerciante lo faccia, anche se magari non ci penso e lo butto via. E se l’oggetto me lo hanno regalato? Insomma, uno che legge deve avere un po’ di fiducia, che non è il mod. UNICO, anche se io consegno solo il CUD perché casa mia non è mia, anche se ci vivo in affitto da quando c’erano ancora i miei, che sono morti, anche se li ricordo sempre con affetto e sarebbero contenti se diventassi uno scrittore famoso. 

Il valore dell’oggetto in sé, sia materiale che affettivo, non è mica tanto facile da descrivere. So che ho pagato quasi 2 euro per una scatola (mica vuota, con dentro le crocchette) e questo è il valore di mercato, anche se non le ho prese al mercato, ma nel negozio sotto casa, anche se sotto casa è un altro modo di dire perché non è che il negozio si trova sotto la casa, in cantina, ma vicino a dove sto. Mi preoccupa invece parlare del valore in sé. In fondo sono crocchette, e in sé non hanno altro che gli ingredienti, le verdure, la selvaggina, il manzo, o bovino. Che valori possono avere delle crocchette per gatti oltre a questo, anche se a me non vengono in mente e magari ci sono? Solo che non riesco a pensare a delle crocchette patriottiche, eroiche, religiose, oneste, e chi più ne ha più ne metta, anche se pure questo è un modo di dire, perché più di tot nella scatola non ce ne stanno. E il valore affettivo delle crocchette, per me che sono un uomo e non un gatto, non è granché, anche se magari uno è affezionato a una determinata marca o a un certo tipo di gusto, perché sa che piacciono al gatto mentre altri no. Io posso assicurare che le crocchette che sto descrivendo, delle quali non posso dire la marca perché è pubblicità, piacciono a Moretto, e quando ho provato a cambiare ha storto il naso, anche se non è vero che ha storto il naso, perché i gatti ce l’hanno così attaccato che è difficile vedere se lo stortano, è un modo di dire. 

Le opinioni che gli altri (amici, familiari) hanno delle crocchette di Moretto proprio non le conosco. Non è che la sera uno va al bar, trova gli amici e si mette a parlare delle crocchette del gatto, anche se non si può mai dire e magari succede, anche se penso che è più una cosa da femmine. Famigliari non ne ho: i miei genitori sono morti e mia sorella è sposata da sei anni ed è andata a vivere lontano, anche se qualche volta prendo il tram e la vado a trovare, o viene lei con mio cognato, che è uno che fa il professore di italiano ed è lui che mi ha prestato il libro di scuola. 

Alla fine devo dire le riflessioni personali su ricordi, sentimenti, desideri e problemi, anche se per delle crocchette non è tanto semplice. Ricordo che la prima volta le crocchette le ho comprate appena è arrivato Moretto, che lo hanno portato delle volontarie di Mondo Gatto, anche se io sarei andato a prendere il gatto anche se non me lo portavano. Ricordo anche che tre anni fa costavano di meno, ma forse perché la prima volta le ho prese al Super, e nella grande distribuzione ci sono le economie di scala, anche se non è detto che ci siano le scale, è un modo di dire, che quando uno è grosso spende di meno, ma qui non voglio inoltrarmi in altre spiegazioni. Il mio più grande desiderio è che le crocchette costino di meno, perché adesso Moretto è cresciuto e mangia tanto e io mica posso lavorare per lui, anche se gli voglio tanto bene. Il problema è proprio questo, anche se, a pensarci bene c’è anche quello che se sbagli a versarle nella ciotola vanno dappertutto, anche se sotto ci metto il giornale, ma è sempre una fatica raccogliere le crocchette di Moretto.


E’ uscito il nuovo numero di Tèchne, la “rivista di bizzarrie letterarie e non” diretta da Paolo Albani, giunta all'anno XXVII e al n.22. Il tema di questo numero, I consigli inutili, è stato declinato da P. Albani, L. Malerba, J. Swift, E. Satie, J. Cortázar, C. Peri Rossi, D. Charms, R. Bolaño, G. Manganelli, E. Flaiano, U. Eco, E. Cavazzoni, P. Morelli, A. Somenzari, G. Mammi, E. Mazzardi, S. Salomoni, E. Grimalda, A. Breton e P. Éluard, E. Ionesco, A. Campanile, A. Merce, R. Butazzi, A. Bove, J. Kolář, D. Baldi, B. Munari, M. F. Barozzi, W. Szymborska, J. R. Wilcock, P. Pergola, G. Zauli, S. Tonietto, L. Di Lallo, P. Barchi, L. Pignotti, R. Aragona, A. Debenedetti, P. Grassini, A. Castronuovo, F. Gabici, A. De Pirro, R. de Rosa e da un paio di grandi anonimi. 

L’intero numero è scaricabile gratuitamente in formato pdf dal sito della rivista. Qui sopra il lettore paziente ha trovato il mio contributo, ma sicuramente la bella, intelligente e prestigiosa rivista contiene di meglio.

domenica 24 novembre 2013

Arriva Fallimenti ed è tutto un guardarsi dentro


Ho provato, ho fallito. Non discutere. Fallisci ancora. Fallisci meglio.
[Samuel Beckett, citato da Patrizia Barchi, o viceversa]

Questa bellissima immagine di copertina (di Luigi Filippelli) ricorda che è uscito presso MalEdizioni, officina editoriale per il perfezionamento dell'uomo, piccola (per ora) e coraggiosa editrice bresciana, l’antologia Fallimenti, che raccoglie le opere di tredici incauti scrittori che sono stati stipati in un razzo e lanciati alla conquista di uno spazio senza limiti: lo spazio della narrazione. La loro missione è raccontare storie in cui si mancano gli obiettivi: teorie che non hanno portato a niente, nobili decaduti o personaggi storici con idee senza né capo né coda. Racconti in caduta libera che usando l’ironia sdrammatizzano l’insuccesso e permettono di guardare il fallimento da un’altra prospettiva.

Tredici autori (il numero potrebbe non essere casuale) che rispondono ai nomi di Arthur Conan Doyle, Paolo Albani, Giovanni Agozzino, Mauro Bellicini, Patrizia Barchi, Nicola Fantoni, Massimiliano Maestrello, Enrico Mazzardi, Armando Azzini, Elena Sartori, Marco Fulvio Barozzi, Fabio Bonetti, Nicolò Porcelluzzi. Avete letto bene: ci sono anch’io, con la storia del tentativo di un papa e del suo architetto favorito di lanciare un missile particolare per forare la sfera delle stelle fisse e creare un nuovo astro, cattolicissimo.

Ecco l’incipit del mio Il missile del Papa:

"L’obelisco è ancora lì, nel bel mezzo di Piazza San Pietro, da quando fu issato nel 1586. Sì, quello portato a Roma per ordine di Caligola nel 37, l’unico rimasto in piedi da quei tempi, che si ergeva di fianco alla chiesa di Santa Maria della Febbre e fu portato dove adesso si trova per realizzare il folle progetto di Sisto V e del suo architetto di fiducia, Domenico Fontana. L’Obelisco Vaticano doveva infatti servire per ben altro che abbellire il centro della cristianità".


FALLIMENTI - cadute, collassi, colate a picco
edizione cartacea 
anno: 2013 
prezzo: 11,00 € 
pagine: 128 
formato: 12×16 cm 
ISBN: 978-88-97483-07-6

Per ordinare Fallimenti, qui trovate i link a Ibs o a Goodbook. Sempre allo stesso indirizzo trovate anche un elenco di librerie amiche da cui poterlo ordinare. Oppure potete scrivere direttamente a MalEdizioni e richiederne una copia (pagamento tramite paypal o bonifico e spese di spedizione gratuite).



lunedì 26 agosto 2013

Nascita di un paradigma


Accese la luce ed entrò come tutte le sere nell'ufficio del laboratorio di fisica per le consuete pulizie. Raccolse tutte le carte che erano sparse disordinatamente sul pavimento prima di accendere la lucidatrice. Erano piene di formule astruse, strani simboli, freccette, parentesi di vario tipo. Dorothy si chiese come mai non appallottolassero i fogli da gettare e li ponessero nel cestino, come fanno in tutti gli uffici del mondo. Formò una piccola risma di quei fogli, con l’intento di buttarla poi tra le cartacce, appoggiandola sulla scrivania più vicina. Aprì la finestra e una folata di aria gelida rischiò di rendere vana la sua azione. Decise di fermare con alcune graffette il piccolo plico che aveva creato. Quando se ne andò chiuse la finestra, spense la luce e dimenticò le carte sulla scrivania. Il mattino seguente il professor Shorter, osservando quei fogli pieni di formule corrette ma inservibili, si accorse che la loro disposizione, determinata in modo del tutto casuale da Dorothy la sera prima, poteva avere un senso. Era nata la Teoria delle “Stringhe”. Mai buttar via le formule che si possono riciclare.

domenica 28 luglio 2013

Questo è il titolo di questo racconto

“Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso” (This Is the Title of This Story, Which Is Also Found Several Times in the Story Itself, qui l’originale) è una storia del 1982 dello scrittore e sinologo David J. Moser, interamente composta da frasi auto-referenziali. Douglas Hofstadter la pubblicò nella rubrica Metamagical Themas che allora curava sullo Scientific American. Il racconto, deliziosamente noioso, fu in seguito ripubblicato nell'eclettica raccolta Metamagical Themas (1985) in cui Hofstadter radunò gli articoli della sua rubrica.

Mi sono divertito a tradurre il racconto e, grazie ai buoni uffici e alla cortesia di Maurizio Codogno (che conosce Hofstadter e ha tradotto e curato l'edizione di alcune sue opere) ho ottenuto l’indirizzo di Moser e gli ho scritto chiedendogli il permesso di pubblicarla qui sul blog. Molto gentilmente egli ha acconsentito e, a quanto pare, ha apprezzato la mia versione. Eccola.

Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso 

Questa è la prima frase di questo racconto. Questa è la seconda frase. Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso. Questa frase si interroga sul valore intrinseco delle prime due frasi. Questa frase serve a informarvi, se non lo avete ancora capito, che questo è un racconto auto-referenziale, cioè un racconto che contiene frasi che si riferiscono alla loro stessa struttura e funzione. Questa è una frase che fornisce una chiusura al primo paragrafo. 

Questa è la prima frase di un nuovo paragrafo in un racconto auto-referenziale. Questa frase vi presenta il protagonista del racconto, un ragazzino di nome Billy. Questa frase vi racconta che Billy è biondo e con gli occhi azzurri e americano e dodicenne e che sta strangolando sua madre. Questa frase osserva la natura involuta della forma narrativa auto-referenziale mentre riconosce il bizzarro e giocoso distacco che consente allo scrittore. Come per illustrare il senso dell’ultima frase, questa frase ci ricorda, senza voler fare gli spiritosi, che i bambini sono un prezioso dono di Dio e che il mondo è un posto migliore quando è benedetto dalle gioie e dai piaceri senza pari che essi vi portano. 

Questa frase descrive gli occhi al'’infuori e la lingua penzoloni della madre di Billy e si riferisce agli sgradevoli rumori di asfissia e strozzamento che sta facendo. Questa frase fa la constatazione che sono tempi incerti e difficili, e che le relazioni, anche quelle che appaiono ben radicate e permanenti, hanno proprio la tendenza a rompersi. 

Presenta, in questo paragrafo, l’espediente dei frammenti di frase. Un frammento di frase. Un altro. Bell’espediente. Sarà usato più tardi. 

Questa è in realtà l’ultima frase del racconto, ma è stata messa qui per errore. Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso. Quando Gregor Samsa si svegliò un mattino da sogni agitati, si trovò nel suo letto trasformato in un enorme insetto. Questa frase vi informa che la frase precedente proviene interamente da un’altra storia (una molto migliore, si noti).e non ha per nulla posto in questo tipo di racconto. Nonostante le affermazioni della frase precedente, questa frase si sente costretta a informarvi che il racconto che state leggendo è davvero “La metamorfosi” di Franz Kafka, e che la frase cui si riferisce la frase precedente è l’unica frase che in effetti non appartiene a questo racconto. Questa frase contraddice la frase precedente informando il lettore (povero, confuso tapino) che questo brano letterario è in effetti la Dichiarazione d’Indipendenza, ma che l’autore, in una manifestazione di estrema negligenza (se non di malizioso sabotaggio) ha finora omesso di inserire anche una sola frase di quel documento entusiasmante, sebbene si sia degnato di utilizzarne un piccolo frammento, cioè “Quando nel corso degli eventi umani”, inserito tra virgolette presso la fine della frase. Mostrando una sottile consapevolezza della noia e dell’ostilità totale del lettore medio riguardo ai giochi concettuali senza scopo in cui si indulgeva nelle precedenti frasi, questa frase ci riporta finalmente allo scenario del racconto, facendo la domanda “Perché Billy sta strangolando sua madre?” Questa frase cerca di gettare una qualche luce sulla domanda posta dalla frase precedente, ma non lo fa. Questa frase, invece, ci riesce, in quanto suggerisce una possibile relazione incestuosa tra Billy e sua madre e allude alle complicazioni freudiane del caso, che ogni lettore accorto coglierà immediatamente. Incesto. Il tabù indicibile. Il divieto universale. Incesto. E si notano i frammenti di frase? Bell’espediente letterario. Sarà usato ancora più tardi. 

Questa è la prima frase di un nuovo paragrafo. Questa è l’ultima frase di un nuovo paragrafo. 

Questa frase può servire sia da inizio del paragrafo sia da fine, a seconda della sua posizione. Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso. Questa frase solleva una seria obiezione sull’intera classe di frasi auto-referenziali che si limitano a commentare la loro propria funzione o posizione all’interno del racconto (ad esempio le quattro frasi precedenti), sulla base che esse sono monotonamente prevedibili, imperdonabilmente auto-indulgenti, e servono soltanto a distrarre il lettore dal reale contenuto di questo racconto, che a questo punto sembra riguardare lo strangolamento e l’incesto e chissà quali altri deliziosi temi. Lo scopo di questa frase è di segnalare che la frase precedente, per quanto essa non faccia parte della classe delle frasi auto-referenziali che critica, tuttavia serve anche a distrarre il lettore dal reale contenuto di questo racconto, che in realtà riguarda l’inspiegabile trasformazione di Gregor Samsa in un enorme insetto (nonostante le esplicite obiezioni di altre frasi benintenzionate ma male informate). Questa frase può servire sia da inizio del paragrafo sia da fine, a seconda della sua posizione.

Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso. Questo è quasi il titolo del racconto, che si trova solo una volta nel racconto stesso. Questa frase sostiene con rammarico che fino a questo punto la modalità auto-referenziale di racconto ha avuto un effetto paralizzante sul reale progresso del racconto stesso – cioè queste frasi sono state talmente impegnate ad analizzare se stesse e il loro ruolo nel racconto che non hanno in generale compiuto la loro funzione di comunicatori di eventi e idee che si spera si uniscano in una trama, uno sviluppo dei personaggi, ecc. – in breve, la precisa raison d'être di una qualsiasi rispettabile, operosa frase nel bel mezzo di un brano di prosa convincente. Questa frase fa inoltre notare l’ovvia affinità tra l’intrico di queste frasi consapevoli della propria agonia e gli esseri umani afflitti in modo simile, e sottolinea gli analoghi effetti paralizzanti provocati dall'eccessivo e tormentato esame di coscienza. 


Lo scopo di questa frase (che può anche fare da paragrafo) è di immaginare che se la Dichiarazione d’Indipendenza fosse stata formulata e strutturata in modo così disattento e incoerente come questo racconto lo è stato finora, non si potrebbe dire in che tipo di scellerata società libertina vivremmo ora o in quali abissi di decadenza sarebbero sprofondati gli abitanti di questo paese, fino al punto di scrittori squilibrati e depravati che costruirebbero frasi sgraziate in modo irritante e inutilmente prolisso, che talvolta posseggono la discutibile se non totalmente sgradita qualità di riferirsi a se stesse e che talvolta diventano anche frasi coordinate malamente o esibiscono altri segni di sintassi imperdonabilmente approssimativa come ridondanze superflue non richieste che quasi certamente avrebbero effetti rischiosi per la condotta e la morale della nostra suggestionabile gioventù, portandola a commettere incesto o persino assassinio ed è forse questo il perché Billy sta strangolando sua madre, a causa di frasi proprio come questa, che non ha fini comprensibili o un chiaro scopo e termina appunto dovunque, anche a met 

Bizzarro. Un frammento di frase. Un altro frammento. Dodicenne. Questa è una frase che. Frammentata. E strangolando sua madre. Mi spiace, mi spiace. Bizzarro. Questo. Più frammenti, Ciò è. Frammenti. Il titolo di questo racconto, che. Biondo. Mi spiace, mi spiace. Frammento dopo fram-mento. Più difficile. Questa è una frase che. Frammenti. Accidenti buon espediente. 

Lo scopo di questa frase è triplice: (1) scusarsi per lo sfortunato e inesplicabile sbandamento esibito dal precedente paragrafo; (2) assicurare voi, lettore, che non capiterà di nuovo; e (3) ripetere il fatto che questi sono tempi incerti e difficili e che gli aspetti del linguaggio, anche quelli apparentemente stabili e profondamente radicati come la sintassi e il significato, si distruggono. Questa frase non aggiunge nulla di sostanziale alle opinioni della frase precedente, ma fornisce semplicemente un frase conclusiva a questo paragrafo, che altrimenti potrebbe non averne una. 

Questa frase, in un improvviso e coraggioso impeto di altruismo, prova ad abbandonare la modalità auto-referenziale, ma non ci riesce. Questa frase ci prova ancora, ma il tentativo è condannato in partenza.

Questa frase, in un ultimo disperato tentativo di infondere un qualche briciolo di trama a questo immoto brano di prosa, allude rapidamente agli irrequieti tentativi di occultamento di Billy, seguiti da un lirico, toccante, passaggio ben scritto, in cui Billy si riconcilia con suo padre (risolvendo così i subliminali conflitti freudiani palesi a qualsiasi lettore avveduto) e a una eccitante scena finale di inseguimento poliziesco durante il quale Billy viene casualmente colpito e ucciso da un poliziotto inesperto in preda al panico che per coincidenza si chiama anche lui Billy. Questa frase, sebbene sia sostanzialmente in completa sintonia con i lodevoli sforzi della precedente drammatica frase, ricorda al lettore che tali allusioni a una storia che, in effetti, non esiste ancora non sostituiscono affatto la realtà oggettiva e pertanto non salveranno l’autore (indolente e svogliato qual è) dal proverbiale vicolo cieco. 

Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo. 

Lo scopo. Di questo paragrafo. È di scusarsi. Per il suo ingiustificato uso. Di. Frammenti di frase. Scusate.

Lo scopo di questa frase è di scusarsi per i vani e sciocchi giochi da adolescente ai quali ci si è lasciati andare nei due precedenti paragrafi, e di esprimere rammarico da parte nostra, le frasi più mature, perché l’intero tono di questo racconto è tale da non poter sembrare di comunicare un semplice scenario, per quanto torbido. 

Questa frase desidera scusarsi per tutte le inutili scuse che si trovano in questo racconto (la presente inclusa), le quali, sebbene qui sistemate apparentemente a beneficio dei lettori più irritati, ritardano solamente in modo fastidiosamente ricorsivo la continuazione della trama oramai pressoché dimenticata. 

Questa frase sprizza punteggiatura alla notizia del tremendo significato dell'auto-riferimento applicato alle frasi, una pratica che potrebbe dimostrarsi un vero e proprio vaso di Pandora di potenziale caos, perché se una frase può riferirsi o alludere a se stessa, perché non una modesta proposizione subordinata, magari proprio questa proposizione? O questo frammento di frase? O tre parole? Due parole? Una

Forse è appropriato che questa frase ci ricordi gentilmente e senza alcuna traccia di compiacenza che questi sono tempi davvero difficili e incerti e che in generale le persone non sono abbastanza cortesi le une con le altre, e forse noi, esseri umani senzienti o frasi senzienti, dovremmo proprio sforzarci di più. Voglio dire, esiste una cosa come il libero arbitrio, ci deve essere, e questa frase ne è la prova! Né questa frase né tu, lettore, siete completamente disarmati di fronte a tutte le spietate forze all’opera nell’universo. Dovremmo stare piantati per terra, affrontare i fatti, prendere Madre Natura per la gola e sforzarci di più

Per la gola. Di più, di più, di più. 

Scusate. 

Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso. 

Questa è l’ultima frase del racconto. Questa è l’ultima frase del racconto. Questa è l’ultima frase del racconto. Questa è. 

Scusate.



venerdì 3 maggio 2013

La quercia del Tasso

La quercia di Torquato Tasso esiste per davvero, sulle pendici del Gianicolo, nei pressi della chiesa di Sant’Onofrio. La leggenda vuole che il poeta si sedesse alla sua ombra negli ultimi tempi della sua vita, quando era ospite del convento annesso alla chiesa. La quercia, ora un tronco rinsecchito addossato a un muretto, si trovava allora nel giardino del convento, dove il poeta si spense il 25 aprile 1595. Il suo sepolcro si trova in una cappella laterale della chiesa. 

Anche questo luogo di memorie non è sfuggito alla prosa surreale di Achille Campanile (1899-1977), uno dei più grandi e prolifici umoristi italiani, scrittore di narrativa e di teatro, giornalista e critico televisivo, che con le sue opere ha percorso quasi tutto il '900, dalla fine degli anni ’20 fino agli ’70. Quasi uno scioglilingua, spesso recitato come monologo teatrale, la Quercia del Tasso, si regge principalmente su una serie di giochi di parole e di allitterazioni, basati sui diversi significati della parola tasso. Il raccontino comparve in Vite degli uomini illustri, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1979 ed è un classico dello stile di Campanile. Lo propongo nell'interpretazione di una brava attrice della compagnia degli ZappAttori, data presso il teatro "La Casetta" di Roma per la rassegna "I Volti della Follia" (2011). Sotto c’è il testo.

 

La quercia del Tasso 

Quell’antico tronco d’albero che si vede ancor oggi sul Gianicolo a Roma, secco, morto, corroso e ormai quasi informe, tenuto su da un muricciolo dentro il quale è stato murato acciocché non cada o non possa farsene legna da ardere, si chiama la quercia del Tasso perché, avverte una lapide, Torquato Tasso andava a sedervisi sotto, quand’essa era frondosa. 

Anche a quei tempi la chiamavano così. 

Fin qui niente di nuovo. Lo sanno tutti e lo dicono le guide. 

Meno noto è che, poco lungi da essa, c’era, ai tempi del grande e infelice poeta, un’altra quercia fra le cui radici abitava uno di quegli animaletti del genere dei plantigradi, detti tassi. 
Un caso. 

Ma a cagione di esso si parlava della quercia del Tasso con la “t” maiuscola e della quercia del tasso con la “t” minuscola. In verità c’era anche un tasso nella quercia del Tasso e questo animaletto, per distinguerlo dall’altro, lo chiamavano il tasso della quercia del Tasso. 

Alcuni credevano che appartenesse al poeta, perciò lo chiamavano “il tasso del Tasso”; e l’albero era detto “la quercia del tasso del Tasso” da alcuni, e “la quercia del Tasso del tasso” da altri. 

Siccome c’era un altro Tasso (Bernardo, padre di Torquato, poeta anch’egli), il quale andava a mettersi sotto un olmo, il popolino diceva: “E’ il Tasso dell’olmo o il Tasso della quercia?”. 

Così poi, quando si sentiva dire “il Tasso della quercia” qualcuno domandava: “Di quale quercia?” 

“Della quercia del Tasso.” 

E dell’animaletto di cui sopra, ch’era stato donato al poeta in omaggio al suo nome, si disse: “il tasso del Tasso della quercia del Tasso”. 

Poi c’era la guercia del Tasso: una poverina con un occhio storto, che s’era dedicata al poeta e perciò era detta “la guercia del Tasso della quercia”, per distinguerla da un’altra guercia che s’era dedicata al Tasso dell’olmo (perché c’era un grande antagonismo fra i due). 

Ella andava a sedersi sotto una quercia poco distante da quella del suo principale e perciò detta: “la quercia della guercia del Tasso”; mentre quella del Tasso era detta: “la quercia del Tasso della guercia”: qualche volta si vide anche la guercia del Tasso sotto la quercia del Tasso. 

Qualcuno più brevemente diceva: “la quercia della guercia” o “la guercia della quercia”. Poi, sapete com’è la gente, si parlò anche del Tasso della guercia della quercia; e, quando lui si metteva sotto l’albero di lei, si alluse al Tasso della quercia della guercia. 

Ora voi vorrete sapere se anche nella quercia della guercia vivesse uno di quegli animaletti detti tassi. 

Viveva. 

E lo chiamarono: “il tasso della quercia della guercia del Tasso”, mentre l’albero era detto: “la quercia del tasso della guercia del Tasso” e lei: “la guercia del Tasso della quercia del tasso”. 

Successivamente Torquato cambiò albero: si trasferì (capriccio di poeta) sotto un tasso (albero delle Alpi), che per un certo tempo fu detto: “il tasso del Tasso”. 

Anche il piccolo quadrupede del genere degli orsi lo seguì fedelmente, e durante il tempo in cui essi stettero sotto il nuovo albero, l’animaletto venne indicato come: “il tasso del tasso del Tasso”. 

Quanto a Bernardo, non potendo trasferirsi all’ombra d’un tasso perché non ce n’erano a portata di mano, si spostò accanto a un tasso barbasso (nota pianta, detta pure verbasco), che fu chiamato da allora: “il tasso barbasso del Tasso”; e Bernardo fu chiamato: “il Tasso del tasso barbasso”, per distinguerlo dal Tasso del tasso. 

Quanto al piccolo tasso di Bernardo, questi lo volle con sé, quindi da allora quell’animaletto fu indicato da alcuni come: il tasso del Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal tasso del Tasso del tasso; da altri come il tasso del tasso barbasso del Tasso, per distinguerlo dal tasso del tasso del Tasso. 

Il comune di Roma voleva che i due poeti pagassero qualcosa per la sosta delle bestiole sotto gli alberi, ma fu difficile stabilire il tasso da pagare; cioè il tasso del tasso del tasso del Tasso e il tasso del tasso del tasso barbasso del Tasso.

martedì 30 aprile 2013

Transatlantic City


La tempesta è passata. Le onde dell’oceano sembrano essersi placate, ma i vecchi pescatori dicono di diffidare della calme improvvise, che talvolta nutrono guai peggiori. Sul lungomare ancora qualche goccia di pioggia, sulla spiaggia vecchie barche in rovina, nel cielo insistite grida di uccelli marini. Si fa buio. In uno degli alberghi-casinò, in un’ala inaccessibile al pubblico e protetta da uomini armati, i boss delle due famiglie hanno appena deciso una tregua per la spartizione del territorio. Uniti contro il comune nemico. La pace è stata voluta, quasi imposta, dal vecchio padrino, che ha salutato l’accordo con viva e vibrante soddisfazione. Comanda ancora lui, nonostante l’età e gli acciacchi. Non sono stati capaci di trovargli un successore che sia giunto vivo alla carica: tutti impallinati alle spalle, nei soliti regolamenti di conti, soprattutto tra membri dello stesso clan. 

I due nuovi boss sono convinti di aver fatto un buon lavoro. Henry e Angelo si sono anche stretti la mano, e pensare che solo un mese fa le due gang si sparavano ogni giorno, giurando eterna guerra contro i rivali. Ora tutti parlano di concordia e di sforzo comune contro l’emergenza. L’unica emergenza che li preoccupa, e che ha portato a quella stretta di mano, sono i nuovi arrivati sulla scena, gli irlandesi di Joe Cricket, gente dura, indifferente a ogni codice d’onore, decisa a impadronirsi di un potere consolidato da decenni. Sorseggiando un whiskey invecchiato, Angelo pensa al sorriso del suo vecchio, che ancora una volta è riuscito a evitare i guai con la giustizia. Henry sta telefonando allo zio e gli dice che l’irlandese si starà mordendo le mani. Entrambi ridono di P. L., che pensava di venire a patti con Cricket ed è stato fatto fuori senza tante cerimonie. 

Aver isolato gli irlandesi è un risultato importante, che non ammette critiche. Uno scagnozzo di Harry dice che chi non ci sta è fuori, è un traditore. La sua ganza è entrata nel comitato di una ventina di membri nato per garantire il patto. Lei garantisce due volte, dato che fa parte della famiglia di Angelo e il suo uomo è in quella di Henry. Tuttavia, nonostante le rassicurazioni di tutti, in pochi sorridono. Vedi tizi nei corridoi e sugli ascensori con la pistola che spunta dall’ascella. C’è nel fumo del salone una tensione che non si riesce a nascondere, che si respira anche fuori, nell’aria salmastra che sa di pesce fritto e alghe marcescenti. Tra le slot e i tavoli verdi qualcuno tira fuori dalla custodia un sassofono e incomincia suonare.

 

Qualcuno chiede a Henry quando durerà la tregua. Lui risponde laconico: “Vedrò.” Intanto il vento si rialza e riprende a piovere.

domenica 24 marzo 2013

Gita a Roma


Partimmo all’alba con il pullman di Silvio, io, mia moglie Adele e suo fratello Albino, e ci facemmo tutta una tirata fino a Roma senza neanche fermarci per pisciare e per fortuna che avevamo i pannoloni. Una gita per vedere il papa e stare un po’in piazza, con un cestino di generi di conforto pagato da lui, che a noi vecchi ci è sempre piaciuto e ci dà quello che vogliamo vedere in televisione. E la bandiera per chi la voleva e Adele la prese per coprirsi le spalle che a marzo non c’è da fidarsi. Durante il viaggio guardammo la Zanicchi e cantammo Azzurro prima di crollare uno a uno e ci svegliarono a Chiusi. Arrivammo nella piazza che dovevamo starci tre ore e che cosa facciamo in tre ore che siamo già stanchi prima di cominciare? Ci sedemmo in un bar a bere un caffè che di più non potemmo permetterci. A dir la verità Piazza San Pietro ce l’aspettavamo diversa. Per fortuna che poi arrivò Silvio.

giovedì 14 marzo 2013

Jorge


Impara Adso, mio giovane amico, che molto spesso l'ostentata pietà può nascondere desideri e atti inconfessabili. Avresti mai pensato che padre Jorge potesse un giorno aver compiuto simili misfatti, rivelando la sua natura di essere imperfetto? Il peccato si annida dentro ciascuno di noi, anche in chi è elevato alle più alte cariche. Con l'aiuto di Dio, soltanto il pentimento può riscattare il responsabile, e soltanto la ragione può servire a smascherarlo. 

Il tuo fratello in Cristo, frate Guglielmo da Baskerville.

venerdì 8 marzo 2013

Prima liceo, tra sesso e rivoluzione

Il criterio che aveva portato una trentina di adolescenti sfigati nell'unica classe tutta maschile dell’Einstein era puramente geografico: venivamo tutti da fuori Milano, oppure dalle periferie allora ai margini della campagna, come il Vigentino, Rogoredo, via Mecenate. A peggiorare il nostro senso di esclusione, la 1°H era la sola classe ospitata in un’aula del seminterrato, di fronte all'infermeria e al bar e di fianco al garage dei professori. Una delle conseguenze più evidenti di questo isolamento, a parte l’indimenticabile aroma di caffè mescolato ai gas di scarico, era che ad ogni cambio di insegnante godevamo di un quarto d’ora di riposo logistico, il tempo necessario per essere raggiunti da un essere trafelato con il registro in mano, in provvisoria discesa nell'Averno, tutt'altro che facilis

Facevamo parte della generazione del baby-boom, e quella soluzione serviva a selezionare gli iscritti in funzione degli spazi disponibili. Il professor Papandrea, il preside, aveva già previsto una certa selezione naturale e indotta, con conseguente riduzione significativa dei promossi e smembramento finale della classe, con i sopravvissuti, i “più adatti”, distribuiti nelle altre sezioni indicate da lettere precedenti e più fortunate. Da anni, infatti, alla 1°H non seguiva mai una 2°H. 

Non ricordo i nomi dei professori di quella prima liceo scientifico dell’anno scolastico 1969-70, e di gran parte dei miei compagni di classe. Stranamente, ricordo soltanto il nome dell’insegnante di religione, don Virginio, un vecchio prete che aveva fatto come cappellano degli Alpini la campagna di Russia e ci parlava solo di quello, con dolore e rispetto per il nemico. Si sedeva sempre sopra un banco della prima fila, che i più dispettosi di noi provvedevano regolarmente a sporcare di gesso prima del suo ingresso. La prof di lettere era un’anziana signora, molto materna, che abitava sopra l'Upim di Piazzale Corvetto, quella di matematica era giovane e scheletrica, abbastanza insignificante. 

Erano ancora i tempi beati in cui l’anno scolastico incominciava ai primi di ottobre, ma c’erano la contestazione e l’autunno caldo, perciò le nostre vacanze estive furono in qualche modo prolungate da una lunga occupazione fino alla fine del mese. Ci fu un periodo di calma relativa in novembre, durante il quale gli scioperi avevano cadenza solo settimanale, interrotto in maniera tragica dalla bomba di Piazza Fontana. Così a fasi alterne, fino a metà maggio, quando anche i più politicizzati sentivano avvicinarsi gli scrutini finali. 

In quel primo anno agitato scoprii alcune cose delle quali alle medie, nel mio paesone sulla via Emilia, avevo solo vago sentore. Innanzitutto la città, luogo meraviglioso, caotico, rumoroso, futurista, che amavo scoprire poco alla volta e in aree sempre più lontane, come un esploratore curioso e un po’ intimorito. Con un certo brivido amavo andare alla Statale in via Festa del Perdono, luogo dei grandi, simbolo della mia crescita umana futura, dove spesso con qualche amico bigiavo le manifestazioni per mangiare i panzerotti o i panini con il wurstel e i crauti rossi nella vicina Piazza Santo Stefano. 


C’era poi la politica, nella sua declinazione contestataria, allegramente casinista, ingenua, come si addice a un movimento di giovani pieni di speranze, di illusioni sul futuro, ma anche di grandissime cazzate. I giovani di allora erano fortunati, sapevano di vivere meglio dei loro genitori, e credevano che questo progresso fosse un meccanismo ineluttabile della storia. A loro nessuno poteva togliere almeno la speranza. Per me, e per molti come me, quell’atmosfera di protesta continua, di stravolgimento dei tempi e dei luoghi stabiliti, che già si manifestava anche in forme violente, era, lo devo ammettere, un gran divertimento. La mia coscienza politica era quella di un ragazzino, cioè rasentava lo zero, e a nulla valeva la lettura di quei pallosissimi libretti rivoluzionari che allora circolavano e che quasi ti obbligavano a comprare davanti alle scuole. Sapevo che le nostre rivendicazioni contro l’autoritarismo e per il diritto allo studio erano giuste, e vedevo che in cambio avevamo gas lacrimogeni e stragi. Mi sentivo dalla parte della “rivoluzione”, della quale apprezzavo non certo la componente militare (i katanga del Movimento Studentesco mi facevano paura) ma quella più genuinamente libertaria, un po’ hippy, con molto rock, ma senza le droghe, che non sapevamo neanche che cosa fossero. E poi c’era il sesso, più immaginato che sperimentato. 


Già. Per i primini di una classe tutta maschile le manifestazioni erano anche le occasioni privilegiate di conoscere le ragazze. C’erano le prime esperienze con l’altro sesso, cose ridicole di fronte alla precocità priva di poesia dei tempi attuali: una passeggiata mano nella mano, il primo bacio con una di seconda, la piacevole sensazione di un seno toccato attraverso il maglione. Fu un formidabile connubio di impegno e cuccamento, di slogan truculenti e di minigonne. Aveva ragione Gilles Deleuze a dire che non c’è rivoluzione senza investimento libidinale: eros e rivoluzione camminavano anche loro per mano. Penso che la sinistra in Italia abbia perso gran parte del suo fascino per i giovani proprio perché è passata l’idea che a destra si scopa di più. 


Alla fine dell’anno scolastico della 1°H dell’Einstein fummo promossi in una quindicina, da suddividere nelle tre seconde delle sezioni che facevano inglese. Pochi giorni dopo l’esposizione dei cartelloni, i miei genitori furono convocati da Papandrea per il sorteggio e tornarono con la notizia che ero finito nella B, uno delle sezioni più prestigiose e, last but not least, collocata in un lungo corridoio del primo piano. Sapevo che, nella seconda, le ragazze sarebbero state circa il doppio dei ragazzi: il futuro sembrava promettente, in quell'estate di Rare Bird e Mungo Jerry. Ancora non conoscevo lei, la Pallade Atena del Liceo, l’algida vergine della matematica: avrei incontrato la professoressa Ines Furlan una volta giunto in terza, ma questa è una storia diversa e ve la racconterò un’altra volta.