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domenica 14 aprile 2019

Il passaggio a Nord-Ovest


Potenza di una metafora azzeccata, tocca dare ragione a uno dei filosofi francesi che furono oggetto degli strali di Alain Sokal e Jean Bricmont nella loro famosa burla. Il Passaggio a Nord-Ovest è stato utilizzato da Michel Serres (1930) come titolo del quinto e ultimo volume della sua serie Hermés, ambiziosa e labirintica non-enciclopedia della storia della comunicazione e del sapere umano (1969-80). Come egli stesso ha dichiarato in un’intervista,
“Il Passaggio a Nord-Ovest (…) è un cammino difficile, pieno di ostacoli, un vero labirinto di terra, di acqua e di ghiacci. L’immagine del passaggio tra le scienze esatte e le scienze umane. È un cammino che non è dato una volta per tutte, ma che bisogna costruire, scoprire ogni volta”.
Esistono paesi, regioni, luoghi che colpiscono l’immaginario più di altri. Si tratta spesso di zone di transizione, di incontro tra mondi diversi. Il Passaggio a Nord-Ovest è uno di questi, perché la sua ricerca è durata secoli, da quando Giovanni Caboto, nel 1490, ipotizzò l’esistenza di una via per l’Oriente dall’Atlantico, alternativa a quella che comportava il periplo dell’Africa attraverso il Capo di Buona Speranza (il Canale di Suez e quello di Panama erano di là da venire). In realtà non si tratta di una sola rotta a nord del Canada, ma di una serie di mutevoli passaggi tra ghiacci, stretti canali, secche, in mezzo a terre sconosciute e inospitali, che spesso furono causa di tragici naufragi o di morti per gelo e inedia. 


Il passaggio, un tempo praticabile soltanto durante la breve estate artica, fu infine aperto nel 1906 dall’esploratore norvegese Roald Amundsen, al termine di un viaggio durato tre anni a bordo del peschereccio Gjoa. Il repentino scioglimento di una parte considerevole della calotta polare artica, avvenuto in questi ultimi tempi a causa del riscaldamento globale, ha reso molto meno avventurosa questa strada, che consente di accorciare di circa quattromila chilometri il viaggio dall’Europa all’Estremo Oriente rispetto al transito attraverso il Canale di Suez.

Serres non parla dunque di ponti tra cultura umanistica e cultura scientifica, tutto sommato agevoli una volta scoperti o costruiti, ma utilizza una metafora geografica che allude a un’esplorazione continua, faticosa, spesso fallace. Si tratta di un cammino a passi infinitesimi, in cui gioca un ruolo fondamentale il caso. A questo proposito Serres utilizza il termine francese randonnée (escursione, trekking, lunga camminata), di cui fa notare la parentela etimologica con l’inglese random (casuale, accidentale, aleatorio), entrambe le parole derivanti da un antico termine del linguaggio di caccia, che ha dato anche l’italiano randagio.

Serres cerca il passaggio come Zenone di Elea, il geometra viaggiatore degli spazi presocratici:
“Zenone partì da Atene per andare a imbarcarsi per Elea. Aveva appena posato il piede, che aveva leggero, davanti all’altro, che si mise a sognare le miriadi, e più, di modi di tagliare a pezzi il viaggio e di ricominciare. Volle cambiare. Perché camminare sempre in una direzione e in un senso solo? (…) Finalmente Zenone, il vero o il nuovo Zenone, Zenone di Elea, di Atene, di Parigi, o di dove vi pare, Zenone parte da qua per andare a imbarcarsi laggiù alla volta di paraggi difficili. Per precauzione, si era messo in tasca un bossolo, in cui danzavano i dadi. Da quel momento, egli tira a sorte il punto di ripartizione in cui si ferma, davanti alla catena interminabile delle ripetizioni, punto in cui cambia anche di senso, tira a sorte anche la lunghezza dei suoi passi e, forse, la sua dimensione, tira a sorte l’ampiezza dell’angolo al momento della svolta, tira a sorte tutti gli elementi, variabili, del suo cammino, tira a sorte gli elementi sui quali aveva variato, negli ultimi percorsi”.
Nel passaggio a Nord-Ovest non si può procedere in linea retta, ma cambiando continuamente percorso secondo i capricci dei dadi di Zenone. La freccia non raggiungerà mai il suo bersaglio, anche e soprattutto perché procede zigzagando. Più Odisseo che Zenone, più esploratore che geometra, l’intellettuale contemporaneo dovrà essere capace di trattare in forma narrativa argomenti che un tempo si trattavano in forma sistematica.

La scienza e la cartografia del sapere, una volta considerati stabili e immutabili, oggi necessitano di nuove strategie. Il sapere, allora, non sarà mai chiuso? Non si potrà mai circoscrivere il periplo della conoscenza? La domanda non è se possiamo farlo, ma esplorare strade nuove, ogni volta diverse, interrogandoci sul modo e il senso di tutto ciò abbiamo fatto finora per raggiungere un tale scopo.


Affinché una via praticabile tra le varie isole della conoscenza sia oggi concepibile, all’incrocio nebbioso e incerto delle scienze esatte e delle scienze umane, dobbiamo abbandonare ogni pretesa di schema generale, di visione unificante, e tener conto di tutti gli ostacoli, di tutte le singolarità e i contro-esempi. Il globale non può fare a meno del locale, come la foresta non può prescindere dall’esistenza, dall’altezza, dall’esposizione, dall’ombra di ogni singolo albero che la costituisce. Proprio mentre gli sforzi di molti ricercatori sono diretti alla ricerca di una teoria unificante, Serres sembra proporre provocatoriamente di dare sostanza al sogno del Roland Barthes che in La camera chiara propose una mathesis singularis, una scienza del singolo oggetto.

Secondo Serres, la legge è realtà solo per i sistemi chiusi, che imitano l'aspetto della necessità. Il generale è sbagliato, il generale mente sempre. Siamo ancora nella metà del XIX secolo e il positivismo si rifiuta di morire. Lavoriamo con sofisticati strumenti di misura per comprendere l'incommensurabile, ma assegniamo al vagare l'ornamento della precisione. Festeggiamo con entusiasmo ogni nuova grande conquista della scienza e della tecnica, dalle onde gravitazionali alla foto di un buco nero, e non ci accorgiamo che il nostro cammino è un procedere per deviazioni e differenze. La fine del viaggio è lontana, probabilmente non ci sarà mai, ma è questo vagabondaggio che ci fa conoscere il mondo e noi stessi. In una recente intervista, Serres ha detto che prima di fare filosofia bisogna aver fatto tre volte il giro del mondo.

lunedì 7 ottobre 2013

Le fonti della Mappa dell’Impero


Il notissimo paradosso di Jorge Luis Borges relativo alla Mappa dell’Impero in scala 1:1 è contenuto nel frammento Del rigore della scienza, l’ultimo di Storia universale dell’infamia (Il Saggiatore, 1961 traduzione di Mario Pasi), pubblicato per la prima volta nel 1935 e poi riveduto e corretto nel 1954. Come sua abitudine, l’autore argentino attribuisce la citazione a un libro che in realtà non esiste: 

 “… In quell'Impero, l'Arte della Cartografia giunse a una tal Perfezione che la Mappa di una sola Provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell'impero tutta una Provincia. Col tempo, queste Mappe smisurate non bastarono più. I Collegi dei Cartografi fecero una Mappa dell'Impero che aveva l’Immensità dell'Impero e coincideva perfettamente con esso. Ma le Generazioni Seguenti, meno portate allo Studio della cartografia, pensarono che questa Mappa enorme era inutile e non senza Empietà la abbandonarono all'Inclemenze del Sole e degl'Inverni. Nei deserti dell'Ovest rimangono lacerate Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendichi; in tutto il Paese non c’è altra reliquia delle Discipline Geografiche. (Suárez Miranda, Viajes de varones prudentes, libro IV, cap. XIV, Lérida, 1658)”. 

In molti si sono occupati di questo frammento, tra i quali Umberto Eco, che gli ha dedicato un godibilissimo capitoletto del Secondo diario minimo (Bompiani, 1992), Dell’impossibilità di costruire la carta dell’impero 1 a 1, nel quale esamina con finta serietà la possibilità teorica di tale mappa e, attraverso speculazioni sulla sua possibile natura (mappa opaca stesa sul territorio, mappa sospesa, mappa trasparente, permeabile, stesa e orientabile), sul suo ripiegamento e dispiegamento, giunge a concludere, sulla base del paradosso di Russell, che tale mappa non potrebbe rappresentare l’insieme territorio + mappa. Eco conclude la sua “dimostrazione” con i seguenti corollari: 

1. Ogni mappa uno a uno riproduce il territorio sempre infedelmente. 
2. Nel momento in cui realizza la mappa, l’impero diventa irrappresentabile. Si potrebbe osservare che con il corollario secondo l’impero corona i propri sogni più segreti, rendendosi impercepibile agli imperi nemici, ma in forza del corollario primo esso diverrebbe impercepibile anche a se stesso. Occorrerebbe postulare un impero che acquista coscienza di sé in una sorta di appercezione trascendentale del proprio apparato categoriale in azione: ma ciò impone l’esistenza di una mappa dotata di autocoscienza la quale (se mai fosse concepibile) diverrebbe a quel punto l’impero stesso, così che l’impero cederebbe il proprio potere alla mappa. 
3. Corollario terzo: ogni mappa uno a uno dell’impero sancisce la fine dell’impero in quanto tale e quindi è mappa di un territorio che non è un impero.

Piergiorgio Odifreddi, amante di Borges e suo studioso e divulgatore, in uno dei saggi reperibili in rete (Un matematico legge Borges), sostiene che “(…) il regresso infinito che deriva dall'ipotesi di una mappa perfetta di un territorio disegnata su una sua parte produce non una contraddizione, ma l’esistenza di un punto del territorio che coincide con la sua immagine sulla mappa (per il teorema del punto fisso di Banach)”. In effetti, ragionando su spazi metrici (insiemi X dotati di una distanza d), una contrazione dello spazio metrico è una funzione T : XX tale da mandare coppie di punti x, yX in coppie di punti T(x); T(y) con una distanza minore tra loro. Il teorema delle contrazioni, o del punto fisso di Banach-Caccioppoli, garantisce che una qualsiasi contrazione definita su uno spazio metrico ammette almeno un punto fisso, così detto perché "la funzione non lo muove", ossia l'immagine mediante T coincide con il punto stesso.


Sempre a proposito della mappa dell’Impero, Odifreddi afferma che “Una delle ossessioni di Borges, apparentata all'autoriferimento e apparentemente paradossale, è la cosiddetta mappa di Royce, che egli ha citato almeno tre volte”. In effetti Borges cita esplicitamente il paradosso del filosofo idealista americano Josiah Royce in un passo del saggio Magie parziali del “Don Chisciotte”, contenuto in Altre inquisizioni (Feltrinelli, 1963, ma l’originale è del 1960): 

“Le invenzioni della filosofia non sono meno fantastiche di quelle dell’arte: Josiah Royce, nel primo volume dell’opera The world and the individual (1899), ha formulato la seguente: ‘Immaginiamo che una porzione del suolo d'Inghilterra sia stata livellata perfettamente, e che in essa un cartografo tracci una mappa d’Inghilterra. L’opera è perfetta. Non c’è particolare del suolo d’Inghilterra, per minimo che sia, che non sia registrato nella mappa; tutto ha lì la sua corrispondenza. La mappa, in tal caso, deve contenere una mappa della mappa, che deve contenere una mappa della mappa della mappa, e così all'infinito’.” 

Un altro riferimento alla Mappa dell’Impero compare nelle Cronache di Bustos Domecq (Einaudi, 1975), scritto assieme a Adolfo Bioy Casares. Nel capitolo Naturalismo d’oggi  si dice che il critico Hilario Lambin Formento voleva stilare una mappa della Divina Commedia e fini per ripubblicare le tre cantiche esattamente come le aveva scritte Dante. Tale impresa “descrittivista” sarebbe stata ispirata proprio dalla lettura del passo di Viaggi di uomini prudenti di Suárez Miranda in cui si parla della mappa dell’impero!

“Dapprima, si accontentò di pubblicare, in piccoli e manchevoli clichés, gli schemi dei gironi infernali, della torre del Purgatorio e dei cieli concentrici, che adornano la pregiata edizione di Dino Provenzal. La sua natura esigente non si considerò, tuttavia, soddisfatta. Il poema dantesco gli sfuggiva! Una seconda illuminazione, alla quale presto sarebbe seguita una laboriosa e lunga pazienza, lo sottrasse a quella passeggera stasi. Il 23 febbraio del 1931 intuì che la descrizione del poema, per essere perfetta, doveva coincidere parola per parola con il poema, come la famosa mappa coincideva punto per punto con l’Impero. Eliminò, dopo mature riflessioni, la prefazione, le note, l’indice e il nome e recapito dell’editore, e dette alle stampe l’opera di Dante”. 

Odifreddi nota il fatto che lo stesso Borges sembra indicare in Royce la fonte dei suoi riferimenti alla mappa in scala 1:1. C’è tuttavia un precedente ancora più antico, che sembra strano sia sfuggito sia a Borges, sia a Odifreddi. È contenuto nel secondo volume di Sylvie e Bruno (Garzanti, 1978), l’ultimo romanzo di Lewis Carroll, pubblicato per la prima volta nel 1893, qualche anno prima della stampa del libro di Royce. Nel capitolo in cui il protagonista incontra l’eccentrico tedesco fatato Mein Herr, che lo intrattiene con un discorso pieno di considerazioni matematiche (e sul quale tornerò in un prossimo articolo) compare infatti una mappa in scala 1:1:

“Mein Herr sembrava così meravigliato che pensai bene di cambiare discorso. “Che cosa utile, una mappa tascabile!” Osservai. 
“È un’altra delle cose che abbiamo imparato dal vostro paese,” disse Mein Herr; “stendere le mappe; ma noi siamo andati oltre. “Secondo lei quale sarebbe la massima scala utile per le mappe?” 
“Cento su mille, un centimetro per chilometro.” 
“Solo un centimetro!” Esclamò Mein Herr. “L’abbiamo fatto subito, poi siamo arrivati a dieci metri per chilometro. Poi abbiamo provato cento metri per chilometro. E finalmente abbiamo avuto l’idea grandiosa! Abbiamo realizzato una mappa del paese alla scala di un chilometro per un chilometro!” 
“L’avete utilizzata?” 
“Non è stata ancora dispiegata,” disse Mein Herr. “I contadini hanno fatto obiezione. Hanno detto che avrebbe coperto tutta la campagna e offuscato la luce del sole. Così adesso usiamo la campagna vera e propria come mappa di se stessa e vi assicuro che funziona ottimamente”.” 

Sarebbe utile, a mio parere, investigare sull'ipotesi che Royce possa aver conosciuto l’opera finale dell’autore di Alice. Di sicuro sarebbe di notevole interesse anche conoscere come mai Borges, che conosceva bene i libri di Lewis Carroll, non ne faccia menzione.



domenica 1 settembre 2013

Nunes, tra ortodromie e lossodromie

Facciamo finta che la Terra sia una sfera perfetta. Prendiamo due punti A e B sulla sua superficie e consideriamo il piano che passa per quei due punti e il centro C della sfera. Il piano interseca la sfera terrestre individuando su di essa una circonferenza (che è un circolo massimo, poiché il suo raggio corrisponde al raggio terrestre). Chiamiamo questa circonferenza ortodromia, dal greco ορθο-δρομέω "che corre dritto". L’arco di circonferenza tra A e B, detto arco di ortodromia, è il cammino più breve tra quei due punti sulla superficie sferica. L’unico modo di congiungere A e B in maniera ancora più diretta sarebbe quello di scavare un tunnel tra i due punti che segua la corda sottesa all'arco di ortodromia, ma questo caso venne contemplato solo da Mariastella Gelmini in una storica nota, per cui non ce ne occuperemo.

Immaginiamo adesso di disegnare sulla sfera terrestre il reticolato geografico, con il suo sistema di meridiani e paralleli. I meridiani si incontrano ai poli e, poiché sono tutti circoli massimi, il cammino tra due punti qualsiasi lungo un meridiano, verso Nord o verso Sud, è sempre lungo una ortodromia, sempre il più breve. Tra i paralleli, invece, l’unico circolo massimo è rappresentato dall'Equatore. Solo lungo la linea dell’Equatore è possibile muoversi tra due punti A e B, verso Est o verso Ovest, con la sicurezza che si tratti del cammino più breve. Il fatto che due punti A e B siano posti su uno stesso parallelo, diverso dall'Equatore, non è di alcuna utilità: per definizione una ortodromia è un circolo massimo, mentre i paralleli non lo sono: i piani che li individuano tagliando la sfera terrestre non passano per il centro, perciò le circonferenze parallele sono sempre più piccole man mano che si procede verso i poli, fino a ridursi a un punto in corrispondenza di essi. Analogamente, man mano che ci si avvicina a uno dei due poli, la distanza tra due meridiani si riduce sempre di più, fino a che i due meridiani si incontrano. 


Il calcolo della distanza più breve tra due punti sulla superficie terrestre possiede un’utilità pratica solamente se essi sono lontani. Su piccole distanze, il vantaggio di seguire l’ortodromia invece che un altro percorso è trascurabile. Il capitano di una nave in rotta tra due porti del Mediterraneo all’inizio dell’età moderna poteva fare a meno di tali sottigliezze, tanto più che spesso si preferiva navigare sotto costa ed evitare i pericoli del mare aperto. Il problema della rotta più breve cominciò a porsi in termini stringenti quando le navi incominciarono ad attraversare gli oceani, cioè nei decenni immediatamente successivi al viaggio di Colombo attraverso l’Atlantico del 1492. E ciò avvenne nei paesi maggiormente impegnati nelle imprese di esplorazione (e di conquista). 

Inoltre, se sulla nave abbiamo a disposizione per orientarci la sola bussola magnetica, mantenere la rotta costante, cioè con un angolo costante rispetto al Nord, è facile, ma, come si vedrà, tale rotta non è affatto un’ortodromia, soprattutto alle latitudini più elevate. Per percorrere un arco di ortodromia bisognerebbe mutare continuamente la direzione della nave. I navigatori segnalarono questi problemi di orientamento nelle loro traversate oceaniche. 


Il primo ad analizzare questo problema fu il matematico, astronomo e cartografo portoghese Pedro Nunes (1502-1578), uno dei più importanti della sua epoca. Nel 1537, allegati a una traduzione in portoghese del De Sphaera di Giovanni Sacrobosco, egli pubblicò due trattati sui problemi di navigazione. Il primo di questi, intitolato Tratado sobre certas dúvidas da navegação (Trattato su certi dubbi di navigazione) fu ispirato da alcune domande di Martim Afonso de Sousa, capitano d’armata, esploratore del Brasile tra il 1531 e il 1533. Il secondo era intitolato Tratado em defesa da carta de marear (Trattato in difesa della carta nautica).

In questi trattati, Pedro Nunes sosteneva abbastanza chiaramente che gli archi di circoli massimi (le ortodromie) che costituiscono i percorsi più brevi tra due punti, non sono, tranne che nel caso dell’'equatore e dei meridiani, rotte costanti: se si vuole seguire un’ortodromia è necessario cambiare continuamente rotta (cioè l’angolo con il meridiano):

"[Nell’arte di navigare] ci sono due modi: il primo è seguire una rotta costante, senza variare. Il secondo modo è procedere per circoli massimi". 

E, poco oltre: 

"(…) il cammino che si fa seguendo una rotta non è per un circolo massimo, che è quello diretto e continuo: poiché facciamo sempre con i nuovi meridiani lo stesso angolo con il quale siamo partiti, è impossibile percorrere circolo un massimo (…); è invece una linea curva e irregolare"

È chiaro che Nunes distingue due tipi di rotta: quella che si percorre seguendo l’ortodromia e quella che invece si percorre seguendo un nuovo tipo di curva, che egli descrive per la prima volta e accompagna con alcuni disegni. Nunes sostiene che, tranne che lungo l’equatore o i meridiani, essa non è un circolo massimo e pertanto non costituisce il cammino più corto. Si tratta della prima descrizione di una lossodromia (gr. λοζο-δρομέω, "che corre obliquo"), anche se egli la chiama linha de rumo. Il termine moderno, come tantissime parole della scienza, è un grecismo posticcio, essendo la traduzione della parola olandese kromstrijk (linea curva) usata da Simon Stevin in un commento del 1608 sulla scoperta di Nunes. La prima comparsa di loxodromia si ebbe quando l’opera di Stevino fu tradotta in latino dal connazionale Snellius nello stesso anno.

Una lossodromia è quindi la curva che si descrive sulla superficie terrestre se si mantiene un angolo costante con i meridiani. Nel secondo trattatello, nel capitolo intitolato “Come navigare per circoli massimi” Nunes propone un compromesso tra i due modi di navigare, suggerendo che il pilota deve mutare direzione a intervalli regolari di tempo, in modo che la rotta seguita, composta da tratti di lossodromia, si approssimi a una ortodromia. Così si sommano i vantaggi dei due modi di navigare: costanza della rotta, almeno per certi tratti, e minor distanza da percorrere. 

Ma che tipo di curva è una lossodromia? Nella versione latina dei due stessi trattati, pubblicata nel 1556 a Basilea, Nunes descrive la sua forma: 

"La linea curva è diversa [da una ortodromia] e assomiglia a un’elica"

Infatti la lossodromia è ciò che oggi chiamiamo una spirale logaritmica, la quale inviluppa i poli (che ne rappresentano l’asintoto) e che unisce due punti qualsiasi sulla superficie terrestre, tagliando tutti i meridiani con lo stesso angolo. Il primo a descrivere la lossodromia in questi termini fu il matematico inglese Thomas Harriot nel 1595:

Il metodo che Nunes propone nel secondo testo per tracciare una lossodromia naturalmente non è analitico. Egli descrive un procedimento piuttosto laborioso per disegnare i punti di una lossodromia, che consiste nella risoluzione di diversi triangoli sferici, come si vede nell'illustrazione originale (vedi sotto). Immaginando una nave che parte dall'Equatore in direzione NE, Nunes considera un triangolo sferico in cui un lato è l’arco di meridiano che unisce a, che rappresenta il polo Nord, con il punto di partenza b della nave; il secondo lato, il più piccolo, è la rotta lungo il circolo massimo che si intende seguire; il terzo lato è l’arco di meridiano che unisce il polo con il punto raggiunto dalla nave dopo che ha alzato di un grado di latitudine la sua rotta rispetto a un circolo massimo. Dopo aver prolungato il lato minore del triangolo in modo da disegnare un angolo esterno con il secondo meridiano, Nunes ricorre al teorema dei seni di un triangolo sferico (i seni degli angoli di un triangolo sferico sono inversamente proporzionali ai seni degli angoli opposti) per calcolare la differenza tra questo angolo esterno e l’angolo della rotta nel punto di partenza all'interno del triangolo. Questa differenza fornisce la correzione necessaria per mantenere la nave su una rotta ortodromica. 

Il procedimento di Nunes consente di calcolare successivamente le coordinate dei punti c, e, g, ecc. che si trovano sulla lossodromia. Si tratta ovviamente di una costruzione approssimata: i lati più piccoli dei successivi triangoli sferici sono archi di ortodromia e in ogni iterazione si ha una piccola deviazione rispetto alla lossodromia desiderata. Il matematico allega anche una tabella per rappresentare i risultati dei calcoli per le rotte corrispondenti a sette angoli rispetto ai meridiani, sostenendo, beato lui, che questi valori possono essere ricavati da “adolescenti studiosi, secondo le precedenti dimostrazioni”. Bisogna dire che i marinai portoghesi non utilizzarono mai il metodo di Nunes, troppo raffinato per gli strumenti allora disponibili a bordo e per le capacità di calcolo dei capitani. Tuttavia, l’idea di correggere a intervalli regolari la rotta in modo da approssimare l’ortodromia con tratti di lossodromie è quella che si pratica ancora oggi nella navigazione marittima e aerea.



Oggi la descrizione e il calcolo delle lossodromie si fa con il linguaggio delle funzioni. Sul globo terrestre, le lossodromie corrispondono (qualora non siano «degenerate», cioè che l’angolo iniziale dato non sia nullo) a delle spirali logaritmiche che s’avvolgono intorno ai poli (al polo Nord se l’angolo iniziale è compreso tra ]0, π[ e lo spostamento avviene per latitudini crescenti). Indicando con β l’angolo iniziale formato con il meridiano, con φ la longitudine e con θ la colatitudine (che in coordinate sferiche è l’angolo complementare della latitudine), attraverso un calcolo che comporta il calcolo di equazioni differenziali non lineari, si ottiene:

θ (φ) = 2 arctan (eφ tan β

mentre la lunghezza L della lossodromia vale: 

L = π / 2 sen β 

È facile verificare che se β = π/2 l’arco percorso è il meridiano e la sua lunghezza equivale a un quarto del circolo massimo. 

Importantissima è anche l’opera di Nunes che riguarda la cartografia. Il matematico portoghese sostiene chiaramente che una proprietà auspicabile delle carte nautiche è che in esse le lossodromie siano rappresentate da linee rette. L’interesse per la navigazione è evidente: in una carta del genere, congiungendo il punto di partenza con quello di arrivo con un segmento rettilineo, si ottiene immediatamente la rotta da seguire durante il viaggio. 

Nasce allora il problema di come tracciare carte che possiedano tale proprietà. Si intuisce subito che, in una griglia formata dai meridiani e dai paralleli, la distanza tra questi ultimi deve aumentare con la latitudine. Nei trattati del 1537, Nunes accenna a questa proprietà, che equivale matematicamente alla tracciatura delle lossodromie. Tale proprietà è quella che caratterizza quella che oggi conosciamo come proiezione conforme di Mercatore, dal nome latino del cartografo fiammingo Gerard de Cremer (1512-1594) che nel 1569 pubblicò una carta del globo (Nova et Aucta Orbis Terrae Descriptio ad Usum Navigantium Emendata) ottenuta proiettando la sfera terrestre su un cilindro tangente l’Equatore. Nella carta di Mercatore, i meridiani e i paralleli sono linee perpendicolari, e ciò consente il mantenimento degli angoli e la rappresentazione con segmenti rettilinei delle lossodromie. Tuttavia, mentre la scala delle distanze è costante in ogni direzione attorno ad ogni punto, conservando allora gli angoli e le forme di piccoli oggetti, la proiezione di Mercatore distorce sempre più la dimensione e le forme degli oggetti estesi passando dall'equatore ai poli, in corrispondenza dei quali la scala della mappa aumenta a valori infiniti (a latitudini maggiori di 70° nord o sud è praticamente inutilizzabile). 


Mercatore ricavò con tutta probabilità la sua carta con un metodo grafico e con successive correzioni. La prima vera trattazione matematica delle proiezioni cartografiche sarebbe arrivata nel 1599 con l’opera dell’inglese Edward Wright Certaine Errors of Navigation, nella quale citò spesso Nunes e dedicò la maggior parte del primo capitolo alla discussione della sua opera sulle carte nautiche. 


Qui trovate una bella applet del dipartimento di matematica dell’Università di Ferrara per tracciare ortodromie e lossodromie sul globo terrestre e sulla carta di Mercatore.

Fonti principali: 

João Filipe Queiró – Pedro Nunes e as Linhas de Rumo – Gazeta de Matematica, Julho 2002, n. 143 (pp. 42-47) 

 W. G. L. Randles – Pedro Nunes e a Desccoberta da Curva Loxodromica - Gazeta de Matematica, Julho 2002, n. 143 (pp. 90-97)