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giovedì 18 luglio 2019

Cosmicomiche: Le figlie della Luna

Copertina di Houses of the Holy dei Led Zeppelin (1973). Fotomontaggio e serigrafia di Aubrey Powell per lo Studio Hipgnosi
Priva com'è d’un involucro d’aria che le faccia da scudo, la Luna si trovò esposta fin dalle origini a un continuo bombardamento di meteoriti e all'azione erosiva dei raggi solari. Secondo Tom Gold della Cornell University, le rocce della superficie lunare si sarebbero ridotte in polvere per l’urto prolungato delle particelle meteoriche. Secondo Gerard Kuiper dell’Università di Chicago, la fuga dei gas dal magma lunare avrebbe dato al satellite una consistenza porosa e leggera, come pietra pomice.
Come in tutte le Cosmicomiche, Italo Calvino introduce il racconto breve con una breve premessa scientifica, che informa il lettore sulle idee che l’hanno ispirato. Per Le figlie della Luna ricorre a due delle massime autorità del tempo, Thomas Gold e Gerard Kuiper.

Thomas Gold (1920 – 2004) è stato uno degli astrofisici di Cambridge che nel 1950 proposero la teoria, ora abbandonata, dello stato stazionario dell’universo e nel 1969 identificò le pulsar come stelle di neutroni rotanti con forti campi magnetici. In diversi articoli sostenne l’idea che la superficie lunare fosse in gran parte ricoperta da uno spesso strato di polvere, formatasi per “un processo di accumulo, escludendo qualsiasi liquefazione delle rocce dovuta a processi interni“. Secondo Gold, in The Nature of the Lunar Surface: Recent Evidence, articolo pubblicato il 22 aprile 1971 nei Proceedings of the American Philosophical Society (Vol. 115, No. 2 pp. 74-82),
la superficie della Luna potrebbe essere costituita da materiale che ha subito la sua differenziazione, i suoi particolari processi di selezione chimica, da qualche altra parte nelle primissime fasi [di formazione del sistema solare]. (…) È allora consentito pensare che lo strato più esterno della Luna non mostri altro che il fenomeno che assemblò la Luna. Se ciò è vero, allora naturalmente la Luna è un oggetto molto promettente per investigare l’origine del sistema solare, poiché siamo in presenza di un corpo nella sua forma primitiva, non in gran parte modificato come è invece la superficie della Terra. 
Gerard Kuiper (1905 – 1973), da molti considerato il padre delle scienze planetarie moderne, da teorico, sviluppò numerosi aspetti della teoria della formazione del sistema solare, come la formazione dei planetesimi e il ruolo svolto dalle collisioni nella storia primitiva del sistema solare. Dal punto di vista osservativo, a Kuiper dobbiamo la scoperta di alcuni satelliti dei pianeti più esterni, ma soprattutto l’intuizione dell’esistenza, poi confermata, di una fascia di materiale cometario oltre l’orbita di Nettuno, proveniente dalla formazione del sistema solare, oggi nota come Fascia di Kuiper. Dal 1960, quando lasciò l’Università di Chicago, e fino alla morte, fondò e diresse il Lunar and Planetary Laboratory all’Università dell’Arizona di Tucson, dove coordinò diversi progetti della NASA, studiando la superficie lunare e identificando possibili siti per l’allunaggio delle missioni Apollo. Nel 1964 sostenne che sulla superficie della Luna sarebbe stato possibile camminare “come su una neve croccante“, come poi fu confermato da Neil Armstrong e Edwin Aldrin nel 1969. In tempi di guerra fredda, fu precedentemente coinvolto nel Progetto segreto A119, il piano dell’Aeronautica americana per far detonare una testata nucleare sulla Luna, tanto per far capire che loro potevano farlo dovunque. Un suo collaboratore fu Carl Sagan, che era studente di dottorato di Kuiper al momento del progetto.

Polverosa o porosa che sia, la Luna che compare in questa Cosmicomica è ben diversa dall'idea di serena levità che caratterizza gran parte della letteratura sul nostro satellite e si differenzia dalle altre trattazioni che ne fece lo stesso Calvino. Il racconto breve comparve in volume nel novembre del 1968 in La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, edito dal Club degli Editori, anche se fu preceduto dalla pubblicazione sulla rivista erotica patinata Playmen nel maggio dello stesso anno, che aveva anche interessanti pagine di cultura e costume (e un’ottima tiratura). La prima diffusione su quotidiani, riviste e periodici era abituale per lo scrittore, che ad esempio pubblicò, per rimanere nelle Cosmicomiche lunari, La distanza della Luna su Il Caffè di Giambattista Vicari e La Luna come un fungo su Il Giorno

Come al solito, è l’eterno Qfwfq che racconta, con la vocina querula che lo stesso Calvino avrebbe poi confessato di cominciare a detestare.
La Luna è vecchia, bucherellata, consumata. Rotolando nuda per il cielo si logora e si spolpa come un osso rosicchiato. Non è la prima volta che questo accade; ricordo Lune ancor più vecchie e rovinate di questa; ne ho viste tante, di Lune, nascere e correre il cielo e morire.
In un passato imprecisato, in una città che sembra New York e si chiama New York, dominata dal consumismo,
c’era solo una stonatura, solo un’ombra: la Luna. Vagava per il cielo, spoglia tarlata e grigia, sempre più estranea al mondo di quaggiù, residuo d’un modo d’essere ormai incongruo. (…) Così ci si cominciò a porre il problema di cosa farne, di questo satellite controproducente: non serviva più a nulla; era un rottame da cui non si poteva recuperare più niente. Perdendo peso, andava inclinando la sua orbita verso la Terra: era un pericolo, oltretutto. E più s’avvicinava più rallentava il suo corso; non si poteva più tenere il calcolo dei quarti; anche il calendario, il ritmo dei mesi era diventato una pura convenzione; la Luna andava avanti a scatti come stesse per crollare.
Nelle notti di luna bassa certe persone fanno stranezze.
Ma quando vidi una ragazza completamente nuda seduta su una panchina di Central Park non potei fare a meno di fermarmi. (…) Attorno alla panchina erano sparpagliati sull'erba i suoi vestiti, calze e scarpe una qua e una là, orecchini e collane e braccialetti, borsetta e borsa per la spesa e il loro contenuto rovesciato in un cerchio di largo raggio (…), come se tornando da un dovizioso shopping per i negozi della città, quella creatura si fosse sentita chiamare e (…) ora stesse lì aspettando d’essere assunta nella sfera lunare. (…) S’alzò, avanzò per il prato. Aveva lunghi capelli color rame che le scendevano per le spalle. (…) E seguendola così per le aiuole m’accorgevo che (…) stava cercando di proteggere qualcosa di fragile, qualcosa che poteva cadere e andare in pezzi e perciò occorreva condurre verso luoghi dove si potesse posare delicatamente, qualcosa che comunque lei non poteva toccare ma solo accompagnare con i gesti: la Luna. La Luna pareva smarrita; abbandonato il solco della sua orbita non sapeva più dove andare; si lasciava trasportare come una foglia secca. Ora sembrava calare a picco verso la Terra, ora avvitarsi in una spirale, ora andare alla deriva. Perdeva quota, questo è certo.
La ragazza nuda si chiama, direi ovviamente, Diana e improvvisamente scompare, per ripresentarsi sulla capote ribaltata della macchina. Incominciano a inseguire la Luna, che pare giocare a nascondino tra i grattacieli. Nessun passante sembra notare questa giovane senza vestiti ritta su una macchina scoperta. Ma la ragazza non è sola:
protese nelle pose più strane, aggrappate ai radiatori, agli sportelli, ai parafanghi delle auto in corsa vedevo da ogni parte ragazze cui solo l’ala dorata o scura dei capelli faceva contrasto con il chiarore roseo o bruno della pelle nuda. Su ogni macchina era posata una di queste misteriose passeggere, tutte tese in avanti incitando i guidatori all'inseguimento della Luna. 
Sono tantissime, e lo strano corteo converge in un luogo dove la luna sembra essersi fermata.
Al termine della città ci trovammo di fronte a un cimitero d’automobili. (…) Su questo territorio frastagliato e rugginoso si chinava ora la Luna, e le distese di lamiera ammaccata si gonfiavano come spinte dall'alta marea. S’assomigliavano, la Luna decrepita e quella crosta terrestre saldata in un conglomerato di rottami. (…) Diana scese e tutte le altre Diane la imitarono. (…) Intanto andavano sparpagliate scalando la montagna degli oggetti morti: superarono la cresta, calarono nell'anfiteatro, si trovarono a formare come un grande cerchio là in mezzo. Allora alzarono le braccia tutte insieme.
Non posso non pensare a un’immagine come la copertina di Houses of the Holy, il quinto album in studio dei Led Zeppelin, pubblicato nel 1973, con dei bambini nudi intenti a scalare le colonne basaltiche della Giant Causeway in Irlanda del Nord. La Luna pare per un istante riprendere forza e innalzarsi.
Le fanciulle in cerchio stavano a braccia alte, i visi e i seni rivolti alla Luna. Era questo che la Luna aveva chiesto loro? Era di loro che essa aveva bisogno per sostenersi in cielo? Non feci in tempo a domandarmelo. In quel momento entrò in scena la gru.
Era un’enorme gru costruita dalle autorità, decise a sgombrare il cielo da quell'ingombro antiestetico, dalla quale si alzava una specie di pinza da granchio.
La benna s’aperse, dentata; ora, più che a una pinza di granchio, somigliava alla bocca d’uno squalo. La Luna era proprio lì; ondeggiò come se volesse scappare, ma quella gru sembrava calamitata: si vide la Luna come aspirata finirle proprio in bocca. Le mandibole si richiusero con un secco: crac!
La Luna prigioniera diventa una roccia nera e informe, retta soltanto dai denti della benna. Intanto gli operai dell’impresa hanno preparato una rete d’acciaio fissata saldamente al terreno, dove infine viene posata: il satellite è oramai 
un macigno butterato e sabbioso, così opaco che pareva incredibile avesse un giorno illuminato il cielo col suo riflesso splendente. (…) Poi tornò la calma. Il cielo ormai sgombro veniva innaffiato dai getti di luce dei riflettori. Ma già il buio impallidiva.
All'alba, per il cratere dei detriti terrestri, echeggia un mormorio. Tra i rifiuti della metropoli avanzano degli esseri barbuti.
In mezzo alle cose buttate via dalla città viveva una popolazione di persone buttate via anch'esse, messe al margine, oppure persone che s’erano buttate via di loro volontà, o che s’erano stancate di correre per la città per vendere e comprare cose nuove destinate subito a invecchiare: persone che avevano deciso che solo le cose buttate via erano la vera ricchezza del mondo. 
Una folla stracciona si dispone attorno alla Luna assieme a Diana nuda e tutte le altre ragazze. Avanzano, e sciolgono i fili d’acciaio della rete che imprigiona la Luna. Come un aerostato, guidata dalle ragazze che reggono i fili, la Luna si libra in alto, seguita da un’onda impressionante di rottami.
Seguendo quella Luna salvata dall'esser buttata via, tutte le cose e tutti gli uomini ormai rassegnati a esser buttati in un canto riprendevano il cammino, e sciamavano verso i quartieri della città più opulenti. 
Quel mattino si celebra il Giorno del Ringraziamento del Consumatore, festa istituita per dar modo ai clienti dei negozi di manifestare la propria gratitudine verso la Produzione che soddisfa ogni loro desiderio. Non manca la parata lungo la Fifth Avenue con la banda, le majorette e un enorme pupazzo fatto di palloni che rappresentava «Il Cliente Soddisfatto». Dall'altra parte di Manhattan avanza questa volta un altro corteo, guidato dalla Luna scrostata e ammuffita tirata dalle fanciulle nude, seguita da una fila di rottami di veicoli e da una silenziosa e crescente folla di persone di ogni colore, sesso ed età. A Madison Square i due cortei s’incontrano e diventano uno solo. «Il Cliente Soddisfatto», forse per una collisione con la puntuta superficie della Luna, si sgonfia, le majorette abbandonano chepì e alamari e vanno a ingrossare il numero delle Diane. Lo stesso accade per le motociclette e le macchine del seguito e
non si capiva più quali fossero le vecchie e quali le nuove: le ruote storte, i parafanghi arrugginiti erano mescolati con le cromature lucide come specchi, con le verniciature di smalto.
Il corteo giunge al ponte di Brooklyn.
La Luna prese un ultimo slancio, superò le ricurve griglie del ponte, si sbilanciò verso mare, batté sull'acqua come un mattone, s’inabissò sollevando alla superficie una miriade di bollicine.
Le ragazze, invece di lasciare i nastri, vi si aggrappano, e la Luna le solleva facendole tuffare e scomparire tra le onde. Dopo poco tempo, il mare incomincia a vibrare d’onde che s’allargano a cerchio, al cui centro appare un’isola, che diventa una montagna, un emisfero, un globo posato sull'acqua: è una Luna che sale in cielo. Una Luna tuttavia diversa da quella vecchia e decrepita di prima.
Usciva dal mare sollevando uno strascico d’alghe verdi e scintillanti: zampilli d’acqua le sgorgavano da fontane incastonate tra i prati che le davano una lucentezza di smeraldo; una vegetazione vaporosa la ricopriva, ma più che di piante sembrava fatta di penne di pavone occhieggiate e cangianti.
Questo fu il paesaggio che riuscimmo appena a intravedere perché il disco che lo conteneva s’allontanava velocemente in cielo, e i particolari più minuti si perdevano in una generale impressione di freschezza e di rigoglio. (…) Ma facemmo a tempo a vedere delle amache pendere dai rami, agitate dal vento, e là adagiate vidi le fanciulle che ci avevano condotto fin lì, riconobbi Diana, finalmente tranquilla, che si faceva vento con un flabello di piume, e forse mi indirizzava un segno di saluto. 
La felicità di aver ritrovato le ragazze si mescola tuttavia allo strazio di averle perdute.
Una furia ci prese: ci mettemmo a galoppare per il continente, per le savane e le foreste che avevano ricoperto la Terra e seppellito città e strade, e cancellato ogni segno di ciò che era stato. E barrivamo, sollevando al cielo le nostre proboscidi, le nostre zanne lunghe e sottili, scuotendo il lungo pelo delle nostre groppe con l’angoscia violenta che prende tutti noi giovani mammut, quando comprendiamo che la vita è adesso che comincia, eppure è chiaro che quel che desideriamo non lo avremo. 
Oltre ad essere una Cosmicomica, Le figlie della Luna è un apologo: la Luna è la natura, messa in pericolo dalla civiltà dei consumi e salvata dall'eterno femminino (lunare, secondo il consueto topos letterario). Altri temi intervengono nel racconto, come il riscatto degli ultimi, fatto che risente del clima di quei mesi di lotta e contestazione (e non è che la questione abbia perso di attualità, anzi). Le figlie della Luna, però, è soprattutto una Cosmicomica, e l’elemento cosmologico è reso evidente dal fatto che lo stato della Luna segna il decadimento e il ciclico rinnovamento della Terra, che va incontro a una nuova era, quasi ricominciando daccapo, da quando la natura incontaminata ospitava una fauna selvaggia di cui faceva parte un Homo sapiens ancora bambino.

Rilancio l'articolo che ho scritto per il sito di EDU Inaf nell'ambito di una serie sulle Cosmicomiche lunari di Italo Calvino, pubblicato oggi.

sabato 7 ottobre 2017

La matematica come struttura letteraria: la combinatoria

Negli anni fecondi delle neoavanguardie letterarie, nella prima metà degli anni ’60, si cominciò a teorizzare l’applicazione di concetti matematici per la costruzione di testi letterari, poetici o in prosa, in modo che la matematica, da oggetto di letteratura, ne diventasse la struttura. Nel corso degli anni sono state esplorate decine di applicazioni diverse, come il calcolo combinatorio, la teoria degli insiemi o la teoria dei grafi. Inoltre lo sviluppo di quelli che allora si chiamavano calcolatori elettronici favorì la nascita dei primi esperimenti ipertestuali. In queste righe ci occuperemo in particolare delle opere basate sulla combinatoria.

Il poeta, romanziere e saggista Nanni Balestrini, già al suo esordio letterario (1961), scrisse Tape Mark 1, una “poesia combinatoria composta con l’ausilio di un calcolatore elettronico” IBM, pubblicata nell’Almanacco Letterario Bompiani del 1962. Il testo si compone di 15 elementi ripresi da opere già esistenti, il Diario di Hiroshima di Michilito Hachiya, Il mistero dell’ascensore di Paul Goldwin e il Tao Te King di Laotse, e costituiti da sintagmi a loro volta formati da 2 o 3 unità metriche e contraddistinti da un codice di testa e uno di coda a indicare le possibilità sintattiche di legame. Da questo materiale è stata tratta dal calcolatore una poesia di sei strofe di sei versi ciascuna con ogni verso di 4 unità metriche; ciascuna strofa risulta formata da una diversa combinazione parziale del testo (10 elementi per volta), con minimi interventi grammaticali e di punteggiatura apportati alla fine. Il risultato, voluto secondo i canoni estetici dell’autore, è un’opera in cui i normali rapporti sintattici sono stravolti o aboliti. Ecco la prima strofa:

La testa premuta sulla spalla, trenta volte
più luminoso del sole, io contemplo il loro ritorno
finché non mosse le dita lentamente e, mentre la moltitudine
delle cose accade, alla sommità della nuvola
esse tornano tutte, alla loro radice, e assumono
la ben nota forma di fungo cercando di afferrare.


Immagine di Andrea Valle
Più noti e meno ostici sono I Cent mille milliards de poèmes di Raymond Queneau (1961), che offrono un dispositivo di lettura combinatoria a base di linguette intercambiabili sulle quali sono scritti uno per uno i versi di un insieme di dieci sonetti (con 14 versi ciascuno). Ciò perché l’autore ha scritto i sonetti con le stesse rime e con una struttura grammaticale tale che ogni verso è intercambiabile con ogni altro verso situato nella stessa posizione. In termini matematici si tratta di una disposizione con ripetizione con n=10 e k=14, per un totale di 1014 combinazioni (centomila miliardi, appunto). Così, a seconda di una qualsiasi delle eventuali scelte, è possibile leggere sonetti come quelli di cui si propone come esempio la prima strofa:

(da http://www.parole.tv/cento.asp , dove un generatore automatico permette di ottenere tutti i 1014 sonetti di Queneau)
Nelle “Istruzioni per l'uso” poste a introduzione del suo libro, Queneau sostiene un po’ compiaciuto che “Calcolando 45" per leggere un sonetto e 15" per cambiare la disposizione delle striscioline, per otto ore al giorno e duecento giorni all'anno, se ne ha per più di un milione di secoli di lettura. Oppure, leggendo tutta la giornata per 365 giorni l'anno, si arriva a 190.258.751 anni più qualche spicciolo (senza calcolare gli anni bisestili e altri dettagli)” (ora in Segni, cifre e lettere e altri saggi, Einaudi, Torino, 1981).



Nella prefazione alla prima edizione dei Cent mille milliards de poèmes, il matematico François Le Lionnais (ora nell’opera collettiva La letteratura potenziale - Creazioni Ricreazioni Ri-creazioni, Bologna, Clueb, 1985) coniò la formula “letteratura combinatoria” per collocare l’opera di Queneau, definendola come l’insieme delle pratiche letterarie in cui l’opera non fissa a priori l’ordine dei brani di testo che la compongono, ma ne dispone anzi la ricombinazione secondo procedimenti formalizzati. In questo modo, l’opera combinatoria non viene letta, ma giocata: nel puzzle della “letteratura combinatoria” il fruitore trova delle tessere di partenza, che può smontare e rimontare a piacere seguendo le “regole del gioco” indicate. Al lettore non viene più chiesto solo un lavoro di interpretazione o d'immaginazione, ma, a seconda dei casi, un'attività di costruzione o di coproduzione del testo stesso. Il lettore interagisce, viene condotto a manipolare un dispositivo che produce ciò che gli è dato da leggere, e due lettori non leggeranno forse mai lo stesso testo. Questo gioco del fare letterario delega così al lettore una parte rilevante della funzione di autore.

Ancor più radicale di quella di Queneau è la scelta di Marc Saporta, che nel romanzo Composizione n. 1 riduce il testo ad una sequenza di frammenti che possono essere letti in un ordine qualsiasi. Ogni pagina descrive una scena in cui agisce un personaggio. In questo caso la libertà del lettore è totale, perché egli può leggere il testo disponendo come crede l’ordine delle pagine. Per questo scopo, le pagine del romanzo, non numerate, sono separate fisicamente le une dalle altre, e stampate solo sul recto, mentre il verso è bianco. La fascetta che tiene unite le pagine riporta la frase: “TANTI ROMANZI QUANTI SONO I LETTORI. L’ordine delle pagine è casuale: mescolandole, a ciascuno il “suo” romanzo” (Marc Saporta, Composizione n. 1, Lerici, Genova, 1962). Nella prefazione all’edizione originale francese, Saporta avverte: “Il lettore è pregato di mescolare queste pagine come un mazzo di carte. Di tagliare, se lo desidera, con la mano sinistra, come si fa da una cartomante. L’ordine con il quale le pagine usciranno dal mazzo orienterà il destino di X. Infatti il tempo e l’ordine degli avvenimenti regolano la vita più che la natura degli avvenimenti stessi”. In questo caso si tratta di una permutazione di 143 pagine, gli elementi, per cui le possibili combinazioni sono date da 143! = 2,69 × 10245, numero che giustifica la successiva considerazione: “Una vita si compone di elementi multipli, ma il numero delle possibili combinazioni è infinito”.



Ogni pagina è un elemento a sé stante. Evidentemente non c’è una trama lineare: l’impressione è che i frammenti di testo si presentino così come affiorano nella testa di X, il protagonista, alla maniera di ricordi strappati dal terapeuta alla mente di un paziente. Per fortuna una qualche sorta di lasco legame c’è: i personaggi ricompaiono, certe scene sono simili ad altre, certe situazioni sembrano ripetersi, in qualche caso si sovrappongono. La scelta di Saporta fa sì che Composizione n°1 sia il tipico libro in cui succede poco. Poiché le pagine devono poter essere lette in ogni combinazione possibile, è come se ciascuna di esse dovesse essere abbastanza indefinita da non vincolarne troppo il senso. Il lettore che si aspetta il racconto di una storia, che cerca la sicurezza di parametri di riferimento spazio-temporali precisi, rimane deluso. Il libro va preso per quello che è: un serio esperimento anticipatorio, il cui solo godimento, che è quello di comporre i pezzi di un puzzle, è penalizzato dal supporto cartaceo, l’unico disponibile quando fu scritto.

La differenza tra i due testi risiede nel grado di libertà che è concessa al lettore, che a sua volta è funzione del congegno combinatorio adottato. Nei Cent mille milliards des poèmes la struttura testuale è suddivisibile in classi di elementi combinabili secondo un ordine stabilito, con una logica che il matematico oulipiano Claude Berge ha definito esponenziale, mentre in Composizione n. 1 le combinazioni (permutazioni) tra i frammenti sono totalmente affidate al caso, con una logica fattoriale. Lo schema illustra le due strutture:


Queneau, Le Lionnais e Saporta erano tutti francesi. E in Francia nel 1960 proprio i primi due avevano fondato l’organismo di ricerca sperimentale OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle), al quale avrebbero poi aderito Perec e Calvino. È da questo gruppo di matematici con passioni letterarie e uomini di lettere con l'amore per i numeri che il fantasma della combinatoria ha cominciato ad aggirarsi nel mondo letterario.

Sin dalla fondazione, le regole del gruppo furono così enunciate: “Definiamo letteratura potenziale la ricerca di nuove forme e strutture che potranno essere utilizzate dagli scrittori nella maniera che più gli piacerà”. “Potenziale” si riferisce a qualcosa che esiste in potenza nella letteratura, cioè che si trova all'interno del linguaggio e che non è stato necessariamente esplorato. Strumento prediletto per lo studio e la produzione è la contrainte, una restrizione formale arbitraria che possa creare nuovi procedimenti, nuove forme e strutture letterarie suscettibili di generare poesie, romanzi, testi. Fra le numerose definizioni dell'Oulipo fornite dagli stessi membri, una è assai elegante e significativa: “Un Oulipiano è un topo che costruisce il labirinto da cui si propone di uscire più tardi”. Queneau spiegava spesso che alcuni suoi lavori potevano sembrare semplici passatempi, semplici jeux d'esprit, ma ricordava che anche la topologia o la teoria dei numeri nacquero, almeno in parte, da quella che una volta si chiamava "matematica divertente".

Nanni Balestrini tornò nel 1966 alla letteratura combinatoria, questa volta in prosa, con il “romanzo” Tristano, e le virgolette sono più che giustificate. Si tratta infatti di un testo, che nulla ha a che fare con l’archetipo del romanzo d’amore suggerito dal titolo. Composto da dieci capitoli, a loro volta composti da venti paragrafi di frasi tratte da testi già esistenti (atlanti, romanzi rosa, giornali, guide turistiche, manuali), in cui le convenzioni del romanzo sono sovvertite, è il tutto a generare la frase, o meglio a rivelare il meccanismo di scrittura. Ogni frase compare due volte in due diversi capitoli, cambiando senso a seconda del contesto, e spesso la giustapposizione di questi elementi fa vacillare il significato e i consueti riferimenti spazio-temporali. Inoltre alcune delle frasi inserite sono volutamente ambigue, potendo riferirsi alla vicenda descritta o al dispositivo di scrittura in maniera autoreferenziale:

“Ma in certi casi è necessario per impedire che la vicenda continui a svilupparsi introdurre elementi che servano ad arrestarla e giustifichino la ripetizione”.

“Niente obbliga a finire una frase essa è infinitamente catalizzabile vi si si può sempre aggiungere qualcosa”.

“La questione non è tanto la storia in sé bensì quali effetti può produrre quali sviluppi quali dinamiche innescare”.

“Le combinazioni sono infinite. Tutte le storie sono diverse una dall’altra. È tutto come un gioco”.

Un nome proprio, indicato con la lettera C (non puntata) fa riferimento di volta in volta a un personaggio femminile, a uno maschile, a un luogo, o a tutto ciò che porta un nome, volendo sottolineare come ogni elemento sia realtà intercambiabile, sia cioè funzione di C in base a leggi che il lettore deve, più che indovinare, imporre al testo. Non si tratta certamente di una lettura agevole! Le tecnologie dell’epoca consentirono nel 1966 la pubblicazione di uno solo dei 1,09 × 1014 libri differenti potenzialmente generati dal dispositivo di scrittura adottato. La nascita della stampa digitale e il printing on demand consentono ora al lettore di avere una copia fisica del libro unica e sua personale, diversa da tutte le altre. La riedizione di Tristano attuata nel 2007 consiste di diecimila copie uniche, ciascuna caratterizzata da un codice alfanumerico di 6 caratteri.

Un altro scrittore affascinato dalle possibilità della combinatoria è stato Italo Calvino, che aderì all’Oulipo nel 1973 durante il suo lungo soggiorno parigino, anche se da tempo aveva mostrato interesse per i rapporti tra lettere e scienza. Le concezioni oulipiane influenzano la struttura di alcuni dei suoi ultimi libri, in particolare de Il castello dei destini incrociati, di cui ebbe a dire che si trattava di una macchina "per moltiplicare le narrazioni partendo da elementi figurali dai molti significati possibili come può essere un mazzo di tarocchi". In effetti, come spiega lo stesso autore nella postfazione, la spinta alla stesura del testo che dà il nome all’opera venne dall’invito dell’editore Franco Maria Ricci a scrivere un commento per la lussuosa edizione di un mazzo di tarocchi del XV secolo noto come Tarocchi Viscontei. Le suggestioni evocate dalle splendide illustrazioni delle lame hanno spinto Calvino a congegnare dodici storie, a ciascuna delle quali l’autore ha posto in chiusura la sequenza di carte utilizzata per raccontarla. Le infinite possibilità della combinatoria sono rappresentate per lo scrittore da “questo quadrilatero di carte che continuo a disporre sul tavolo tentando sempre nuovi accostamenti non riguarda me o qualcuno o qualcosa in particolare, ma il sistema di tutti i destini possibili, di tutti i passati e i futuri, è un pozzo che contiene tutte le storie dal principio alla fine tutte in una volta”.

Nell’opera, alcuni personaggi, resi muti da un incantesimo, raccontano la propria avventura allineando su un tavolo dei tarocchi. La prima carta estratta da ciascuno dei commensali è fondamentale, perché si identifica con il personaggio e ne rappresenta il destino. Questi utilizza poi sedici carte (che estrae dal mazzo o trova già disposte da altri), che, sistemate in due colonne o righe, rappresentano l’effettivo svolgimento della storia. Dal meccanismo combinatorio delle diverse disposizioni scaturisce una matrice di racconti, leggibile in ogni direzione.

Nella figura è illustrata la disposizione delle carte sul tavolo. Come esempio sono evidenziate quelle che determinano i primi due racconti, cioè Storia dell’ingrato punito (con bordo rosso) e Storia dell’alchimista che vendette l’anima (con bordo blu). Le carte iniziali sono numerate.


Alcuni commentatori hanno fatto notare come Il castello non rispetti fino in fondo il meccanismo combinatorio adottato: le carte utilizzate sono 73, mentre l’intero mazzo dei tarocchi ne comprende 78 (22 arcani maggiori più 56 arcani minori). Se Calvino ha sacrificato delle carte alle esigenze combinatorie dello schema, non si comprende allora perché ne abbia utilizzata una in più del necessario, quella indicata con il fondo grigio.

La letteratura combinatoria meriterebbe una trattazione più ampia, per non dire “infinita”. Non abbiamo parlato delle sue radici (dai trovatori provenzali a Mallarmé); delle restrizioni formali mutuate dalla matematica inventate dagli oulipiani, delle opere anticipatrici di un grande scrittore come Jorge Luis Borges, del capolavoro La vita: istruzioni per l’uso di Georges Perec, e di molto altro ancora. Con la combinatoria ci vuol pazienza.

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Questo articolo è comparso sul numero 03/2016 di Archimede, la rivista per gli insegnanti e i cultori di matematiche pure e applicate.