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martedì 7 maggio 2019

È uscito Vortici e vertigini


Interno di una tipica casa borghese dell’Ottocento inglese, con tetti molto spioventi e un grande portico tutto intorno. Le mura esterne sono decorate con fasce a motivi floreali o geometrici, dipinte in colori accesi. C’è anche una torre ottagonale, e finestre a bovindo. Sul lato rivolto a mezzogiorno, al primo piano, c’è una grande sala, arredata con pesanti mobili scuri, un pianoforte e il pavimento coperto di tappeti. Una luminosa finestra porta sul terrazzo, che domina un elegante giardino fiorito. Alle pareti sono appesi numerosi ritratti. Sono poeti, scienziati, filosofi, tutti accomunati dal fatto di essere stati protagonisti di una stagione irripetibile, in cui scienza e poesia furono legate come mai sarebbe successo in seguito. Non è una raccolta completa: per motivi diversi il proprietario non si è procurato l’immagine di tutti coloro che avrebbero meritato un posto nella galleria. Spicca ad esempio l’assenza di Lewis Carroll, o quella di Edward Lear. In alcuni casi sembra che il collezionista si sia voluto divertire, con gusto vittoriano, a inserire i ritratti di tipi bizzarri, originali, o decisamente pazzi. Come ci si potrebbe aspettare data l’epoca e il criterio scelto per la raccolta, le donne sono poche.

Ogni ritratto racconta una storia che merita di essere conosciuta. Il visitatore trova per questo motivo su un tavolo posto all'ingresso una guida, intitolata Vortici e vertigini, che può sfogliare liberamente, soffermandosi sui personaggi che più lo interessano. Il libro è infatti organizzato in brevi capitoli, secondo un ordine approssimativamente cronologico, che tuttavia possono essere sfogliati in ordine sparso, secondo il desiderio e l’interesse del lettore. Il legame tra di essi non è infatti sequenziale, come se fossero stati scritti e pubblicati separatamente in un diario tematico (adesso magari penseremmo a un blog). In un momento successivo qualcuno ha pensato di riunire i testi relativi ai ritratti, dar loro una veste editoriale e farne quella guida.

Nel prologo, il visitatore trova scritto che il titolo è stato scelto perché le parole vortice e vertigine compaiono di frequente nell'Ottocento. Così, lo spaventoso vortice descritto da Edgar Allan Poe nel racconto Una discesa nel Maelström (1841) è più o meno coevo delle vertigini dei poeti (la “languida vertigine”, o la Vertigine – maiuscola! – indotta dall'apertura di una misteriosa boccetta di profumo orientale in Baudelaire, ad esempio), talvolta legate all'abuso di alcool e/o oppiacei (come in De Quincey), o ai capogiri delle delicate signore e signorine borghesi di fronte alla minima emozione improvvisa.

Ebbene, nella seconda metà del XIX secolo, accanto alle vertigini dei letterati, il concetto di vortice acquistò un particolare interesse nello sviluppo della fisica, svolgendo un ruolo fondamentale nella dinamica dei fluidi, nella nascente teoria dei campi elettromagnetici e nei primi tentativi di sintesi della struttura della materia. Per non parlare dello sconvolgimento degli schemi religiosi e sociali che portò l’idea di evoluzione delle specie e dell’uomo. E i turbamenti della mente e della materia si sono rivelati assieme nella poesia del tempo, forse perché le due parole vortice e vertigine hanno la stessa origine etimologica (dal lat. vèrtere, “girare, volgere”), o, più probabilmente, perché, in quell'epoca di continue scoperte scientifiche e tecnologiche, il poeta rischiava davvero di perdere la testa.

Sempre nel prologo, il lettore trova scritto che la guida che sta sfogliando non ha la pretesa di essere una raccolta di biografie, né tantomeno un saggio di storia della letteratura o di storia della scienza. Lo scopo è diverso: raccontare di persone, idee, scoperte, successi, fallimenti, pazzie, fare da guida al visitatore della galleria soffermandosi anche su aneddoti, particolari curiosi o poco conosciuti, quasi sempre seguendo il filo conduttore del rapporto tra scienza e poesia. La guida non è un libro di storia, ma di storie.

Marco Fulvio Barozzi
Vortici e vertigini
Scienza Express, Trieste
maggio 2019
Prezzo: 24,00 €
ISBN: 978-88-969-7379-0



lunedì 14 gennaio 2019

Dialoghi in veste di fumetto sull'Universo e tutto quanto


Spesso di dice che un buon libro scientifico sollevi più domande di quante risposte dia, nel senso che i suoi contenuti, il suo linguaggio, il suo stile invitano a saperne di più su uno o più argomenti, innescando un circolo virtuoso di curiosità e sete di conoscenza. Un buon libro invita anche all'introspezione, al desiderio da parte del lettore di porsi in discussione riguardo alle idee e alle certezze precedenti, magari scoprendo lacune da colmare o semplicemente nuovi orizzonti inaspettati da esplorare. Probabilmente non cambia la vita, ma invita a guardarla con occhi diversi da prima. Insomma, un buon libro segna un limite in cui ci si rende conto che esiste un prima e un dopo la sua lettura, un limite che non limita, ma è invece un luogo di partenza, o di ripartenza.

In effetti Dialoghi. Conversazioni sulla natura dell’Universo di Clifford V. Johnson è un libro un po’ sui generis. In primo luogo perché si articola in una serie di 11 dialoghi senza titolo, continuando una tradizione millenaria che annovera tra i suoi esponenti Socrate, Platone, e Galileo. La parola “dialogo” etimologicamente è διά-λογος, composto da dià, "attraverso" e logos, "discorso" e indica l’interazione verbale tra due o più persone come strumento per esprimere pareri e discutere idee o sentimenti. La ragione o il significato affiorano nel rapporto o nella comunicazione tra parti. Soltanto che, in questo caso, la scienza è più mostrata che raccontata.

La seconda importante particolarità del libro è infatti che si tratta di un’opera a fumetti. I protagonisti non agiscono in un contesto astratto, ma sono illustrati con visi, atteggiamenti, sentimenti nel loro contesto. Nell'opera di Johnson i dialoganti sono in genere giovani, che agiscono in luoghi pubblici quali musei, Università, caffetterie, treni, talvolta riprendendo e ampliando il discorso in un capitolo successivo. Alcuni sono ricercatori, ma utilizzano un linguaggio colloquiale per illustrare concetti anche ostici attraverso parole, schemi ed esempi semplici. In Dialoghi lo stile è diretto come in una graphic-novel o, come sostiene il premio Nobel per la fisica Frank Wilczek nella prefazione, in un nuovo sottogenere che chiama “graphic-dialogue”. La sceneggiatura è molto efficace; forse l’unico neo è il disegno dei personaggi, ma lo stesso autore ammette di non essere un grafico professionista.


Gli argomenti dei dialoghi gravitano tra fisica, cosmologia e filosofia e investono le cosiddette questioni fondamentali: la natura dell’universo, la “teoria del tutto”, la relatività, la fisica quantistica, la teoria delle stringhe, le simmetrie, i buchi neri, lo spaziotempo, i limiti fisici e l’impossibilità, l’infinito, Dio, morte e vita, ecc, senza tralasciare aspetti importanti come il metodo scientifico, la curiosità, l’utilità e la bellezza della matematica Ce n’è per suscitare l’interesse e la curiosità di chiunque, soprattutto dei giovani e dei non specialisti. Per questo motivo lo consiglio in modo particolare agli studenti degli ultimi anni delle superiori, alle biblioteche scolastiche e agli studenti universitari, non necessariamente di materie scientifiche. I temi sono affrontati con il necessario rigore e sono aggiornati con le scoperte più recenti: l’autore Clifford V. Johnson, inglese di nascita ma operante negli Usa, è fisico, divulgatore e consulente scientifico di importanti produzioni televisive e cinematografiche.

L’opera, uscita nel 2017 presso la MIT Press di Cambridge, Massachusetts, tradotta in italiano da Andrea Migliori, è stata pubblicata dalle Edizioni Dedalo di Bari nel novembre 2018. Considerando anche la bellezza della veste editoriale, il prezzo di copertina di 25 € è assolutamente onesto (e online si trova a meno).

Clifford V. Johnson, Dialoghi. Conversazioni sulla natura dell'Universo, Edizioni Dedalo, Bari, 2018. pp. 248, prezzo di copertina € 25, ISBN: 9788822057051

martedì 28 giugno 2016

La Puglia matematica di Sandra Lucente


Per scrivere un libro come Itinerari matematici in Puglia ci vogliono amore, coraggio e, diciamolo, una certa dose di ludico entusiasmo. Amore per la propria terra, innanzitutto, la Puglia, terra bellissima e ricca di tesori naturali e artistici, che è stata percorsa in lungo e in largo toccando località grandi e piccole, magari solo per raggiungere quel campanile, quel megalito o quel portale. Amore per la matematica, la cui storia e i cui principali settori, dalla geometria elementare ai frattali e alla topologia, sono presentati prendendo spunto dalle località visitate, perché, come dice l’autrice, “la matematica è il linguaggio dell’universo, così come di questa regione”. Ci vuole anche coraggio, perché narrare la matematica in un libro destinato al lettore non specialista è sempre un’operazione difficile e irta di pericoli, in quanto bisogna percorrere lo stretto sentiero che si inoltra tra la palude della banalizzazione e la scogliera dell’eccessivo tecnicismo. Per fortuna Sandra Lucente è ben conscia di queste difficoltà, essendo ricercatrice matematica all’Università di Bari con una lunga esperienza di divulgazione a vari livelli e con diversi tipi di destinatari. 

Dicevo anche dell’entusiasmo, in quanto un testo simile nasce come gioco, come divertimento, come scommessa della Lucente e dell’editore in un panorama editoriale depresso e conformista come quello italiano. Itinerari matematici in Puglia non sarà certo un best seller, ma l’intelligenza e la cura che lo caratterizzano ne fanno un prodotto editoriale destinato a una costante presenza sugli scaffali dei librai e nelle biblioteche delle scuole, pugliesi e non solo. 


Il lettore di queste note potrebbe ora chiedere: sì, va bene, ma come è fatto il libro? Si tratta del viaggio in Puglia di un curioso turista matematico, Paul, interessato non solo all’arte e alla natura della regione, ma anche alla sua cultura nel senso più generale (la storia, la gastronomia, le tradizioni). Paul non è un turista da comitiva o da viaggio organizzato, piuttosto è un turista di quelli di una volta, come i nobili e gli intellettuali europei (un nome per tutti: Goethe) che, a partire dal XVII secolo e fino al XX inoltrato, intraprendevano quel viaggio di formazione, studio e divertimento che prese il nome di Grand Tour. Le mete preferite di quei viaggi erano l’Italia e la Grecia, in cui si cercava di cogliere lo spirito classico. Quello di Paul dovrebbe essere un piccolo tour, essendo limitato a una sola regione, ma egli è curioso e non si accontenta di visitare solo le località più celebri. 

Paul è un matematico, e il suo sguardo non può fare a meno di cogliere la matematica che è presente in quello che vede, dalle frazioni continue che gli sono ispirate dal dolmen di Bisceglie, fino alla costruzione dei poligoni con riga non graduata e compasso che gli suggerisce lo splendido rosone traforato della concattedrale di Troia, con undici colonne a mo' di raggio. Accompagnato dal suo inseparabile taccuino quadrettato, Paul osserva, scrive schemi e disegna figure, che troviamo in fondo a ciascuno dei 30 capitoli del libro. Poi, il suo sguardo matematico è l’occasione di riflessioni e suggerimenti per esercizi e/o attività didattiche legati a quanto è stato visto di volta in volta. Il libro è strutturato come una guida, per cui i capitoli possono essere letti qua e là in modo non sequenziale, con la sola avvertenza che la matematica più moderna e più “complicata” si trova verso la fine. Ma è spiegata comunque bene.



Sandra Lucente
Itinerari matematici in Puglia
2016, Editrice Giazira Scritture, Noicattaro (BA)
pp. 167, € 15,00

lunedì 31 marzo 2014

Crisi d’identità, il mio ebook


Come molti lettori del blog già sapranno, è uscito da qualche giorno il mio e-book Crisi d’identità. Identico e diverso tra matematica, letteratura e gioco. Si tratta, come gli altri titoli della collana Altramatematica del progetto 40k, di un’opera che vuole essere leggera, pop, pur trattando un tema matematico (in questo caso anche filosofico e letterario) normalmente considerato arduo. 

Così recita la quarta di copertina: 
L’identità è un concetto fondamentale per ogni tipo di ragionamento, dalla speculazione filosofica alla dimostrazione matematica. Senza di essa non sarebbe possibile neanche molta letteratura. In queste pagine si raccontano in modo leggero e attento le caratteristiche fondamentali dell’identità, facendo ricorso anche ai molti esempi in cui essa sembra andare in crisi, come l’autoreferenza paradossale, l’autoricorsione, l’ossimoro, l’autodefinizione, aspetti che presentano spesso indubbi risvolti umoristici e giocosi. Per meglio comprendere che cosa sia l’identità bisogna però guardarla dal di fuori, tenendo presente che la sua fotografia sulla carta d’identità risulta sempre un po’ sfocata. 

Il libriccino elettronico può essere acquistato in formato epub per soli 1,99 €, sia presso l’editore Bookrepublic, sia su Amazon (si può fare clic sulle immagini qui sotto).





mercoledì 15 gennaio 2014

Immagini della matematica


Fino a qualche tempo fa era impensabile che un libro di matematica, anche se di divulgazione, potesse essere pieno di figure. Ciò avveniva per due ragioni principali. La prima era culturale: la matematica, materia astratta e mentale per eccellenza, era considerata difficilmente “percepibile” dai sensi, pertanto molto era affidato alle capacità “immaginative” del lettore a partire dalle rappresentazioni simboliche. Facevano eccezioni solo alcuni settori come la geometria (limitatamente allo spazio euclideo) o la teoria dei grafi. La seconda ragione era puramente tecnica: solo con l’introduzione di programmi sempre più sofisticati di computer graphics è stato possibile rappresentare, in modo efficace ed esteticamente valido, forme e strutture impossibili da realizzare (e da vedere”) con i tradizionali mezzi del disegno. 

Da qualche anno la situazione è completamente mutata, e finalmente anche la matematica, come le altre discipline scientifiche, può giovarsi dello strumento dell’immagine, valorizzandone tutta la potenzialità esplicativa e didattica. La matematica smette così di apparire come un noioso elenco di formule, o, per molti, un incomprensibile geroglifico di simboli, e mostra i suoi colori con rappresentazioni davvero affascinanti, che rendono accessibili o avvicinabili anche i concetti complessi emersi negli studi più recenti. Iniziata sugli schermi dei computer, la matematica per immagini si è diffusa in pochi anni a livello planetario ed è approdata recentemente sulla carta. 

Funzione zeta di Riemann

Un esempio è fornito da Immagini della matematica, edito congiuntamente da Springer e Raffaello Cortina nella seconda metà del 2013. Il libro è la traduzione italiana (di Daniela Della Volpe) di un testo pubblicato originariamente in tedesco nel 2010, curato dall’austriaco Georg Glaeser e dal tedesco Konrad Palthier. Il volume rappresenta un meritorio tentativo, da parte di matematici attivi nella ricerca, di sperimentare canoni di comunicazione diversi da quelli usuali. In 15 capitoli, esso consente un’esperienza visiva di tutti i principali temi della matematica antica e moderna, dai modelli di poliedri alle curve e nodi, dalla geometria e topologia delle superfici alle pavimentazioni e agli impacchettamenti, ecc. L’ultimo capitolo, Forme e processi in natura e nella tecnologia, fornisce alcuni esempi di applicazione della matematica nelle scienze naturali, nella fisica dei fluidi, ecc. 

Sezioni di un toro che sono ovali di Cassini
Ogni immagine è accompagnata da un breve testo esplicativo e dall’indicazione della fonte originale (cartacea o elettronica) alla quale è possibile risalire per eventuali approfondimenti. Forse è proprio nei testi che si può ravvisare l’unico punto di debolezza dell’opera, in quanto talvolta appaiono troppo “tecnici” per un pubblico non specialista. Poiché ogni argomento-scheda può essere letto in modo indipendente, Immagini della matematica costituisce un validissimo strumento di consultazione e di ausilio per chi, come divulgatore, insegnante o studente, si occupa a vari livelli di questa fantastica e sempre nuova disciplina. 

Superficie minima di Costa

Mi piace segnalare che l’edizione italiana è stata proposta e sollecitata agli editori dal mondo accademico e della ricerca, principalmente dal Centro matematita, il Centro Interuniversitario di Ricerca per la Comunicazione e l'Apprendimento Informale della Matematica, al quale fanno riferimento ricercatori delle Università di Milano, Milano Bicocca, Pisa e Trento. Il Centro è noto presso insegnanti e divulgatori per l’utile progetto Immagini per la Matematica, nato con lo scopo di raccogliere e mettere a disposizione in rete immagini per la matematica e suggerire percorsi che consentano il loro utilizzo per raccontare argomenti della disciplina. 

Glaeser Georg, Polthier Konrad 
Immagini della matematica 
ISBN: 978-88-6030-619-7 
Raffaello Cortina Editore 
Pagine: XIII-338 p., ill., brossura 
Anno: 2013 
Prezzo di copertina: 36 €

Superficie Breather


giovedì 1 novembre 2012

Paper scientifici e scherzi da russi

A smentire i luoghi comuni che li vogliono seriosi e freddi, talvolta gli uomini di scienza danno sfogo al loro humour proprio nel luogo che dovrebbe rappresentare il massimo della razionalità accademica e ufficiale: l’articolo scientifico, o paper. Ogni tanto infatti compaiono sulle riviste specializzate articoli bizzarri, su argomenti talmente astrusi da aver sollecitato l’invenzione di premi appositi, gli Ig Nobel, i quali “ricompensano le opere che prima fanno ridere la gente e poi la fanno pensare”. Talvolta l’articolo scientifico è talmente surreale da rasentare il puro genio, come nel caso dell’articolo del 1974 dello psicologo canadese Dennis Upper, di cui mi occupai un paio d’anni fa. 

Può capitare anche che l’articolo sia serissimo, ma non lo siano i nomi degli autori. Così il fisico ucraino naturalizzato statunitense George Gamow, uno dei padri della teoria del Big Bang, quando pubblicò sul numero di Physical Review del primo aprile 1948 l’importantissimo articolo sulla cosmogenesi assieme al suo allievo Ralph Alpher, aggiunse di proposito il nome del fisico nucleare Hans Bethe, che non aveva partecipato alla ricerca, in modo che gli autori risultassero Alpher, Bethe e Gamow e la teoria fosse ricordata come α-β-γ! Gamow, che era un buontempone, nel 1954 provò anche a pubblicare un articolo sull'informazione genetica in collaborazione con un certo C.G.H Tompkins, che altri non era che il protagonista di una sua fortunata serie di racconti sul curioso impiegato di banca Mr. Tompkins (Mr. Tompkins in Wonderland), ma gli editori si accorsero della burla e pubblicarono il paper con il solo nome di Gamow.


Il fisico anglo-olandese di origine russa Andre Konstantin Geim, premio Nobel per la fisica nel 2010 per i suoi studi sul grafene, pubblicò nel 2001 l’articolo Detection of earth rotation with a diamagnetically levitating gyroscope assieme a H.A.M.S. ter Tisha, che era il suo criceto (in inglese hamster) di nome Tisha. Purtroppo l’articolo, che si trova su una rivista della contestata editrice scientifica Elsevier, è inavvicinabile senza spendere quasi 42 dollari per scaricarlo. 

Avrete notato che la burla dei nomi è una specialità degli scienziati originari dell’ex Unione Sovietica. Anche nell'ultimo esempio che presento la Russia è coinvolta più o meno direttamente. Il grande matematico e ludomatematico inglese John Horton Conway scrisse nel 1977 con M.S. Paterson e lo sconosciuto U.S.S.R. Moscow un articolo dal curioso titolo A Headache-causing Problem (“Un problema che dà il mal di testa”) riguardante uno dei suoi famosi paradossi nella teoria dei giochi. Il dattiloscritto fu presentato dall’olandese J.K. Lenstra in una miscellanea da lui curata dal titolo Een pak met een korte broek (“Un abito con i calzoni corti”) in occasione del suo esame di dottorato. Su chi fosse Moscow e sul grado di coinvolgimento di Patterson gettano una certa luce i ringraziamenti finali: 

“Il lavoro qui descritto fu realizzato mentre i primi due autori godevano dell’ospitalità del terzo. Il secondo e il terzo autore sono riconoscenti con il primo per i dettagli espositivi. Il primo e il terzo autore sottolineano con gratitudine che, senza il costante stimolo e il saggio incoraggiamento del secondo, questo articolo è stato portato a termine”. 


Siccome Conway ha pubblicato articoli scientifici con il prolifico matematico ungherese Paul Erdős, il suo numero di Erdős è 1. Gli altri due autori, avendo pubblicato con Conway, possono fregiarsi del numero 2. Di sicuro, tra cent’anni, a meno di catastrofi nucleari o climatiche, Moscow sarà l’unico matematico vivente a potersi vantare di avere 2 come numero di Erdős. D’altra parte si sa che è assai longevo, essendo nato nell'anno 1147 da Jurij Dolgorukij. È diventato un matematico solo nel 1977 e nel 1991 ha cambiato iniziali. 

Il problema che dà il mal di testa lo trovate qui, grazie alla cortesia di Conway e all'insistenza della matematica del MIT Tanya Khovanova, un’altra russa emigrata negli Stati Uniti, che cura un blog davvero interessante.

lunedì 27 agosto 2012

Moonshot: l’impresa dell’Apollo 11 raccontata ai bambini


Era la sera di domenica 20 luglio 1969. Avevo finito le medie da un mese e, qualche giorno più tardi, mi sarei iscritto al Liceo Scientifico. Io c’ero, ho assistito, come mezzo miliardo di persone in tutto il mondo, a uno degli eventi più importanti del Novecento, la diretta televisiva dello sbarco dell’uomo sulla Luna. La qualità delle immagini era quella che era, ma tutto ciò che si vedeva aveva del prodigioso.

 

Chi appartiene alla mia generazione difficilmente può dimenticare quei minuti, ingigantiti nel ricordo anche dalla diatriba tutta italiana tra Tito Stagno da Roma e Ruggero Orlando da Houston sull’esatto momento in cui il modulo lunare toccò la superficie del nostro satellite. 

Ma quanto è rimasto di quell’impresa nell’immaginario di chi allora non era ancora nato? Chi sa della competizione con l’Unione Sovietica, dei missili Saturn, del programma Apollo, del LEM, di Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins? Naturalmente non parlo di chi, per studio o contingenze sociali e famigliari, ha la possibilità di essere informato. Parlo dei ragazzi che frequentano la scuola primaria, dei giovani della secondaria, e dei loro fratelli più grandi, e anche di molti dei loro genitori. 


Dal mio punto di osservazione particolare, cioè quello di insegnante in un Centro di Formazione Professionale, la risposta al quesito è poco confortante: si sa che l’uomo è andato sulla Luna, ma potrebbe essere successo in un intervallo di tempo compreso tra i tempi di Napoleone e l’altro ieri, e si ignora come ci sia andato, a meno di aver visto qualche film di successo (penso ad Apollo 13) o qualche cartone animato giapponese. I più informati sono i non pochi negazionisti, che trovano affascinanti i vaneggiamenti di oscuri complotti visti nelle trasmissioni della TV-spazzatura o su Internet, gli stessi che credono agli sbarchi alieni di Giacobbo e rifiutano di credere che l’uomo possa essere riuscito in questa straordinaria impresa perché l’ombra di una bandierina non sembra naturale. 


Sicuramente in altri tipi di scuole la situazione è migliore, ma ho il timore che questa ignoranza si collochi in un contesto generale all’interno del quale molti dei giovani di oggi vivono in un eterno presente senza passato e, ahimè, senza futuro come prospettiva ideale. 

Non spetta a me indicare le cause di tale stato delle cose (di sicuro esistono responsabilità della scuola, ma anche delle famiglie, in un trionfo dell’indulgenza e del pressapochismo che investe tutta la società): posso solo tentare di indicare un antidoto nella lettura, sin da piccoli, di libri che parlino di scienza in modo adatto all’età. Sulla splendida avventura dello sbarco sulla Luna esiste un bellissimo libro illustrato di 40 pagine, adatto ai bambini in età prescolare, che è stato letto e consigliato da Michael Collins e altri astronauti delle missioni Apollo e che meriterebbe di essere tradotto nella nostra lingua. L’ha realizzato l’illustratore di libri per bambini Brian Floca, il quale si è a lungo documentato per poi ripercorrere tutta la vicenda, in un testo ricco di bellissimi disegni e di testi semplici e chiari. Si tratta di Moonshot, The flight of Apollo 11, ed è stato pubblicato nel 2009, in occasione del quarantesimo anniversario della missione, presso Atheneum. Costa intorno ai 13 euro. Ho trovato anche il promo:

 

Nel libro si conserva il senso dell’impresa collettiva, giunta a compimento dopo una lunga preparazione. Pur fornendo notizie particolareggiate e dati tecnici sulla missione di Apollo 11 e suoi successi, Floca non tralascia mai il lato umano dei protagonisti della vicenda. 


Spero proprio che, magari per il 2019, in occasione del 50° anniversario, anche i bambini italiani abbiano l’occasione di sfogliare, ammirare, leggere queste bellissime pagine.



lunedì 25 giugno 2012

La natura e il fanciullo


Oggi i bambini escono sempre meno di casa e la loro conoscenza del mondo naturale è frutto quasi esclusivamente della televisione. Così sanno magari molto sulla vita del leone o del coccodrillo, che hanno visto in uno dei tanti documentari naturalistici di cui sono pieni i palinsesti, ma non hanno mai visto una capra con i propri occhi e ignorano totalmente le pianticelle che crescono sui muri, nei campi o lungo le strade. Chissà che cosa direbbe oggi Pierina Boranga (1891-1983), valente maestra elementare, amante della natura e divulgatrice scientifica di prim’ordine, la cui opera fu fondamentale per far conoscere gli ambienti ecologici e indirizzare l'attenzione dei ragazzi all'osservazione scientifica. 

Negli anni Venti, Pierina Boranga incominciò una lunga collaborazione con l’editore Paravia, che si concretizzò inizialmente in una trilogia intitolata La natura e il fanciullo, con volumi dedicati rispettivamente ai muri, alla strada e alle siepi, pubblicati tra il 1925 e il 1926 e poi ristampati tra il 1952 e il 1954. Nella prefazione al primo volume, scriveva con rammarico che “non è possibile ancora affermare che in Italia si sia formato un vero senso di rispetto e d’amore alla natura. Troppe volte ancora si offre ai nostri occhi lo spettacolo disgustoso e malinconico di fronde strappate, di tappeti erbosi devastati, di fiori divelti e poi abbandonati, di prati insudiciati dai rifiuti delle colazioni (…); troppo ancora si permette lo sfruttamento delle nostre belle piante dei boschi e dei monti a scopo di lucro, fino alla distruzione di specie rare ricercatissime”. E non c’era ancora stato il sacco del territorio e il motorizzato e ciabattante turismo di massa! 

Per l’autrice la colpa dello scarso rispetto per la natura è dovuta allo “scarso spirito d’obbedienza che noi Italiani sfortunatamente abbiamo” che si aggiunge a una “insufficiente educazione, rilevata, purtroppo anche all'estero”, perché al nostro popolo “manca tuttora una preparazione, anche elementare, per intenderla”. E così prosegue, in un testo che, ripeto, compie quest’anno 87 anni: 

“Pensiamo alla vita di scuola dei nostri ragazzi di città e di campagna, al modo col quale i programmi di conoscenze naturali sono, in generale, svolti; allo scarso contatto degli scolari con la natura [sic!]; alla deficienza dei sussidi didattici, coi quali essi hanno fatto i primi passi nella conoscenza di questa nostra superba famiglia di piante e d’animali; si pensi inoltre che la maggior parte della nostra gente, dopo la scuola elementare, non sente parlare che di politica, d’interessi e di affari, e ci si potrà rendere ragione del disamore e degli atti vandalici deplorati. (…) 

A tutta prima sembrerebbe lecito dopo queste considerazioni, di ritenere responsabili di questo stato di cose i maestri di scuola. Ma a loro volta essi non possono dare ciò che non hanno avuto. Salvo qualche eccezione, noi siamo usciti dalla scuola che ci ha dato il titolo di insegnanti con una cultura, in fatto di botanica e di zoologia, limitata a nomi e definizioni apprese sempre sui libri, mai sugli organismi vivi; anche per noi sono esistiti due mondi: quello del libro e quello della natura del tutto separati, quasi che l’uno non sia al servizio dell’altro. (…) Ed è avvenuto quindi quello che si poteva prevedere. I maestri (…) hanno preferito, anche nelle scuole di campagna, fare lezioni di botanica fra le pareti dell’aula, anziché all’aperto, dove i mille perché dei ragazzi che sanno guardare, li avrebbero messi in imbarazzo. E quando per buona ventura essi accompagnano i ragazzi a fare una passeggiata in campagna, lungo il cammino, generalmente, anche oggi, parlano di tutto, fuorché di quelle meraviglie che passano dinanzi agli occhi dei fanciulli”

Un duro attacco contro la cultura libresca, dunque, che anticipa la parte propositiva, lo scopo dei tre volumi della Boranga: far conoscere ai bambini la natura guardando la natura, imparando ad amarla e rispettarla, perché “Nessun giocattolo li può appagare meglio, nessun divertimento li rende più docili e più calmi, così come nessuna lezione di morale va diritta al loro cuore quanto quella che silenziosamente impartisce loro la natura. (…) Ma se non è difficile per il fanciullo studiare la vita di relazione di piante e animali come avviene in natura, è invece assai difficile per l’educatore guidarlo in simile studio, perché egli non ebbe dalla scuola che doveva preparalo ad un simile insegnamento la cultura necessaria, e perché tuttora gli mancano i libri adatti a formarsela, senza eccessivo dispendio di tempo”

Gran parte dei libri di botanica e zoologia sono troppo specialistici o incompleti, perché poco spazio dedicano all’identificazione delle piante più comuni. “Ed ecco la ragione di questo libro, che non ha altro merito se non quello di rappresentare un modesto sforzo di volontà per cooperare a colmare una lacuna”. Un libro per i maestri, dunque, che istruisca gli educatori a conoscere la flora spontanea dal vivo e a saper rispondere ai mille perché dei bambini. 

Il primo volume de La natura e il fanciullo è dedicato ai muri, che, nuovi o in rovina, arsi dal sole o coperti di muschi e licheni, “danno danno ricetto a migliaia d’insetti e di piante, le quali, per vivere in tale ambiente, povero di mezzi necessari alla loro esistenza, vi si adattano in modo curioso e sorprendente”. Il nemico più grande delle piante che vivono sui muri è la siccità, alla quale la vegetazione cerca di porre rimedio in modi diversi, come lunghe radici filiformi o fusti e foglie in grado di immagazzinare riserve d’acqua. “Quasi tutte queste erbe hanno fiori senza profumo e spesso sono di colore non vivace, portati su peduncoli lunghi e sottili per essere maggiormente esposti alle scosse del vento, poiché in generale esse sono anemofile, cioè raggiungono la fecondazione incrociata per azione del vento”. Così Pierina Boranga presenta ad esempio, la Parietaria


Parietaria, o Erba vetriola o Muraiola (Paritaria officinalis): 

Anche questa è una pianta comunissima nei muri, ma si può trovare anche sulle macerie o lungo le vie. 
Si distingue per il colore dei fusticini e dei picciuoli che hanno l'aspetto di piccoli tubi di vetro rossastro, e dai fiorellini, raggruppati all'ascella delle foglie in glomeruli di un verde molto più chiaro delle foglie, leggermente ravvivati da punticini di colore rosso vivo che sono gli stigmi in forma di minuscoli ciuffetti. 
Questa particolarità si nota maggiormente nei fusti che hanno perduto molte foglie. 
È interessante osservare come la pianta si comporta sul muro per dare modo a tutte le sue foglioline di godere i beneficii dell'aria e del sole. Si ha un esempio di solidarietà perfetta e di rispetto reciproco dei diritti di ciascun membro per il bene di tutta la famiglia. 
Molte foglioline, per non recare danno alle più piccole sottostanti, quando non possono allungare di molto il picciuolo, arrivano persino al sacrificio di limitare il loro sviluppo. 
Si può far osservare anche un altro particolare, non comune, di questa pianta. 
In essa le foglie più larghe sono all'apice anziché alla base del fusto: per quale ragione? I ragazzi potranno rispondere a questa domanda osservando l'aspetto della pianta alla base, e lo scarso sviluppo del picciuolo in queste foglioline più basse. Sembra che la pianta, per eccitare i fusti ad allungarsi e a lasciare spazio anche a queste ultime, li abbia messi in gara, concedendo un premio a quello che arriverà più lontano. 
A questo punto riterrei utile, per lo scopo prefissoci nel far studiare le erbe dei muri, di far osservare ai ragazzi le bellezze di questa pianta che non risaltano facilmente come nella Linaria. La disposizione e la forma delle foglioline all'apice dei fusti sono un perfetto modello di sobrietà e di armonia di linee. Il loro colore, che va da un tono di verde intenso ad un giallo chiaro, è di un effetto stupendo. 
Ma v'è un'altra caratteristica interessante da rilevare nella Vetriola. È noto come nelle piante sia il fiore l'organo specifici) della riproduzione. Ma i fiori, per l'impollinazione incrociata, che è la più propizia ad una prole robusta, hanno frequentemente bisogno, come nel nostro caso, di speciali mezzi. 
Quale richiamo possono mai offrire questi fiorellini di un colore insignificante e poco distinguibile dalle foglie?
Ma la Provvidenza ha messo a disposizione di questa umile pianta accorgimenti speciali. 
Sopra ogni cespo, gli uni su gli altri, stanno tre specie di fiori: fiori che non hanno bisogno di ricevere il polline da altri, perché usufruiscono di quello prodotto dalle loro antere; fiori che invece producono polline senza riceverne ed infine fiori che hanno pistilli capaci di trattenerlo. Dai fiori più alti di ogni spiga sporgono soltanto gli stili con gli stimmi pronti a ricevere i granuli di polline «mentre i fiori da cui le correnti d'aria traggono il polline sono i più bassi e gli stimmi già disseccati. Il polline deve salire». (Kerner di Marilaun). 
Quando gli stami di questi ultimi, curvati in dentro e fissati con le antere sotto lo stimma fatto a pennello, sono maturi, si raddrizzano di scatto, le antere si aprono e spandono una nubecola che va ad impollinare i fiori circostanti. 
Lo scatto può essere provocato stuzzicando con una punta gli stami curvi, i quali, se sono prossimi alla maturazione, si drizzano istantaneamente lanciando il polline. 
Aiutiamo il fanciullo ad osservare bene i fiori con una lente. Stanno fitti fitti, formando un manicotto morbido attorno al fusticino all'ascella delle foglie. Che meravigliosa armonia di linee in ciascuno, anche se al guardarli ad occhio nudo sembrano insignificanti o brutti! 
Ma non si è ancora detto di questa pianta una cosa essenziale in rapporto all'ambiente in cui vive. Di quali mezzi essa dispone per salvarsi dalla siccità? 
Se ogni alunno potrà osservare da vicino un rametto gli sarà facile rilevare che il fusto, fragilissimo come vetro, donde il nome di Erba vetriola, oppure Erba cristallina, contiene molta acqua e che, specialmente se un po' grosso, è ricoperto da una epidermide spessa e pelosa. 
E le foglie, che non sono carnosette come quelle della Linaria e nemmeno otricelli come nella Pignola, sono rivestite da moltissimi peli lucidi e molli che formano un fitto strato lanoso sopra le due pagine. 
Questa abbondanza di peli non è ignota al fanciullo che si serve dei rametti della pianta per gioco, attaccandoli sulla schiena dei compagni o sul viso o sul dito della mano. Quando non ne sa il nome, la ricorda per questa particolarità e la chiama «erba che attacca». 
E qui conviene appunto parlare della funzione dei peli, che hanno il compito di impedire la eccessiva traspirazione. 
Le foglie della Parietaria non sono, dunque, serbatoi d'acqua, ma in compenso sono difese dalla perdita d'acqua da una fitta selva di peli che intimano l'alt all'umore prezioso affinché non se ne vada al richiamo del sole e dell'aria esterna. 
Invece i peli ispidi e setolosi che circondano i frutti hanno un altro compito: essi devono difenderli dalla avidità degli animaletti in viaggio sul muro in cerca di semi: chiocciole e formiche. 
Sarà buona cosa far toccare ai fanciulli una pianta cresciuta in un luogo umido ed una in un luogo arido per far notare la quantità differente di peli nell'una e nell'altra, poiché le piante, per un principio assoluto di economia, eliminano sempre tutto ciò che è loro superfluo. Si facciano anche sradicare alcune piante. La resistenza che esse opporranno potrà dare un'idea dello sviluppo della radice, munita di un fittone lungo talora tre o quattro volte più di alcuni fusti, che penetra validamente negli interstizi dei muri in cerca di umidità. 
La Parietaria dunque, non avendo come la Linaria e la Pignola, foglie capaci di serbare l'acqua, dispone, in compenso, d'una radice che può assolvere bene il compito di assicurare l'umidità necessaria alla pianta in quantità sufficiente, esplorando molto spazio del substrato. 
I ragazzi, nell'atto della sradicatura, vedranno cadere molto terriccio, che era stato trattenuto dai rami più bassi vicini al muro e dalle foglie appiccicaticce, perché i semi dei rami sovrastanti, cadendo, possano trovarvi subito possibilità di germinazione. 
Non è raro il caso di vedere rilucere sulle foglie di qualche pianta con semi già pronti, la bava argentea lasciata, sul loro passaggio, da queste ultime, evidente prova anche del servizio che certamente hanno recato alla pianta stessa. 
Ultime a cadere, nella Vetriola, sono le foglie all'apice dei fusticini, i quali, appunto verso la fine della stagione buona, rimangono provvisti di un ciuffetto caratteristico, simile ad una piccola stella verde. Si faccia cogliere e osservare una foglia fresca e bene sviluppata. Le sue nervature sono disposte in modo che pare di vedere infilata nel lembo una forchetta a tre punte. (Kerner di Marilaun) 
Quando incomincia a perdere la sua freschezza, questa pianta diventa arruffata e sudicia; le sue foglie appiccicaticce hanno trattenuto un po' di tutto: terriccio, peli, festuche, insetti morti; assomigliano alle tasche e ai cassetti di molti bambini!... 
La Vetriola è medicinale. Con essa si fanno infusi che hanno potere rinfrescante; una manciata di pianta fresca o secca (meglio se fresca) in un litro di acqua bollente, aromatizzata con scorza di limone, ha azione diuretica ed espettorante, combatte l'asma e la tosse. 
Con la pianta fresca, lavata, pestata si fanno cataplasmi da applicare sui tumori, sulle ferite e sui foruncoli. È adoperata pure per pulire bicchieri, bottiglie e vasi di vetro che lascia tersi e lucenti in virtù dei peli fitti di cui è tutta ricoperta e di una sostanza alcalina (potassica) che agisce da ottimo detersivo. 

Temi d'osservazione: 
- Osservare una pianta di Erba vetriola cresciuta sui muri ed una cresciuta in un luogo ombroso, e rilevare i caratteri uguali e quelli diversi. 
- Disegnare, per ciascuna delle due piante, il contorno di una foglia. 


Il secondo volume della Boranga è dedicato alla strada, e si apre con una capitolo dal bellissimo titolo Poesia e virtù delle erbacce. Nelle strade il traffico e la polvere distruggono la vegetazione spontanea: “quivi è il regno del lastricato e dell’asfalto”. Ma, non appena la manutenzione viene sospesa e la strada si inoltra nella periferia e poi nella campagna, subito appare “un tenue e bizzarro ricamo verde di pianti cine, le quali, sentita la possibilità di vivere, con la solerzia loro propria, inizierebbero gioiosamente il ciclo della loro esistenza”. (…) “Aspra e selvaggia talora, più spesso tenera e gaia, questa vegetazione che la natura fa crescere accanto all’uomo, sia nel luogo più umile che negli ambienti più rigogliosi, cela meraviglie e segreti degni di essere conosciuti”


Le siepi costituiscono l’argomento del terzo volume de La natura e il fanciullo. “La siepe, come mezzo di difesa dei campi, è creata dall’uomo, che pianta successivamente attorno alla sua proprietà uno o più specie di arbusti, in prevalenza spinosi e molto ramosi. Talvolta vi unisce alberelli, tenuti bassi da frequenti potature. Ma nella siepe si trovano anche altre piante generate spontaneamente da semi portati dal vento o dagli animali; piante che vi fissano dimora trovando in essa l’ambiente adatto per vivere e per crescere. Sono piante rampicanti, volubili e ombrofile. Alle prime la siepe offre appoggi e sostegni, alle altre l’ombra necessaria ai loro tessuti delicati. In questo consorzio vegetale le piante si aiutano a vicenda nella difesa dalla eccessiva insolazione e dalla siccità, comuni loro nemici. Ma uno ne hanno dal quale non possono difendersi da sole: il bruco vorace. Soltanto gli uccelli, e soprattutto quelli che amano costruirsi il nido tra gli arbusti della siepe o nei grovigli dei rami spinosi, possono salvare le piante dalla devastazione certa dell’inesorabile divoratore”. Tra le specie illustrate nel volume ho scelto il Rovo per terminare l’illustrazione di questa importante opera di divulgazione naturalistica italiana. 

Rovo (Rubus fruticosus L.). 

È il leone della siepe: domina e strazia. È perennemente in agguato con i suoi rami inarcati o tesi. Come il re della foresta, questo selvaggio esemplare del mondo vegetale, sfoggia sulla siepe elementi estetici di primo ordine, cosicché si potrebbe ritenerlo, a tutta prima, una pianta ornamentale e inerme. 
Invece fusti, foglie, grappoli di fiori, tutte le parti insomma della pianta, sono provviste di innumerevoli punte aguzze con le quali si difendono e offendono. Questo sanno benissimo i fanciulli che, avidi dei suoi frutti, le more selvatiche, ritornano dalla cerca con graffi e strappi. (…) 
Furono i Romani a dare a questa pianta e a quelle affini il nominativo di «rubus» da «ruber» che vuoi dire «rosso» dal colore del frutto e dei rami di alcune specie. Ma non le sarebbe tornato male anche l'appellativo di «robur», «forza», poiché tutta la pianta ne è una manifestazione. Una forza un po' prepotente, anche presa a prestito, perché questo frutice, se non trovasse sostegno nella siepe, dovrebbe rimanere sdraiato sul terreno ad allungare i suoi rami sull'erba. Somiglia un poco a certi messeri che tutti abbiamo conosciuti nella vita. Già: in questo mondo naturale che vive sotto i nostri occhi, v'è tutta una gamma di esemplari, riflettenti, qual più qual meno, le miserie e le grandezze umane: basta saper guardare! 
Ad affrontare le armi di questa pianta-leone occorre o il pungolo della gola, come nei fanciulli, o le robuste cesoie del potatore, manovrate con prudenza ed abilità. (…) 
L'avidità dei ragazzi per i frutti del Rovo trova una giustificazione nell'istintivo bisogno che essi hanno di ingerire elementi di prima necessità, come quelli contenuti nelle more: zucchero, acidi vegetali, sostanze minerali, sostanze peptiche che si trovano spesso riunite nei frutti selvatici. Le more del Rovo agiscono anche come purgante leggero. È pertanto errato vietare ai fanciulli di mangiarle. 
La farmacopea ufficiale non ha disdegnato di segnalare questo prodotto naturale per la preparazione di sciroppi e di marmellate rinfrescanti. Le foglie usate in decozione servono come astringente e trovano buon impiego nella cura del diabete. 
Ma che cosa è questo frutto del Rovo? Che cosa è mai questo piccolo, umile dono che il selvaggio Rovo offre ai fanciulli e agli uccelli verso la fine d'estate? 
I fanciulli lo sanno: è un insieme di piccole palline, prima verdi, poi rosse, ed infine nere che si chiamano drupe. Tutto il frutto è una drupa multipla. 


Oh, ammaliatrici more che sorridete, lustre e rubiconde, tra il fogliame, e inducete il fanciullo a non aver pietà né delle sue mani né delle sue vesti, attratto dal vostro richiamo prepotente! E forse è la stessa lotta che egli deve sostenere con i vostri rami, che s'attaccano spietati alla sua pelle e ai suoi indumenti, a incitarlo nella raccolta. Tutto ciò che è motivo d'ardimento e di lotta piace al fanciullo sano e normale. 
Egli sa anche come deve fare a cogliere le more: con un colpettino garbato stacca dal peduncolo il cono del frutto che è formato dal ricettacolo spugnoso, ricoperto dalle piccole drupe, un po' flaccide, se mature. Al peduncolo rimane attaccato il calice persistente. 
Peduncolo, ricettacolo: due nomi nuovi forse per il fanciullo. Ve chi ritiene di dovere evitare denominazioni scientifiche insegnando la storia naturale ai fanciulli, e non si capisce il perché. Il periodo della fanciullezza corrisponde al tempo più felice per la memoria; conviene approfittare inserendo nell'insegnamento quell'esercizio di nomenclatura esatta da affidare alla memoria, che farà guadagnare tempo in seguito. 
Nel succhiare il frutto, il fanciullo è qualche volta infastidito da peluzzi ruvidi che gli rimangono sulla lingua: si tratta dei resti dei filamenti di stami superstiti rimasti tra le drupe. Talvolta, accanto ad un frutto ricco di drupe, se ne trova un altro con un cuscinetto bruniccio di stami: è un fiore disseccato che non poté essere fecondato e non divenne frutto. 
Il grande numero degli stami è una caratteristica del fiore del Rovo e delle altre rosacee in genere. I suoi petali, quando i fiori sono maturi, ne sono per gran parte coperti; ma ciò non danneggia la visibilità agli insetti, anzi la favorisce, perché gli stami, essendo brunicci, danno maggior risalto al fiore. La corolla è l'unica parte debole e delicata di questa pianta. Ha vita brevissima: la sua esistenza si conclude in poche ore. 
Quando il bocciuolo biancastro si apre, i cinque petali appaiono raggrinziti come se entro l'astuccio del boccio fossero stati rinserrati senza cura. Qui veramente la natura ha commesso una in¬giustizia nel confronto con le altre innumeri corolle che si aprono sotto il sole. Si direbbero fatte di carta velina logora. I fiori sono anche sprovvisti di nettare. 
Caduti i petali, i sepali si abbassano e stanno come scodelline cave aderenti al gambo. 
Nel centro degli stami si sviluppano gli stili e quindi, tra il groviglio ed il seccume degli stami, ecco apparire le gaie perline. A mano a mano che il ricettacolo si gonfia e si allunga, tutte le successive drupe trovano spazio e posto per maturare al sole. 
Le foglie stanno a tre o cinque riunite insieme in foglia composta. Si faccia osservare come i picciuoli spesso presentino una speciale curvatura o torsione che è in relazione con lo spostamento al quale sono sottoposte, o tutta la foglia o le singole foglioline, in conseguenza della posizione di ciascuna e delle condizioni di illuminazione. Esse, pur mantenendosi quasi sullo stesso piano, possono così avvantaggiarsi nel miglior modo possibile dello spazio e della luce disponibili. 
Si osservino i rami protesi ad arco al di sopra della siepe e che, in bilico, oscillanti per il loro stesso peso, quasi animati da un senso di vita, sembrano lanciare ai passanti la sfida: «Chi vuole misurarsi con noi?». 
Essi sono muniti di cestole rossastre in rilievo, quasi muscoli tesi. Da esse affiorano in ordine sparso gli aculei del medesimo colore sanguigno dei rami e dei picciuoli, tutti rivolti verso il basso, pronti, come i canini degli animali da preda, ad afferrare ed a lacerare. Se i tralci, sotto la pressione del loro stesso peso, si abbassano fino a toccare terra, dalle loro gemme apicali si sviluppano radici. Ciò spiega il propagarsi rapido e invadente dei cespugli primitivi di Rovo, tanto che riesce quasi impossibile estirparli del tutto. 
Un'altra caratteristica di questa forte pianta è data dalla sua resistenza alle intemperie e al gelo. Sulle siepi spesso mantiene le foglie fino all'inizio d'inverno, anche nei climi freddi ed umidi. Quando la massa delle sue foglie si è notevolmente ridotta ed esse, intaccate e corrose, stanno per cedere alla morte, allora si colorano di un rosso-intenso e di violaceo come i frutti in via di maturazione. 
E intanto nel terreno, in vari punti vicini e lontani, i semi caduti attendono, s'è necessario anche più anni, le condizioni favorevoli per dare vita a nuove piante, avendo essi il privilegio di conservare a lungo il loro potere germinativo. 
È bene sapere che con le foglie e i getti giovani del Rovo si fa un decotto adoperato per gargarismi contro le infiammazioni di gola, delle gengive, delle tonsille.

martedì 22 maggio 2012

Sapere e agire: il Dizionario dell’ambiente


Ho trasferito con lo scanner la copertina della mia copia originale, segnata dal tempo e dall’uso. Questo libro ha infatti 32 anni, e per molti aspetti li dimostra anche nei contenuti, ma posso proprio dire che ha segnato la mia visione della scienza e del suo ruolo nella società. 

Era il 1980, alla conclusione di un decennio contraddittorio e confuso, segnato dalle stragi di Stato e dal terrorismo, ma anche da grandi conquiste nel campo dei diritti civili e dei lavoratori. Un decennio in cui si sviluppò finalmente anche in Italia una generale presa di coscienza dei problemi legati all’ambiente, alla gestione del territorio, all’igiene e alla sicurezza sui luoghi di lavoro. 

Il mio percorso di maturazione in quegli anni è segnato da letture e avvenimenti. Ne elenco alcuni, andando a memoria, magari con qualche errore cronologico: il rapporto del Club di Roma sui Limiti dello Sviluppo, letto quando ancora ero al Liceo, la crisi energetica del 1973 e l’inverno delle domeniche a piedi, la scelta di iscrivermi a Scienze Geologiche nell’illusione che a breve ci sarebbe stato un interesse pubblico per la difesa del territorio e la prevenzione delle catastrofi naturali (e infatti ho finito per fare l’insegnante), il terremoto del Friuli nel maggio 1976, il disastro dell’ICMESA a Seveso nel luglio successivo, la lettura de L’imbroglio ecologico di Dario Paccino (uscito nel 1971, ma conobbi il libro solo qualche anno più tardi), che metteva in guardia in chiave marxista dagli eccessi e le ingenuità di un certo ambientalismo che si sarebbero puntualmente verificati in seguito, l’incidente alla centrale americana di Three Miles Island (1979) e la nascita del movimento contro il nucleare civile. Insomma, scienza e ambiente, ma anche voglia di partecipare attivamente alla società, pensando globalmente e agendo localmente prima che queste parole diventassero un famoso slogan. 


Comprare il Dizionario dell’ambiente (Editori Riuniti), curato da Roberto Boltri e Antonio Levy, e spendere le diecimila lire che costava nei primi mesi dell’81 fu una scelta direi quasi inevitabile e ampiamente vantaggiosa. Il testo era concepito come un manuale di divulgazione e di intervento, con 135 voci riguardanti l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo, i luoghi di lavoro, l’assetto idrogeologico e la gestione del territorio, l’alimentazione, i problemi demografici, l’energia. Per la sua natura interdisciplinare, il Dizionario fu compilato da una ventina di specialisti provenienti dal mondo dell’università e della ricerca pubblica e privata. Lo scopo degli autori era quello di fornire strumenti di conoscenza scientifici e normativi affinché il lettore potesse intervenire con una certa competenza all’interno del proprio territorio, dei luoghi di lavoro, nelle associazioni, nel sindacato, nelle amministrazioni pubbliche, ovunque se ne ravvisasse la necessità. Il linguaggio scientificamente rigoroso e tuttavia semplice risultava comprensibile anche a chi non possedeva una grande cultura scientifica; il gioco dei rimandi tipico di un’opera a carattere enciclopedico favoriva gli approfondimenti e anticipava la struttura degli ipertesti. 

Meglio delle mie parole possono valere quelle dell’introduzione firmata dai due curatori, di cui riporto la prima parte: 

Da alcuni anni anche nel nostro paese si stanno sviluppando un interesse ed una partecipazione crescenti attorno ai problemi della tutela ambientale e dell'uso delle risorse; interesse e partecipazione che possono avere motivazioni e finalità diverse: esigenze professionali, necessità di espletare con competenza ruoli amministrativi, desiderio di dare risposte pertinenti a «curiosità» scientifiche, o anche di uniformarsi a mode culturali, nelle quali non di rado rischia di cadere la questione ambientale attraverso i mass-media. Tuttavia, sottesa a ciascuna di tali motivazioni, crediamo prevalga la convinzione che nel rapporto uomo-ambiente si manifestino le tensioni e le contraddizioni di un sistema economico che non ha esitato a stravolgere equilibri ambientali ed a sacrificare i diritti degli uomini in nome delle regole dell'accumulazione e del profitto individuali. 

La crisi energetica ha bruscamente destato la consapevolezza che le fonti tradizionali di energia (principalmente il petrolio) sono esauribili, e che quindi, da una parte, il loro sfruttamento non può essere attuato senza criteri di programmazione e di risparmio, e che, dall'altra, è necessario ed urgente sviluppare tecnologie in grado di utilizzare fonti alternative, che diano garanzie di sicurezza e di durata. Le tensioni internazionali; gli squilibri drammatici – in termini di reddito pro–capite (quando non addirittura della stessa possibilità di sopravvivenza) – tra paesi ad alto sviluppo industriale e paesi del cosiddetto Terzo mondo, produttori di ricchezze immense delle quali non godono il frutto; i ricorrenti eventi bellici nello scenario mediorientale, rivelano il nesso che intercorre tra sviluppo economico e industriale, disponibilità e utilizzazione di tecnologie e di risorse, e cooperazione tra i popoli. I legami tra processi demografici e programmazione urbanistica e territoriale; tra questi e l'uso produttivo del suolo in agricoltura ed il dissesto idrogeologico; tra l'impiego dei fertilizzanti e dei biocidi per le esigenze alimentari ed i fenomeni di inquinamento del suolo e delle acque, dovuti all'impiego di tali prodotti, sono ulteriori esempi delle strette relazioni esistenti tra attività umane, assetto ambientale, salute ed uso delle risorse. Alle tematiche dell'ambiente da molte parti si guarda con ottica del tutto differente. Ci riferiamo ad alcune proposte culturali, alle attese millenaristiche, ad un irrazionalismo emergente, tesi a leggere i fenomeni del degrado ambientale in chiave catastrofica, per cui irreale e velleitario risulterebbe ogni tentativo di intervento, e non resterebbe che l'attesa passiva del precipitare degli eventi, insistendo nell'attuale sfruttamento delle risorse e consentendo il permanere di già consolidati rapporti di dominio. Crediamo, viceversa, che oggi sia tempo di battersi contro due opposte tendenze, ambedue mistificanti e conservatrici: quella di una scienza totalizzante, che tutto risolve ed a tutto pone rimedio, in un processo auto-esaltante di interventi tecnologicamente raffinati, che ripropone la cultura dello spreco e della rapina delle risorse; e quella di una «natura» incontaminata, sede del Bene e della Libertà, che l'uomo e la sua scienza avrebbero irrimediabilmente intaccato, sicché l'unica arma in suo possesso — e cioè l'utilizzazione delle facoltà conoscitive — si rivolterebbe oggi contro di lui. (…)

Attraverso le lotte operaie per la tutela della salute negli ambienti di lavoro, per la prevenzione degli infortuni e per la riduzione dei rischi, si sta superando il concetto di monetarizzazione della salute ed è rifiutato il ruolo del lavoratore subalterno alla produzione e al profitto; è cresciuta la consapevolezza che le società umane si possano evolvere senza distruggere gli ambienti naturali e le risorse, non senza profondi mutamenti nei rapporti tra i popoli e l'innalzamento del livello di vita dei paesi emergenti. 


Gli interessi dell'intera collettività, considerati non soltanto nel breve periodo, ma estesi anche alle necessità delle generazioni future, devono essere difesi dalla classe lavoratrice, che più drammaticamente ha pagato e paga i costi collettivi e le conseguenze del degrado ambientale.

La classe lavoratrice dovrà perfezionare un progetto per l'ambiente, che scaturisca da un dibattito democratico, sensibile alle diverse esigenze e proposte ed in grado di superare ostacoli e contraddizioni; dovrà inoltre ampliare la propria cultura in materia ambientale, così da individuare i necessari livelli di gradualità, mediante i quali governare la trasformazione, e intrattenere con la scienza e la tecnologia un rapporto né subalterno né caratterizzato da una adesione acritica a miti neopositivistici. 

Scienza e tecnologia pongono già a disposizione strumenti e metodologie validi; hanno indicato ed indicano errori ancora reversibili; utilizzano indagini previsionali attendibili, ma le generazioni presenti devono essere garanti della scelta di indirizzi positivi. Tali considerazioni hanno condotto alla realizzazione di questo dizionario, assieme alla convinzione della necessità di tentare una sintesi delle problematiche diverse e delle discipline eterogenee, ed alla constatazione che un crescente numero di giovani, di lavoratori e strati sempre più ampi di popolazione, manifestano l'esigenza di appropriarsi degli strumenti conoscitivi riguardanti le tematiche ambientali. Il dizionario è quindi rivolto principalmente ai giovani, agli operatori delle strutture dell'igiene e della sanità pubblica ed agli amministratori degli enti locali, chiamati ad affrontare e risolvere i problemi ambientali. Certamente esso non costituisce un binario per specifiche scelte politiche; ci auguriamo tuttavia che rappresenti una guida ed uno strumento di consultazione — anche se in alcuni casi di carattere generale — per coloro che non possiedono una preparazione tecnica specialistica. 


Come si può leggere, molte idee degli autori sono state smentite dalla storia di questi trent’anni, anche perché molte cose non potevano essere previste. Ci sono state alcune grandi conquiste, come i due referendum sul nucleare e quello sull’acqua pubblica, il progredire di una legislazione e di una mentalità che hanno portato a sentenze esemplari come quella recentissima sulla Eternit di Casale Monferrato, ma accanto ad esse, il numero degli incidenti sul lavoro ha continuato a essere insostenibile e quotidianamente aggiornato, le condizioni di lavoro, dove il lavoro ancora c’è, sono in molti casi peggiorate (penso alla FIAT come caso esemplare), i casi di inquinamento sono ancora troppi (Taranto, Priolo, ecc.), lo scempio del territorio è continuato, con frane e alluvioni che continuano a far danni come un tempo, e strutture come la Protezione Civile, nate per aumentare la rapidità e l’efficacia degli interventi, si sono rivelate squallidi strumenti di malaffare, o, peggio, per aggirare il controllo democratico sulle decisioni e sulle spese, come è avvenuto per il G8 a La Maddalena o dopo il terremoto de L’Aquila. Molto ancora c’è da fare. 

Una delle mie principali preoccupazioni è che libri come il Dizionario dell’ambiente non se ne fanno più.

lunedì 19 marzo 2012

Tre stroncature scientifiche

Oceano mare, di Alessandro Baricco

Non conosco quali credenziali scientifiche possa vantare questo Alessandro Baricco, ma devo purtroppo affermare che il suo Oceano Mare mi delude profondamente. Avvezzo ai libri di oceanografia della scuola di Jacques Cousteau, pieni di dati scientifici sulla fauna e la flora marine, sugli ambienti e la geologia dei fondali, arricchiti dal racconto di entusiasmanti avventure nel sesto continente, corredati da un apparato iconografico di grande qualità, mi colpisce l’assoluta mancanza di informazioni, la totale assenza di disegni e fotografie, il racconto di vicende che nulla hanno a che fare con quanto promesso dal titolo. Anche su di esso c’è poi da discutere. Oceano o mare? Tutti sanno che gli oceani sono mari, ma non tutti i mari sono oceani. La differenza non è data soltanto dalle dimensioni, ma anche dalla natura geologica dei fondali: gli oceani presentano dorsali e fosse, i mari le hanno solo se sono residui di oceani. Con tutta evidenza, l’autore non possiede la minima cognizione di che cosa sia la tettonica a zolle.

Ogni libro scientifico che si rispetti è preceduto da un breve sunto, un abstract, che in poche righe sintetizza i contenuti principali dell’opera. Il Baricco anche qui pecca di disattenzione o di ignoranza. Dobbiamo forse considerare come indicazione dei temi principali dell’opera l’incipit «Sulle labbra della donna l’ombra di un sapore che la costringe a pensare ‘acqua di mare, quest’uomo dipinge il mare con il mare’ », che ricorda tanto una canzone di Gino Paoli? E come si fa a parlare di oceano, o di mare, se non ci si muove da una locanda? E dove sono gli oceanografi, i biologi marini, i subacquei? Una donna isterica, un’altra un po’ allegra, un matematico idiota, un pittore malato nel cervello che dipinge con l’acqua? E il prete, che cosa c’entra un prete?

Mi chiedo poi la sostenibilità scientifica di una frase come «Il mare è senza strade, il mare è senza spiegazioni». E no, caro il mio Baricco, il compito di un libro di divulgazione scientifica è proprio quello di fornire spiegazioni! Troppo comodo questo ermetismo d’accatto! Facile, troppo facile scrivere un libro sull’oceano senza muoversi dalla terraferma, facile come eseguire uno studio di funzione senza sapere le tabelline.

Quando finalmente succede qualcosa nel tedio generale dell’opera, finalmente in mare aperto, si parla di un lontano naufragio della fine del ‘700. Il nome Medusa, che per un istante induce il lettore a pensare che si parli di zoologia marina, è invece quello di una nave. Due tizi che parlano dei fatti loro su una zattera alla deriva costituiscono il punto con più pathos dell’intera opera, il che non è certo il modo migliore per esporre gli esiti di una ricerca o raccontare suggestive esplorazioni.

Non ho mai letto un libro scientifico così privo di contenuto scientifico, scritto con un linguaggio del tutto privo di precisione terminologica, così perso in chiacchiere senza senso e in banalità da cartina da cioccolatino come «Non si è mai abbastanza lontani per trovarsi». Ne sconsiglio pertanto l’acquisto, domandandomi come una tale opera abbia potuto superare anche la più benevola delle peer-review.



Perché io credo in colui che ha fatto il mondo. Tra fede e scienza, di Antonino Zichichi

Il volume, 256 pagine, presenta una copertina cartonata con la fotografia dell’autore di tre quarti, capelli bianchi lunghi pettinati all’indietro, viso sorridente abbronzato, braccia conserte, abito blu, camicia bianca, cravatta scura. Lo sfondo è una di quelle belle immagini a colori finti ottenute da un telescopio a raggi infrarossi che rappresenta una lontana galassia.

Un globo luminoso al centro emette quattro raggi, a simulare un sistema di assi cartesiani, ed è contornato dal profilo di un triangolo isoscele con base circa doppia dell’altezza, disegnato in bianco, che ricorda una di quelle rappresentazioni medievali della Trinità sulla base del credo di Nicea, probabilmente per una citazione colta. La superficie del triangolo, pur essendo trasparente, è più scura rispetto al resto dell’immagine. Le scritte di copertina sono in bianco, per meglio risaltare sul fondo; si nota che le parole “io credo” sono scritte in carattere più grande forse per un errore di composizione. Più piccolo il sottotitolo “Tra fede e scienza”. Nell’angolo in basso a destra spicca il conosciuto logo del gruppo editoriale, con la S che simula un arco nell’atto di scoccare una freccia diretta verso destra.

La quarta di copertina riporta in due colonne affiancate, con allineamento a sinistra, una presentazione del contenuto del libro e una succinta biografia dell’autore. In basso a destra è visibile l’elegante codice a barre. Il prezzo di vendita al pubblico del libro è di € 16,00, ma su Internet è possibile trovarlo anche a prezzi più bassi a seconda della libreria on line. Nel suo complesso il volume costituisce un parallelepipedo largo 13,5 cm, alto 20,5 cm e di spessore pari a 2,4 cm, per un volume complessivo di cm3 664,2. Il peso del volume (si perdoni il bisticcio di parole e di unità metriche) è di 456 grammi. Facendo il rapporto tra il prezzo di vendita e il peso si ricava il valore approssimato di 35,09 €/kg, molto più caro che il prosciutto crudo venduto in busta alla Coop. Se ne sconsiglia pertanto l’acquisto.

(Talvolta la cosa migliore di un libro è la sua mera materialità, l’unica degna di essere recensita).


Éléments de Mathematique, di Nicolas Bourbaki

Tutti nell’ambiente sanno che Nicolas Bourbaki non esiste, che era il nome di un generale francese dell’Ottocento, eroe a Tunisi, che con la matematica non c’entra niente. Allora, può un personaggio inesistente scrivere una serie di trattati matematici per cinquant’anni di fila? La matematica violata da uno pseudonimo, soprattutto invocando il sistematico rigore! Passi se uno scrive un romanzo: tanti sono stati scritti sotto pseudonimo, e molti letterati hanno adottato nomi di fantasia per tutta la vita, come Georges Sand, Italo Svevo, Aldo Palazzeschi o Alberto Moravia. Altri addirittura, pur conservando il loro vero nome, hanno finto per tutta la vita di essere romanzieri (forma ancor più raffinata e crudele di pseudonimia), come Alberto Bevilacqua, Oriana Fallaci, oppure quello dei lucchetti di cui non ricordo neanche il nome. Diciamo che nella finzione, che è matrice della letteratura, ci può stare anche un nome inventato o una fama usurpata. Ma, perdio, nella scienza no!

La matematica esige serietà, perché tratta di argomenti verificabili, coerenti anche se non completi, oggettivi anche quando sono completamente astratti. Potrebbe mai pubblicare su Science un fisico che si firma Donald Duck? O segnare un nuovo approccio nella matematica uno che si fa chiamare Galois, come una sigaretta? O vincere la medaglia Fields uno che sceglie lo pseudonimo di Perelman, come una penna stilografica? Perché allora questo finto Bourbaki, assai longevo peraltro, si è permesso di scrivere di matematica senza rivelare le sue generalità? Per provocazione? Per irrisione? Per non prendersi responsabilità?

Lasciamo perdere pure la questione dello pseudonimo, per passare a un’altra stranezza. Tutti noi abbiamo imparato la geometria attraverso le figure e, grazie alla vista, sappiamo riconoscere un quadrato, una parabola, una spirale. Com’è allora che i diversi volumi degli Éléments non ne contengono neanche una? Passi pure il rinunciare a tutto tranne riga e compasso, come fecero i Greci (che così si preclusero molte utili dimostrazioni e oggi stanno pagando la loro imperizia contabile), ma rinunciare persino alla mano libera, al punto che uno le figure è costretto a immaginarsele? Un conto è disegnare una retta nel piano cartesiano, un conto è fornire una formula astrusa come y = 5x + 2 e dire che corrisponde a una retta. Chi ce lo assicura? Il signor Bourbaki? E chi è?


Prendiamo infine in considerazione che cosa sceglie il signor Bourbaki, o chi per lui, per costruire il suo edificio matematico: la teoria degli insiemi. E in quale versione? Sì, perché di teorie degli insiemi ce ne sono molte e c’è stato anche uno che è arrivato a distinguere gli infiniti a partire dall’insieme vuoto. Si arriva così all’assurdo di scegliere come fondamento, invece dei cari e vecchi numeri, un concetto opinabile e sottoposto a discussione. Costruireste voi una casa senza essere certi che i vostri mattoni reggono lo sforzo? In realtà non c’è nemmeno accordo su come i mattoni debbano essere fatti, con quale composizione, quale forma, quali dimensioni. E infatti si rincorrono le difficoltà con acrobazie sempre più pericolose: l’ipotesi del continuo, l’assioma della scelta, ecc.

Dice l’autore nella prefazione: «Dai greci, chi dice matematica dice dimostrazione. Alcuni dubitano che al di fuori delle matematiche esistano dimostrazioni nel senso preciso e rigoroso che questo termine ha ricevuto dai greci e che si intende dare in questa opera. Si ha il diritto di dire che il significato del termine dimostrazione non è variato, poiché ciò che è stato una dimostrazione per Euclide, lo è tuttora ai nostri occhi; […]Ma a questa venerabile eredità si sono aggiunte, da un secolo, importanti scoperte. In effetti l'analisi del meccanismo di dimostrazione nei migliori testi di matematica ha permesso di liberare la struttura dal doppio punto di vista del vocabolario e della sintassi. Si arriva quindi alla conclusione che un testo di matematica sufficientemente esplicito può essere espresso in un linguaggio convenzionale comprendente solamente un piccolo numero di termini invariabili assemblati mediante una sintassi che consisterà in un piccolo numero di regole inviolabili. Un testo così concepito si dice formalizzato. [...]. La verifica di un testo formalizzato non richiede che una attenzione meccanica; le sole cause di errore saranno dovute alla lunghezza o alla complessità del testo.[...]. Per contro, in un testo non formalizzato si è esposti ad errori di ragionamento che rischiano, ad esempio, di causare un uso improprio dell'intuizione o del ragionamento per analogia». Splendido: si invoca l’utilità della dimostrazione e nei volumi queste sono lasciate al lettore, si dice di voler rinunciare ambiguità del linguaggio naturale e con che cosa lo si sostituisce? Con simboli assemblati in modo confuso! Alla ricchezza del linguaggio si sostituisce l’afasia della cifra nuda. Alla bellezza della comprensione dei passi successivi di un algoritmo si preferisce un oscuro codice enigmistico: non ci siamo!