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sabato 1 settembre 2018

Scienza e poesia nell’Ottocento


La storia del rapporto tra scienza e poesia, di tradizione antichissima (si pensi ad esempio a Lucrezio), è anche la storia del loro disincanto, dei loro conflitti e dell'opposizione tra correnti di pensiero divergenti. La poesia scientifica, esplosa nell'epoca dei Lumi e delle Enciclopedie e popolare fino alla fine del XIX secolo, il cui successo sociale fu ampio in Europa e in America, si trova oggi ridotta a genere periferico, coltivata da pochi appassionati, in genere provenienti dal mondo delle scienze. Gli umanisti, soprattutto i più tradizionalisti e lontani dagli esperimenti delle avanguardie, le rimproverano sia la banalità (trattamento di soggetti vili, lessico inappropriato alla nobiltà del linguaggio poetico), sia l’accademismo (nella sua mania descrittiva e nella sua lunghezza). Esistono dall'altro lato, tra chi si occupa di scienza, posizioni di rifiuto radicale, che, pur senza entrare nell'annoso dibattito sulla separazione tra le “due culture”, trovano improponibile un connubio tra due mondi giudicati inconciliabili: se la prosa può far proprie tematiche scientifiche, può addirittura ispirarsi a stili e strutture propri delle scienze (ad esempio i metodi dell’Oulipo, o il nostro Calvino), la poesia viene considerata troppo soggettiva, imprecisa, emotiva, come se dovesse essere giudicata con i criteri di una peer-review. Tra gli scettici, da entrambe le parti, si insiste sulla divergenza dei modi di espressione della scienza (la sua terminologia indigesta e poco incline al lirismo) e la poesia (il suo linguaggio è figurativo e quindi non preciso, giocando sull'indeterminatezza e la polisemia). Che cosa fare poi delle metafore e delle strutture di pensiero che la scienza fa proliferare? Servono per rinnovare il linguaggio poetico o per mitigarlo nelle perifrasi, con il rischio di sostituire un'oscurità con un'altra?

La poesia scientifica tuttavia rifletteva un tempo un ideale di modernità, fatto di un'attenzione acuta al presente, ai cambiamenti tecnologici e alle nuove conoscenze, di un'avidità di rinnovamento tematico e di revisione degli standard estetici. È perciò necessario abbandonare gli attuali criteri di valutazione, per portarci nel XIX secolo, quando la poesia scientifica esprimeva un’esigenza che era un appello per la libertà e per la fantasia: la libertà di trattare qualsiasi argomento, fosse esso oscuro o volgare, di essere aperti a tutta la conoscenza, fuori dai pregiudizi, con tutti i lessici, e di far dialogare la letteratura, la scienza e le arti (meccaniche e liberali). Samuel Taylor Coleridge, che pure da giovane aveva espresso un atteggiamento di diffidenza verso la capacità immaginativa della scienza, mutò parere in età matura: richiesto sul perché frequentasse dei corsi di chimica, rispose che voleva arricchire il suo bagaglio di metafore.

Ci fu chi colse le opportunità offerte al poeta su posizioni equilibrate, come Emily Dickinson, attratta dalle grandi prospettive della scienza, che non vedeva come nemica, ma complementare allo spirito lirico. Dalle lezioni di Edward Hitchcock, suo professore di scienze naturali, la poetessa era a conoscenza dei metodi grazie ai quali il paleontologo era in grado di ricostruire dalle poche ossa rinvenute lo scheletro di un animale preistorico. Secondo la Dickinson (A science - so the Savants say, 1860), le indagini della scienza possono rivelare i segreti della natura, ma basta un occhio capace di guardare in prospettiva futura per vedere in un semplice fiore, spuntato timidamente quando è ancora inverno, il preludio della rinascita primaverile. Alla scienza è necessaria anche la meraviglia:

A science—so the Savants say, 
"Comparative Anatomy"— 
By which a single bone — 
Is made a secret to unfold 
Of some rare tenant of the mold, 
Else perished in the stone — 

So to the eye prospective led, 
This meekest flower of the mead 
Upon a winter's day, 
Stands representative in gold 
Of Rose and Lily, manifold, 
And countless Butterfly! 

Una scienza – così dicono i Sapienti, 
"Anatomia Comparata" – 
per la quale un singolo osso – 
è costretto a svelare un segreto 
di qualche raro inquilino dello scavo
Altrimenti scomparso nella pietra – 

Così all'occhio la prospettiva condusse 
questo timidissimo fiore del prato 
in un giorno d'inverno, 
dorata rappresentazione 
di Rose e Gigli, molteplici, 
e di innumerevoli Farfalle! 


In Italia, per cultura e tradizione, la poesia scientifica non ebbe quasi cultori, a meno che si vogliano considerare come tali certe opere di Leopardi. Unica vera eccezione fu l’opera di Giacomo Zanella (1820-1888), che fu sacerdote, patriota e professore di lettere e filosofia. La sua produzione poetica fu originale rispetto al panorama letterario del suo tempo per la capacità di presentare in versi argomenti di carattere scientifico e il tentativo di conciliare religiosità cattolica, cultura positivista e problemi sociali (come il lavoro operaio e la povertà). Le scelte poetiche dello Zanella contribuirono a collocarlo, nell'ambiente culturale del suo tempo, in una posizione anomala. Egli, infatti, fu mal visto sia dal mondo culturale laico, per il suo rifiuto delle tesi materialistiche, sia da una parte delle autorità ecclesiastiche per il patriottismo, la scienza e l’interesse per la questione sociale. La sua poesia più famosa è Sopra la conchiglia fossile - nel mio studio (1864), ode ispirata da una conchiglia fossile adoperata come fermacarte. Il poeta, contemplando la conchiglia, medita sulle età più antiche della terra e sul destino dell’umanità, il cui futuro nasce dalle ceneri del passato attraverso un percorso che coinvolge l’intero universo. Forse qualcuno dei miei lettori ne ricorderà l’incipit:

Sul chiuso quaderno 
di vati famosi, 
dal musco materno 
lontana riposi, 
riposi marmorea 
dell’onde già figlia, 
ritorta conchiglia. 

Occulta nel fondo 
d'un antro marino, 
del giovane mondo 
vedesti il mattino; 
vagavi co’ nautili, 
co’ murici a schiera, 
e l’uomo non era. 

Per quanta vicenda 
di lente stagioni, 
arcana leggenda 
d’immani tenzoni 
impresse volubile
nel niveo tuo dorso 
de’ secoli il corso! 


La democratizzazione del soggetto poetico e il rinnovamento (tematico o formale) della poesia per la scienza hanno incontrato, anche allora, delle critiche. La banalità dei soggetti della poesia scientifica e la mostruosità stilistica di certa poesia didattica attivavano due tipi di antagonismi: disaccordo tra registri nobili e volgari e conflitto dello spirituale contro il materiale. Il sospetto di materialismo che pesava sulle scienze applicate (e che spinse tutta l'ondata di protesta contro la società industriale e borghese) suscitava la resistenza. Come testimonia agli inizi del secolo il francese Louis de Bonald ("Sulla guerra delle scienze e delle lettere", 1807): 
“Da qualche tempo si notano sintomi di incomprensione tra la Repubblica della Scienza e la Repubblica delle Lettere. [...] Da entrambe nascono reclami e recriminazioni. Le scienze accusano le lettere di essere gelose dei loro progressi. Le lettere rimproverano alle scienze la presunzione e un'ambizione sproporzionata; e come sempre accade tra persone amareggiate, l'osservatore imparziale percepisce da entrambe le parti il desiderio di fare la guerra piuttosto che i soli motivi della guerra”
Il connubio di ragione tra poesia e scienza non era infatti indenne da critiche, anche aspre, e contraddizioni. Il XIX secolo è attraversato da una polemica, una vera e propria "guerra culturale", tra i sostenitori dell’arte pura e i seguaci di una benefica collaborazione tra i domini, tra coloro che considerano la poesia un accessorio estetico e un’integrazione emotiva e coloro che vivono questa combinazione come una degradazione e una concessione. L'incanto per la scienza sarebbe quindi solo un disincanto poetico del mondo, come è evidente nel sonetto To Science scritto nel 1827 da un giovanissimo Edgar Allan Poe (che pure, vent'anni più tardi, avrebbe pubblicato il profetico “poema in prosa” Eureka!, un vero proprio testo astronomico scritto da un poeta con profonde conoscenze scientifiche): 

Science! true daughter of Old Time thou art! 
Who alterest all things with thy peering eyes. 
Why preyest thou thus upon the poet’s heart, 
Vulture, whose wings are dull realities? 

How should he love thee? or how deem thee wise, 
Who wouldst not leave him in his wandering 
To seek for treasure in the jewelled skies, 
Albeit he soared with an undaunted wing? 

Hast thou not dragged Diana from her car, 
And driven the Hamadryad from the wood 
To seek a shelter in some happier star? 
Hast thou not torn the Naiad from her flood, 

The Elfin from the green grass, and from me 
The summer dream beneath the tamarind tree? 

Scienza, tu sei la vera figlia del Tempo antico, 
tu che muti ogni cosa con gli occhi penetranti! 
Perché devasti, dunque, il cuore del poeta, 
avvoltoio dalle ali tristemente monotone? 

Come potrebbe amarti, come crederti saggia, 
tu che mai lo lasciasti libero di vagare 
in cerca di tesori per i cieli gemmati, 
benché si alzasse in volo con ali temerarie? 

Non hai sbalzato forse Diana dal suo carro? 
Non hai cacciato via dal bosco l’Amadriade, 
che andò a cercar riparo su una stella più lieta? 
Non hai strappato tu la Naiade ai suoi flutti, 

e l’Elfo all'erba verde, e a me il sogno estivo, 
a me disteso all'ombra del fresco tamarindo?



Lo scetticismo del reticente è talvolta espresso in testi amaramente beffardi o parodistici. Tuttavia, come distinguere la parodia dal modello, a volte essendo esso a lei così vicino? L'effetto parodico può essere voluto e controllato o involontario, quando si tratta di imitazioni fallite o di ampollosità didattica, talmente incompetente al punto da passare per ironia. Che dire ad esempio di Nouvelle arithmétique, appliquée à la marine et au commerce, mise en vers di Pierre Léon Chavignaud (1841), un libretto di un centinaio di pagine che ebbe più di dieci edizioni nell'arco di tre lustri (l’ultima, di Hachette è del 2018)? 

Quatre opérations, distinctes et faciles, 
Fixent le jugement des commerçants utiles. 
L’Addition d’abord se grave en leur esprit : 
Ils sont heureux de voir augmenter leur crédit. 
De la Soustraction la douce et sure chance, 
Des mains de la justice en fixe la balance. 
Multiplication, d’un pas noble et certain, 
Tu viens les enrichir d’un précieux butin. 
Division, tu fais que le sociétaire, 
Obtient, grâce à ton art, son avoir salutaire. 

L’intento didattico è chiaro, e forse fu raggiunto (tra l’altro le rime facilitano l’apprendimento a memoria), ma scambiare questa operazione per poesia scientifica è un oltraggio per entrambe le culture. L’autore, che fece carriera anche come scrittore di romanzi popolari, forte del successo ottenuto, mise poi in versi una grammatica francese, che fu però meno fortunata. 

Se la parodia è definita dall'opposizione tra il soggetto e lo stile, traendo dal divario tra il registro nobile e quello volgare la sua essenza comica, la poesia scientifica nella sua vena meno profonda è un genere che talvolta dà una forma alta ad argomenti forse inappropriati, ciò che accentua frequenti incidenti di percorso. Critica o comica, la parodia non è l'unica deviazione dal trattamento della scienza da parte della poesia. L'effetto di scarto appare anche nella produzione di "conoscenza eterodossa" da parte di studiosi e poeti incapaci o insani, di contestatori, mistici o visionari con una predilezione per le scienze che toccano l'ignoto e nutrono il mistero (tutti etichettabili come i “folli letterari” di Queneau). Sono queste produzioni eterodosse che ispireranno verso la fine del secolo la perfida e geniale satira ‘patafisica di Jarry.



La nazione in cui la poesia scientifica raggiunse i livelli più alti fu senza dubbio la Gran Bretagna vittoriana, dove molti famosi uomini di scienza praticavano le ricerche specialistiche e la scrittura di poesie e di esposizioni popolari delle loro teorie scientifiche. Le loro carriere eclettiche furono rese possibili dai confini aperti tra le discipline: non c'erano rigide barriere educative o linguistiche, come sarebbe avvenuto nel XX secolo, tra la ricerca scientifica e la comunicazione scientifica, o tra scienza e letteratura. 

La maggior parte degli scrittori britannici di scienza dell’epoca citava regolarmente versi e brani di poesie, proprie o di autori famosi, nel corso delle loro spiegazioni di esperimenti scientifici e teorie. Gli usi della citazione poetica nella scienza vittoriana sono numerosi, vari e spesso difficili da definire: gli autori usano la lingua della poesia a volte come prova a sostegno di particolari teorie scientifiche, e talvolta come una sorta di ornamentazione retorica della loro prosa. Alcune citazioni sono utilizzate per riassumere il ragionamento induttivo caratteristico della scienza, che passa dall'osservazione di un particolare fenomeno naturale a una più ampia conclusione sul significato di quel fenomeno; e alcuni sono impiegati per andare oltre il metodo scientifico, per suggerire gli effetti emotivi o spirituali di un fatto scientifico. Molti matematici e fisici erano loro stessi poeti dilettanti, ma il loro diletto si fondava su solide basi culturali (e persino su una vera e propria erudizione) e si manifestò con opere di buon livello, sia su temi scientifici, sia su temi meno direttamente legati o non collegabili con il campo della loro ricerca. Era tra loro condiviso il pensiero che la ricerca richiede un alto grado di immaginazione, affine all'istinto del poeta: è questo spirito creativo che accomuna scienza e poesia nella figura dello scienziato-poeta vittoriano, di cui ci occuperemo prossimamente.

domenica 21 giugno 2015

Eureka!: l’universo in evoluzione di Edgar Allan Poe

ResearchBlogging.orgIl 19 aprile 1610, Keplero, senza nemmeno aver verificato le scoperte comunicate nel Sidereus nuncius di Galileo, pubblicato solo da alcune settimane, inoltrò allo scienziato italiano, tramite l'ambasciatore di Toscana, una lunga lettera di approvazione e commento. Essa fu poi pubblicata a Praga nei primi giorni di maggio, con notevoli varianti ed ampliamenti, con il titolo Dissertatio cum Nuncio Sidereo. Nella sua ampollosa prosa latina, il tedesco pose per primo una domanda apparentemente banale, soprattutto in quei tempi senza inquinamento luminoso: “Perché il cielo notturno è buio?”. Egli sapeva che la risposta altrettanto banale, e cioè “Perché di notte non c’è la luce del Sole”, non è scontata. 


Keplero era un convinto assertore della finitezza dell’universo. Egli utilizzò la domanda come argomento contro l’idea di un universo infinito con un numero infinito di stelle. Se l’universo fosse pieno di stelle come il nostro Sole e si estendesse senza fine, allora, sosteneva, “l’intera volta celeste sarebbe luminosa come il Sole (…) questo nostro mondo non appartiene a uno sciame indifferenziato di innumerevoli altri”. Se le stelle fossero infinite e disposte in ogni punto della volta celeste, allora il nostro sguardo dovrebbe incontrare in ogni caso le loro luci, sia di giorno che di notte. 


La domanda di Keplero prende oggi il nome di “Paradosso di Olbers”, dal nome dell’astronomo tedesco Heinrich Wilhelm Olbers, che lo espose nel 1826. La sua domanda “come è possibile che il cielo notturno sia buio nonostante l'infinità di stelle presenti nell'universo?” supponeva alcune qualità dell’universo che la cosmologia del suo tempo, sulla scorta del sistema di Newton, dava per scontate: l’universo è infinito (la sua estensione spaziale non ha limiti), eterno (esiste da sempre), immutabile (non si evolve e non si è evoluto verso condizioni differenti da quelle che osserviamo), omogeneo e isotropo (in esso le stelle sono distribuite più o meno uniformemente). Dato che le stelle sono distribuite in modo uniforme e sono in numero infinito, la loro luce dovrebbe brillare in tutto il cielo, rendendo indistinguibile persino la luce del Sole. Olbers pensava che una qualche forma di polvere o gas interstellare intercettasse la luce delle stelle prima del suo arrivo sul nostro pianeta, ma ignorava che l’energia assorbita dalle particelle di materia le avrebbe in questo caso scaldate fino a renderle a loro volta incandescenti e sorgenti di energia radiante, magari di lunghezza d’onda differente. Insomma, il paradosso di Olbers era una sfida per l’infinità, l’immutabilità e l’omogeneità dell’universo. 

L’astronomia alla metà dell’800 era essenzialmente osservazionale. Era lo studio di comete, stelle binarie, “nebulae”, cataloghi di stelle. Nel 1838 Friedrich Bessel era stato il primo a misurare le distanze tra le stelle, nel 1846 Johann Gottfried Galle scoprì Nettuno basandosi sui calcoli di Urbain Le Verrier, e il grande telescopio a riflessione di Lord Rosse permise di osservare la galassia di Orione e qualche anno più tardi inquadrò e rese popolare la galassia Vortice M51. Queste scoperte, rese possibili dal progredire delle tecniche di osservazione, incominciarono a mettere in discussione l’omogeneità dell’universo: le stelle non sono distribuite in modo uniforme, ma appartengono a sistemi che oggi sappiamo essere le galassie, che a loro volta possono appartenere a sistemi più grandi, come era già stato intuito da Kant. Nel 1848 William John Herschel, recensendo il volume Kosmos di Alexander Von Humboldt, accennò alla possibilità di una struttura gerarchica dei corpi celesti come possibile soluzione al paradosso del cielo notturno. Anche se le stelle sono infinite non necessariamente il cielo deve essere luminoso in ogni punto nel modo prospettato da Olbers. La disposizione disomogenea dei corpi celesti lascia grandi spazi vuoti che noi vediamo bui.


Curiosamente, una moderna visione dell’evoluzione dell’universo, che spiegava la sua disomogeneità e forniva una soluzione del paradosso di Olbers, non fu proposta da uno scienziato, ma da uno scrittore che aveva dichiarato di non amare la scienza, pur avendo una buona conoscenza dell'astronomia della sua epoca. Nel 1848, infatti, Edgar Allan Poe pubblicò Eureka, visionario, metafisico e stravagante “poema in prosa” in cui abbondano riferimenti diretti e indiretti alle opere di alcuni tra i principali astronomi del XIX secolo (l’opera è dedicata proprio ad Alexander Von Humboldt). 

Secondo lo scrittore americano, nell’universo agiscono solo due principi, l’attrazione e la repulsione, che egli vede non solo come forze reali, ma anche come entità metafisiche: 
“Non esiste altro principio. Tutti i fenomeni sono riferibili o all’uno o all’altro, o alla combinazione di entrambi. (…) L’attrazione e la repulsione sono le uniche proprietà attraverso le quali percepiamo l’Universo – in altre parole, con le quali la Materia è manifestata alla Mente – [al punto che] siamo autorizzati a pensare che la materia esiste solamente come attrazione e repulsione, che esse sono la materia, non esistendo alcun caso concepibile in cui non potremmo utilizzare la parola “materia” e le parole “attrazione” e “repulsione”, considerate assieme, come equivalenti, e perciò scambiabili, nella Logica”. 

Poe attribuisce la nascita dell'universo alla frammentazione di una particella primitiva; una volta esauritasi l'azione della forza repulsiva iniziale, gli atomi diffusi nello spazio avrebbero cominciato ad attrarsi reciprocamente e a formare le stelle e i sistemi stellari: 
“Sono pienamente giustificato nel sostenere che la Legge che abbiamo chiamato Gravità esiste a causa del fatto che la Materia è stata irradiata, alla sua origine, atomicamente, in una sfera di Spazio limitata, da una, singola, incondizionata, irrelata, e assoluta Particella Propria, dall’unico processo in cui era possibile soddisfare, contemporaneamente, le due condizioni: irradiazione e distribuzione generalmente uniforme in tutta la sfera, cioè da una forza direttamente proporzionale ai quadrati delle distanze tra gli atomi irradiati, rispettivamente, e il Particolare centro di Irradiazione”. 
Non ci si può esimere dal notare come Poe anticipi di tre quarti di secolo le intuizioni di Georges Lemaître riguardo a ciò che sarebbe stato chiamato Big Bang. 

Gran parte degli oggetti che ai suoi tempi erano chiamati nebulae (nebulose) ed erano considerati ammassi di gas, per Poe si devono pensare fatti nello stesso modo della nostra Galassia: sono altre galassie, esterne alla Via Lattea: 
“L’osservazione telescopica, guidata dalle leggi della prospettiva, ci autorizza a concepire che l’Universo percepibile esiste come un ammasso di ammassi, disposti in modo irregolare. Gli ammassi di cui è fatto questo “ammasso di ammassi” universale sono ciò che abbiamo l’abitudine di chiamare “nebulae”, e, di queste “nebulae” una è di sommo interesse per l’umanità. Alludo alla Galassia, o Via Lattea”. 

L'insieme di questi sistemi stellari, ciascuno dei quali è, in termini moderni, una galassia, è destinato a collassare a causa della gravità e a tornare all'unità primordiale, in una sorta di “respiro di Dio”, alternarsi di espansione e contrazione (qui troviamo anticipato il modello del Big Crunch). Poe pensa erroneamente che questa fase di contrazione sia già in atto: 
“Si vede sempre un nucleo nella direzione in cui le stelle sembrano precipitare, e non si può scambiarli per meri fenomeni prospettici: gli ammassi sono realmente più densi presso il centro, più radi nelle regioni più lontane da esso. In poche parole, vediamo ogni cosa come se stesse verificandosi un collasso”. 
Nel sostenere il suo modello dinamico, egli si avventura a criticare le idee di John Herschel (il figlio di William, anch’egli astronomo): 
“Da parte di Herschel [John] c’è evidentemente una riluttanza a considerare le nebulae come “in uno stato di progressivo collasso” (…) Perché è così poco disposto ad ammetterlo? Semplicemente a causa di un pregiudizio; solo perché l’ipotesi è in conflitto con un’idea preconcetta e totalmente infondata: quella dell’infinitezza, quella dell’eterna stabilità dell’Universo”. 
Per Poe la gravità è la forza principale che modella il mondo fisico in questa fase della sua storia. Nell’opera egli cita gli esperimenti di Maskelyne, Cavendish e Bailly, che avevano misurato l’attrazione gravitazionale della massa del monte scozzese Schiehallion e scoperto che essa era in accordo con la legge di Newton. Egli va oltre, nel tentativo di cogliere la natura profonda della gravitazione: 
“Che cosa dice la legge di Newton? (…) Ogni atomo di ogni corpo attrae ogni altro atomo, sia del proprio sia di ogni altro corpo, con una forza che varia inversamente con i quadrati delle distanze tra l’atomo attratto e quello che attrae. Qui, sicuramente, un diluvio di idee inonda la mente. (…) Niente impedisce l’aggregazione di varie masse distinte, in diversi punti dello spazio”. 

La gravità agisce in modo universale, su tutta la materia, e permette la sua aggregazione: un corpo che cade sulla terra non è soggetto solo all’attrazione gravitazionale del pianeta, ma su di esso agiscono, secondo le modalità stabilite dalla legge di Newton, le forze attrattive di tutte le particelle di materia presenti nell’universo fisico. 

Egli giudica “insostenibile e tuttavia così pertinacemente seguita” l’idea che l’universo sia illimitato, innanzitutto sul piano filosofico: 
(...) come individuo, posso essere autorizzato a dire che non posso concepire l’Infinito, e sono convinto che nessun essere umano lo possa fare. Lo farà una mente non pienamente cosciente di se stessa – non abituata all’analisi introspettiva del suo stesso funzionamento”. 
Il secondo motivo è empirico: 
“Tutta l’osservazione del Firmamento rifiuta l’idea dell’assoluta infinità dell’Universo delle stelle” (…) “l’osservazione ci dimostra che c’è certamente, in numerose direzioni attorno a noi se non in tutte, un limite positivo, o, almeno, non ci fornisce alcuna prova per pensare altrimenti”. 
Poe pensa a una dimensione dell’universo di circa 3 milioni di anni luce, come stimato da William Herschel sulla base della magnitudine massima degli oggetti che era in grado di vedere con il suo telescopio: 
Così lontane da noi sono alcune delle “nebulae” che anche la luce, viaggiando alla sua velocità, non potrebbe e non può raggiungerci, da quelle misteriose regioni, in meno di tre milioni d’anni. Questo calcolo è stato fatto dal vecchio Herschel”. 
Per quei tempi si trattava di una dimensione così grande da non trovare consenso, e fu abbandonata dallo stesso Herschel negli anni successivi. Nella concezione di Poe, la dimensione dell’universo è il risultato dell’irradiazione (espansione) cosmologica ed è necessaria per consentire la formazione delle stelle, dei sistemi solari e della vita. Essa fornisce anche una spiegazione per i grandi spazi vuoti osservati: 
“La difficoltà che abbiamo così spesso sperimentato, percorrendo il sentiero battuto della speculazione astronomica, è di spiegare gli immensi vuoti di cui si è detto, nel capire il perché abissi così totalmente inoccupati e perciò così apparentemente inutili si frappongono tra stella e stella, tra ammasso e ammasso, nel capire un motivo sufficiente per la scala titanica, in rapporto al mero Spazio, con la quale l’Universo si vede costituito. Sono convinto che l’Astronomia ha palpabilmente fallito nel trovare una causa razionale per il fenomeno, ma le considerazioni che, in questo Saggio, abbiamo fornito passo dopo passo, ci consentono chiaramente e immediatamente di percepire che lo Spazio e la Durata sono una cosa sola”. 

Poe conosce chiaramente la distanza misurata da un anno luce e le implicazioni del tempo di percorrenza della luce: 
“Ci sono “nebulae” che, attraverso il magico telescopio di Lord Rosse, stanno in questo istante sussurrando nelle nostre orecchie i segreti di un milione di età passate. In poche parole, gli eventi che ai quali oggi assistiamo, in quei mondi, sono gli stessi eventi che interessarono i loro abitanti diecimila secoli fa (…) quest’idea si impone all’anima, più che alla mente”. 

La spiegazione di Poe del paradosso di Olbers è davvero anticipatoria: 
“Se la successione delle stelle fosse senza fine, allora il fondo del cielo si presenterebbe come una luminosità uniforme, come quella mostrata dalla Galassia [la Via Lattea, ndr], dato che non ci sarebbe assolutamente alcun punto, in tutto il cielo, nel quale non esisterebbe una stella. La sola maniera, perciò, con la quale, in questo stato di cose, potremmo comprendere i vuoti che i nostri telescopi trovano in innumerevoli direzioni, sarebbe supporre che la distanza del fondo invisibile sia così immensa che nessun raggio proveniente da esso ha potuto finora raggiungerci”. 


L’universo non è eterno, non è infinito, i corpi celesti si evolvono e la luce delle stelle più lontane non ha ancora avuto il tempo di raggiungere la Terra. In effetti, William Thompson, Lord Kelvin, nel 1901 analizzò dal punto di vista quantitativo il legame tra la parte di cielo coperta di stelle e la sua luminosità relativa, concludendo che per avere un cielo continuamente brillante come la superficie del Sole, sarebbe necessario considerare tutta la luminosità stellare fino una distanza talmente elevata da non poter essere stata percorsa dalla luce, che viaggia a una velocità finita. La realtà è che l’universo è troppo giovane e non contiene abbastanza materia-energia per illuminare il cielo anche di notte. 

Eureka, se si escludono l’introduzione metafisica e la conclusione lirica, non è solamente un libro che incorpora l’astronomia del suo tempo, ma è un vero proprio testo astronomico scritto da un poeta con profonde conoscenze scientifiche. Esso si può quasi considerare un saggio di cosmologia newtoniana, anche senza matematica. Con un approccio molto personale e un linguaggio ricco di immagini, Poe in questo testo ha anticipato molte delle idee cosmologiche moderne.

Paolo Molaro, & Alberto Cappi (2015). Edgar Allan Poe: the first man to conceive a Newtonian evolving Universe CULTURE and COSMOS Volume 16 no1 and 2 (2012), pg 225-239, Nicholas Campion and Ralf Sinclair eds arXiv: 1506.05218v1

mercoledì 18 luglio 2012

Crittografia e trigonometria nello Scarabeo d’oro di Poe


ResearchBlogging.orgCome ho riportato nella prima parte, dopo il successo dei suoi articoli sulla crittografia e la pubblicazione di un piccolo saggio sullo stesso argomento, Edgar Allan Poe decise di scrivere un racconto che contenesse un messaggio segreto e la sua decifrazione. Nel 1843 uscì Lo scarabeo d’oro (The gold bug), che ebbe subito un grande riscontro di pubblico e viene considerato come un classico esempio della scrittura dell’autore americano.

La storia, per chi non la conoscesse, si può sintetizzare come una caccia al tesoro sulla base di un messaggio cifrato. Il personaggio principale della storia è William Legrand, un uomo che vive in solitudine sull’isola di Sullivan, presso Charleston, nella Carolina del Sud. Provato da una serie di disgrazie e impoverito, Legrand, dal carattere misantropico e facile all’alternarsi di entusiasmi e depressioni, ha deciso di separasi dal mondo, accettando la compagnia del solo Jupiter, un ex schiavo liberato dalla sua famiglia e rimasto ad accudirlo per fedeltà e riconoscenza. Un giorno Legrand trova uno scarabeo di color oro brillante, ma lo presta a un militare. Quando il suo amico, il narratore della vicenda, lo va a trovare nella sua capanna la sera stessa, Legrand gli racconta del ritrovamento e disegna su un pezzo di carta l’aspetto dello straordinario insetto, ma l’amico non vede altro che un teschio. 


Per una serie di circostanze fortuite, Legrand scopre che il foglio, trovato nella sabbia da Jupiter e usato per avvolgere lo scarabeo, non è di carta, ma di pergamena. Esso contiene un messaggio cifrato scritto con l’inchiostro simpatico. Riscaldato leggermente, mostra questo aspetto: 



Circa un mese più tardi, Legrand manda Jupiter dall’amico, per recapitargli una lettera nella quale gli chiede di raggiungerlo immediatamente. Ne segue una spedizione notturna dei tre sulla terraferma, sulla quale tornerò più tardi, che porta alla scoperta del tesoro di Capitan Kidd, impiccato per omicidio e pirateria a Londra nel 1701, che una leggenda voleva avesse sepolto un tesoro sulla costa atlantica degli Stati Uniti. 


Tornati alla baracca di Legrand, questi spiega all’amico le circostanze del ritrovamento del messaggio e come era riuscito a decifrarlo e comprendere che esso forniva le indicazioni per localizzare il tesoro sepolto. Il teschio in alto a sinistra, simbolo della pirateria, costituisce una specie di sigillo, mentre il capretto è una specie di firma-rebus o geroglifica: kid, capretto; Kidd, il nome del pirata. Il testo tra i due simboli, comparso avvicinando la pergamena al fuoco, ha rivelato il suo segreto. Ascoltiamo le parole del protagonista: 


(…) «La soluzione non è per nulla difficile come la prima, frettolosa occhiata a questi segni potrebbe indurvi a credere. Questi segni, come ognuno può facilmente arguire, costituiscono un crittogramma: vale a dire, hanno un senso (…) e dubito che l'ingegnosità umana possa costruire un enigma che l'ingegnosità umana, applicandosi a fondo, non possa risolvere». (…) 

«Nel caso in questione, anzi, in tutti i casi di scrittura segreta, il primo problema riguarda la lingua del cifrato, poiché i criteri della soluzione, specie per quanto riguarda le cifre più semplici, dipendono dal genio del particolare idioma e variano a seconda di esso. (…) Ma, per quanto riguarda il nostro cifrato, la firma risolve ogni difficoltà. Il gioco di parole basato su Kidd non ha senso in nessuna lingua, tranne l'inglese». (…)

«Come potete osservare, non ci sono divisioni tra parola e parola. Se ce ne fossero state, il compito sarebbe stato relativamente facile. In tal caso, avrei cominciato con il confronto e l'analisi delle parole più brevi e, se fosse capitata una parola di una sola lettera, come è più che probabile (a o I, per esempio), avrei considerato la soluzione come certa. Ma, mancando una divisione, mio primo passo fu di accertare quali lettere ricorressero con maggiore frequenza e quali con minore frequenza. Fatti i conti, compilai la seguente tabella:

     Il carattere 8 ricorre 33 volte
»      »        ;     »      26   » 
»      »       4     »      19   » 
»      »       ‡     »      16   »   
»      »       )     »      16   » 
»      »      *     »      13   » 
»      »      5     »      12   » 
»      »      6     »      11   »
»      »      †     »       8   » 
»     »       1     »       8   » 
»     »       0     »       6   » 
»     »       9     »       5   » 
»     »       2     »       5   » 
»     »       :      »       4   » 
»     »       3     »       4   » 
»     »     3”     »       4   » 
»     »      ?      »       3   »
»     »      q     »        2   »
»     »      -      »       1   »
»     »      .      »       1   » 


«Ora, in inglese la lettera che ricorre più frequentemente è la e. Seguono nell'ordine a o i d h n r s t u y c f g l m w b k p q x z. In ogni caso, la e predomina a tal punto, che è raro trovare una frase, di qualsiasi lunghezza, in cui essa non sia la lettera più frequente». 


(…) «Poiché il segno predominante è 8, presupporremo, tanto per cominciare, che corrisponda alla e dell'alfabeto. Per verificare tale presupposto, vediamo se 8 si trova spesso in coppia, giacché in inglese le coppie di e sono assai frequenti, come per esempio nelle parole meet, fleet, speed, seen, been, agree ecc. In questo caso, lo ritroviamo raddoppiato ben cinque volte, sebbene il crittogramma sia breve». 


«Prendiamo dunque 8 come e. Ora, fra tutte le parole della lingua inglese, l'articolo the è la più frequente; vediamo perciò se non si presenti la ripetizione di tre caratteri, nello stesso ordine, l'ultimo dei quali sia 8. Se scopriamo tali ripetizioni, così ordinate, molto probabilmente rappresentano la parola the. Ora, se esaminiamo il cifrato, troviamo non meno di sette volte la serie ;48. Pertanto possiamo supporre che il segno ; rappresenti la lettera t, 4 la lettera h, e 8 la lettera e. Conferma, quest'ultima, della nostra ipotesi: e con ciò abbiamo fatto un gran passo avanti». 


«Ma avendo stabilito una parola, siamo in grado di stabilire un punto di estrema importanza: vale a dire, la fine e l'inizio di parecchie altre parole. Prendiamo, ad esempio, il penultimo caso in cui si presenta la serie ;48, non lontano dalla fine del testo. Noi sappiamo che il segno ; che segue immediatamente è l'inizio di una parola, e dei sei segni che seguono questo ;48 ne conosciamo cinque. Trascriviamo questi segni così, con le lettere che sappiamo li rappresentano, lasciando uno spazio vuoto per la lettera incognita: 
t eeth. 
Qui possiamo scartare subito il th che non fa parte della parola che incomincia con la prima t; giacché, provando con tutto l'alfabeto alla ricerca di una lettera che possa colmare la lacuna, ci accorgiamo che è impossibile comporre una parola di cui questo th faccia parte. Dovremo dunque limitarci a: 
t ee
e, ripassando l'alfabeto, se necessario, come già abbiamo fatto, arriviamo alla parola tree ("albero") come unica versione possibile. In tal modo otteniamo un'altra lettera, r, rappresentata da più due parole giustapposte: the tree». 


«Se guardiamo un po' più avanti, dopo queste parole, ritroviamo la combinazione ;48, che usiamo come terminazione di quanto immediatamente precede. Ne risulta, in quest'ordine: 
the tree;4(‡?34 the 
o, sostituendo le lettere rispettive quando esse ci siano note:
the tree thr...‡? 3h the


«Ora, se al posto dei segni che non conosciamo, lasciamo degli spazi vuoti, o mettiamo dei puntini, leggiamo: 
the tree thr... h the
da cui risulta evidente la parola through ("attraverso"). Ma questa scoperta ci fornisce tre nuove lettere: o, u, e g, rappresentate da ‡, ?, e 3».   

«Se ora esaminiamo attentamente il testo, in cerca di combinazioni di segni già noti, troviamo, non molto dopo l'inizio, questa serie: 
83(88, cioè egree, 
che è, ovviamente, la terminazione della parola degree ("grado") e che ci dà un'altra lettera, d, rappresentata da t». 


«Quattro lettere dopo la parola degree, troviamo la serie 
;46(;88
Traducendo i segni noti, e rappresentando i segni ignoti con puntini, come in precedenza, leggiamo: 
th. rtee., 
serie che immediatamente ci suggerisce la parola thirteen ("tredici") e che ci fornisce altre due lettere, i e n, rappresentate da 6 e da *».  


«Riportandoci ora all'inizio del crittogramma, troviamo la combinazione 
53 ‡‡† 
Traducendo come prima, otteniamo good ("buono"), che ci dà la certezza che la prima lettera è a, e che le due prime parole sono A good ("Un buon")». 


«Ad evitare confusioni, dobbiamo ora disporre per ordine in una tabella tutte le "chiavi" finora trovate. E la tabella è questa: 
5 rappresenta a 
†        »          d 
8        »          e
3        »          g 
4        »          h
6       »          i 
*        »          n
‡        »          o 
(        »           r 
;        »           t
?       »           u 

«Vi troviamo rappresentate non meno di undici delle lettere più importanti; mi sembra perciò superfluo, per quanto riguarda la soluzione, entrare in altri dettagli. Ho detto abbastanza per convincervi che crittogrammi di questa natura sono di agevole soluzione, e per darvi un'idea del carattere razionale del procedimento. Ma tenete presente che il crittogramma che abbiamo davanti appartiene alla specie più semplice. Non mi resta ora che darvi la traduzione completa del testo della pergamena, come l'ho decifrato. Eccolo: 


"A good glass in the bishop's hostel in the devil's seat twenty-one degrees and thirteen minutes northeast and by north main branch seventb limb east side shoot from the left eye of the death's head a beeline from the tree through the shot fifty feet out" 

"Un buon vetro nell'ostello del vescovo sulla sedia del diavolo ventuno gradi e tredici minuti nord-est quarta di nord tronco principale settimo ramo lato est calare dall'occhio sinistro della testa di morto una linea d'ape dall'albero attraverso la palla cinquanta piedi in là"».

Con un procedimento analogo all’analisi della frequenza delle lettere, Legrand ricostruisce anche la punteggiatura della frase, sull’assunto che i caratteri sono più accostati dove l’autore sta pensando a una pausa. La frase diventa: 

"Un buon vetro nell'ostello del vescovo sulla sedia del diavolo - quarantun gradi e tredici minuti - nord-est quarta di nord - tronco principale settimo ramo lato est - calare dall'occhio sinistro della testa di morto - una linea d'ape dall'albero attraverso la palla cinquanta piedi in là." 

Ora il problema non è più di crittografia, ma di interpretazione del linguaggio. Legrand comprende che “vetro” indica un cannocchiale, mentre gli altri termini oscuri sono nomi locali per indicare alcune caratteristiche topografiche, che gli consentono di individuare l’area tra i boschi dell’entroterra dove cercare, sulla base delle coordinate, un albero tra i cui rami è nascosto un teschio. Dalla verticale dell’occhio sinistro del teschio, individuata facendo cadere una palla da fucile, si deve tracciare una "linea d'ape", cioè una linea retta, dal punto più vicino del tronco attraverso la "palla", e di qui prolungata per cinquanta piedi. Quello è il luogo in cui scavare. 

Facciamo, come promesso, un passo indietro, a prima dell’illustrazione da parte di Legrand di come ha decifrato il codice segreto del pirata. La narrazione della localizzazione del sito dove scavare nel bosco è condotta da Poe con maestria. C’è persino un primo scavo inutile, dovuto a un errore del povero Jupiter, che, montato sull’albero e trovato il tronco con il teschio, confonde la destra con la sinistra e fa cadere lo scarabeo, usato come filo a piombo, dall’occhio sbagliato. L’impresa sembra fallire, ma un ripensamento di Legrand lo conduce a trovare l’errore del suo servitore. Un nuovo tentativo, questa volta condotto davvero dall’occhio sinistro, porta poi al successo del secondo scavo e al ritrovamento del tesoro. Poe drammatizza l’errore del servitore, che è costato un inutile scavo di oltre due ore ai tre cercatori. Ma siamo sicuri che sia stato così grave? 

Non ne è affatto convinto Eric Talvila, del Dipartimento di Matematica e Statistica della canadese University of the Fraser Valley, Abbotsford, il quale sostiene, in un articolo che comparirà su Mathematical Gazette, che semplici considerazioni trigonometriche dimostrano che i due luoghi di scavo potevano tranquillamente sovrapporsi.

Nel luogo indicato dalla mappa, Legrand ha individuato con il cannocchiale il grande albero, un liriodendro (albero dei tulipani), sul quale c’è un teschio. Legrand ordina a Jupiter di salire. Arrampicandosi fino a 70 piedi, egli giunge al settimo ramo sul lato est dell’albero, dove i pirati avevano fissato un teschio umano. Jupiter fa cadere lo scarabeo d’oro attraverso l’orbita dell’occhio destro. Allora i tre scavano in un punto situato a 50 piedi di distanza dall’albero nella direzione indicata dall’allineamento albero-scarabeo. Lo scavo ha un diametro di 4 piedi ed è profondo 5. Ma non trovano alcun tesoro. Legrand si accorge dell’errore del servitore e fa ripetere l’operazione facendo cadere lo scarabeo dall’occhio sinistro, che giunge a terra a 2 pollici e mezzo di distanza dalla precedente posizione. La nuova direzione porta a individuare un nuovo luogo di scavo. 

Nonostante Poe affermi che i due luoghi di scavo erano distanti diverse iarde, Talvila sostiene che con un po’ di trigonometria si giunge invece alla conclusione che i due scavi fossero parzialmente sovrapposti. Facciamo riferimento alla figura.


I punti indicati nella figura sono O (centro dell’albero), a (punto di caduta attraverso l’occhio sinistro), b (punto di caduta attraverso l’occhio destro), A (primo luogo di scavo), B (secondo luogo di scavo). Le distanze sono r (raggio del tronco dell’albero), L (distanza di ciascun occhio del teschio dal tronco), rA (raggio del primo scavo), rB (raggio del secondo scavo). Tutte le distanze sono indicate in piedi, come nel racconto (un piede equivale a 30,48 cm, si indica con ft oppure con , ed è suddiviso in 12 pollici, in oppure ′′, e corrisponde a 1/3 di iarda, yd). L’angolo AOB è 2θ

Legrand afferma che i punti a e b sono distanti 2.5′′, cioè 5/24′. Le distanze aA e bB misurano 50′. Notiamo che sen θ = 5/[48(r + L)]. La distanza tra i centri degli scavi è: 

AB = 2(r + L + 50) sen θ = 5(r + L + 50) / 24(r + L

La condizione che I due scavi non si sovrappongano è che AB >  rA + rB. Perciò:

r + L < 250 / 24(rA + rB) − 5 

Sappiamo dal racconto che rA = 2′. Il narratore afferma che rB è poco di più. Anche ponendo che r= 2′, per non avere sovrapposizione degli scavi bisognerebbe ottenere r + L < 250/91'' = 2′ 9′′. Ciò è chiaramente impossibile. Poe ha scritto un bellissimo racconto, ha usato le sue conoscenze crittografiche, ma, per il matematico canadese, non ha fatto i compiti di trigonometria, perché i due scavi sono talmente vicini da sovrapporsi.

Erik Talvila (2012). Trigonometry of The Gold-Bug to be published in Mathematical Gazette arXiv: 1206.1761v1