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domenica 23 giugno 2024

Varietà e tempi della storia

 



Non c’è un unico tempo: ci sono molti nastri
che paralleli slittano
spesso in senso contrario e raramente
s’intersecano. E’ quando si palesa
la sola verità che, disvelata,
viene subito espunta da chi sorveglia
i congegni e gli scambi. E si ripiomba
poi nell’unico tempo. Ma in quell’attimo
solo i pochi viventi si sono riconosciuti
per dirsi addio, non arrivederci.

(Eugenio Montale, da Satura, 1971)

Un accenno di Umberto Eco in un lungo articolo dell'ottobre 1963 pubblicato in due parti su Rinascita (Per una indagine sulla situazione culturale) ricorda, non senza criticare il suo marxismo messianico e utopistico, il pensiero del filosofo e scrittore tedesco Ernst Bloch (1895-1977) e soprattutto una concezione del tempo storico molteplice e plurale, di non simultaneità (Ungleichzeitigkeit) tra il tempo a seconda dei luoghi, delle culture, delle classi sociali ed economiche. Ecco il passo:
“E, in polemica con altre posizioni, Bloch cerca di suggerire una metodologia di indagine storica che risulti capace di collegare questi sviluppi non paralleli, avanzando una teoria della molteplicità, all'interno del decorso della Storia, dei tempi storici, quasi dislocati a titolo di appendice spaziale. E tuttavia, temendo di geografizzare relativisticamente questi tempi come tante isole di civiltà non comunicanti, arriva a proporre l'idea di una struttura temporale «classica» nella storia, secondo l'analogia con lo «spazio» di Riemann, uno spazio mutevole e deformabile secondo il «mutevolissimo accadere della materia», interpretato secondo una «metrica variabile» (e si tratta, ovviamente, di metrica storica). Questo cercando di salvare (...) tutta la insopprimibile unità di connessione dello sviluppo storico, non come concetto lineare, ma come qualcosa cronologicamente differenziato e federativo, e solo così utilmente accentrato. Dunque “il progresso non procede solo in una omogenea successione di periodi, ma scorre anche in diversi tempi sovrapposti o sottoposti a successivi piani di tempo”
Questo implica una sorta di multiverso temporale, dove il passato, il presente e il futuro si intrecciano in modi complessi e non lineari.

L'accenno a Riemann è stuzzicante per chi si occupa di matematica. La metrica variabile suggerisce il concetto di varietà, che è infatti la traduzione italiana del termine tedesco Mannigfaltigkeit (più letterale è la traduzione con “molteplicità”) che compare per la prima volta nella tesi di dottorato del 1851 di Bernhard Riemann, Grundlagen für eine allgemeine Theorie der Functionen einer veränderlichen complexen Grösse. Nella sua tesi Riemann si pone il problema di introdurre delle "grandezze molteplicemente estese", aventi cioè "più dimensioni", e le definisce usando quel termine, che gli inglesi traducono con “manifold”. In geometria, una varietà è uno spazio topologico che localmente è simile a uno spazio euclideo 𝑛-dimensionale, ma che globalmente può avere proprietà geometriche differenti (ad esempio può essere "curvo" contrariamente allo spazio euclideo).

Riemann lo definì come tentativo di fornire un quadro unitario dello studio degli ambienti geometrici, dopo lo sconcerto legato alla scoperta delle geometrie non euclidee e avvalendosi dei nuovi più astratti strumenti messi a disposizione nel frattempo dalle varie branche della matematica. La definizione dipende dall’ambiente in cui si opera, dalla natura degli elementi che lo costituiscono e dalle proprietà che si vogliono studiare. Quella di varietà è un'idea sufficientemente semplice da potersi adattare a diversi contesti, in quanto è possibile definire ulteriori strutture su una stessa varietà.

Nel caso più generale una varietà é un concetto che generalizza quelle di curva e superficie della geometria analitica. Intuitivamente, una varietà è uno spazio a più dimensioni che localmente, intorno a ogni suo punto, presenta una struttura simile a quella dello spazio euclideo.

Ora, se guardiamo la superficie della sfera, non è sicuramente uno spazio euclideo: nella geometria euclidea, la somma degli angoli interni in un triangolo è 180°, il che non è vero per la superficie di una sfera. Tuttavia, se si guarda solo una piccola parte della sfera, è approssimativamente vero. Ad esempio, si percepisce la Terra come piatta, anche se non lo è se la guardiamo dall'alto.

Una varietà è ogni "spazio" con questa proprietà: localmente, sembra un piano euclideo. Il cerchio è una varietà (localmente sembra una linea, che è lo spazio euclideo unidimensionale ℝ), la sfera (localmente sembra un piano 2), una stanza (localmente sembra uno spazio euclideo 3) ecc.

La cosa interessante delle varietà è che questa proprietà di sembrare uno spazio euclideo localmente rende possibile descriverle completamente usando solo spazi euclidei. Ad esempio, si può costruire una carta geografica dell’Italia. Questo è un modo perfettamente valido per descrivere l'Italia, anche se in realtà è parte di un oggetto rotondo. Si possono mettere insieme molti di questi grafici per ottenere un intero atlante.

Una varietà è quindi uno spazio in cui si può creare un atlante di carte, ognuna delle quali è parte di uno spazio euclideo. Nell’atlante della Terra, alcuni grafici si sovrapporranno, e i punti nella sovrapposizione che sono vicini tra loro su un grafico saranno vicini tra loro sull'altro grafico. In altre parole, si ottiene una mappa tra le regioni sovrapposte di due grafici qualsiasi e quella mappa è continua (a quel punto si ottiene una varietà topologica) o persino differenziabile (una varietà differenziabile, che può essere approssimata a meno di un resto infinitesimo da una trasformazione lineare in un intorno abbastanza piccolo di quel punto).


A questo punto, dovrebbe essere possibile dire che lo spazio intorno a noi è una varietà differenziabile. Sembra perfettamente accurato descriverlo usando 3 localmente. Ed è anche così che le varietà entrano nella relatività: se si aggiunge la dimensione temporale, si scopre che è ancora possibile modellare lo spazio + tempo come una varietà a quattro dimensioni (il che significa che ogni grafico appare localmente come 4). Questo è ciò di cui tratta la relatività generale: le equazioni fondamentali della relatività generale ci dicono come la misura della distanza nello spazio-tempo è correlata alla materia e all'energia.

La relatività del tempo non è una esclusiva della fisica contemporanea. Due atti che sembrano avvenire simultaneamente in realtà possono essere asincroni a seconda dell'osservatore e del sistema di riferimento. Altrettanto avviene per i fatti della storia (anche di quella delle idee), che, privati del loro contesto, sembrano sincronici solo perché avvengono negli stessi tempi segnati dal calendario gregoriano (ma è significativo che di calendari ne esistano tuttora molti differenti).

Ma il tempo non è uno spazio geometrico ed è lecito domandarsi se il paragone con le varietà riemanniane di Bloch sia lecito. Che cosa intendeva Bloch parlando di tempi storici con metrica variabile?

La non simultaneità è un concetto che denota il ritardo temporale, o sviluppo irregolare, prodotto nella sfera sociale dai processi di modernizzazione e/o dalla natura incompleta di tali processi. Il termine, specialmente nella frase "la simultaneità del non simultaneo”, illustra l'inclusione di sistemi di valori e pratiche più antichi nella costruzione del presente, insieme a una certa resistenza al cambiamento. L'idea di temporalità coesistenti, o strati, all'interno di un dato periodo di tempo è centrale nell'opera di Bloch: "Non tutte le persone esistono nello stesso Ora. (...) Piuttosto, portano con sé cose precedenti, cose che sono intricatamente coinvolte. Si hanno i propri tempi in base a dove ci si trova fisicamente, soprattutto in termini di classe". Esistono crepe da dove idee, utopie e sogni del passato possono emergere dal loro stato di latenza ed esprimere il loro richiamo nel presente e nel futuro. Il passato non sempre è definitivamente passato, ma esiste in ogni caso una tensione verso la costruzione di un cambiamento futuro. Per Bloch, il tempo è strettamente legato al concetto di utopia. Il futuro non è predeterminato ma è un campo aperto di possibilità che possono essere realizzate attraverso l'azione umana. Questo implica un "multiverso" di futuri potenziali, ognuno dei quali può emergere in base alle scelte e alle azioni collettive.

La sincronicità del non-sincrono si oppone alla visione lineare evolutiva della storia che ha preso forma nell'Illuminismo. L'idea di Bloch aiuta a relativizzare questa visione del progresso. L'eterogeneità del tempo storico dà voce alla pluralità delle temporalità storiche, comprese le società non occidentali. È collegata alla fondamentale non-identità dell'esperienza individuale: un individuo non è mai contemporaneo a se stesso. Varie formazioni sociali, come nazioni, regioni geografiche, classi o logiche istituzionali, potrebbero essere non-contemporanee in quanto tali e tra loro. Vari elementi non-contemporanei potrebbero sia bloccare il lavoro di emancipazione sia aiutare a rivitalizzarlo dopo la sua presunta sconfitta. La non-contemporaneità è il concetto appropriato per la visione utopica della società, permeata da discontinuità rivoluzionarie.

La teoria della modernità di Bloch cerca di fatto di ripensare l’analisi sociale come un conglomerato di temporalità eterogenee che, tuttavia, interagiscono, si oppongono e si costituiscono a vicenda. A volte, sembra voler superare la non-contemporaneità nella visione di una vera presenza, che dovrebbe essere utopica e mediata dialetticamente dal futuro.

Bloch parla di "noch-nicht-bewusstes" (non-ancora-consapevole) come un livello della coscienza umana che contiene potenzialità non realizzate e visioni di futuri possibili. Questa dimensione temporale è un luogo di intersezione tra il presente e molteplici futuri possibili, ognuno dei quali può essere concretizzato tramite il progresso sociale e personale.

Il tempo storico è quindi molteplice, forma una varietà di Ora, ma, nella visione del filosofo tedesco, è possibile, per dirla come un matematico (forse non troppo rigoroso), costruire una serie di mappe che costituiscono un atlante della speranza e dell'utopia.

giovedì 1 dicembre 2022

Pietre da succhiare

 


C'è una scena in
Molloy, il primo romanzo (1951) della trilogia dell’assurdo di Samuel Beckett, in cui Molloy, un anziano ex vagabondo, racconta di quando si trovava su una spiaggia di ciottoli per raccogliere "sassi da succhiare" quando vagava in bicicletta.

Molloy ora vive in quella che pensa sia la stanza di sua madre, anche se ciò non è verificabile né per Molloy né per il lettore. Non sa come sia arrivato a vivere in questa stanza, ma si occupa di scrivere, e tollera l'intrusione quotidiana di una donna che apre la porta e vi mette accanto il cibo e tira fuori il vaso da notte, così come l'intrusione settimanale di un uomo che viene ogni domenica (Molloy pensa che sia domenica) per ritirare i suoi fogli (Molloy sembra dedicare parte del suo tempo a scrivere), restituire gli scritti della settimana precedente (che appaiono con una serie di segni redazionali) e dargli dei soldi. Molloy aveva in precedenza intrapreso un viaggio errabondo (soprattutto in bicicletta ma alla fine a piedi) per trovare sua madre, ma non ci era riuscito, ed è finito in qualche modo in quella stanza, ormai incapace di muovere le gambe. È la storia di questo viaggio disordinato, un pellegrinaggio senza santuari da raggiungere, che Molloy racconta ai suoi lettori.

Molloy non sa perché scrive o perché si trova nel luogo in cui si trova. Il suo racconto determina i limiti della testimonianza, nel senso che non c'è necessità di una sua estesa autobiografia: è un punto su una mappa narrativa, senza coordinate piuttosto che un personaggio con un luogo e una storia.

Il problema narrato da Molloy, a cui Beckett dedica un paragrafo di cinque pagine, è come distribuire le pietre da succhiare tra le sue quattro tasche in modo da succhiare ogni pietra a turno mentre le fa ruotare intorno nelle sue quattro tasche evitando così il "rischio diabolico" che "solo quattro pietre da succhio, sempre le stesse, girano e rigirano".
“Approfittai della mia permanenza al mare per sdraiarmi in un deposito di pietre da succhiare. Erano sassolini ma io li chiamo pietre. Sì, in questa occasione giacevo su un magazzino considerevole. Le distribuii equamente tra le mie quattro tasche e le succhiavo girando e rigirando”.
Dopo aver fatto una scorta di sedici pietre e averle distribuite equamente nelle sue quattro tasche - vale a dire quattro pietre in ciascuna - Molloy escogita un sistema per succhiarle tutte a turno.
“Preso un sasso dalla tasca destra del mio cappotto, e messolo in bocca, l'ho sostituito nella tasca destra del mio cappotto con un sasso dalla tasca destra dei calzoni, che ho sostituito con un sasso dalla tasca sinistra dei miei calzoni, che ho sostituito con un sasso della tasca sinistra del mio cappotto, che ho sostituito con il sasso che avevo in bocca, appena ho finito di succhiarlo. Quindi c'erano ancora quattro pietre in ciascuna delle mie quattro tasche, ma non proprio le stesse pietre”.

“In questo modo c'erano sempre quattro pietre in ciascuna delle mie quattro tasche, ma non proprio le stesse pietre. E quando la voglia di succhiare mi riprendeva, ho attinto ancora dalla tasca destra del mio cappotto, sicuro di non prendere lo stesso sasso dell'ultima volta. E mentre lo succhiavo riordinavo le altre pietre nel modo che ho appena descritto. E così via. Ma questa soluzione non mi soddisfaceva pienamente. Perché non mi sfuggiva che, per un caso straordinario, le quattro pietre che circolavano così potessero essere sempre le stesse quattro. In tal caso, lungi dal succhiare le sedici pietre che girano e girano, in realtà ne succhiavo solo quattro, sempre le stesse, a turno. Ma le agitavo bene nelle tasche, prima di cominciare a succhiare, e ancora, mentre succhiavo, prima di trasferirle, nella speranza di ottenere una circolazione più generale dei sassi di tasca in tasca. Ma questo era solo un ripiego che non poteva accontentare un uomo come me. Così ho iniziato a cercare qualcos'altro. E la prima cosa che mi venne in mente fu che avrei potuto fare meglio a trasferire i sassi a quattro a quattro, invece che uno a uno, cioè durante la suzione, prendere i tre sassi rimasti nella tasca destra del mio cappotto e sostituirli con i quattro nella tasca destra dei pantaloni, e questi con i quattro nella tasca sinistra dei pantaloni, e questi con i quattro nella tasca sinistra del mio cappotto, e infine questi con i tre nella tasca destra del mio cappotto, più quello, appena ebbi finito di succhiarlo, che avevo in bocca.

Sì, all'inizio mi sembrava che così facendo sarei arrivato a un risultato migliore. Ma a un'ulteriore riflessione dovetti ricredermi e confessare che la circolazione delle pietre quattro per quattro era esattamente la stessa cosa della loro circolazione una per una. Infatti, se ero certo di trovare ogni volta, nella tasca destra del mio cappotto, quattro sassi totalmente diversi dai loro immediati predecessori, restava tuttavia la possibilità di imbattermi sempre nella stessa pietra, all'interno di ogni gruppo di quattro, e di conseguenza di succhiare, non le sedici pietre che girano e girano come avrei voluto, ma in realtà solo quattro, sempre le stesse, che girano e girano. Quindi ho dovuto cercare altrove che nella modalità di circolazione.

Perché, per quanto facessi circolare i sassi, correvo sempre lo stesso rischio. Era ovvio che aumentando il numero delle mie tasche avrei dovuto aumentare le mie possibilità di godermi le mie pietre nel modo che avevo programmato, cioè una dopo l'altra fino ad esaurirne il numero. Se avessi avuto otto tasche, per esempio, invece delle quattro che avevo, allora anche l'azzardo più diabolico non avrebbe potuto impedirmi di succhiare almeno otto dei miei sedici sassi, girando e rigirando. Il nocciolo della questione è che avrei dovuto aver bisogno di sedici tasche per dissipare tutta la mia ansia. E per molto tempo non riuscii a vedere altra conclusione che questa, che senza avere sedici tasche, ciascuna con la sua pietra, non avrei mai potuto raggiungere la meta che mi ero prefissata, senza un rischio straordinario. E se all'occorrenza riuscivo a raddoppiare il numero delle mie tasche, non fosse altro che dividendo ogni tasca in due, con l'aiuto di qualche spilla da balia diciamo, quadruplicarle sembrava essere più di quanto potessi fare. E non mi sentivo incline a prendere tutto quel disturbo per una mezza misura. Perché stavo cominciando a perdere ogni senso della misura, dopo tutto questo lottare e litigare, e dire: o tutto o niente. E se sono stato tentato per un istante di stabilire una proporzione più equa tra le mie pietre e le mie tasche, riducendo le prime al numero delle seconde, è stato solo per un istante. Perché sarebbe stata un'ammissione di sconfitta. E seduto sulla riva, davanti al mare, le sedici pietre distese davanti ai miei occhi, le guardavo con rabbia e perplessità. (...)

E mentre guardavo così le mie pietre, rimuginando su interminabili martingale tutte egualmente difettose, e schiacciando manciate di sabbia, in modo che la sabbia mi scorreva tra le dita e ricadeva sulla spiaggia, sì, mentre tenevo così in sospeso la mia mente e una parte del mio corpo, un giorno all'improvviso la prima si rese conto, vagamente, che forse avrei potuto raggiungere il mio scopo senza aumentare il numero delle mie tasche o ridurre il numero delle pietre, ma semplicemente sacrificando il principio dell'assetto. Il significato di questa illuminazione, che all'improvviso cominciò a cantare dentro di me, come un verso di Isaia o di Geremia, non lo penetrai subito, e in particolare la parola assetto, che non avevo mai incontrato, rimase a lungo oscuro. Alla fine, mi sembrò di capire che questa assetto non poteva significare nient'altro, niente di meglio, che la distribuzione delle sedici pietre in quattro gruppi di quattro, un gruppo in ciascuna tasca, e che era mio rifiuto considerare qualsiasi distribuzione diversa da questa che aveva viziato i miei calcoli fino ad allora e reso il problema letteralmente insolubile. Ed è sulla base di questa interpretazione, giusta o sbagliata che sia, che alla fine sono arrivato a una soluzione, sicuramente poco elegante, ma sana, sana”.
Un'illuminazione. Se Molloy è disposto a sacrificare il principio dell'equa distribuzione - con quattro pietre in ogni tasca - una soluzione è facilmente raggiungibile. Mettendo sei pietre nella tasca in alto a sinistra, cinque in quella in basso a sinistra e cinque in quella in basso a destra, lascia vuota quella in alto a destra. È quindi libero di succhiare uno per uno i primi sei sassi, depositandoli poi nella tasca vuota. Una volta fatto ciò, ogni tasca di pietre può essere ruotata nella successiva, fino a quando quella in alto a sinistra non sarà di nuovo vuota, ripetendo all'infinito.

“C'era qualcosa di più di un principio che ho abbandonato, quando ho abbandonato l'equa distribuzione, era un bisogno corporeo. Ma succhiare i sassi nel modo che ho descritto, non a casaccio, ma con metodo, credo fosse anche un bisogno corporeo. Ecco allora due esigenze corporee incompatibili, ai ferri corti. Queste cose accadono”.
Ciò che mi ha attratto di questo monologo quando l'ho letto qualche giorno fa per la prima volta è quanto sia stranamente familiare. Non le specificità delle pietre, la distribuzione equa o la successiva suzione, ma piuttosto il senso generale di costrizione che comporta. Molloy presenta come un dato di fatto il succhiare pietre, che è un "bisogno corporeo" tanto quanto qualsiasi altro, e quindi la domanda sul "perché" diventa irrilevante. Come respirare, il semplice atto di succhiare pietre è una necessità evidente. Non è nemmeno chiaro se ne tragga una vera gioia.

Ciò che conta è la procedura. Se i sassi devono essere succhiati (e, per quanto riguarda Molloy, lo devono) allora non resta che decidere in che modo, ottenere la massima soddisfazione o efficienza. Che per Molloy sono più o meno la stessa cosa. È qui che il suo senso di costrizione diventa universale, riflettendo al suo interno il modo in cui implementiamo altre pulsioni umane meno aliene.

In realtà Molloy sta eseguendo un rituale, come quello che ha descritto Elvio Fachinelli in La Freccia ferma (Adelphi, 1992), dove “un uomo tenta di annullare il tempo, di rendere non avvenuto quanto gli accade”. Così, come ci sono persone che sentono il bisogno quasi fisico di evitare di calpestare le fughe delle piastrelle, Fachinelli parla del bisogno di un suo paziente di rifare subito al contrario ogni azione che disturba. Ogni azione, ogni parola pronunciata o pensata ha il suo contraltare “peccaminoso” ed ha bisogno di una sua depurazione attraverso un comportamento o un pensiero riparativo che, esso stesso però, può essere frainteso in una azione o pensiero di natura opposta, “peccaminosa”, in un circolo vizioso senza fine che porta inevitabilmente al punto di partenza in un tentativo di annullare il tempo.

Il paziente che Fachinelli descrive arriverà a trovare una soluzione segmentando il tempo in istanti sempre più piccoli sino ad arrivare, come nel paradosso di Zenone, alla conclusione che se il tempo può essere frammentato in segmenti sempre più piccoli, all’infinito, scollegati l’uno dall’altro, ognuno caratterizzato dall’avverbio “ora”, allora esso può essere fermato poiché è impossibile percorrere in un tempo finito spazi infiniti. Anzi, procedendo in senso inverso, si può anche arrivare ad annullare l’azione svolta, come una sorta di rewind in un videoregistratore.


Il tentativo di annullare il tempo alimenta la sensazione onnipotente di essere padrone del tempo. Fachinelli giunge a parlare di come questo meccanismo abbia caratterizzato la civiltà arcaica e non solo. Il tentativo di dominare il tempo e la sua ineluttabile conseguenza: la morte e il bisogno di non essere sopraffatti dal caos inteso come essere in balia degli eventi, attraverso meccanismi ossessivo-compulsivi, attraverso rituali e formule magiche, è sempre appartenuto all’armamentario mentale dell’uomo.

Forse queste cose sembrano lontane dal succhiare pietre su una spiaggia. Tuttavia, anche Molloy non è un individuo ben equilibrato. I suoi bisogni qui sono banali al confronto, eppure è per questo motivo che il bisogno stesso può diventare l'obiettivo principale del monologo. E, per quanto legato a una pratica ossessiva, c’è in Molloy una ricerca di ordine, di “un assetto” di fronte a un mondo privo di significato e incoerente, almeno per un po’:
“In fondo per me era lo stesso se succhiavo ogni volta un sasso diverso o sempre lo stesso sasso, fino alla fine dei tempi. Perché avevano tutti esattamente lo stesso sapore. E se ne avevo collezionati sedici, non era per zavorrarmi in questo o quel modo, o per succhiarli a turno, ma semplicemente per avere un po' di scorta, per non restare mai senza. Ma in fondo a me non importava un bel niente di restare senza, quando se ne fossero andati tutti se ne sarebbero andati tutti, non sarei stato peggio, o quasi. E la soluzione alla quale mi sono mosso alla fine è stata quella di buttare via tutte le pietre tranne una, che tenevo ora in una tasca, ora in un'altra, e che naturalmente presto perdevo, o buttavo via, o regalavo, o ingoiavo”.

lunedì 14 gennaio 2019

Dialoghi in veste di fumetto sull'Universo e tutto quanto


Spesso di dice che un buon libro scientifico sollevi più domande di quante risposte dia, nel senso che i suoi contenuti, il suo linguaggio, il suo stile invitano a saperne di più su uno o più argomenti, innescando un circolo virtuoso di curiosità e sete di conoscenza. Un buon libro invita anche all'introspezione, al desiderio da parte del lettore di porsi in discussione riguardo alle idee e alle certezze precedenti, magari scoprendo lacune da colmare o semplicemente nuovi orizzonti inaspettati da esplorare. Probabilmente non cambia la vita, ma invita a guardarla con occhi diversi da prima. Insomma, un buon libro segna un limite in cui ci si rende conto che esiste un prima e un dopo la sua lettura, un limite che non limita, ma è invece un luogo di partenza, o di ripartenza.

In effetti Dialoghi. Conversazioni sulla natura dell’Universo di Clifford V. Johnson è un libro un po’ sui generis. In primo luogo perché si articola in una serie di 11 dialoghi senza titolo, continuando una tradizione millenaria che annovera tra i suoi esponenti Socrate, Platone, e Galileo. La parola “dialogo” etimologicamente è διά-λογος, composto da dià, "attraverso" e logos, "discorso" e indica l’interazione verbale tra due o più persone come strumento per esprimere pareri e discutere idee o sentimenti. La ragione o il significato affiorano nel rapporto o nella comunicazione tra parti. Soltanto che, in questo caso, la scienza è più mostrata che raccontata.

La seconda importante particolarità del libro è infatti che si tratta di un’opera a fumetti. I protagonisti non agiscono in un contesto astratto, ma sono illustrati con visi, atteggiamenti, sentimenti nel loro contesto. Nell'opera di Johnson i dialoganti sono in genere giovani, che agiscono in luoghi pubblici quali musei, Università, caffetterie, treni, talvolta riprendendo e ampliando il discorso in un capitolo successivo. Alcuni sono ricercatori, ma utilizzano un linguaggio colloquiale per illustrare concetti anche ostici attraverso parole, schemi ed esempi semplici. In Dialoghi lo stile è diretto come in una graphic-novel o, come sostiene il premio Nobel per la fisica Frank Wilczek nella prefazione, in un nuovo sottogenere che chiama “graphic-dialogue”. La sceneggiatura è molto efficace; forse l’unico neo è il disegno dei personaggi, ma lo stesso autore ammette di non essere un grafico professionista.


Gli argomenti dei dialoghi gravitano tra fisica, cosmologia e filosofia e investono le cosiddette questioni fondamentali: la natura dell’universo, la “teoria del tutto”, la relatività, la fisica quantistica, la teoria delle stringhe, le simmetrie, i buchi neri, lo spaziotempo, i limiti fisici e l’impossibilità, l’infinito, Dio, morte e vita, ecc, senza tralasciare aspetti importanti come il metodo scientifico, la curiosità, l’utilità e la bellezza della matematica Ce n’è per suscitare l’interesse e la curiosità di chiunque, soprattutto dei giovani e dei non specialisti. Per questo motivo lo consiglio in modo particolare agli studenti degli ultimi anni delle superiori, alle biblioteche scolastiche e agli studenti universitari, non necessariamente di materie scientifiche. I temi sono affrontati con il necessario rigore e sono aggiornati con le scoperte più recenti: l’autore Clifford V. Johnson, inglese di nascita ma operante negli Usa, è fisico, divulgatore e consulente scientifico di importanti produzioni televisive e cinematografiche.

L’opera, uscita nel 2017 presso la MIT Press di Cambridge, Massachusetts, tradotta in italiano da Andrea Migliori, è stata pubblicata dalle Edizioni Dedalo di Bari nel novembre 2018. Considerando anche la bellezza della veste editoriale, il prezzo di copertina di 25 € è assolutamente onesto (e online si trova a meno).

Clifford V. Johnson, Dialoghi. Conversazioni sulla natura dell'Universo, Edizioni Dedalo, Bari, 2018. pp. 248, prezzo di copertina € 25, ISBN: 9788822057051

venerdì 13 dicembre 2013

La freccia del tempo


Otto anni prima della morte di Newton, un altro Isaac, un protestante dissidente di nome Isaac Watts, pubblicò un libro di salmi, parafrasi e inni intitolato The Psalms of David: Imitated in the Language of the New Testament and Applied to the Christian State and Worship (1719). L’inno 58 così recita: 

Time, what an empty vapor 'tis; 
and days how swift they are. 
Swift as an Indian arrow flies; 
or like a shooting star. 

[Il tempo, che vuoto vapore che è / e i giorni quanto sono veloci / Veloci come vola una freccia indiana / o come una stella cadente] 

In tutta la sua stringente semplicità, questa idea del tempo è banale. Watts, come Newton, vede il tempo muoversi inesorabilmente, linearmente, in avanti, come una freccia. Per lo scienziato, “Il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente, e con altro nome è chiamato durata; quello relativo, apparente e volgare, è una misura (accurata oppure approssimativa) sensibile ed esterna della durata per mezzo del moto, che comunemente viene impiegata al posto del vero tempo: tali sono l’ora, il giorno, il mese, l’anno”. Questa definizione si trova in una nota ai Principia Mathematica, in cui tempo, spazio e moto assoluti sono considerati assiomi empiricamente indefinibili. Newton sostiene il carattere assoluto di spazio e tempo, come due dimensioni che esisterebbero anche se non esistessero i corpi. Con ciò egli va oltre Aristotele, che vedeva nello spazio e nel tempo due accidenti della sostanza corporea, impensabili perciò senza questa, e propone una visione dell'universo che al suo grande contemporaneo e rivale Gottfried Leibnitz appare incline al materialismo in modo inaccettabile (Berkeley invece accuserà Newton di aver reintrodotto la metafisica proprio a causa di questi assiomi assoluti). 

Leibnitz sostiene non solo la relatività di spazio e tempo rispetto alla sostanza materiale, ma, addirittura, la loro relatività alla prospettiva dell'uomo come soggetto. Per il filosofo tedesco, il tempo non ha una realtà oggettiva indipendente dal soggetto, ma è un nostro modo di vedere "l'ordine dei successivi". Come dirà J. L. Borges (Nuova confutazione del tempo, in Altre inquisizioni): 

“Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco”. 

Durante uno scambio di lettere dei primi mesi del 1716 tra Leibnitz e lo scienziato e filosofo newtoniano Samuel Clarke, il tedesco sostiene “ho osservato più di una volta che considero lo spazio come qualcosa di puramente relativo, così come il tempo: è un ordine delle coesistenze, al pari del tempo, che è un ordine delle successioni”. Detto altrimenti, il tempo non ha una sua realtà assoluta al di fuori dei corpi, poiché così non vi sarebbe stata alcuna ragione sufficiente della creazione del mondo da parte di Dio in un preciso momento piuttosto che in un altro: “gli istanti, fuori delle cose, non sono nulla e non consistono se non nel loro ordine successivo”. Clarke obietta che lo spazio-tempo ha una sua realtà e una sua quantità: se esso fosse solo ordine di successione e pura relazione non avrebbero senso i termini prima e dopo, poiché due successioni uguali non sarebbero distinguibili: “se poi il tempo non fosse che l’ordine di successione delle cose create, ne seguirebbe che, se Dio avesse creato il mondo milioni di anni prima, Egli non l’avrebbe tuttavia creato prima”. Ma per Leibniz non si possono dare, se non nella finzione impossibile, due cose o eventi indiscernibili così come non si trovano due foglie identiche "in tutto il giardino di Herrenbausen". Il tempo è l’ordine delle possibilità del mondo e non può essere trattato come una sostanza cristallina: la lungimiranza delle posizioni di Leibniz sarebbe stata colta molto tempo dopo. 

Assoluto o relativo, la visione del tempo subisce uno scossone nel XIX secolo, con la nuova scienza della termodinamica. Essa si basa su due leggi: la prima riguarda la conservazione dell’energia e afferma che l'energia di un sistema termodinamico non si crea e non si distrugge, ma si trasforma, passando da una forma a un'altra. La seconda legge ha implicazioni più profonde. Essa afferma che l’energia si degrada, il che comporta che il sole alla fine si spegnerà e che il destino di tutti gli esseri viventi è la morte. Shakespeare ne era consapevole, quando nel quarto atto, seconda scena, del Cimbelino, fece dire a Guiderio: 

Golden lads and girls all must, 
As chimney-sweepers, come to dust. 

[Goffredo Raponi ha così tradotto liberamente: “Equo destino egual riserva sorte / a giovinetti e fanciulle di corte / e allo spazzacamino. / Volgerà in polvere ciascun la morte”.]

Esistono molte formulazioni equivalenti di questo principio, ma la più utilizzata è quella che si basa sulla funzione entropia, che viene interpretata come una misura del disordine presente in un sistema fisico qualsiasi, incluso l'universo: 

In un sistema isolato l'entropia è una funzione non decrescente nel tempo 

Siamo per la prima volta di fronte a un processo fisico che può, in qualche misura, dare l’idea dello scorrere del tempo in una sola direzione, dall'ordine al disordine. Ricompare così la freccia del tempo di Watts, almeno a livello macroscopico. Il concetto fu espresso magnificamente da Mamma Oca nelle Nursery Rhymes: è più facile rompere un uovo che riaggiustarlo. 

Humpty Dumpty sat on a wall. 
Humpty Dumpty had a great fall. 
All the King's horses and all the King's men, 
Couldn't put Humpty together again. 

[Humpty Dumpty sul muro sedeva, 
Humpty Dumpty dal muro cadeva. 
Tutti i cavalli e i soldati del re 
non riuscirono a rimetterlo in piè]. 


Per la seconda legge della termodinamica, il tempo è legato al comportamento dell’insieme delle molecole di un sistema, non a quello di una singola molecola. Ciò avviene perché grandi quantità di molecole tendono spontaneamente ad assumere la disposizione più probabile, che è quella in cui il loro movimento collettivo è più disordinato e l’entropia aumenta. La nostra conoscenza della realtà che ci circonda non arriva alla scala delle molecole. Siamo consapevoli solo del comportamento di grandi insiemi di molecole, allora la freccia del tempo riflette la coscienza umana, perché sperimentiamo solamente eventi che vanno in una direzione e non nell'altra. 

Un paio di cose vanno tuttavia evidenziate. La prima è il fatto che il comportamento delle singole molecole non possiede questa direzionalità temporale. L'altra è che le cose non sembrano procedere esattamente come suggerito dalla cosiddetta degradazione dell’energia. L’assai meno conosciuto principio di Le Chatelier pone dei limiti alla Seconda Legge. Esso afferma che ogni sistema tende a reagire ad una modifica impostagli dall'esterno minimizzandone gli effetti. L’esempio più noto è dato dalle reazioni chimiche: quanto più calda diviene una fiamma, tanto meno completa sarà la combustione. Invece di correre verso il completamento, la combustione si oppone alla sua stessa azione. Allo stesso modo la ruggine tende a coprire i metalli con patine protettive che rallentano il processo di arrugginimento. I processi spontanei degradano le cose, ma la natura attiva sempre processi che ritardano il degrado, rallentando l’inevitabile. Essa ci concede tempo, lasciandoci la possibilità di vivere e invecchiare ed, eventualmente, di diventare Newton o Shakespeare. 

Abbiamo visto che l’aumento del disordine, lo scorrere irreversibile del tempo, riguarda insiemi di molecole, non una molecola presa singolarmente. Ciò significa forse che a livello microscopico il tempo sia reversibile? Questa domanda assillò Ludwig Boltzmann, uno dei più grandi fisici dell’Ottocento, al punto da condurlo al suicidio nel 1906, a sessantacinque anni d’età, forse perché non si sentiva compreso dai colleghi riguardo alle sue idee sull'irreversibilità. 

Il concetto di irreversibilità richiede qualche chiarimento. Quando le molecole collidono tra loro, esse rimbalzano l’una sull’altra senza attrito e senza perdita d’energia: si tratta di urti perfettamente elastici. Se il tempo scorresse all’indietro, la collisione si invertirebbe perfettamente. Ciò però darebbe luogo a un assurdo: supponiamo di aprire un contenitore pieno d’aria e che le sue molecole incomincino a uscir fuori. Supponiamo poi che il moto di ciascuna molecola possa in qualche modo essere magicamente invertito. Le molecole d’aria allora ritornerebbero nel contenitore? 

Sembra tanto insulso quanto logico. Il tempo sembra non avere direzioni preferenziali a livello molecolare, dove sembra perfettamente reversibile. Ma, qui, nel mondo macroscopico che sperimentiamo con i sensi, niente è così perfetto. Nel mondo visibile non si può rovesciare il passato. La freccia del tempo viaggia dal passato al futuro e l’aria non ritorna mai nel contenitore. 

Boltzmann trattò questa apparente contraddizione con della matematica ancor oggi ammirevole, mostrando come le leggi della statistica impediscano che avvenga questa inversione. Anche se singole molecole possono tornare indietro, in ogni loro grande insieme il disordine continua a crescere dopo che si è invertito il moto. Quasi immediatamente il gas incomincia di nuovo a uscire dal contenitore. Purtroppo i suoi calcoli non dicono perché i moti molecolari inversi non invertono la storia. I fisici classici, che non avevano accettato i suoi meccanismi molecolari, lo attaccarono violentemente su questo punto ed egli ne morì. La storia, il tempo, gli avrebbero dato ragione.