Visualizzazione post con etichetta Eco. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Eco. Mostra tutti i post

lunedì 25 ottobre 2021

Di mappe e territori

 


Tutte le mappe sono false

In matematica, il termine mappa è spesso usato come sinonimo di funzione, che è una relazione tra due insiemi, chiamati dominio e codominio, che associa a ogni elemento del dominio uno e un solo elemento del codominio. Mappare vuol dire allora stabilire una corrispondenza biunivoca tra elementi di due insiemi diversi (o dello stesso insieme), secondo leggi diverse. In cartografia, questa corrispondenza si realizza tra insiemi di punti (quelli sulla superficie terrestre e quelli sul piano, che è il foglio su cui si disegna la mappa). Le leggi che associano questi insiemi di punti sono delle trasformazioni geometriche, matematiche o empiriche i cui risultati sono le cosiddette proiezioni cartografiche. Purtroppo, ciò comporta un certo margine di errore, inevitabile per qualsiasi tipo di proiezione si adotti. La rappresentazione della superficie terrestre sul piano genera sempre delle deformazioni, come era noto fin dall’antichità, poiché è una conseguenza di diversi risultati contenuti negli Sphaerica di Menelao di Alessandria (70 ca. – 140 ca.) sulla geometria dei triangoli tracciati sulla superficie di una sfera, come ad esempio il fatto che la somma degli angoli in un triangolo sferico è sempre maggiore di 180°. 


Trasformare delle coordinate geografiche in coordinate cartesiane è sempre un atto disonesto. La dimostrazione formale fu fornita da Eulero nel 1777, in Sulla mappatura delle Superfici Sferiche sul Piano, che chiamava perfetta una mappa f da una regione S della sfera al piano euclideo se valgono le seguenti due condizioni:

(1) f manda meridiani e paralleli a due campi di linee che formano reciprocamente gli stessi angoli;
(2) f conserva le distanze infinitesimamente lungo i meridiani e i paralleli.

Quindi, una mappa perfetta manda i meridiani e i paralleli a due campi di linee ortogonali. Inoltre, essa conserva globalmente l'elemento della lunghezza lungo i meridiani e i paralleli. Si noti che, sul globo sferico, i meridiani sono geodetiche, ma i paralleli non lo sono. Il fatto che le distanze siano conservate infinitesimamente lungo i meridiani implica immediatamente che le distanze tra i punti su queste linee debbano essere preservate. Ne consegue anche, sebbene non così immediatamente, che in una mappa perfetta anche le distanze tra i punti sui paralleli debbano essere preservate. L'idea della dimostrazione di Eulero fu di tradurre queste condizioni geometriche in un sistema di equazioni differenziali alle derivate parziali e mostrare che questo sistema non ha soluzione:

“Così è dimostrato attraverso il calcolo che una perfetta mappatura della Sfera sul piano non è possibile. Essendo quindi esclusa una rappresentazione perfettamente esatta, siamo obbligati ad ammettere rappresentazioni non simili, in modo che la figura sferica differisce in qualche modo dalla sua immagine sul piano. Per quanto riguarda la divergenza tra l'immagine e la realtà, possiamo fare varie ipotesi, e secondo l'assunzione che si assume come base, possiamo realizzare l'immagine più adatta a questo o quello scopo. In questo modo, le esigenze che l'immagine deve soddisfare possono variare in modi molto diversi”.



Un’ulteriore conferma alle dimostrazioni di Eulero arrivò da Gauss con l’opera Disquisitiones generales circa superficies curvas, vera pietra miliare nella storia della geometria differenziale, che Gauss pubblicò nel 1828. Riflettendo su cosa significasse definire le superfici, scoprì che la curvatura è una loro caratteristica intrinseca, perché è interamente determinata dalle misurazioni nella superficie e non coinvolge in alcun modo una terza dimensione normale ad essa. Così le superfici non andavano più considerate come immerse nello spazio tridimensionale, ma piuttosto “non come contorni di corpi, ma come corpi di cui una dimensione è infinitamente piccola”, una specie di velo “flessibile ma inestensibile”. La maggior parte delle superfici ha una curvatura non nulla, maggiore o minore di 0. Al contrario, se la superficie è un piano, la sua curvatura è nulla in tutti i suoi punti.

Gauss studiò anche quando una superficie può essere mappata su un'altra in modo tale che le distanze non siano alterate, e dimostrò che una condizione necessaria affinché ciò accada è che le curvature nei punti corrispondenti siano le stesse. Ad esempio, il cilindro e il piano sono localmente isometrici; sebbene curva, la superficie laterale del cilindro ha una curvatura zero nel senso di Gauss, proprio come il piano, ed è per questo che è possibile stampare con un tamburo rotante (la geometria intrinseca del cilindro è piatta, in quanto su di essa valgono tutti gli assiomi del piano euclideo). Una sfera (con curvatura positiva) e il piano (con curvatura nulla), invece, hanno sempre curvature diverse e non possono essere fra loro isometriche.

Visto che l’errore è sempre presente, si sceglie la proiezione che lo minimizza per il nostro scopo. Esistono infatti diverse leggi proiettive, in grado di privilegiare il mantenimento delle proporzioni tra le superfici, o tra le distanze, o conservare gli angoli tra direzioni. Un altro importante fattore di distorsione è la scala, cioè il rapporto tra distanze sulla mappa e distanze sul terreno. In genere, tanto più grande è la scala, tanto maggiore è l’errore. 



 Il paradosso della mappa in scala 1.1

L’ideale sarebbe una mappa in scala 1:1, ma anche in questo caso sorgono problemi. Il notissimo paradosso di Borges relativo alla Mappa dell’Impero, contenuto in Storia universale dell’infamia (1961), e contenuto nel frammento Del rigore della scienza, ci permette di evidenziarli. Come sua abitudine, l’autore argentino attribuisce la citazione a un libro che in realtà non esiste: 

“(…) In quell'Impero, l'Arte della Cartografia giunse a una tal Perfezione che la Mappa di una sola Provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell'impero tutta una Provincia. Col tempo, queste Mappe smisurate non bastarono più. I Collegi dei Cartografi fecero una Mappa dell'Impero che aveva l’Immensità dell'Impero e coincideva perfettamente con esso. Ma le Generazioni Seguenti, meno portate allo Studio della cartografia, pensarono che questa Mappa enorme fosse inutile e non senza Empietà la abbandonarono alle Inclemenze del Sole e degl'Inverni. Nei deserti dell'Ovest rimangono lacere Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendichi; in tutto il Paese non c’è altra reliquia delle Discipline Geografiche. (Suárez Miranda, Viajes de varones prudentes, libro IV, cap. XIV, Lérida, 1658)”. 

Umberto Eco, nel Secondo diario minimo (1992), esaminò con finta serietà la possibilità teorica di tale mappa e, attraverso speculazioni sulla sua possibile natura (mappa opaca stesa sul territorio, mappa sospesa, mappa trasparente, permeabile, stesa e orientabile), sul suo ripiegamento e dispiegamento, giunse a concludere, sulla base del paradosso di Russell (l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi appartiene a se stesso se, e solo se, non appartiene a se stesso), che tale mappa non potrebbe rappresentare l’insieme territorio + mappa.

Il logico e divulgatore Piergiorgio Odifreddi è stato più conciliante, affermando che l’ipotesi di una mappa perfetta di un territorio disegnata su una sua parte non implica comunque una contraddizione, perché esiste almeno un punto del territorio che coincide con la sua immagine sulla mappa. Il teorema del punto fisso di Banach-Caccioppoli garantisce infatti che una qualsiasi contrazione definita su uno spazio metrico ammette almeno un punto fisso, dove l'immagine sulla mappa coincide con il punto stesso. Il che vuol dire che una mappa, anche in scala 1:1, è sempre infedele, tranne che in quel solo punto.

Odifreddi dice inoltre che “Una delle ossessioni di Borges, apparentata all'autoriferimento e apparentemente paradossale, è la cosiddetta mappa di Royce, che egli ha citato almeno tre volte”. In effetti Borges cita esplicitamente il paradosso del filosofo idealista americano Josiah Royce in un passo del saggio Magie parziali del “Don Chisciotte”, contenuto in Altre inquisizioni (Feltrinelli, 1963, ma l’originale è del 1960): 

“Le invenzioni della filosofia non sono meno fantastiche di quelle dell’arte: Josiah Royce, nel primo volume dell’opera The world and the individual (1899), ha formulato la seguente: ‘Immaginiamo che una porzione del suolo d'Inghilterra sia stata livellata perfettamente, e che in essa un cartografo tracci una mappa d’Inghilterra. L’opera è perfetta. Non c’è particolare del suolo d’Inghilterra, per minimo che sia, che non sia registrato nella mappa; tutto ha lì la sua corrispondenza. La mappa, in tal caso, deve contenere una mappa della mappa, che deve contenere una mappa della mappa della mappa, e così all'infinito’.” 

 

Il paradosso di Bonini

Charles P. Bonini, professore emerito di Scienze gestionali alla Stanford Graduate School of Business, è stato esperto, ricercatore e insegnante delle applicazioni delle tecniche quantitative e statistiche ai problemi decisionali. Queste tecniche includono analisi delle decisioni, modelli di ottimizzazione, sistemi di elaborazione, teoria delle code, simulazione e data mining. È stato autore e coautore di numerosi libri di testo. 

Nel 1963 propose quello che è noto come il Paradosso di Bonini che illustra la difficoltà di costruire modelli o simulazioni che colgano completamente il funzionamento di sistemi complessi (come il cervello umano).

Nel dibattito scientifico moderno, il paradosso è stato articolato nel 1971 da John M. Dutton e William H. Starbuck: "Quando un modello di un sistema complesso diventa più completo, diventa meno comprensibile. In alternativa, quando un modello diventa più realistico, diventa anche altrettanto difficile da capire quanto i processi del mondo reale che rappresenta”.

Questo stesso paradosso era stato accennato nel 1942 da un “cattivo pensiero” del filosofo-poeta Paul Valéry: "Ce qui est simple est toujours faux. Ce qui ne l'est pas est inutilisable" (Ciò che è semplice, è sempre falso. Ciò che non lo è, è inutilizzabile.)

Inoltre, lo stesso argomento fu discusso dall’agronomo, matematico, ecologo e filosofo della scienza Richard Levins nell’articolo per l’American Scientist "The Strategy of Model Building in Population Biology" (1966), dove affermava che i modelli complessi hanno "troppi parametri da misurare, portando a equazioni analiticamente insolubili che supererebbero la capacità dei nostri computer, ma i risultati non avrebbero alcun significato per noi anche se potessero essere risolti”.

Il paradosso di Bonini può essere visto come un caso di relazione mappa-territorio: mappe più semplici sono rappresentazioni meno accurate ma più utili del territorio. 

Devo dire che mi è subito affiorato alla mente il ricordo della frequenza ai corsi di aggiornamento sulla costruzione delle mappe concettuali (quelle vere, non dei semplici diagrammi spacciati per esse), dove veniva chiesto di programmare delle attività didattiche interdisciplinari e di costruire la mappa dei contenuti della propria materia da integrare con quelle elaborate dai colleghi. Il risultato di tale volenterosa attività erano dei lenzuoli incomprensibili a tutti i partecipanti. Il bello è che in seguito questa prassi fu utilizzata obbligatoriamente nelle progettazione delle cosiddette Unità Formative a livello di istituto, che andavano declinate anche come competenze, in ossequio ai dettami del vangelo predicato da Bertagna e fatto proprio dall’allora ministra Moratti. Ero bravissimo a preparare tali mostruose e rizomatiche piovre, ma mentivo sapendo di mentire. 



La mappa non è il territorio

L’originale matematico, ingegnere e filosofo polacco-americano Alfred Korzybski (1879-1950) osservò che "la mappa non è il territorio" e che "la parola non è la cosa", sintetizzando la sua visione che un'astrazione derivata da qualcosa, o una reazione ad essa, non è la cosa stessa. Korzybski sosteneva che molte persone confondono le mappe con i territori, cioè confondono i modelli della realtà con la realtà stessa. 

Korzybski voleva criticare le ambiguità del linguaggio e fondare una nuova dottrina di (quasi) tutto che chiamava Semantica generale (un’idea che purtroppo sedusse anche gente psico-cosa tipo L. Ron Hubbard, quello di Scientology, per dire), ma la sua frase rimase nella storia del pensiero.

Korzybski sosteneva che gli esseri umani sono limitati in ciò che conoscono dalla struttura del loro sistema nervoso e dalla struttura delle loro lingue. Gli uomini non possono sperimentare il mondo direttamente, ma solo attraverso le loro "astrazioni" (impressioni non verbali o "spunti" derivati ​​dal sistema nervoso e indicatori verbali espressi e derivati ​​dal linguaggio). Questi a volte ci ingannano su quale sia la verità. La nostra comprensione a volte manca di somiglianza di struttura con ciò che sta realmente accadendo. In termini più astratti, la proposizione di Korzybski asserisce che sempre quando c'è pensiero o percezione oppure comunicazione sulla percezione vi è una trasformazione, una codificazione, tra la cosa comunicata e la sua comunicazione. Soprattutto, la relazione tra la comunicazione e la cosa comunicata tende ad avere la natura di una classificazione, di un'assegnazione della cosa a una classe. Dare un nome è sempre un classificare e tracciare una mappa è essenzialmente lo stesso che dare un nome. Bisogna anche dire che onestamente riconobbe che “Una mappa non è il territorio che rappresenta, ma, se corretta, ha una struttura simile al territorio, il che spiega la sua utilità”.

L'espressione comparve per la prima volta in stampa in "A Non-Aristotelian System and Its Necessity for Rigor in Mathematics and Physics", resoconto di una conferenza che Korzybski tenne a una riunione della American Association for the Advancement of Science a New Orleans il 28 dicembre 1931. Il documento fu ristampato in Science and Sanity (1933). In questo libro, Korzybski riconosceva il suo debito nei confronti del matematico Eric Temple Bell, la cui epigrammatica asserzione "la mappa non è la cosa mappata", comparve nel saggio Numerology nello stesso anno. Il libro di Temple Bell era un serio tentativo di smontare ogni velleità di intravvedere significati simbolici nei numeri e dedicava un capitolo intero a criticare l’idea di alcuni matematici suoi contemporanei che “Il cosmo è matematica pura e la matematica pura è il Cosmo”, giungendo a contestare persino l’idea di isomorfismo se riferita alla relazione tra matematica pura e realtà esterna.




Il territorio non è il territorio

Gregory Bateson, in Verso un'ecologia della mente (1972), nel capitolo "Forma, sostanza e differenza" (basato sulla conferenza per il diciannovesimo Annual Korzybski Memorial, tenuta il 9 gennaio 1970), sostenne in modo radicale l’impossibilità di sapere cosa sia un territorio reale. Qualsiasi comprensione di qualsiasi territorio si basa su uno o più canali sensoriali che riportano in modo adeguato ma imperfetto:

“Diciamo che la mappa è diversa dal territorio; ma che cos’è il territorio? Da un punto di vista operativo, qualcuno (...) è andato a ricavare certe rappresentazioni che poi sono state riportate sulla carta. Ciò che si trova sulla carta topografica è una rappresentazione di ciò che si trovava nella rappresentazione retinica dell’uomo che ha tracciato la mappa; e se a questo punto si ripete la domanda, ciò che si trova è un regresso all’infinito, una serie infinita di mappe: il territorio non entra mai in scena. Il territorio è la Ding an sich [la cosa in sé], e con esso non c’è nulla da fare, poiché il procedimento di rappresentazione lo eliminerà sempre, cosicché il mondo mentale è costituito solo da mappe di mappe, ad infinitum”.

“Tutti i ’fenomeni’ sono letteralmente ’apparenze’. Oppure si può andare nel verso opposto della catena. Io ricevo vari generi di mappe, che chiamo dati o informazioni; e, quando le ricevo, agisco. Ma le mie azioni, le mie contrazioni muscolari, sono trasformate [informazioni] di differenze nel materiale d’ingresso, e io ricevo dati che sono a loro volta trasformate delle mie azioni. Si ottiene così un quadro del mondo mentale che in qualche modo si è affrancato dal nostro quadro tradizionale del mondo fisico”. (...)

“Torniamo alla mappa e al territorio e chiediamoci: "Quali sono le parti del territorio che sono riportate sulla mappa?". Sappiamo che il territorio non si trasferisce sulla mappa: questo è il punto centrale su cui qui siamo tutti d’accordo. Ora, se il territorio fosse uniforme, nulla verrebbe riportato sulla mappa se non i suoi confini, che sono i punti ove la sua uniformità cessa di contro a una più vasta matrice. Ciò che si trasferisce sulla mappa, di fatto, è la differenza, si tratti di una differenza di quota, o di vegetazione, o di struttura demografica, o di superficie, o insomma di qualunque tipo. Le differenze sono le cose che vengono riportate sulla mappa.

Ma che cos’è una differenza? Una differenza è un concetto molto peculiare e oscuro. Non è certo né una cosa né un evento. Questo pezzo di carta differisce dal legno di questo leggio; vi sono tra essi molte differenze, di colore, di grana, di forma, eccetera. Ma se cominciamo a porci domande sulla localizzazione di quelle differenze, cominciano le difficoltà. Ovviamente la differenza tra la carta e il legno non è nella carta; ovviamente non è neppure nel legno; ovviamente non è nello spazio che li separa; e non è ovviamente nel tempo che li separa. (Una differenza che si produce nel corso del tempo è ciò che chiamiamo ’cambiamento’). Dunque, una differenza è un’entità astratta”. (...)

“Nelle scienze fisiche gli effetti, in generale, sono causati da condizioni o eventi piuttosto concreti: urti, forze e così via. Ma quando si entra nel mondo della comunicazione, dell’organizzazione, eccetera, ci si lascia alle spalle l’intero mondo in cui gli effetti sono prodotti da forze, urti e scambi di energia. Si entra in un mondo in cui gli ’effetti’ (e non sono sicuro che si debba usare la stessa parola) sono prodotti da differenze. Cioè essi sono prodotti da quel tipo di ‘cosa’ che viene trasferita dal territorio alla mappa. Questa è la differenza”.

Altrove, in quello stesso volume, Bateson ha sostenuto che l'utilità di una mappa non è necessariamente una questione di veridicità letterale, ma di avere una struttura analoga, per lo scopo in questione, al territorio. 

Jean Baudrillard in Simulacri e simulazione (1981) sosteneva che il processo di mascheramento della mappa è ormai giunto alle sue estreme conseguenze: lo sviluppo dei media offusca il confine tra mappa e territorio, consentendo la simulazione delle idee codificate in segnali elettronici. Oramai è la mappa che precede il territorio, o addirittura lo sostituisce. Adesso si direbbe che viviamo in un’epoca di post-verità, che è come dire di menzogna (occhio: non sta parlando di scienza, ma di media).

Un'analogia specifica che Jean Baudrillard usa è proprio il racconto della mappa dell’impero. Nell'interpretazione di Baudrillard, il territorio non precede più la mappa né sopravvive alla mappa. È la mappa che precede il territorio. Le persone vivono nella mappa, ossia nella simulazione della realtà in cui la gente dell’impero passa la vita, garantendo che il loro posto nella rappresentazione sia adeguatamente circoscritto e dettagliato dai cartografi che hanno creato la mappa. Di contro la realtà si sgretola per il disuso, infatti ciò che non si usa si atrofizza e ciò che si atrofizza si perde. La transizione da segni che nascondono qualcosa a segni che nascondono che non c’è nulla è la svolta decisiva. 

“L'astrazione oggi non è più quella della mappa, del doppio, dello specchio o del concetto. La simulazione non è più quella di un territorio, di un essere referenziale o di una sostanza. È la generazione per modelli di un reale senza origine né realtà: un iperreale. Il territorio non precede più la mappa, né le sopravvive. Ormai è la mappa che precede il territorio - precessione dei simulacri - è la mappa che genera il territorio e, se dovessimo far rivivere la favola oggi, sarebbero i brandelli del territorio che stanno lentamente morendo sulla mappa. È il reale, e non la mappa, di cui vestigia sussistono qua e là, nei deserti che non sono più quelli dell'Impero, ma i nostri. Il deserto del reale stesso. (…)

Ma non si tratta più né di mappe né di territorio. Qualcosa è scomparso: la grande differenza tra loro, che era il fascino dell'astrazione. Perché è la differenza che forma la poesia della mappa e il fascino del territorio, la magia del concetto e il fascino del reale. Questo immaginario rappresentativo, che culmina ed è al tempo stesso inghiottito dal folle progetto del cartografo di una coestensività ideale tra mappa e territorio, scompare con la simulazione, il cui funzionamento è nucleare e genetico, e non più speculare e discorsivo. (…) Il reale è prodotto da unità miniaturizzate, da matrici, banchi di memoria e modelli di comando - e con questi può essere riprodotto un numero indefinito di volte. Non deve più essere razionale, poiché non è più misurato rispetto a qualche istanza ideale o negativa. Non è altro che operativo. Infatti, poiché non è più avvolto da un immaginario, non è più affatto reale. È un iperreale: il prodotto di una sintesi irradiante di modelli combinatori in un iperspazio senza atmosfera. In questo passaggio ad uno spazio la cui curvatura non è più quella del reale, né quella della verità, l'età della simulazione inizia così con una liquidazione di tutti i referenti (...) nei sistemi di segni, che sono un materiale più duttile che il significato, in quanto si prestano a tutti i sistemi di equivalenza, a tutte le opposizioni binarie e a tutta l'algebra combinatoria. 

(…) Mai più il reale dovrà essere prodotto: questa è la funzione vitale del modello in un sistema di morte, anzi di risurrezione anticipata che non lascia più alcuna possibilità anche in caso di morte. Un iperreale ormai al riparo dall'immaginario, e da ogni distinzione tra reale e immaginario, che lascia spazio solo alla ricorrenza orbitale dei modelli e alla generazione simulata della differenza”.


Che fare?

Forse aveva ragione Lewis Carroll, che, per non sbagliare, disegnò per i protagonisti de La caccia allo Snark una mappa dell’Oceano completamente vuota? Assolutamente no. La mappa non è il territorio, e forse tutti i modelli sono falsi. Ma proprio perché consci di questo, senza derive di nichilismo epistemologico (Ignoramus et ignorabimus), possiamo dedicarci a scoprire, con tutti i nostri limiti, il mondo che ci circonda. Sono i suoi limiti epistemologici, ontologici, semplicemente logici, che fanno grande l'impresa scientifica, compreso il difficile compito di costruire mappe e modelli che siano esplicativi, predittivi, coerenti con il contesto e altre mappe. È scienza: funziona, anche se ci sarà sempre un mistico fallito, un complottista, un teorete, un terrapiattista o un prete a sparare cazzate.

giovedì 19 agosto 2021

Poesia del ‘900 e scienza (5): “Siamo parte di un'interazione”

 


La realtà come processo

Forse l'esposizione più influente della modernità scientifica è stata Science and the Modern World (1925) del filosofo, logico e matematico Alfred North Whitehead (1861-1947), che concepiva la realtà come un processo nel quale non è possibile operare una distinzione tra soggetto e oggetto; e ciò in rapporto all'insieme di collegamenti dati dagli oggetti esterni che costituiscono il campo del possibile e dell'esistente. 

“Il progresso della scienza ha ora raggiunto un punto di svolta. Le fondamenta stabili della fisica sono andate in pezzi: così per la prima volta la fisiologia si sta affermando come un effettivo corpo di conoscenza, distinto da un cumulo di rottami. I vecchi fondamenti del pensiero scientifico stanno diventando incomprensibili. Tempo, spazio, materia, materiale, etere, elettricità, meccanismo, organismo, configurazione, struttura, schema, funzione, tutti richiedono una reinterpretazione. Che senso ha parlare di una spiegazione meccanica quando non si sa che cosa voglia dire meccanica?

Nella stessa opera, Whitehead parlava della necessità di “ampliare lo schema scientifico in un modo che sia utile alla scienza stessa”:

“Il punto di fronte al quale ci troviamo è che il campo del pensiero scientifico è ora, nel ventesimo secolo, troppo ristretto per analizzare i fatti concreti che gli stanno davanti. Questo è vero anche in fisica, ed è particolarmente urgente nelle scienze biologiche. Quindi, per comprendere le difficoltà del pensiero scientifico moderno e anche i suoi riflessi sul mondo moderno, dovremmo avere in mente un’idea di campo di astrazione più ampio, un'analisi più concreta, che si avvicini di più alla completa concretezza della nostra esperienza intuitiva”.

Whitehead sosteneva che la realtà consiste di processi piuttosto che di oggetti materiali, e che i processi sono meglio definiti dalle loro relazioni con altri processi, rifiutando così la teoria secondo cui la realtà è fondamentalmente costituita da pezzi di materia che esistono indipendentemente l'uno dall'altro. 

Per la filosofia del processo di Whitehead, sviluppata in Process and reality (1929) "è urgente vedere il mondo come una rete di processi interconnessi di cui siamo parti integranti, in modo che tutte le nostre scelte e azioni abbiano conseguenze per il mondo che ci circonda".

Il suo pensiero (per molti aspetti influenzato dal suo amore per i Romantici, in particolare per The Prelude di Wordsworth) fu da molti poeti interpretato come legittimazione di una poesia di processo, che riflette un nuovo mondo quasi caotico, di difficile interpretazione.


"La rosa nella polvere d'acciaio", l’immagine prodotta dalle forze elettromagnetiche che Ezra Pound (1885-1972) descrisse nei suoi primi, controversi, saggi, sembrava incarnare il misterioso flusso di energie verso un disegno che egli vedeva nell'arte primitiva; e fornire un modello per l'immagine come "nodo o cluster radiante". Poco dopo tale modello divenne il “vortice”, che Pound derivò sia da una lettura dei presocratici sia dalle scienze moderne (in particolare, dall’opera di Helmholtz sui vortici in idrodinamica, sviluppata da Lord Kelvin per la sua teoria degli atomi-vortice). Ciò che il vocabolo consentiva era un'idea di stile dettato dalle energie dei materiali coinvolti, producendo la poesia come un campo di attività in cui gli elementi esistono in relazione dinamica e organica tra loro. A Pound è attribuita la coniazione del termine Vorticismo. Nel suo saggio "Vortex", pubblicato nel 1914, sottolinea la relazione del vorticismo con il movimento, notando: "Il vortice è il punto di massima energia. Rappresenta, in meccanica, la massima efficienza. Usiamo le parole 'massima efficienza' nel senso preciso, come sarebbero usate in un libro di testo di Meccanica”.

Anche il matematico, filosofo, semiologo, logico e scienziato statunitense Charles Sanders Peirce (1839-1914), uno dei padri del pragmatismo, fu un punto di riferimento. Secondo Peirce, nel mondo non esiste alcuna necessità, e anzi esso è immerso nel dominio del caso (del clinamen epicureo e lucreziano). Solamente il metodo scientifico può accogliere la correzione e perciò accetta la sua fallibilità. Il fallibilismo fu un elemento prioritario del pensiero di Peirce, anticipando quello di Karl Popper, allo stesso modo del concetto dell'evoluzione, tipico della sua epoca. Non solo argomentò contro il determinismo in The Doctrine of Necessity Examined (1892), ma per scrittori successivi, come la poetessa, attivista, femminista americana Muriel Rukeyser (1913-1980), funse da pensatore fondamentale in relazione alla nozione di un campo interpretativo in cui il poeta, la poesia e il lettore interagiscono tutti insieme. Nel saggio The Life of Poetry (1949), vero e proprio inno d’amore per la poesia, Rukeyser illustrò questa poetica della connessione, affermando che il poeta, lo scienziato e il matematico cercano "un sistema di relazioni" e che lo scambio di energie è centrale sia per la poesia che per la scienza (Secondo Henri Poincaré, i matematici non studiano oggetti, ma relazioni fra oggetti; per loro, dunque, è indifferente sostituire alcuni oggetti con altri, a condizione che le relazioni non cambino. A loro non importa la materia, importa solo la forma).


Poesia come campo d’azione

Nell'opera di altri poeti questa idea diventa una teoria della poesia completamente elaborata. William Carlos William (1883-1963) riteneva che la fisica einsteiniana avesse aperto la strada a una nuova concezione della forma poetica, oltre che dello spazio-tempo. Nella conferenza The Poem as a Field of Action tenuta all’Università di Washington nel 1948, ne formalizzò il fondamento teorico: anche se i poeti hanno aperto l'immaginario del loro lavoro per includere i paesaggi industriali e altri nuovi soggetti, sostiene Williams, è lo stesso modo di far poesia che deve essere rivoluzionato. 

“Come possiamo accettare la teoria della relatività di Einstein, che influenza la nostra stessa concezione dei cieli intorno a noi di cui i poeti scrivono così tanto, senza incorporare il suo fatto essenziale – la relatività delle misurazioni – nella nostra categoria di attività: il poema. Pensiamo di stare al di fuori dell'universo? O che fa la Chiesa d'Inghilterra? La relatività vale per tutto, come l'amore, se vale per qualunque cosa al mondo”. (...)

Applicando la teoria della relatività di Einstein alla "relatività delle misurazioni", Williams sostiene che "le nostre poesie non sono realizzate in modo abbastanza sottile, la struttura, il modo posato della poesia non è in grado di far passare i nostri sentimenti"

Spring and All, "La primavera e tutto il resto" (1923) composta più di vent'anni prima di questa conferenza, è stata vista dalla critica come la prima raccolta di Williams a illustrare la sua idea del poema come campo d'azione. La raccolta è la precoce testimonianza di una fra le più inesauste e febbrili esperienze di poesia del Novecento, e mostra quanto l'esperienza di destrutturazione dell'arte cubista e la violenza inaudita della grande guerra appena conclusa avessero destrutturato la parola poetica, rendendo necessaria l'apertura di un inedito, incognito approccio. Cosi in By the road to the contagious hospital (Sulla strada per l’ospedale infettivologico):

Lifeless in appearance, sluggish
dazed spring approaches—

They enter the new world naked,
cold, uncertain of all
save that they enter. All about them
the cold, familiar wind—

Now the grass, tomorrow
the stiff curl of wild carrot leaf
One by one objects are defined—
It quickens: clarity, outline of leaf

But now the stark dignity of
entrance—Still, the profound change
has come upon them: rooted, they
grip down and begin to awaken


In apparenza senza vita, pigra
la primavera stordita si avvicina—


Entrano nudi nel nuovo mondo,
freddo, incerti di tutto
salvo che arrivare. Tutto intorno a loro
il vento freddo e familiare —

Ora l'erba, domani
il rigido ricciolo della foglia di carota selvatica
Uno per uno gli oggetti sono definiti —
Si anima: chiarezza, contorno di foglia

Ma ora la cruda dignità
dell’arrivo. Eppure, il profondo cambiamento
è giunto su di loro: radicati, essi
intuiscono e iniziano a svegliarsi.

La teoria di Williams è stata successivamente sviluppata da Charles Olson (1910-1970) come composition by field (composizione per campo), che si concentra sul movimento tra gli elementi in una poesia o tra più testi poetici, dove la poesia è concepita come un insieme di forze, uno spazio discorsivo con le proprie relazioni interne tra gli elementi. Ad esempio, la prima strofa di In Cold Hell, in Thicket (Nel freddo inferno, nel folto) recita:

In cold hell, in thicket, how
abstract (as high mind, as not lust, as love is) how
strong (as strut or wing, as polytope, as things
are constellated)
how strung, how cold
can a man stay (can men) confronted
thus?

All things are made bitter, words even
are made to taste like paper, wars get tossed up
like lead soldiers used to be
(in a child’s attic) lined up
to be knocked down, as I am,
by firings from a spit-hardened fort, fronted
as we are, here, from where we must go

God, that man, as his acts must, as there is always
a thing he can do, he can raise himself, he raises
on a reed he raises his

Or, if it is me,
what he has to say

 

Nel freddo inferno, nel folto, quanto
astratto (come le grandi menti, non come la libidine, come l’amore) quanto
forte (come pilastro o ala, come politopo, come
una costellazione di cose)
quanto teso, quanto freddo
può̀ restare un uomo (gli uomini) messo così
a confronto?

Ogni cosa si fa ostile, persino le parole
prendono un sapore di carta, si dispongono guerre
come soldatini di piombo erano
(nel solaio di un bimbo) allineati
per essere poi abbattuti, come me,
dai colpi di un fortino indurito di saliva, contrapposti
come siamo, qui, da dove dobbiamo andare

Dio, quell’uomo, poiché́ i suoi atti urgono, poiché́ c’è sempre
qualcosa che lui può̀ fare, può̀ sollevarsi, può̀ levarsi
su una cannuccia può̀ levare il suo

Oppure, se sono io,
quello che ha da dire

Come Williams, Olson vide lo spazio non euclideo della scienza moderna come una giustificazione delle sue procedure, suggerendo che il reale può in effetti essere una questione di forma: una disposizione dinamica di forze o percorsi. Il suo saggio del 1957, Equal, That Is, to the Real Itself, spiega l'implicazione di questa visione della poesia in termini di un campo metrico "riemanniano" in cui lo spazio testuale si piega intorno alla realtà.


Grovigli infiniti

In Italia queste idee sono giunte con considerevole ritardo, con una sola eccezione, rappresentata non da un poeta (casomai occasionale e non proprio modernista), ma da un saggista, prosatore e filosofo laureato in ingegneria. Pur essendosi nutrito di una solida cultura positivistica, Carlo Emilio Gadda (1893-1973) non accettava la purezza denotativa della lingua, inadeguata a rappresentare i sistemi complessi e il pluralismo delle concause destinate a tessere continue trame relazionali. All’immagine deterministica della «catena crudamente obbiettivante» egli contrappone «quella di una maglia o rete: ma non di una maglia a due dimensioni […] o a tre dimensioni […], sì di una maglia o rete a dimensioni infinite. Ogni anello o grumo o groviglio di relazioni è legato da infiniti filamenti a grumi o grovigli infiniti» (in Meditazione milanese, scritta alla fine degli ‘20 ma pubblicata solo nel 1974). Secondo Gadda, nessun oggetto esiste isolatamente, ma solo come punto nodale ove confluisce il complesso infinito delle relazioni di detto oggetto con innumerevoli altri:

Non è possibile pensare un grumo di relazioni come finito, come un gnocco distaccato da altri nella pentola. I filamenti di questo grumo ci portano ad altro, ad altro, infinitamente ad altro. 

L’oggetto non è un'isola inaccessibile in una realtà composta di tanti elementi contigui, bensì «un nucleo o groviglio di relazioni attuali». Non può essere pensato indipendentemente dalle relazioni in cui è coinvolto, poiché non si può sceverare il nocciolo duro del suo essere, la parte immutabile che potesse entrare o meno in relazione con il mondo, e ne restasse comunque incolume. Non ci sono gli oggetti da un lato, le relazioni fra gli oggetti dall’altro. Le apparenze ottiche e la pigrizia mentale – «i grossi e bovini occhî imbambolati dalla luce del giorno e dalla sua falsa dialettica», – ci fanno vedere l’oggetto come se fosse definito nel recinto dei propri contorni, mentre esso è raggiunto ininterrottamente da altri oggetti, anzi da tutti gli altri oggetti, così come viceversa esso raggiunge loro: sicché l’essere reale dell’oggetto sta nella totalità di tutte le sue implicazioni. Discendono da queste premesse i principi più saldi della poetica gaddiana: la tensione enciclopedica del «pasticcio», espressione di una realtà caotica, ovvero della «baroccaggine» del mondo, e l’ostinata avversione alla tesi dell’unicità dell’io, «il più lurido dei pronomi», ancora in vita nonostante che la scienza abbia chiarito che «il cosiddetto ‘uomo normale’ è un groppo, o gomitolo o groviglio o garbuglio, di indecifrate (da lui medesimo) nevrosi» (I viaggi la morte, 1958).

La continuità, o addirittura l’equivalenza fra dentro e fuori è un pilastro centrale della poetica di molti artisti del Novecento. Si pensi all’errabondo e schizofrenico Dino Campana (1885-1932) di Pampa, per il quale la confusione fra oggettivo e soggettivo, la nevrosi, non fu una mera formula stilistica, bensì una intuizione vissuta sulla propria pelle.

(...) Dov’ero? Io ero in piedi: Io ero in piedi: sulla pampa nella corsa dei venti, in piedi sulla pampa che mi volava incontro: per prendermi nel suo mistero!
Un nuovo sole mi avrebbe salutato al mattino! Io correvo tra le tribù indiane?
Od era la morte? Od era la vita? E mai, mi parve che mai quel treno non avrebbe dovuto arrestarsi: nel mentre che il rumore lugubre delle ferramenta ne commentava incomprensibilmente il destino.
Poi la stanchezza nel gelo della notte, la calma. Lo stendersi sul piatto di ferro, il concentrarsi nelle strane costellazioni fuggenti tra lievi veli argentei: e tutta la mia vita tanto simile a quella corsa cieca fantastica infrenabile che mi tornava alla mente in flutti amari e veementi.
La luna illuminava ora tutta la Pampa deserta e uguale in un silenzio profondo.
Solo a tratti nuvole scherzanti un po’ colla luna, ombre improvvise correnti
per la prateria e ancora una chiarità immensa e strana nel gran silenzio.

La luce delle stelle ora impassibili era più misteriosa sulla terra infinitamente deserta: una più vasta patria il destino ci aveva dato: un più dolce calor naturale era nel mistero della terra selvaggia e buona.
Ora assopito io seguivo degli echi di un’emozione meravigliosa, echi di vibrazioni sempre più lontane: fin che pure cogli echi l’emozione meravigliosa si spense.
E allora fu che nel mio intorpidimento finale io sentii con delizia l’uomo nuovo nascere: l’uomo nascere riconciliato colla natura ineffabilmente dolce e terribile: deliziosamente
e orgogliosamente succhi vitali nascere alle profondità dell’essere: fluire dalle profondità della terra:
il cielo come la terra in alto, misterioso, puro, deserto dall’ombra, infinito.
Mi ero alzato.
Sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio.


Relazioni intertestuali

Un risultato della teoria dei campi applicata alla poesia è un senso accresciuto delle relazioni intertestuali. Da Pound in poi, i poeti hanno prodotto testi in cui sono disseminate le parole di altri, lasciando al lettore una relazione dinamica tra i frammenti così dispersi, come nelle molteplici fonti di Pound nei Cantos, legate insieme nel vortice della storia o nei testi sparsi di Melville in Melville's Marginalia della poetessa visuale e pittrice americana Susan Howe (n, 1937). In Italia, la stessa tecnica sarà adottata da Balestrini, Sanguineti e Pagliarani. Una pratica così diffusa solleva domande fondamentali sui limiti dell'originalità nell'arte (e come non ricordare le considerazioni di Walter Benjamin sulla sua riproducibilità tecnica?).

Il californiano Robert Edward Duncan (1919-1988) fu, per educazione familiare, un esponente della tradizione esoterica occidentale. Sebbene associato a diverse scuole letterarie, Duncan fu influenzato soprattutto dalla tradizione modernista di Pound, Williams e Lawrence. Omosessuale dichiarato e precursore della cultura hippy, fu una figura chiave nel cosiddetto Rinascimento di San Francisco dei primi anni ‘50 che anticipò la Beat Generation e la controcultura del decennio successivo. 

Duncan ottenne un notevole successo artistico e critico soprattutto con la raccolta The Opening of the Field (L'apertura del campo, 1960). La sua poesia è modernista nella sua preferenza per l'impersonale, mitico e ieratico, ma romantica nel privilegiare l'organico, l'irrazionale e il primordiale, il non ancora articolato che si fa strada nel linguaggio come un salmone che risale la corrente:

Neither our vices nor our virtues
further the poem. "They came up
and died
just like they do every year
on the rocks.

The poem
feeds upon thought, feeling, impulse,
to breed itself,
a spiritual urgency at the dark ladders leaping.

Né i nostri vizi né le nostre virtù portano
avanti il ​​poema. Sono cresciuti
e sono morti
proprio come fanno ogni anno
sulle rocce.

La poesia
si nutre di pensiero, sentimento, impulso,
per riprodursi,
un'urgenza spirituale che risale le scale oscure.

Il volume include brevi poesie liriche, una sequenza di poesie in prosa chiamata The Structure of Rime e il poema Poem Beginning with a Line by Pindar, che attinge materiali da Pindaro, Francisco Goya, Walt Whitman, Ezra Pound, Charles Olson e dal mito di Amore e Psiche in una fuga visionaria ed estatica alla maniera dei Canti pisani di Pound.

Il pittore, poeta, performer e editore londinese Allen Fisher (n. 1944), che ha lavorato come direttore di una fabbrica chimica, è più sistematicamente e materialmente interessato alla costruzione scientifica del mondo; egli legge la scienza moderna in senso lucreziano come una chiave per il flusso dell'esistenza, per connessioni e interazioni che nella sua astrazione non ha mai completamente umanizzato. È anche attento al modo in cui la tecnologia minaccia l’umano. Nei suoi primi lavori ha sperimentato tecniche di "randomizzazione", elaborando testi esistenti per allentare il significato e focalizzare l'attenzione sulla procedura; il suo lavoro successivo esplora l'ottica, i frattali, la gravitazione, la biologia, la genetica, la tecnologia, ordinando accuratamente questi campi (e dettagliando le sue fonti in elenchi di libri alla fine di ogni volume). In una certa misura eredita la teoria dei campi degli scrittori precedenti. In Place, XXXV scrive:

we are part of an interaction
ununified
electromagnetic and gravitational
fields contradict
birds sensitive to axis not polarity
fish
thru sea water see
through a moving conductor
flowing
past the lines of force
thru the magnetics
setting up a perpendicular current
a direction
of flow and field
contradicting reason

siamo parte di un'interazione
non unificata
elettromagnetica e gravitazionale
i campi contraddicono
uccelli sensibili all'asse non alla polarità
pesci
attraverso l'acqua di mare vedono
attraverso un conduttore in movimento
scorrere
oltre le linee di forza
attraverso il magnetismo
impostando una corrente perpendicolare
una direzione
di flusso e campo
che contraddice la ragione

Altrove Fisher impiega anche la teoria delle catastrofi e il "cambiamento di fase". Il risultato è un'estetica della frammentazione e del disordine che non cerca né un ordine superiore implicito che potrebbe organizzare il testo, né semplicemente rimane disperso. In Winging Step, il “Passo alato”, scrive con competenza di capillarità e della parte dell’ippocampo cerebrale connessa con la memoria del sé. 

Surface tension of droplets electric
pulse-pushed through perforations
generates liquid-bridge adhesive,
the shape of clouds, precisely recalled,
a clarity of directional signals in the right
entorhinal cortex correlated with the
performance of autobiographical memory, with
a specific neural representation in a network of regions
in support of spacetime cognition, where landscape
roughness and apparent quantum coherence
result in slow folding
unfolding and lucid harvesting of light.
How observations of leaves in rainfall and the structure of clouds
shape the memory that patterns knowing.

Tensione superficiale delle goccioline elettrica
pulsazione spinta attraverso perforazioni
genera adesione a ponte liquido,
la forma delle nuvole, ricordata con precisione,
una chiarezza di segnali direzionali nella corteccia
entorinale destra correlata con la
performance di memoria autobiografica, con
una specifica rappresentazione neurale in una rete di regioni
a sostegno della cognizione spaziotemporale, dove rugosità
e coerenza quantistica del paesaggio apparente
risultano in una piegatura lenta
dispiegamento e raccolta lucida della luce.
Come le osservazioni delle foglie sotto la pioggia e la struttura delle nuvole
modellano la memoria che modella la conoscenza.


Opera aperta

Ma in questa epoca di indeterminatezza, che senso ha l’opera di un autore, se è possibile darle mille interpretazioni diverse? Forse la domanda non è posta correttamente, come scrisse Umberto Eco in Opera Aperta (1962):

“Si potrebbe benissimo pensare che questa fuga dalla necessità sicura e solida e questa tendenza all'ambiguo e all'indeterminato, riflettano una condizione di crisi del nostro tempo; oppure, all'opposto, che queste poetiche, in armonia con la scienza di oggi, esprimano le possibilità̀ positive di un uomo aperto ad un rinnovamento continuo dei propri schemi di vita e conoscenza, produttivamente impegnato in un progresso delle proprie facoltà̀ e dei propri orizzonti. Ci sia permesso di sottrarci a questa contrapposizione così facile e manichea (...)

Avviene ad esempio che mentre apertura e dinamicità di un'opera richiamano le nozioni di indeterminazione e discontinuità, proprie della fisica quantistica, al tempo stesso i medesimi fenomeni appaiono come immagini suggestive di alcune situazioni della fisica einsteiniana. Il mondo multipolare di una composizione (...) in cui non esistano punti privilegiati ma tutte le prospettive sono egualmen­te valide e ricche di possibilità̀ appare molto vicino all'universo spazio-temporale immaginato da Einstein, in cui " tutto ciò̀ che per ciascuno di noi costituisce il passato, il presente, il futuro, è dato in blocco, e tutto l'insieme degli eventi successivi (dal nostro punto di vi­sta) che costituisce l'esistenza di una particella materiale è rappresentato da una linea, la linea d'universo della particella (...) Ciascun osservatore col passare del suo tempo scopre, per così dire, nuove porzioni dello spazio-tempo, che gli appaiono come aspetti successivi del mondo materiale, sebbene in realtà̀ l'insieme degli eventi che costituiscono lo spaziotempo esistesse già̀ prima di es­sere conosciuto” [De Broglie].

Quello che differenzia la visione einsteiniana dalla epistemologia quantistica è in fondo proprio questa fiducia nella totalità̀ dell'universo, un universo in cui discontinuità̀ ed indeterminatezza possono in fondo sconcertarci con la loro improvvisa apparizione, ma che in realtà, per usare le parole di Einstein, non presuppongono un Dio che gioca a dadi, ma il Dio di Spinoza, che regge il mon­do con leggi perfette. In questo universo la relatività è costituita dalla infinita variabilità̀ dell'esperienza, dalla infinità̀ delle misurazioni e. delle prospettive possibili, ma l’oggettività̀ del tutto risiede nell’invarianza delle de­scrizioni semplici formali (delle equazioni differenziali) che stabiliscono appunto la relatività̀ delle misurazioni empiriche. (...) Il Dio di Spinoza che nella metafisica einsteiniana è soltanto un dato di fiducia extra sperimentale, per l'opera d'arte di­viene una realtà di fatto e coincide con l'opera. ordinatrice dell'autore. Questi, in una poetica dell'opera in movimento, può̀ benissimo produrre in vista di un invito alla libertà interpretativa, alla felice indeterminazione de­gli esiti (...), ma questa possibilità̀ cui l'opera si apre è tale nell'ambito di un campo di relazioni. Come nell'universo einsteiniano, nell'opera in movimento il ne­gare che vi sia una sola esperienza privilegiata non im­plica il caos delle relazioni, ma la regola che permette l'organizzarsi delle relazioni. L'opera in movimento, in­somma, è possibilità̀ di una molteplicità̀ di interventi personali ma non è invito amorfo all'intervento indiscrimi­nato: è l'invito (...) ad inserirci liberamente in un mondo che tut­tavia è sempre quello voluto dall'autore. L'autore offre insomma al fruitore un'opera da finire, non sa esattamente in qual modo l'opera potrà̀ essere portata a termine, ma sa che l'opera portata a termine sarà̀ pur sempre la sua opera, non un'altra, e che alla fine del dialogo interpretativo si sarà̀ concretata una forma che è la sua forma, anche se organizzata da un altro in un modo che egli non poteva completamente prevedere: poiché egli in sostanza aveva proposto delle possibilità̀ già̀ razionalmente organizzate, orientate e dotate di esigenze organiche di sviluppo”.


sabato 23 agosto 2014

Nuovi Ossimorica e Adynata

Vi ricordate gli Ossimorica e gli Adynata (o impossibilia) proposti da Umberto Eco nel “Secondo diario minimo” (1992)? Erano alcune delle materie cacopediche oggetto di studi nel "Progetto per una Facoltà di Irrilevanza Comparata". Ecco alcuni esempi: 

Ossimorica
Enologia musulmana, Istituzioni di rivoluzione, Lingue ugro-romanze, Dinamica parmenidea, Oceanografia tibetana, Oftalmologia gastrica, Istituzioni di oligarchia popolare. 

Adynata
Storia degli Stati Uniti nell'epoca ellenistica, Letteratura sumera contemporanea, Ippica azteca, Urbanistica tzigana, Filatelia assiro-babilonese, Storia dell'agricoltura antartica. 


Dopo più di vent’anni, con l’esperienza derivante dall’osservazione del dibattito scientifico-sociale italiano, è possibile aggiungere nuove voci. Io aggiungo quelle che trovate in calce. E voi? 

Macroeconomia dell'annuncio,
Produzione scientifica vannoniana, 
Chirurgia omeopatica, 
Diritto penale ad personam,
Sismomanzia ex-post, 
Istituzioni di medicina alternativa, 
Immunoterapia autistica, 
Statistica del dato singolo, 
Scienze della comunicazione a vanvera (con elementi di giacobbologia applicata), 
Turbochimica aerea, 
Storia della meritocrazia universitaria italiana, 
Paleontologia creazionista, 
Elementi di gestione delle discariche abusive, 
Liberismo sociale e proletario, 
Otopatie del retto, 
Diritto costituzionale circense, 
Fisica quantistica nell’età della Controrifoma,
Zootecnia vegana.