Visualizzazione post con etichetta Hofstadter. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Hofstadter. Mostra tutti i post

domenica 28 luglio 2013

Questo è il titolo di questo racconto

“Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso” (This Is the Title of This Story, Which Is Also Found Several Times in the Story Itself, qui l’originale) è una storia del 1982 dello scrittore e sinologo David J. Moser, interamente composta da frasi auto-referenziali. Douglas Hofstadter la pubblicò nella rubrica Metamagical Themas che allora curava sullo Scientific American. Il racconto, deliziosamente noioso, fu in seguito ripubblicato nell'eclettica raccolta Metamagical Themas (1985) in cui Hofstadter radunò gli articoli della sua rubrica.

Mi sono divertito a tradurre il racconto e, grazie ai buoni uffici e alla cortesia di Maurizio Codogno (che conosce Hofstadter e ha tradotto e curato l'edizione di alcune sue opere) ho ottenuto l’indirizzo di Moser e gli ho scritto chiedendogli il permesso di pubblicarla qui sul blog. Molto gentilmente egli ha acconsentito e, a quanto pare, ha apprezzato la mia versione. Eccola.

Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso 

Questa è la prima frase di questo racconto. Questa è la seconda frase. Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso. Questa frase si interroga sul valore intrinseco delle prime due frasi. Questa frase serve a informarvi, se non lo avete ancora capito, che questo è un racconto auto-referenziale, cioè un racconto che contiene frasi che si riferiscono alla loro stessa struttura e funzione. Questa è una frase che fornisce una chiusura al primo paragrafo. 

Questa è la prima frase di un nuovo paragrafo in un racconto auto-referenziale. Questa frase vi presenta il protagonista del racconto, un ragazzino di nome Billy. Questa frase vi racconta che Billy è biondo e con gli occhi azzurri e americano e dodicenne e che sta strangolando sua madre. Questa frase osserva la natura involuta della forma narrativa auto-referenziale mentre riconosce il bizzarro e giocoso distacco che consente allo scrittore. Come per illustrare il senso dell’ultima frase, questa frase ci ricorda, senza voler fare gli spiritosi, che i bambini sono un prezioso dono di Dio e che il mondo è un posto migliore quando è benedetto dalle gioie e dai piaceri senza pari che essi vi portano. 

Questa frase descrive gli occhi al'’infuori e la lingua penzoloni della madre di Billy e si riferisce agli sgradevoli rumori di asfissia e strozzamento che sta facendo. Questa frase fa la constatazione che sono tempi incerti e difficili, e che le relazioni, anche quelle che appaiono ben radicate e permanenti, hanno proprio la tendenza a rompersi. 

Presenta, in questo paragrafo, l’espediente dei frammenti di frase. Un frammento di frase. Un altro. Bell’espediente. Sarà usato più tardi. 

Questa è in realtà l’ultima frase del racconto, ma è stata messa qui per errore. Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso. Quando Gregor Samsa si svegliò un mattino da sogni agitati, si trovò nel suo letto trasformato in un enorme insetto. Questa frase vi informa che la frase precedente proviene interamente da un’altra storia (una molto migliore, si noti).e non ha per nulla posto in questo tipo di racconto. Nonostante le affermazioni della frase precedente, questa frase si sente costretta a informarvi che il racconto che state leggendo è davvero “La metamorfosi” di Franz Kafka, e che la frase cui si riferisce la frase precedente è l’unica frase che in effetti non appartiene a questo racconto. Questa frase contraddice la frase precedente informando il lettore (povero, confuso tapino) che questo brano letterario è in effetti la Dichiarazione d’Indipendenza, ma che l’autore, in una manifestazione di estrema negligenza (se non di malizioso sabotaggio) ha finora omesso di inserire anche una sola frase di quel documento entusiasmante, sebbene si sia degnato di utilizzarne un piccolo frammento, cioè “Quando nel corso degli eventi umani”, inserito tra virgolette presso la fine della frase. Mostrando una sottile consapevolezza della noia e dell’ostilità totale del lettore medio riguardo ai giochi concettuali senza scopo in cui si indulgeva nelle precedenti frasi, questa frase ci riporta finalmente allo scenario del racconto, facendo la domanda “Perché Billy sta strangolando sua madre?” Questa frase cerca di gettare una qualche luce sulla domanda posta dalla frase precedente, ma non lo fa. Questa frase, invece, ci riesce, in quanto suggerisce una possibile relazione incestuosa tra Billy e sua madre e allude alle complicazioni freudiane del caso, che ogni lettore accorto coglierà immediatamente. Incesto. Il tabù indicibile. Il divieto universale. Incesto. E si notano i frammenti di frase? Bell’espediente letterario. Sarà usato ancora più tardi. 

Questa è la prima frase di un nuovo paragrafo. Questa è l’ultima frase di un nuovo paragrafo. 

Questa frase può servire sia da inizio del paragrafo sia da fine, a seconda della sua posizione. Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso. Questa frase solleva una seria obiezione sull’intera classe di frasi auto-referenziali che si limitano a commentare la loro propria funzione o posizione all’interno del racconto (ad esempio le quattro frasi precedenti), sulla base che esse sono monotonamente prevedibili, imperdonabilmente auto-indulgenti, e servono soltanto a distrarre il lettore dal reale contenuto di questo racconto, che a questo punto sembra riguardare lo strangolamento e l’incesto e chissà quali altri deliziosi temi. Lo scopo di questa frase è di segnalare che la frase precedente, per quanto essa non faccia parte della classe delle frasi auto-referenziali che critica, tuttavia serve anche a distrarre il lettore dal reale contenuto di questo racconto, che in realtà riguarda l’inspiegabile trasformazione di Gregor Samsa in un enorme insetto (nonostante le esplicite obiezioni di altre frasi benintenzionate ma male informate). Questa frase può servire sia da inizio del paragrafo sia da fine, a seconda della sua posizione.

Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso. Questo è quasi il titolo del racconto, che si trova solo una volta nel racconto stesso. Questa frase sostiene con rammarico che fino a questo punto la modalità auto-referenziale di racconto ha avuto un effetto paralizzante sul reale progresso del racconto stesso – cioè queste frasi sono state talmente impegnate ad analizzare se stesse e il loro ruolo nel racconto che non hanno in generale compiuto la loro funzione di comunicatori di eventi e idee che si spera si uniscano in una trama, uno sviluppo dei personaggi, ecc. – in breve, la precisa raison d'être di una qualsiasi rispettabile, operosa frase nel bel mezzo di un brano di prosa convincente. Questa frase fa inoltre notare l’ovvia affinità tra l’intrico di queste frasi consapevoli della propria agonia e gli esseri umani afflitti in modo simile, e sottolinea gli analoghi effetti paralizzanti provocati dall'eccessivo e tormentato esame di coscienza. 


Lo scopo di questa frase (che può anche fare da paragrafo) è di immaginare che se la Dichiarazione d’Indipendenza fosse stata formulata e strutturata in modo così disattento e incoerente come questo racconto lo è stato finora, non si potrebbe dire in che tipo di scellerata società libertina vivremmo ora o in quali abissi di decadenza sarebbero sprofondati gli abitanti di questo paese, fino al punto di scrittori squilibrati e depravati che costruirebbero frasi sgraziate in modo irritante e inutilmente prolisso, che talvolta posseggono la discutibile se non totalmente sgradita qualità di riferirsi a se stesse e che talvolta diventano anche frasi coordinate malamente o esibiscono altri segni di sintassi imperdonabilmente approssimativa come ridondanze superflue non richieste che quasi certamente avrebbero effetti rischiosi per la condotta e la morale della nostra suggestionabile gioventù, portandola a commettere incesto o persino assassinio ed è forse questo il perché Billy sta strangolando sua madre, a causa di frasi proprio come questa, che non ha fini comprensibili o un chiaro scopo e termina appunto dovunque, anche a met 

Bizzarro. Un frammento di frase. Un altro frammento. Dodicenne. Questa è una frase che. Frammentata. E strangolando sua madre. Mi spiace, mi spiace. Bizzarro. Questo. Più frammenti, Ciò è. Frammenti. Il titolo di questo racconto, che. Biondo. Mi spiace, mi spiace. Frammento dopo fram-mento. Più difficile. Questa è una frase che. Frammenti. Accidenti buon espediente. 

Lo scopo di questa frase è triplice: (1) scusarsi per lo sfortunato e inesplicabile sbandamento esibito dal precedente paragrafo; (2) assicurare voi, lettore, che non capiterà di nuovo; e (3) ripetere il fatto che questi sono tempi incerti e difficili e che gli aspetti del linguaggio, anche quelli apparentemente stabili e profondamente radicati come la sintassi e il significato, si distruggono. Questa frase non aggiunge nulla di sostanziale alle opinioni della frase precedente, ma fornisce semplicemente un frase conclusiva a questo paragrafo, che altrimenti potrebbe non averne una. 

Questa frase, in un improvviso e coraggioso impeto di altruismo, prova ad abbandonare la modalità auto-referenziale, ma non ci riesce. Questa frase ci prova ancora, ma il tentativo è condannato in partenza.

Questa frase, in un ultimo disperato tentativo di infondere un qualche briciolo di trama a questo immoto brano di prosa, allude rapidamente agli irrequieti tentativi di occultamento di Billy, seguiti da un lirico, toccante, passaggio ben scritto, in cui Billy si riconcilia con suo padre (risolvendo così i subliminali conflitti freudiani palesi a qualsiasi lettore avveduto) e a una eccitante scena finale di inseguimento poliziesco durante il quale Billy viene casualmente colpito e ucciso da un poliziotto inesperto in preda al panico che per coincidenza si chiama anche lui Billy. Questa frase, sebbene sia sostanzialmente in completa sintonia con i lodevoli sforzi della precedente drammatica frase, ricorda al lettore che tali allusioni a una storia che, in effetti, non esiste ancora non sostituiscono affatto la realtà oggettiva e pertanto non salveranno l’autore (indolente e svogliato qual è) dal proverbiale vicolo cieco. 

Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo, Paragrafo. 

Lo scopo. Di questo paragrafo. È di scusarsi. Per il suo ingiustificato uso. Di. Frammenti di frase. Scusate.

Lo scopo di questa frase è di scusarsi per i vani e sciocchi giochi da adolescente ai quali ci si è lasciati andare nei due precedenti paragrafi, e di esprimere rammarico da parte nostra, le frasi più mature, perché l’intero tono di questo racconto è tale da non poter sembrare di comunicare un semplice scenario, per quanto torbido. 

Questa frase desidera scusarsi per tutte le inutili scuse che si trovano in questo racconto (la presente inclusa), le quali, sebbene qui sistemate apparentemente a beneficio dei lettori più irritati, ritardano solamente in modo fastidiosamente ricorsivo la continuazione della trama oramai pressoché dimenticata. 

Questa frase sprizza punteggiatura alla notizia del tremendo significato dell'auto-riferimento applicato alle frasi, una pratica che potrebbe dimostrarsi un vero e proprio vaso di Pandora di potenziale caos, perché se una frase può riferirsi o alludere a se stessa, perché non una modesta proposizione subordinata, magari proprio questa proposizione? O questo frammento di frase? O tre parole? Due parole? Una

Forse è appropriato che questa frase ci ricordi gentilmente e senza alcuna traccia di compiacenza che questi sono tempi davvero difficili e incerti e che in generale le persone non sono abbastanza cortesi le une con le altre, e forse noi, esseri umani senzienti o frasi senzienti, dovremmo proprio sforzarci di più. Voglio dire, esiste una cosa come il libero arbitrio, ci deve essere, e questa frase ne è la prova! Né questa frase né tu, lettore, siete completamente disarmati di fronte a tutte le spietate forze all’opera nell’universo. Dovremmo stare piantati per terra, affrontare i fatti, prendere Madre Natura per la gola e sforzarci di più

Per la gola. Di più, di più, di più. 

Scusate. 

Questo è il titolo di questo racconto, che si trova diverse volte anche nel racconto stesso. 

Questa è l’ultima frase del racconto. Questa è l’ultima frase del racconto. Questa è l’ultima frase del racconto. Questa è. 

Scusate.



martedì 23 luglio 2013

Heavy meta

Strano destino quello della preposizione greca μετά (meta), che significava “dopo”, “a fianco di”, “con”, “stesso”, con variazioni di senso che dipendevano dalla declinazione della parola successiva. Dalla preposizione derivò il prefisso μετα-, più o meno con gli stessi significati.

Quando Andronico di Rodi, scolarca della ricostituita scuola peripatetica, pubblicò nel primo secolo a. C. una nuova edizione delle opere di Aristotele (quella che costituisce il Corpus Aristotelicum oggi noto), chiamò Metafisica una serie di scritti in cui il grande filosofo si occupava della natura degli enti fisici, tra i quali la divinità, in quanto esseri. Questi trattati furono chiamati τὰ μετὰ τὰ φυσικά (“ciò che viene dopo la Fisica”) per il semplice fatto che essi nella compilazione venivano dopo il libro dedicato alla Fisica. L’espressione venne però interpretata diversamente, come se il suo oggetto fosse “ciò che va oltre la fisica”, in quanto divino. Quel prefisso meta-, utilizzato da Andronico con un’accezione puramente locativa (post-), venne a significare un superamento, un’uscita da (trans-) per cui la metafisica divenne lo studio di ciò che va oltre le cose naturali, la scienza delle cose divine.

A Roma la parola “metafisica” arrivò con questo secondo significato, che divenne quello definitivo anche perché venne fatto proprio dal cristianesimo. Sul calco di metafisica si sono coniate nel Novecento moltissime parole, soprattutto in ambito scientifico, in cui il prefisso indica, di volta in volta, una trasformazione, un’evoluzione, uno sviluppo, una derivazione (“posteriorità, mutamento, trasformazione” secondo il Dizionario delle Scienze Fisiche Treccani del 2012). In chimica le cose sono leggermente diverse e più specifiche, ma non è il caso adesso di aggiungere troppa carne al fuoco.

In campo matematico il prefisso cominciò a essere usato alla fine della grande discussione sui fondamenti e del tentativo di basare le matematiche su sistemi logico-formali. Le geometrie non-euclidee, alla metà dell’Ottocento, avevano portato all'abbandono del sogno cartesiano e kantiano dell'autoevidenza degli assiomi posti alla base della matematica, che diventava scienza di relazioni sintattiche fra simboli del suo linguaggio: la validità della deduzione matematica non dipende dal particolare significato che può essere associato ai termini o alle espressioni contenute nei postulati. In parole povere: non è fondamentale che esista davvero un lonfo, ma che un quadrato con tre lonfi per lato contenga davvero nove lonfi. Ciò che importa al matematico puro è la struttura delle affermazioni piuttosto che la natura particolare del loro contenuto: egli non si preoccupa se i postulati che ammette o le conclusioni che trae dai primi sono veri, ma se le conclusioni avanzate siano le conclusioni logiche necessarie delle ipotesi da cui è partito.

Una volta che non si suppone più la verità dei postulati, nasce il problema di come provare almeno la coerenza dei sistemi attraverso i quali facciamo le nostre deduzioni. Tutti i grandi matematici che, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, provarono, consci di quella che prese il nome di crisi dei fondamenti, a rifondare le matematiche su basi diverse (gli insiemi, la logica, le classi) si imbatterono però nel grande problema delle antinomie, cioè delle contraddizioni interne: il fatto di arrivare, partendo dalle stesse premesse, a conclusioni logiche opposte. Per un motivo o per l’altro, capitava di dover ammettere che un lonfo barigatta e contemporaneamente non lo fa.

Si arrivò almeno a concordare su che cosa sia un sistema formale, cioè un sistema simbolico senza interpretazione (chissene se un lonfo esiste davvero), con una sintassi (le regole di combinazione dei simboli) definita in un modo rigoroso, sul quale è definita una relazione di deducibilità in termini puramente sintattici (deve essere possibile ricavare delle conclusioni facendo ricorso esclusivamente alle regole sintattiche interne al sistema). Le principali proprietà di un sistema formale sono:
a) la consistenza, o coerenza: un linguaggio formale è consistente se non contiene formule contraddittorie, cioè non capita che una delle sue formule e la sua negazione siano costruibili o dimostrabili al suo interno;
b) la completezza: è la proprietà per cui tale sistema è sufficiente per decidere di ogni proposizione correttamente costruita e/o formulata a partire dalle proposizioni-base di quel linguaggio. Detto in altro modo, un sistema è completo quando è possibile dimostrare al suo interno ogni formula dimostrabile, oppure la sua negazione;
c) la decidibilità: un enunciato formulabile in un dato sistema formale è decidibile se è dimostrabile come vero o falso all'interno di tale sistema. Se non è così, succede ciò che descrissi tempo fa in questo limerick:

In un vecchio libro, una certa sera
lessi una frase che passò leggera:
“Una fata mi ha giurato
che il loro mondo è inventato”
che, se è vera, è falsa e, se è falsa, è vera.


Ancor prima che Kurt Gödel dimostrasse nel 1931 che è impossibile per un sistema formale coerente come l’aritmetica dimostrare la propria coerenza, si arrivò a parlare di metamatematica e metalogica, cioè di teorie che studino il funzionamento della matematica e della logica superandole, trascendendole. Così, mentre la logica studia il modo in cui i sistemi logici possono essere usati per costruire argomenti validi e corretti, la metalogica studia le proprietà dei sistemi logici stessi. Analogamente, la metamatematica è lo studio della matematica mediante metodi matematici: questo studio produce metateorie, che sono teorie matematiche su altre teorie matematiche. Un'immagine significativa di tutti questi meta- è il simbolo dell’ouroburos, il serpente che si morde la coda (invece non sappiamo se esiste tra i lonfi una simile abitudine).

L’Oxford Dictionary, attento a registrare tutto ciò che capita alla lingua inglese, annota per la prima volta il termine metamathematics nel 1929, ma il concetto era già presente nei lavori del grande matematico tedesco David Hilbert, colui che già nel 1900 aveva enunciato tra le grandi sfide del secolo incipiente proprio la dimostrazione che gli assiomi dell’aritmetica sono coerenti e che, intorno agli anni ‘20, con il suo Programma, aveva tentato di formalizzare tutte le teorie matematiche esistenti attraverso un insieme finito di assiomi, e dimostrare che questi assiomi non conducevano a contraddizioni, per esempio che la proposizione A e la sua negazione non-A siano entrambi teoremi. Già ho detto che il sogno di Hilbert fu frustrato da Gödel, ma fu proprio il meta- che consentì di superare certe difficoltà: si trovarono strade diverse, e la ricerca continua ancor oggi.

Nel 1937 Willard Quine utilizzò per primo il termine metateorema nell’articolo Logic Based on Inclusion and Abstraction, per indicare “un X che riguarda X”, cioè l’equivalenza di strutture logiche (la metafisica, al contrario, va oltre la fisica, ma non ha la sua stessa struttura, è “un Y che riguarda X”). Così formulato da Quine, l’ouroboros di cui ho parlato può essere visto in termini di autoreferenza, con tutte le conseguenze, anche ludiche, di cui mi sono occupato in un precedente articolo.

Quine è infatti ampiamente citato nelle opere di Douglas Hofstadter, che, nel suo Gödel, Escher, Bach (1979) e nel successivo Metamagical Themas, ha reso popolare il nostro meta. Hofstadter addirittura lo usa come aggettivo, o come preposizione (“going meta”, così come esiste “going to”, per indicare che si porta la discussione su un altro livello di astrazione). Grazie a Hofstadter, e al successo del suo bellissimo testo, oramai il prefisso meta- è diventato di uso comune, soprattutto per indicare autoreferenze o quel tipo di cortocircuiti logici che gli anglosassoni chiamano strange loops

Oggi esistono persino i meta-jokes, o meta-barzellette, battute autoreferenziali, o che si riferiscono ad altre battute, come quella di un italiano, un francese e un americano che entrano in un bar e il barista chiede: “Che cos'è, una barzelletta?”.