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martedì 20 novembre 2012

Riti di amore e matematica? Mah!


Cioè: c’è un matematico americano che si innamora di un cortometraggio di Yukio Mishima, se ne innamora e decide di ispirarsi per parlare di matematica.

 

A Parigi trova anche dei complici cinematografari. La bellissima storia di un samurai costretto dall'imperatore a uccidere i suoi amici, che decide di suicidarsi per non farlo, e la sua amata che decide per amore di seguirlo nella morte, diventa così la storia di uno che ha trovato la formula matematica dell’amore e per non farla cadere in cattive mani, decide di tatuarla sul corpo dell’amata, che è anche una bella figa.

Poi scrive un articolo su ArXiv per dire che l’ha fatto per amore della matematica e che lui vuole divulgarla, la matematica, uno spot e nessuna ricerca nuova: solo una sua formula del 2006 sugli "istantoni",  speciali soluzioni della teoria del campo quantistico nelle quali si minimizza l'"azione". La formula è abbastanza complicata da poter essere utilizzata nella lunga e cruciale scena del tatuaggio. Allora non si capisce che cacchio c’entrano gli "istantoni" con la formula dell’amore, che mi sembra una storia di quello di Ifix Tchen Tchen. Poi trova anche la maniera di fare proiettare il film al simposio annuale Matematica e Cultura del 2012 a Venezia, dove coinvolge persino Michele Emmer. Vuoi vedere il film? Devi pagare cinque euri per scaricarlo o ti compi il DVD e poi lui pubblicherà l’articolo completo in un libro per Springer Verlag. Io i cinque euri non li spendo e vi faccio vedere solo il trailer. Ma che c’entra la matematica?


Edward Frenkel (2012). Mathematics, Love, and Tattoos To be published by Springer Verlag arXiv: 1211.3704v1


Il mio primo articolo RIFIUTATO da Research Blogging!

martedì 14 agosto 2012

Sette canne, un vestito


La storia dell’industrializzazione italiana nel Novecento è fatta spesso di grandi idee, di investimenti ambiziosi, di crisi che sembrano definitive, di rilanci e di sogni che talvolta sono diventati realtà. Basti pensare alla vicenda dell’ENI, società che fu affidata a Enrico Mattei per essere liquidata e che nel dopoguerra divenne un gigante nel settore petrolifero. La chimica industriale ha giocato un ruolo importante nel processo di crescita del nostro paese, in molti settori strategici come ad esempio quello della produzione di fibre tessili artificiali. 

Metodi per la produzione di fibre per l’industria tessile a partire dalla cellulosa dei vegetali erano noti già negli ultimi decenni dell’Ottocento, ma solo nel 1902 il chimico inglese Charles Frederick Cross e i suoi collaboratori brevettarono una seta artificiale che chiamarono viscosa. Il nome deriva dal fatto che la cellulosa, che è insolubile in quasi tutti i solventi, si scioglie in una soluzione alcalina di un solvente organico, il disolfuro di carbonio, formando un derivato chiamato xantato di cellulosa. Questa sostanza si presenta come una dispersione colloidale viscosa, da cui il nome commerciale. Quando la viscosa viene estrusa attraverso piccoli fori e il filamento risultante viene trattato con acido, la cellulosa viene rigenerata nella forma di sottili fili che possono essere usati nella produzione di un tessuto simile alla seta, poi chiamato rayon. Un processo simile, in cui la viscosa viene estrusa attraverso una sottile fenditura, produce fogli di cellophane


Un ruolo importante nella storia della produzione italiana fu svolto dalla SNIA. Nata nel 1917 a Torino su iniziativa dell’imprenditore e finanziere biellese Riccardo Gualino, la SNIA (Società di Navigazione Italo Americana) era all’inizio una società per il trasporto marittimo del carbone degli Stati Uniti in Italia. Con la fine della guerra, in seguito al crollo dei noli marittimi, la società decise di diversificare l’attività, interessandosi alla produzione di fibre artificiali. Acquistando e assorbendo diverse aziende chimiche, la SNIA, che sarebbe poi diventata Società Navigazione Industriale Applicazione Viscosa (SNIA Viscosa) divenne una delle più importanti aziende del paese nella produzione di ciò che allora si chiamava seta artificiale e che, quando nel 1924 si proibì per legge l’uso del nome seta per i prodotti non derivanti dal baco da seta, prese il nome di rayon. 

Anche la SNIA sembrò a un certo punto affrontare una crisi fatale, quando Gualino, che si era avventurato in speculazioni finanziarie in prossimità della grande crisi del 1929, entrò in urto con il governo fascista. Intervenne allora un azionista dell’azienda, l’imprenditore milanese Senatore Borletti, che assunse temporaneamente la presidenza (1930) per poi affidare il timone nel 1934 a Franco Marinotti, che aveva fatto esperienza nel settore tessile con il commercio in Unione Sovietica e nel Vicino Oriente. Marinotti risollevò l’azienda, anche grazie ai buoni rapporti con il fascismo (fu vice podestà a Milano), e la resse, tranne che nel periodo 1943–47, promuovendone lo sviluppo, quasi fino alla morte, avvenuta nel 1966. 


La politica di autarchia imposta all’Italia dalle sanzioni internazionali dopo la guerra d’Etiopia impose di fare a meno del legno delle conifere dell’Europa settentrionale per l’approvvigionamento di cellulosa, la materia prima per il processo di produzione del rayon. Si pensò allora di utilizzare la canna gentile (Arundo donax), specie che abbondava nelle zone paludose che allora si stavano bonificando. Proprio in una di queste aree in via di risanamento nel sud del Friuli, i cui dintorni erano ricchi di canne, si decise di impiantare un insediamento industriale per la produzione del rayon. Attorno al vecchio centro agricolo di Torre di Zuino, in comune di San Giorgio di Nogaro, si costruì nel biennio 1936-37 un importante stabilimento della SNIA, circondato da case per gli operai e da una rete di servizi. Si crearono edifici pubblici e abitativi, stadio, piscina e strutture produttive, collegati da un razionale assetto viario, che costituiscono uno degli esempi più interessanti di pianificazione urbanistica del periodo fascista. L’opera fu inaugurata da Benito Mussolini in persona il 21 settembre 1938 e fu celebrata da un poema di Filippo Tommaso Marinetti.



Nacque così Torviscosa, divenuto comune autonomo nel 1940, che, per certi versi, anticipa l’idea di “centro aziendale”, che negli anni ’50 ispirò la nascita di Metanopoli “capitale” dell’ENI di Enrico Mattei alle porte di Milano. Il primo podestà del neonato comune friulano fu naturalmente Marinotti. 

Negli anni 1944-45 i bombardamenti alleati colpirono la fabbrica di Torviscosa nei suoi punti nevralgici. Appena finita la guerra, si ripararono gli ingenti danni e riprese la produzione di rayon. L’approvvigionamento di materia prima era difficoltoso, e perciò si continuò a ricorrere all’autarchica canna gentile. Per promuovere la propria attività, nel 1949 la SNIA decise, come usava prima dell’avvento della televisione, di commissionare un cortometraggio da proiettare nella sale cinematografiche. La stessa cosa sarebbe ad esempio accaduta in Francia otto anni dopo, quando la Pechiney commissionò ad Alain Resnais un documentario sull’utilità della plastica che si giovò del testo in versi alessandrini di Raymond Queneau.

L’incarico fu assegnato a Michelangelo Antonioni, che aveva collaborato con Roberto Rossellini e Luchino Visconti in Italia e con Marcel Carné in Francia e aveva alle spalle una discreta produzione documentaristica (Gente del Po, 1943-47, Nettezza Urbana, 1948, L’amorosa menzogna, 1949, questi ultimi due entrambi premiati con un Nastro d’argento). Le riprese furono effettuate negli stabilimenti di Torviscosa e di Varedo, riprendendo direttamente i lavoratori e le macchine in azione. Nacque così Sette canne, un vestito


Accompagnato dalla voce narrante, che legge un testo semplice e chiaro (con il bell’incipit “Questa è la favola del rayon”), il documentario illustra tutte le fasi di produzione del rayon a partire dalla canna gentile. Si parte dallo sminuzzamento e bollitura della canna che, una volta ripulita delle scorie, diventa pasta di cellulosa. Questa entra nelle torri di clorazione e di alcalinizzazione, dove viene sbiancata e purificata e trasformata in fogli. I fogli vengono pressati, aggiungendo soda caustica diluita, e disintegrati. I frammenti di cellulosa, diluiti nel disolfuro di carbonio, si trasformano in xantato di cellulosa, che fuso con la salamoia, da vita alla viscosa. Segue la fase di estrusione attraverso piccoli ugelli, in cui la viscosa, grazie all’azione di un acido, diventa un filo lucido e solido che viene arrotolato in gomitoli. Dopo una nuova lavatura e sbiancatura, si riavvolge in un gomitolo definitivo chiamato "rocca conica", costituito da cento chilometri di filo. Dalle umili canne di paludi malsane e fangose si ottiene così un tessuto economico simile alla seta. Con sette canne si può ottenere un vestito. E, se il sarto è bravo, si possono realizzare abiti d’alta moda da presentare nelle maggiori sfilate del mondo.

 

L’opera mette in evidenza l’estrema cura compositiva di ogni sequenza e alcuni elementi di quella che sarà la cifra stilistica di Antonioni, come il tema dell’ambivalenza degli insediamenti industriali che si installano nella campagna. Non sappiamo se il regista si sia confrontato con la poesia di Marinetti, ma si può notare come il documentario segua quasi fedelmente la scansione delle immagini evocate dal poeta, anche se ne muta completamente le implicazioni. 

Ritrovato nel 1995 nell’archivio storico della fabbrica, amorevolmente custodito da Enea Baldassi, Presidente dell’Associazione Primi di Tor Viscosa, e meritoriamente restaurato dalla Cineteca del Friuli di Gemona, il documentario è una testimonianza importante per la storia della chimica industriale del nostro paese e per i rapporti che essa seppe intrattenere con il mondo dell’arte e della cultura in generale.

sabato 11 febbraio 2012

La scienza nel Monte Analogo

Il Monte Analogo è il libro più noto di René Daumal (1908-1944), scrittore, alpinista, studioso della religione indiana, sanscritista, appartenente a quella corrente del pensiero occidentale influenzata dalle idee del filosofo e mistico Gurdjieff e dello scrittore esoterista René Guénon, depositari del cosiddetto “sapere tradizionale trasmesso nei secoli per via iniziatica” e che in realtà è un insieme costituito da concetti provenienti da tradizioni e culture diverse al quale è stata data nel XIX secolo una fittizia coerenza.

Il racconto di Daumal è diventato un libro di culto per tutti coloro che vi hanno trovato una allegoria della crescita interiore che si accompagna alle grandi prove, in un itinerario verso una vetta che è il centro in cui ciascuno può trovare la sua vera essenza. Si tratta di uno dei più comuni archetipi umani, quello dell’ascesa spirituale (qui inserita in una sorta di mistica dell’alpinismo) che ha prodotto molta letteratura in epoche e con intenti diversi, fino al sarcasmo surrealista e psichedelico de La Montagna Sacra del regista e fumettista cileno Alejandro Jodorowsky.

Il fascino del libro, rimasto incompiuto per la morte dell’autore, risiede nel suo essere un colto, intelligente e raffinato racconto di un’avventura del corpo e della mente, dalla sua ideazione e preparazione fino alla sua realizzazione. Con una trama lineare e la semplicità narrativa di un apologo, Il Monte Analogo descrive la recherche di un gruppo di otto avventurosi pellegrini, tra i quali Théodore, il narratore, e Pierre Sogol, il maestro e capo della spedizione, un fabbricante di profumi e insegnante cittadino di alpinismo, filosofo e scienziato eterodosso, teorico del pensiero analogico, che è stato frate di un ordine monastico eretico.

Le tematiche simboliche sono onnipresenti nelle pagine del testo, e in alcuni casi la narrazione sembra uscita direttamente dalla penna di Guénon, come nell’articolo di Théodore sul simbolo della montagna nelle tradizioni antiche, la cui pubblicazione sulla Revue des Fossiles è la scintilla che accende le polveri della spedizione verso il Monte Analogo, isola, montagna o continente posto nell’Oceano australe, invisibile e inaccessibile ai più, sulla cui cima hanno sede “creature superiori” e al quale si giunge percorrendo una “pendenza ascendente” in un gorgo circolare che è un collegamento spazio-temporale.

Un’opera anti-scientifica, dunque? No, innanzitutto perché, come ha scritto Mario M. Rossi nel saggio pubblicato a chiusura dell’edizione da lui curata de Il Regno Segreto di Robert Kirk, “In tutte le epoche, qualunque sia lo stato delle conoscenze scientifiche, esiste la possibilità di sostenere un occultismo logicamente fondato che rispetti, anzi usi, gli ultimi risultati della scienza dell’epoca”. Piaccia o non piaccia è proprio così: le scoperte sul magnetismo alimentarono ad esempio l’infatuazione mesmerista del primo Ottocento, come la nascita in campo matematico delle geometrie a n-dimensioni e le scoperte dei raggi-X e della radioattività provocarono una rinascita dello spiritismo e il successo, soprattutto presso gli artisti, della ricerca delle “realtà invisibili” e della “consapevolezza cosmica” quadridimensionale. In secondo luogo perché Daumal si dimostra assai informato sulle scoperte scientifiche e le elaborazioni teoriche più recenti.

La relatività di Einstein e la sua conferma da parte della spedizione di Arthur Eddington, che nel 1919, in occasione di un’eclisse di Sole, osservò la curvatura della luce provocata dalla grande massa della nostra stella, sono esplicitamente citate nel discorso con il quale Sogol illustra l’esistenza del Monte Analogo ai membri della spedizione nel corso della loro prima riunione:

“Sapete, d'altra parte, che un corpo qualsiasi esercita di fatto un'azione repulsiva di questo tipo sui raggi luminosi che passano vicino a esso. Il fatto, previsto teoricamente da Einstein, è stato verificato dagli astronomi Eddington e Crommelin il 30 maggio 1919, in occasione di un'eclissi di sole; essi hanno constatato che una stella poteva essere ancora visibile pur trovandosi, rispetto a noi, dietro il disco solare. Tale deviazione è, senza dubbio, minima. Ma non potrebbero esistere sostanze ancora sconosciute — sconosciute, d'altronde, per questa stessa ragione — capaci di creare intorno a sé una curvatura dello spazio molto maggiore? Dev'essere cosi, perché questa è la sola spiegazione possibile dell'ignoranza in cui è rimasta fino a oggi l'umanità, circa l'esistenza del Monte Analogo.

Ecco dunque quello che ho concluso, eliminando semplicemente tutte le ipotesi insostenibili. In qualche punto della Terra esiste un territorio con una circonferenza di almeno diverse migliaia di chilometri, sul quale si innalza il Monte Analogo. Il basamento di questo territorio è formato da materiali che hanno la proprietà di curvare lo spazio intorno a sé in modo tale che tutta la regione sia rinchiusa in un guscio di spazio curvo. Da dove vengono questi materiali? Hanno un'origine extraterrestre? Vengono forse da quelle regioni centrali della Terra di cui conosciamo così poco la natura fisica da poter dire soltanto, secondo i geologi, che nessuna materia può esistervi, né allo stato solido, né allo stato liquido, né allo stato gassoso? Non so, ma lo sapremo sul posto, presto o tardi. Quello che posso ancora dedurre, per altro, è che questo guscio non può essere completamente chiuso; deve essere aperto in alto per poter ricevere le radiazioni di ogni specie che vengono dagli astri, necessarie alla vita di uomini comuni; deve anche inglobare una massa ragguardevole del pianeta, e certo aprirsi anche verso il suo centro per una ragione simile.



Si alzò per buttar giù uno schizzo su una lavagna.
— Ecco, schematicamente, come possiamo rappresentarci questo spazio; le linee che traccio rappresentano ciò che potrebbero essere, per esempio, le traiettorie dei raggi luminosi; vedete che queste linee direttrici si allargano in qualche modo nel cielo, dove si ricongiungono allo spazio generale del nostro cosmo.
Questo allargarsi si deve produrre a un'altezza tale — molto superiore allo spessore dell'atmosfera — che non si può pensare di penetrare nel «guscio» dall'alto, in aereo o in pallone.



Se ora rappresentiamo il territorio su un piano orizzontale, abbiamo questo schema. Notate che la regione stessa del Monte Analogo non deve presentare alcuna sensibile anomalia spaziale, dato che devono potervi sussistere degli esseri simili a noi. Si tratta di un anello di curvatura, più o meno largo, impenetrabile, che circonda il luogo a una certa distanza con un baluardo invisibile, intangibile; grazie al quale, insomma, è proprio come se il Monte Analogo non esistesse. Supponendo — vi dirò subito perché — che il territorio cercato sia un'isola, rappresento qui la rotta di una nave che va da A a B. Noi siamo su questa nave. In B c'è un faro. Da A, punto un cannocchiale nella direzione del percorso della nave; vedo il faro B la cui luce ha aggirato il Monte Analogo, e non sospetterei mai che tra il faro e me si estenda un'isola ricoperta di alte montagne. Continuo la mia strada. La curvatura dello spazio devia la luce delle stelle e anche le linee di forza del campo magnetico terrestre, in modo che, navigando col sestante e la bussola, sarò sempre convinto di andare in linea retta. Senza dover spostare il timone, la mia nave, curvandosi anch'essa insieme con tutto ciò che si trova a bordo, si adatterà al contorno che ho tracciato sullo schema da A a B. Dunque, anche se questa isola avesse le dimensioni dell'Australia, è ora del tutto comprensibile come nessuno si sia mai accorto della sua esistenza. Vedete?

(…)

Per trovare il modo di penetrare nell'isola, bisogna porre come principio, e lo abbiamo già fatto, la possibilità, anzi la necessità di penetrarvi. La sola ipotesi ammissibile è che il «guscio di curvatura» che circonda l'isola non sia assolutamente — cioè sempre, ovunque e per tutti — insuperabile. In un certo momento e in un certo posto, certe persone (quelle che sanno e che vogliono) possono entrare. Il momento privilegiato che cerchiamo deve essere determinato da un campione di misura del tempo che sia comune al Monte Analogo e al resto del mondo; dunque da un orologio naturale e, molto probabilmente, dal corso del Sole. Quest'ipotesi è fortemente avvalorata da certe considerazioni analogiche ed è confermata dal fatto che risolve un'altra difficoltà. Riportatevi al mio primo schema. Vedete che le linee di curvatura si allargano molto in alto nello spazio. In che modo dunque il Sole, nella sua corsa diurna, potrebbe inviare in continuazione le sue radiazioni all'isola? Bisognerà ammettere che il Sole ha la proprietà di «decurvare» lo spazio che circonda l'isola. Dunque, al suo sorgere e al suo tramontare, deve in qualche modo fare un buco nel guscio, e per questo buco noi entreremo!"

In effetti tutta l’avventura si svolge secondo geometrie non euclidee, con la “curvatura dello spazio” che falsa “tutte le misure, rendendo ogni situazione in bilico tra la fiaba e la teoria scientifica” (così scriveva Claudio Rugafiori nella lunga postfazione della prima edizione di Adelphi nel 1968). Vano è pertanto ogni tentativo di Sogol di dedurre “nozioni precise sulle anomalie causate nella prospettiva cosmica dal guscio di spazio curvo che circonda il Monte Analogo”.

Le biotecnologie e certe tecnologie astronautiche sembrano anticipate nelle soluzioni trovate al problema dei rifornimenti alimentari durante il viaggio per mare e la lunga attesa del momento propizio per giungere sull’isola. Un ingegnoso metodo avrebbe consentito la respirazione ad alta quota:

“L'arte di nutrirsi è una parte importante dell'alpinismo, e il dottore l'aveva portata a un alto grado di perfezione. (…) Beaver aveva inventato un «orto portatile» che non pesava più di cinquecento grammi; era una scatola di mica che conteneva una terra sintetica in cui si piantavano certi semi a crescita estremamente rapida; in media ogni due giorni, ciascuno di questi apparecchi produceva una razione di vegetali verdi sufficiente per un uomo — oltre a dei funghetti deliziosi. Egli aveva anche cercato di mettere a profitto i metodi moderni di coltura dei tessuti (invece di allevare buoi, diceva a se stesso, si potrebbero coltivare direttamente delle bistecche), ma era arrivato a ottenere soltanto impianti pesanti e fragili e prodoti disgustosi; così aveva rinunciato a quei tentativi. Era meglio far a meno della carne.

Con l'aiuto di Hans, d'altra parte, Beaver aveva perfezionato gli apparecchi di respirazione e di riscaldamento che aveva usato sull'Himalaya. L'apparecchio di respirazione era molto ingegnoso. Una maschera di tessuto elastico veniva adattata al viso. Attraverso un tubo l'aria espirata era inviata nell'«orto portatile» dove la clorofilla dei vegetali giovani, iperattivata dalle radiazioni ultraviolette delle grandi altitudini, fissava il carbonio dell'anidride carbonica e restituiva all'uomo l'ossigeno supplementare. Il movimento dei polmoni e l'elasticità della maschera mantenevano una leggera ipercompressione, e l'apparecchio era regolato in modo da assicurare un tasso optimum di anidride carbonica nell'aria inalata. Inoltre i vegetali assorbivano l'eccesso di vapore acqueo espirato e il calore del respiro attivava il loro sviluppo. Così funzionava, su scala individuale, il ciclo biologico vegetale–animale, cosa che permetteva una notevole economia di alimenti. In breve, si realizzava una specie di simbiosi artificiale tra l’animale e il vegetale”.

Elementi di paleontologia, in special modo i calchi fossili e i modelli interni (o forse i resti di corpi riempiti di ceneri vulcaniche come a Pompei e Ercolano) possono essere ritrovati nella Storia degli uomini cavi, una delle più belle pagine di tutto il racconto:

“Gli uomini-cavi abitano nella pietra, dove circolano come caverne vaganti. Nel ghiaccio passeggiano come bolle dalla forma d'uomo. Ma non si avventurano nell'aria, perché il vento li porterebbe via.
Hanno delle case nella pietra con i muri fatti di buchi, e delle tende nel ghiaccio la cui tela è fatta di bolle. Di giorno rimangono nella pietra e di notte errano nel ghiaccio, dove danzano al plenilunio. Ma non vedono mai il sole, altrimenti scoppierebbero.
Non mangiano che il vuoto, mangiano la forma dei cadaveri, si inebriano di parole vuote, di tutte le parole vuote che noi pronunciamo.
Alcuni dicono che sempre furono e sempre saranno. Altri dicono che sono dei morti. E altri ancora dicono che ogni uomo vivente ha nella montagna il suo uomo-cavo, come la spada ha il suo fodero, come il piede ha la sua impronta, e che, alla morte, essi si ricongiungono”.

L’ultima pagina scritta da Daumal e lasciata in sospeso a metà di una frase, dimostra inoltre una sua precoce attenzione alle tematiche ecologiche:

“II vecchio topo che avevo ucciso si nutriva prevalentemente di una specie di vespa che abbondava in quel luogo. Ma, soprattutto alla sua età, un topo di roccia non è abbastanza agile per prendere le vespe al volo; così mangiava soltanto quelle malate e deboli che si trascinavano per terra e volavano via con difficoltà. In questo modo, distruggeva le vespe portatrici di tare o di germi che, per eredità o per contagio, avrebbero diffuso, senza il suo intervento inconsapevole, numerose malattie nelle colonie di quegli insetti. Morto il topo, queste malattie si propagarono rapidamente e, la primavera seguente, non c'erano quasi più vespe in tutta la regione. Ora queste vespe, succhiando i fiori, assicuravano la loro fecondazione. Senza di loro, una quantità di piante che hanno molta importanza nella fissazione dei terreni mobili,”

Nell’aprile 1944, gravemente ammalato di tubercolosi e oramai infermo (sarebbe morto il mese seguente), Daumal ricevette la visita dell’amico André Rolland de Renéville, al quale raccontò come intendeva finire il libro. Nelle sue parole c’è una bellissima descrizione di quella che egli chiamò “una delle leggi del Monte Analogo”, che ritengo possa rappresentare il progredire delle conoscenze umane e, perché no, di quelle scientifiche, come un processo di ascesa in cui degli uomini aprono vie che altri uomini seguiranno, i quali a loro volta ne apriranno altre, in una serie di successivi avanzamenti nei quali la comunicazione è indispensabile, pena il fallimento dell’impresa.

(…) per raggiungere la cima, bisogna andare di rifugio in rifugio. Ma prima di lasciare un rifugio, si ha il dovere di preparare gli esseri che devono venire a occuparvi il posto che si lascia. E solo dopo averli preparati, si può salire più in alto. Per questo, prima di lanciarci verso un nuovo rifugio, abbiamo dovuto ridiscendere per trasmettere le nostre prime conoscenze ad altri ricercatori...”

II titolo del suo ultimo capitolo doveva essere: «E voi, che cosa cercate?».


(Grazie a Aubrey McFato per gli utili link che mi ha segnalato)

giovedì 29 dicembre 2011

Corpo di una moviola! Cattiva fisica al cinema



Questa volta mi metto nei panni di Burberoni, il regista perfezionista della Settimana Enigmistica, ed esclamo anch’io “Corpo di una moviola!”, perché, se il simpatico personaggio è perseguitato da collaboratori pasticcioni che riempiono di errori le sceneggiature delle riduzioni televisive di opere letterarie, noi tutti siamo vittime degli effetti speciali di gran parte dei film d’azione, infarciti di errori di fisica dal primo all’ultimo minuto, ma talmente pervasivi da farci ritenere davvero possibili certe sciocchezze, diventate dei cliché visuali.

Ho deciso di trattare alcuni degli orrori e degli errori più comuni, tralasciando per ovvi motivi il genere comico e quello fantascientifico, che per loro natura sono dichiaratamente anche fanta-fisici (anche se alcuni film di fantascienza, come 2001 - Odissea nello spazio, sono dei bellissimi esempi di ineccepibile rispetto delle acquisizioni più avanzate della materia). Ho anche ignorato i film che contengono combattimenti con arti marziali orientali, alcuni anche di grandi registi, perché la costante sfida alla legge di gravità degli eroi che saltano dalla strada al secondo piano o che incrociano le spade restando sospesi per aria resta per me un mistero pata-fisico non rivelato, per cui rimango in attesa di illuminazione da parte di Chuck Norris o dello spirito di Bruce Lee.

Proiettili che scintillano - Rimanendo in tema di illuminazione, il primo errore da segnalare sono le scintille che si producono dall’impatto di un proiettile su una superficie rigida. L’effetto è molto spettacolare, ma è quasi impossibile. Generalmente i proiettili delle pistole sono fatti di leghe di piombo o da piombo rivestito di rame, che non producono scintille quando colpiscono un’oggetto. Il fatto è ben risaputo dai lavoratori della manutenzione nelle industrie chimiche, che, quando devono intervenire in aree dove sono presenti vapori infiammabili, usano martelli fatti con leghe di rame o di piombo proprio perché non producono scintille, al contrario dei martelli d’acciaio. Le scintille prodotti da questi ultimi, tuttavia, sono scarsamente visibili, anche in ambienti con scarsa illuminazione.

I proiettili si riscaldano quando colpiscono un oggetto. Il caso peggiore si avrebbe se tutta la loro energia cinetica si convertisse istantaneamente in energia termica quando colpiscono il bersaglio, e che questa restasse tutta al loro interno. Ciò è assai improbabile, ma facile da calcolare. Un proiettile di pistola calibro .45, per esempio, ha una massa m di 0,015 kg e una velocità iniziale v di circa 288 m/s (la massima velocità per le munizioni che si trovano in commercio). La sua energia cinetica Ec risulta:



Se tutta questa energia cinetica fosse convertita in energia termica, l’innalzamento di temperatura ΔT può essere calcolato dalla formula:


Dove Q è il calore trasferito all’oggetto (uguale all’energia cinetica), m è la massa e cp è il calore specifico, che per il piombo vale 130 J/Kg•°K.

Si hanno perciò 319° C, che vanno aggiunti alla temperatura ambiente, che poniamo sia di 20°C, ottenendo un valore di 339°C. Il punto di fusione del piombo è di circa 327°C. Per il momento non chiediamoci se il proiettile fonde davvero oppure no, ma a che cosa assomiglierebbe se lo facesse. Il piombo fuso assomiglia all’argento appena lucidato (come quello dei proiettili “utilizzati” nei film per uccidere i lupi mannari), che raggiunge il calor rosso e fonde a 962°C. Il piombo invece non è incandescente quando fonde.

L’analisi sarebbe la stessa per la maggior parte dei proiettili di pistola o di arma automatica. Al contrario, i proiettili di fucile contengono molta più energia cinetica e possono diventare molto più caldi. Se si fanno calcoli simili per i proiettili di fucili potenti, come quelli degli M-16 della NATO, si scopre che nel raggio di tiro c’è abbastanza energia nel proiettile da fondere non solo il suo nucleo di piombo, ma anche il suo rivestimento di rame. La temperatura dei due metalli supererebbe i 1000°C e il proiettile emetterebbe luce di color arancione brillante.

In realtà i proiettili non si comportano come suggerito dai calcoli. La maggior parte dell’energia cinetica lascia il proiettile durante il tragitto. Una parte viene assorbita dall’oggetto colpito, sia come energia d’impatto, sia come deformazione e/o rottura sia del proiettile sia del bersaglio. Inoltre una parte dell’energia viene assorbita da quest’ultimo sotto forma di calore.

I proiettili di uso comune possono produrre scintille solo in casi molto particolari, quando ad esempio colpiscono rocce assai dure i cui frammenti collidendo tra loro generano scintille, oppure se viene colpita una barriera d’acciaio rigido. Si tratta comunque di fenomeni assai poco luminosi, scarsamente visibili con la luce del giorno. I proiettili delle più comuni pistole o dei fucili non sono in grado di generare all’impatto energia statica che provoca scintille.

Diverso è il discorso per i proiettili di uso militare con rivestimento o con nucleo d’acciaio, che possono provocare l’emissione di scintille, ma non si tratta mai degli spettacoli pirotecnici ai quali ci hanno abituato i film. Non c’è alcun motivo per aumentare in modo così poco veritiero la tensione di un conflitto a fuoco, perché basta, ad esempio, riprodurre in modo fedele il rumore dell’impatto delle pallottole contro gli elmetti d’acciaio, come avviene nella scena dello sbarco in Salvate il soldato Ryan per creare un effetto agghiacciante.

Automobili che esplodono - Un altro mistero da chiarire è come mai le automobili, soprattutto nei film americani o nelle mediocri imitazioni europee (sto pensando alla serie tedesca Squadra Speciale Cobra 11), esplodono dopo un incidente o una caduta da una certa altezza, come se il serbatoio non aspettasse altro che un impatto per detonare fragorosamente. Per nostra fortuna non è così, e le automobili sono progettate in modo che ciò non avvenga, persino in America (Marchionne ne prenda nota).

Perché un serbatoio esploda si deve infatti verificare tutta una serie di circostanze che è difficile che possano verificarsi assieme. Persino quando una vettura prende fuoco in un incidente, o viene incendiata di proposito, raramente esplode. Un serbatoio può esplodere se contiene una miscela aria-benzina esplosiva e c’è un’apertura che consente alle fiamme di entrare. Ciò può avvenire se il fuoco agisce sull’esterno del serbatoio, vaporizzando la miscela contenuta, portando a un eccesso di pressione e alla fine alla rottura del serbatoio con conseguente contatto con le fiamme e all’esplosione. Se tuttavia i vapori di benzina escono abbastanza in fretta, il serbatoio non dovrebbe rompersi. La maggior parte degli incendi si origina nel vano motore e non si estende verso la parte posteriore prima che nel frattempo il serbatoio abbia perso benzina verso l’esterno. Perché si verifichi l’esplosione c’è proprio bisogno di fiamme velocissime e di serbatoi che si saturano di vapori invece di perdere benzina verso l’esterno.

La miscela nel serbatoio è di solito troppo ricca per esplodere e ciò esclude la veridicità delle scene troppo ripetute di automobili che esplodono perché il serbatoio viene colpito da un proiettile. Come si è visto, i proiettili in commercio non provocano scintille. Quelli militari con camicia d’acciaio lo fanno, ma è davvero improbabile che vadano a colpire quell’unico serbatoio quasi vuoto su un milione dove è possibile che si formi una miscela aria-benzina potenzialmente esplosiva. E non è detto che le scintille riescano a penetrare nel serbatoio dal foro nella carrozzeria.

Vetri che non feriscono - Sembra che nessuno sceneggiatore si sia mai ferito con un vetro rotto, eppure i frammenti di vetro tagliano come rasoi. Il vetro rotto di una finestra può provocare ferite profonde e copiose emorragie, può anche amputare dita e arti, ma non a Hollywood. Nei film la gente salta attraverso le lastre di vetro come niente, con l’unico inconveniente di doversi spazzolare a mani nude le schegge rimaste sui vestiti.

Il vetro rotto possiede almeno due meccanismi per ferire una persona che si tuffa attraverso una finestra: il suo peso e la sua inerzia. Nel primo caso, le grandi lastre di vetro possono cadere come ghigliottine, amputando parti del corpo. Nel secondo, quando una persona salta o, ancor peggio, guida una moto attraverso una finestra o una vetrina, i frammenti di vetro tendono a rimanere sul posto per inerzia. L’unico modo per spostarli è applicare una forza. Se il corpo della persona fornisce questa forza premendo sulla superficie del vetro, esso può tagliare vestiti, pelle e carne. Nel mondo reale, saltare o guidare attraverso una finestra di vetro può essere un suicidio.

Ci sono persone che sono cadute accidentalmente attraverso delle finestre senza subire serie ferite, d’accordo, così come ci sono persone che sono caduti indenni dal quarto piano, ma si tratta di percentuali irrisorie, mentre nei film d’azione succede quasi sempre così.

Il vetro di sicurezza può essere d’aiuto, perché è progettato per rompersi in frammenti piccolissimi, quindi con basso peso e bassa inerzia, con bordi arrotondati, al contrario di quelli acuminati del vetro normale. Il vetro laminato aggiunge un sottile foglio di plastica tra due di vetro. Ciò serve per mantenere uniti i pezzi di vetro rotto, impedendo che diventino proiettili. I vetri delle automobili sono fatti di uno di questi due tipi. Ciò nonostante, il vetro di sicurezza non è una superficie cedevole: quando in un incidente si batte la testa contro il parabrezza, è facile procurarsi contusioni o rotture di denti e/o ossa del cranio. Gettarsi attraverso un vetro di sicurezza provoca senz’altro meno tagli che farlo attraverso un vetro normale, ma non per questo è operazione priva di inconvenienti, a causa delle ferite da impatto.

I salti attraverso le finestre senza conseguenze appartengono alla peggior categoria di invenzioni dei film d’azione.

Colpi d’armi da fuoco che fanno volare - Un personaggio di un film viene colpito da un proiettile di pistola o di fucile: invece di accasciarsi subito al suolo, viene spinto all’indietro e vola per un paio di metri prima di cadere a terra. Quante volte abbiamo visto questa scena? E quante volte l’abbiamo giustificata pensando alla forza d’impatto del proiettile sparato a grande velocità? Più sopra abbiamo visto qual è l’ordine di grandezza dell’energia cinetica posseduta da un proiettile in arrivo. Siamo ancora sicuri che questa energia sia in grado di spostare in modo così drammatico un corpo di 70-80 Kg?



Raggi laser visibili - Lasciamo stare le spade laser di Guerre Stellari, che in fondo appartengono a una fiaba ben confezionata, ambientata in un mondo fanta-scientifico. Pensiamo invece ai fasci di luce laser che creano un bizzarro intreccio a protezione di un oggetto prezioso, che costringono il protagonista a prodursi in audaci contorsioni per giungere alla meta (chissà perché, poi, hanno tali disposizioni, dato che una rete a maglie regolari sufficientemente ravvicinate impedirebbe ogni tentativo di penetrazione). Oppure pensiamo ai mirini laser dei fucili delle forze di sicurezza di tanti altri film. Il fatto è che il fascio di luce laser non si dovrebbe vedere in un ambiente normale: quello che si vede è solo il puntino colorato alla fine del suo percorso. Ma che ne sarebbe dello spettacolo?

Il raggio laser di bassa energia, come sanno tutti coloro che usano quei piccoli aggeggi attaccati ai portachiavi (compresi due miei allievi di prima che ho fatto sospendere perché li puntavano sugli occhi dei compagni), non è visibile a meno che incontri del fumo, della nebbia o della polvere sottile in un ambiente scarsamente illuminato. Le piccole particelle di queste “nuvole” agiscono come tante superfici riflettenti, che disperdono parte del fascio in tutte le direzioni, compresa quella degli occhi dell’osservatore, con lo stesso meccanismo che produce gli aloni intorno al sole o alla luna. In realtà ciò che si vede sono le particelle colpite dal fascio laser, non il fascio stesso. Il fatto di vederlo indica che sta perdendo energia.

Con una lunghezza d’onda (e alta energia) appropriata, i raggi laser possono rendere incandescente l’aria sul loro cammino. Se un fotone di questi fasci di luce colpisce un elettrone degli atomi che compongono le molecole dei gas dell’aria, esso può salire a un più alto livello energetico. Alla fine l’elettrone torna al livello di partenza, emettendo un fotone. La luce emessa non fa parte però del fascio di luce laser, perché non ha la stessa direzione, ma ha lo stesso colore, cioè la stessa lunghezza d’onda, del raggio che l’ha provocata. In ogni caso, è difficile da vedere in un ambiente illuminato, a meno che il laser non possieda una grande energia, come i laser utilizzati (nella semioscurità) negli spettacoli di molti gruppi musicali.

E i sistemi di sicurezza? Niente di strano: non utilizzano quasi mai luci laser, ma sistemi che impiegano i molto più pratici e meno costosi Led a luce infrarossa.


Quali conclusioni trarre da questi esempi di cattiva fisica nei film? Se ne possono trarre tante, che possono interessare la divulgazione, la didattica, la natura stessa del prodotto cinematografico. Personalmente ritengo che una buona sceneggiatura, una buona regia e attori all’altezza del compito loro assegnato possono rendere assolutamente degno e spettacolare anche un film d’azione, senza dover ricorrere a tali diseducativi artifici.