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mercoledì 13 febbraio 2013

Il chimico, il gas esilarante e la poesia


ResearchBlogging.orgSir Humphry Davy (1778-1829), l’eminente chimico inglese del XIX secolo, è conosciuto oggi soprattutto per la lampada di sicurezza per i minatori. Inoltre egli isolò più elementi di quanti ne fossero stati isolati da qualsiasi altro scienziato fino ad allora, tra i quali il cloro, il magnesio e il potassio. Ciò che oggi è meno noto è il fatto che egli scrisse versi per tutta la vita. Amico dei poeti romantici William Wordsworth, Samuel Taylor Coleridge e Lord Byron, come loro scrisse poesie sulla natura, l’immaginazione e il sublime. I legami tra scienza e letteratura in epoca romantica furono infatti più stretti e fecondi di quanto si è generalmente portati a pensare. Gli sviluppi nella conoscenza del mondo naturale e il contemporaneo progresso delle scienze sperimentali ebbero un forte impatto sulle opere dei letterati, così come i naturalisti utilizzavano con una certa frequenza immagini letterarie e metafore poetiche negli scritti privati e nelle pubblicazioni scientifiche. Il mondo rivelava le sue meraviglie agli uomini di scienza e a quelli di lettere, che spesso si distinguevano solo per una leggera differenza, un clinamen

Dopo un breve apprendistato come medico, nel 1799 Davy iniziò a frequentare l’Istituto Pneumatico a Bristol (Pneumatic Institution for Relieving Diseases by Medical Airs), dove incominciò a farsi conoscere facendo esperimenti con il protossido d’azoto N2O (il gas esilarante) e registrando i suoi effetti nei propri appunti, nelle lettere, nei versi e anche in un testo scientifico.

L’Istituto di Bristol era stato fondato proprio per testare l’efficacia dei nuovi gas che il grande fisico e chimico Joseph Priestley (1733-1804) aveva scoperto e analizzato. Era stato concepito come un centro medico, con annesso un ospedale dove si tentava di curare con i gas i pazienti le cui patologie erano ritenute incurabili, come la paralisi o la tubercolosi. Tramite Thomas Beddoes, che diresse la struttura prima di essere costretto alle dimissioni per le sue idee liberali, Davy entrò in contatto con molti intellettuali, tra i quali Coleridge, che associavano l’uso di gas nella medicina pneumatica a quello che Edmund Burke chiamò il wild gas della libertà in un’epoca di forti sconvolgimenti quali le rivoluzioni in America e in Francia. 

Il contributo specifico di Davy alla medicina fu la scoperta che il protossido d’azoto, chiamato anche ossido nitroso (IUPAC monossido di diazoto), identificato da Priestley nel 1772, non era, come si pensava, mortale quando inalato sotto forma di gas. Nel suo libro Researches, Chemical and Philosophical, Chiefly Concerning Nitrous Oxide, pubblicato nel 1800, egli rilevò che esso attenua considerevolmente la sensazione del dolore, anche quando chi lo assume è ancora semi-cosciente, consigliando il suo utilizzo nella pratica medica. Purtroppo, benché Davy avesse rilevato le sue proprietà anestetiche, passarono altri 44 anni prima che esso fosse utilizzato dapprima nelle estrazioni dentarie e poi nella piccola chirurgia. 

Davy fu molto coraggioso, e anche un po’ incosciente, a respirare il gas esilarante quando tutti temevano che fosse fatale, anche se c’è da dire che egli riporta nel testo anche la cronaca di suoi esperimenti altrettanto azzardati con il monossido di carbonio, l’ossigeno, l’idrogeno e altri gas. In una lettera ad un amico datata 10 aprile 1799 scrisse “Ieri ho fatto una scoperta che prova quanto sia necessario ripetere gli esperimenti”. La sua euforica relazione degli effetti della sostanza – “mi ha fatto danzare come un pazzo per il laboratorio, e da allora ha tenuto acceso il mio stato d’animo” – sembrava promettere grandi cose. Beddoes pensava che il protossido d’azoto potesse offrire il mezzo con il quale “l’uomo può, talvolta, arrivare a comandare le cause del dolore e del piacere, con un dominio tanto assoluto quanto quello che ora esercita sugli animali domestici e sugli altri strumenti del suo comodo”. Nel suo libro, Davy più o meno diceva le stesse cose: “Poiché l’ossido nitroso nella sua azione estensiva sembra capace di distruggere il dolore fisico, esso può probabilmente essere usato con profitto durante le operazioni chirurgiche nelle quali non si ha una grande perdita di sangue”. Il problema era che, in quell’epoca, si attribuiva poco interesse al concetto di anestesia, poiché si riteneva che il dolore fosse una parte importante della chirurgia, se non altro perché dimostrava che il paziente era ancora vivo. È impressionante considerare quanti pazienti avrebbero potuto essere risparmiati da inutili sofferenze nei successivi quattro decenni se Davy avesse proseguito lungo questa strada. 

Tra il maggio e il luglio del 1800, Davy inalò regolarmente protossido d’azoto. Le sue descrizioni di queste esperienze mostrano un certo numero di caratteristiche. Egli espresse sentimenti di “eccitazione estremamente piacevole” lungo le membra, il petto, le mani e i piedi. Spesso evidenziò una “pienezza” nella testa, sostenne che il suo udito e gli altri sensi diventavano più acuti, descrisse un “senso di potenza muscolare”, “un’irresistibile propensione all’azione” e scrisse che “idee nitide mi passavano per la mente”. Egli parlò della sua esperienza con il protossido d’azoto come di un intenso piacere, sebbene esso si manifestasse in maniere differenti: “talvolta (…) battendo i piedi o ridendo, altre volte danzando per la stanza e parlando ad alta voce”. Sembrava che la creatività fosse potenziata: egli descrisse ciò che definì “emozioni sublimi legate a idee molto lucide” e sperimentò fantasticherie di “immaginazione visiva” che occupavano la sua mente prima del sonno. Successivamente al luglio 1800, Davy abbandonò la sua “abituale pratica di inalazione” anche se continuava “a respirare occasionalmente il gas”, talvolta per “il mero piacere”. Davy aveva nuovi interessi, come la pila di Volta, che avrebbe poi usato per isolare il potassio e altri elementi. 

Altri nella cerchia di Davy a Bristol, così come i pazienti dell’ospedale, sperimentarono il gas con risultati simili. Gli effetti del composto furono sperimentati da Coleridge e il poeta Robert Southey, in una lettera indirizzata al fratello il 12 luglio 1799, scrisse che “Davy ha inventato un nuovo piacere per il quale il linguaggio non ha nome”. Cercando le parole per descrivere l’esperienza, un anonimo paziente “paralitico” la collegò a quella della musica, dicendo “Mi sentivo come il suono di un’arpa”. Un industriale laniero di nome Henry Wansey, probabilmente un membro del circolo di Beddoes, descrisse “sensazioni così meravigliose che non le posso paragonare ad altre, tranne quelle che provai (da musicofilo) circa cinque anni fa nell’Abbazia di Westminster ascoltando, in uno dei cori nel Messia, la potenza congiunta di più di settecento strumenti”. James Webbe Tobin, membro del circolo e futuro abolizionista della schiavitù, il cui fratello John era un drammaturgo, paragonò l’esperienza a quella della “rappresentazione di una scena eroica sul palcoscenico, o alla lettura di un sublime passaggio poetico, quando le circostanze contribuiscono a risvegliare i più sottili sentimenti dell’anima”. In tutte queste testimonianze, il gas esilarante sembra abbia fornito una particolare ricettività alle qualità più alte della musica, della poesia e del teatro. 


Tutte queste presunte qualità decretarono il successo del gas, che in effetti era una nuova droga, tra le classi sociali elevate, in cerca di euforia e deboli allucinazioni. Dal 1799 iniziarono i "laughing gas parties", festini a base di gas esilarante che fortunatamente non diventarono un fenomeno allarmante per la scarsa disponibilità della sostanza. I tentativi di Davy di rendere in parole le proprie esperienze con il protossido d’azoto lo portarono a scrivere una poesia che è stata trovata nei suoi appunti. Essa, come altre scritte da lui, non fu mai pubblicata mentre era in vita. Si intitola On breathing the Nitrous Oxide (Respirando l’ossido nitroso): 

Not in the ideal dreams of wild desire 
Have I beheld a rapture wakening form 
My bosom burns with no unhallowed fire 
Yet is my cheek with rosy blushes warm 
Yet are my eyes with sparkling lustre filled 
Yet is my mouth implete with murmuring sound 
Yet are my limbs with inward transports thrill'd 
And clad with new born mightiness round. 

Non nei sogni ideali del desiderio senza confini 
Ho osservato un’estasi che prendeva forma. 
Il mio cuore non brucia di fuochi divini 
Ma il mio viso di caldo rosato s‘informa 
Ma i miei occhi sono pieni di brillanti bagliori 
Ma la mia bocca è piena di suono fremente 
Ma le mie membra tremano di trasporti interiori 
E sono intorno coperte di potenza nascente. 

Per quanto non si tratti di un capolavoro, l’opera offre un resoconto personale e sincero dello stato fisico e mentale del suo autore dopo l’inalazione del gas esilarante. Essa completa gli appunti e il testo scientifico pubblicato, offrendo una visione più intima delle esperienze del grande chimico inglese con la sostanza. Davy ottenne nel 1801 un posto come docente universitario alla Royal Institution di Londra, proseguendo le sue ricerche scientifiche con crescente popolarità. Continuò tuttavia a scrivere centinaia di poesie per tutta la vita.  

(Grazie all’amica Emanuela Zerbinatti che mi ha segnalato l’articolo originale).


Ruston S (2013). When respiring gas inspired poetry. Lancet, 381 (9864), 366-7 PMID: 23383414

martedì 6 novembre 2012

La fisica di Cthulhu


ResearchBlogging.org«Viviamo su una placida isola d'ignoranza in mezzo a neri mari d'infinito e non era previsto che ce ne spingessimo troppo lontano. Le scienze, che finora hanno proseguito ognuna per la sua strada, non ci hanno arrecato troppo danno: ma la ricomposizione del quadro d'insieme ci aprirà, un giorno, visioni così terrificanti della realtà e del posto che noi occupiamo in essa, che o impazziremo per la rivelazione o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e nella sicurezza di una nuova età oscura.» 

(Howard Phillips Lovecraft, Il richiamo di Cthulhu


Nel 1928 fu pubblicato un manoscritto redatto dal defunto Francis Wayland Thurston, in cui si riportavano le conclusioni di un’indagine sconvolgente. Le sue testimonianze, considerate assieme a quelle riportate dal Dr. William Dyer dopo la sua spedizione del 1930-31 sul continente antartico, disegnano un quadro incredibile, secondo il quale nelle profondità del Pacifico meridionale abita una razza dormiente di antichi mostri ciclopici.  

Sia il testo di Thurston sia quello di Dyer furono accolti con grande incredulità. I resoconti delle avventure di Dyer in Antartide sono stati archiviati come allucinazioni indotte da un edema cerebrale dovuto all'altitudine. Il manoscritto di Thurston è stato spesso interpretato come l’opera creativa di una mente paranoica in preda a qualche tragico delirio. Egli trascorse l’anno prima della sua morte (e della pubblicazione del suo manoscritto) vittima di un’ossessione maniacale che lo esaurì mentalmente e fisicamente. 

Non è cosa strana che queste due persone abbiano raccontato storie simili. Entrambi, come risulta evidente dai rispettivi resoconti, conoscevano bene il culto di Cthulhu. Se vogliamo credere che i due fossero davvero allucinati, è certo che la conoscenza della mitologia di questo culto sia servita come alimento per le loro fantasie. Per di più, le due storie considerate assieme si avvalorano a vicenda. Uno scettico potrebbe giustamente concludere che, poiché entrambe le illusioni si svilupparono dalla stessa fonte, è naturale che esse si giustificassero reciprocamente. Inoltre, Dyer era professore di geologia alla Miskatonic University, a quei tempi rifugio di accademici occultisti. Non è infine irragionevole chiedersi se Dyer conoscesse direttamente gli scritti di Thurston prima di partire per la sua fatidica spedizione. 

Tra le cose di interesse raccolte da Thurston a sostegno della sua tesi è degna di nota la testimonianza di Gustaf Johansen, un marinaio norvegese che raccontò la sorte della Emma, una goletta neozelandese. Johansen era il capitano in seconda della nave, ed è stato descritto dal Sydney Bulletin come uomo sobrio e di una qualche intelligenza. 

Johansen descrisse una vicenda, capitata tra il 22 marzo e il 12 aprile 1925, nella quale egli e il suo equipaggio scoprirono un’isola non segnata sulle mappe, dove tutti tranne lui incontrarono la morte. La perdita della Emma e la scomparsa del suo equipaggio sono ben documentati, e gli studiosi che hanno studiato il documento di Johansen hanno confermato che fu scritto di suo pugno. Per questo possiamo essere certi dell’affidabilità dei documenti di Thurston. 

Ciò nonostante, anche se il documento è vero, quanto lo sono le parole che vi sono scritte? Da una parte, i dettagli della sua esperienza sono veramente straordinari e incredibili, e, nel momento del suo salvataggio, Johansen era fuori di senno. D’altra parte, molte circostanze associate all'evento diedero alla storia un certo grado di credibilità. Nel presente articolo si sostiene che la scienza moderna può dare una spiegazione delle descrizioni apparentemente insensate del marinaio, che potrebbe essersi imbattuto in una regione di curvatura anomala dello spazio-tempo. La geometria dello spazio-tempo possiede infatti tutte le proprietà che, esaminate singolarmente, possono spiegare l’enigmatica esperienza di Johansen e giustificare le sue parole.

Nel raccontare le sue avventure sull'isola, Johansen rileva diverse volte le spaventose caratteristiche geometriche del posto. Thurston le descrive come non-euclidee. Di solito, il suo uso del termine è interpretato come riferito all'architettura degli edifici , ma questa interpretazione ortodossa potrebbe essere sbagliata. Nessuno infatti definirebbe anche il più ardito progetto architettonico come angosciante o ciclopico. L’interpretazione ortodossa ritiene che Johansen stia descrivendo un’architettura che può essere disegnata con linee curve su un piano. È invece più corretto pensare a linee rette su una superficie curva: non sono le pareti degli edifici dell’isola a possedere curvatura, ma lo spazio stesso. 

Se le straordinarie esperienze di Johansen sono davvero dovute alla curvatura dello spazio-tempo, allora in quale modo è curvato? Un dettaglio della sintesi di Thurston ci fornisce un’informazione fondamentale:

... Johansen giura che [Parker] fu inghiottito da un angolo di muratura che non avrebbe dovuto essere in quel posto; un angolo che era acuto, ma si comportava come se fosse ottuso. 

È evidente che Johansen descrive un evento nel quale il suo compagno è passato tra una trave rettilinea (o  una colonna o una parete) e il terreno (o qualche altra superficie sufficientemente piana). La sua sorpresa è determinata dall'ampio spazio tra la trave e il terreno. Siccome è ragionevole supporre che le rispettive superfici abbiano solo piccole curvature intrinseche, l’anomalia non risiede nelle pareti, ma piuttosto nella natura dello spazio del luogo, che possiede esso stesso una curvatura. 

Siamo abituati a uno spazio privo di curvatura: le relazioni e le leggi che descrivono linee, superfici e volumi sono quelle stabilite da Euclide molti secoli fa, per questo uno spazio piatto è detto euclideo. Al contrario, le leggi geometriche che riguardano linee, aree e volumi in uno spazio curvo sono definite non-euclidee

Nella geometria euclidea, con curvatura assente (Ω0 = 1) l’area triangolare compresa tra due rette che si intersecano secondo un angolo acuto ϑ sarà Apiatta = ½ ℓ2 tan(ϑ), dove è la lunghezza del segmento alla base del triangolo (secondo Euclide, le due rette si incontrano in un solo punto e uno solo).  

Invece, nella geometria ellittica, con curvatura costante positiva (Ω0 > 1), come avviene ad esempio sulla superficie di una sfera, le rette si comportano localmente come cerchi massimi sulla sfera. Così, due rette qualsiasi sono destinate a incontrarsi in due punti, e l’area del triangolo tra tali due linee deve soddisfare Aellittica < ½ ℓ2 tan(ϑ). Se lo spazio sull'isola di Johansen avesse una curvatura ellittica, la sua sorpresa si sarebbe riferita al piccolo spazio tra la trave e il terreno a parità di angolo di intersezione, mentre è avvenuto il contrario. 

La terza geometria spaziale possibile è detta iperbolica, con curvatura costante negativa (Ω0 < 1), come avviene sulla superficie di una sella. In tale situazione, le linee rette locali giacciono come iperboli sulla sella. Nella geometria iperbolica, due linee che si intersecano in un punto si allontanano con ragione maggiore di quanto farebbero nella geometria euclidea. L’area compresa tra due di queste linee deve soddisfare Aiperbolica > ½ ℓ2 tan(ϑ). È proprio questo il caso che si verificato sull'isola di Johansen: l’area tra la trave e il terreno, più grande del previsto, è giustificata da una geometria iperbolica. 

La curvatura dello spazio-tempo ha molte conseguenze ben conosciute. La più comune di esse è poeticamente descritta come lente gravitazionale. Un esempio di questo effetto nell'esperienza di Johansen è contenuto in una citazione (dal compendio di Thurston):

Una porta colossale … essi non sapevano decidere se essa era piana come una botola o obliqua come la porta esterna di una cantina… la geometria del posto era tutta sbagliata. Non si poteva essere sicuri che il mare e il suolo erano orizzontali, quindi la posizione relativa di ogni cosa sembrava spettralmente variabile… tutte le regole della materia e della prospettiva sembravano sconvolte. 

Da questa descrizione risulta chiaro che i raggi luminosi, che ci aspetta siano rettilinei, sono curvati in modi inattesi. Mentre vagano sull'isola, i marinai vedono il mondo esterno (e altri oggetti distanti sopra l’isola) come attraverso una grande boccia per pesci. Così, l’orizzonte non è più diritto, e il sole e la luna fluttuano disordinatamente nel cielo a seconda della posizione dell’osservatore. Il fatto è sufficiente a portare alla pazzia un esperto in navigazione. L’ipotesi che è lo spazio-tempo stesso a essere curvo (e non invece la forma degli edifici) consente di decifrare l’enigma della grande porta. 

Allora Donovan la toccò delicatamente intorno al bordo, premendo ogni punto separatamente man mano che procedeva. Egli si arrampicò interminabilmente sulla grottesca modanatura di pietra – a dire il vero la si chiamerebbe chiamata arrampicata se la cosa non fosse stata dopo tutto orizzontale – e gli uomini si chiedevano se nell'universo fosse esistita una porta tanto grande come quella. 

La porta, ispezionata accuratamente da vicino, sembrava piatta in ogni punto della sua superficie. Tuttavia, guardata da più lontano, e confrontata con gli oggetti posti alla sua periferia, essa presentava un quadro incoerente riguardo alla sua curvatura e alla sua dimensione. Questo fatto, inquietante per un marinaio, può trovare una giustificazione nel campo della geometria spazio-dimensionale. Estratte dal loro contesto avventuroso, queste parole sembrano descrivere assai bene il fenomeno di lente gravitazionale, in cui l’immagine di oggetti situati al di là di una regione incurvata diventerà deformata e distorta in quanto la gravità incurva le traiettorie dei raggi luminosi. 

In uno spazio-tempo curvo, i raggi luminosi non viaggiano lungo traiettorie rettilinee, e di conseguenza il campo visuale non è più uno strumento affidabile per descrivere le posizioni relative degli oggetti o l’appiattimento di un oggetto esteso. 

Gli effetti descritti da Johansen fanno pensare alla presenza di un’anomalia spazio-temporale sull'isola, alla quale comunemente ci si riferisce con il termine di bolla. La sua esistenza presuppone uno spazio-tempo che consiste di due regioni: una regione sferica interna con curvatura spaziale iperbolica e una regione piatta esterna, con una zona di transizione più o meno regolare. Questa bolla evolve nel tempo fino a un raggio massimo che vale: 
dove il parametro b determina come la bolla sia estesa nel tempo e W determina la larghezza massima della bolla nello spazio. L’evoluzione della bolla spazio-temporale può essere descritta come segue. Al tempo t = −W/b, la bolla di curvatura si espande dal punto r = 0 e continua l’espansione fino a che raggiunge il suo raggio massimo r = W al tempo t = 0. Il raggio della bolla poi inizia a contrarsi, e si restringe al punto r = 0 al tempo t = W/b

Volendo assegnare un valore numerico ai parametri utilizzati, utilizziamo b = 1/40, che dà alla bolla la forma di uno sferoide allungato nello spazio-tempo e W = 5, che stabilisce che il massimo raggio della bolla si collochi alle coordinate r = 5. 

Si può ritenere che forse una bolla di curvatura simile a questa abbia avvolto l’isola non cartografata di Johansen. Non è chiaro dalla sua descrizione a quale stadio dell’evoluzione della bolla egli l’abbia incontrata, se e a quale velocità la bolla si stava espandendo o contraendo. Non è neppure chiaro quanto fosse grande, o il grado in cui l’interno fosse spazialmente curvato. 

Per dimostrare come siano possibili esperienze come quelle riferite da Johansen, chiediamoci come apparirebbe il mondo esterno a un osservatore posto all'interno dello spazio curvo. Consideriamo il caso rappresentato in figura. 


Sull'isola, posta al centro di una bolla spazio-temporale, l’osservatore A è posto al raggio r = 1 e si trova a ovest del centro della bolla. L’osservatore B si trova invece a 30° nord-ovest dal centro. Utilizzando il calcolo numerico, generalizzeremo gli effettivi panorami visti dagli osservatori A e B e per l’osservatore posto a r = 2 lungo gli stessi raggi luminosi di A e B. In questo modo potremo dimostrare che l’effetto della lente cambierà man mano che ci si muove dal centro dell’isola. Per aumentare i riferimenti, ci sono tre oggetti geometrici posti sull'isola: un grande monolite (a nord-ovest), una grande sfera (a nord-est) e un alto cono, più vicino agli osservatori. Il cono si trova vicino agli osservatori e la sua immagine subirà una piccola deformazione, mentre tutti gli altri oggetti, che sono lontani, subiranno in pieno l’effetto della geometria dello spazio-tempo. Oltre la costa si trova l’oceano, sopra il quale si trova una nave (a sud-est). Nel cielo ci sono alcune nuvole. Sopra l’orizzonte di 5° il sole sta sorgendo a est, mentre la luna piena è posta a ovest, anch'essa di 5° sopra l’orizzonte. 

Nella prima illustrazione sono mostrati i panorami visuali da A e da un raggio più ampio. In (a) è mostrato quello in assenza di bolla spazio-temporale, senza lente gravitazionale, in (b) quello visto in A e in (c) quello visto da una posizione più vicina alla linea di costa. Le direzioni cardinali sono illustrate. Si noti come sia accentuato l’effetto della lente al procedere verso la costa. 


Nella seconda illustrazione sono mostrati i panorami visuali da B e da un raggio più ampio, con le stesse modalità. 


Un enigmatico dettaglio dell’avventura di Johansen riguarda il come egli sia potuto sopravvivere nel periodo tra lo sbarco sull'isola e il suo salvataggio. La sintesi di Thurston sostiene che la Emma raggiunse l’isola il 22 marzo. Johansen, rimasto solo, ripartì solo dopo la tempesta del 2 aprile e, dopo un viaggio da incubo, fu recuperato il giorno 12 in uno stato di estrema agitazione. Secondo la cronaca dei fatti, egli sarebbe sopravvissuto per un periodi di 10-15 giorni in uno stato di estrema allucinazione che gli impedì di bere, mangiare e prendere sonno. Tutto ciò sarebbe impossibile, a meno di ipotizzare che egli potrebbe aver sperimentato una dilatazione del tempo. Uno degli effetti della curvatura dello spazio-tempo è infatti che, detto semplicemente, nella bolla il tempo scorre più lentamente. È ragionevole pensare che, mentre nel mondo esterno passarono due settimane, Johansen possa aver vissuto solo una manciata di ore o giorni nel corso della sua bizzarra avventura. 

Le leggi della fisica relativistica ci dicono che il tempo all'esterno della bolla scorre in modo esponenzialmente più veloce che al suo interno. Ciò può significare che eoni innumerevoli all'esterno della bolla corrispondano a pochi momenti all'interno di essa. 

A questo punto bisogna affrontare il rischio di avventurarsi in terreni scientificamente infidi per cercare di spiegare l’ultima questione irrisolta. Secondo uno dei concetti fondamentali del culto di Cthulhu, la ciclopica e mostruosa divinità ottopode risiede in una città posta negli abissi dell’oceano, in attesa di tornare a riprendersi il potere che fu profetizzato. Il mito descrive l’entità come né viva né morta. Naturalmente (meccanica quantistica e gatti a parte), l’idea può apparire priva di senno. Tuttavia, con un vocabolario più sofisticato, si potrebbe dire che Cthulhu è in uno stato in cui non avverte il passare del tempo, al centro stesso della bolla spazio-temporale, la cui origine può derivare solo dalla presenza di materia dalle caratteristiche totalmente aliene da ciò che la scienza umana conosce. 


NOTA: Il testo originale è ispirato alla terza parte del racconto Il richiamo di Cthulhu (1928) di Howard Phillips Lovecraft. Di proprietà fisiche anomale nel Pacifico meridionale mi sono occupato anche in La scienza nel Monte Analogo, a proposito del capolavoro di René Daumal.

Benjamin K. Tippett (2012). Possible Bubbles of Spacetime Curvature in the South Pacific ArXiv: 1210.8144 arXiv: 1210.8144v1

giovedì 25 ottobre 2012

Storie di analisi dimensionale e di leggi di scala


ResearchBlogging.orgL’analisi dimensionale è uno strumento utilizzato per trovare o verificare relazioni tra grandezze fisiche utilizzando le loro dimensioni, che sono associate a simboli come M, L, e T (rispettivamente per massa, lunghezza e tempo), ciascuna elevata a un esponente razionale. Queste, con quelle per l'intensità di corrente (I), la temperatura assoluta (Θ), la quantità di sostanza (N) e l'intensità luminosa (J), costituiscono le cosiddette grandezze fondamentali. Tutte le altre grandezze fisiche possono essere espresse come combinazioni (prodotti) di queste, e sono perciò considerate derivate. Ad esempio, la velocità è dimensionalmente un rapporto tra una lunghezza e un tempo, e si può esprimere come [v] =LT-1, oppure una forza si esprime in meccanica come il prodotto di una massa M per una accelerazione, che dimensionalmente è una lunghezza diviso il quadrato del tempo. Perciò: [F] = MLT-2.

Come si vede, il concetto di dimensione è più astratto di quello di unità di misura: la massa è una dimensione di una grandezza, mentre il kilogrammo è una unità scalare di misura nella dimensione della massa. Analogamente, nella dimensione della forza, si utilizza il newton come unità scalare di misura. Si tratta di concetti diversi: le unità di misura di una quantità fisica sono definite per convenzione e fanno riferimento a qualche standard (ad esempio nel Sistema Internazionale la lunghezza viene misurata in metri, dove il metro è definito come la distanza percorsa dalla luce nel vuoto in un intervallo di tempo pari a 1/299.792.458 di secondo). Una lunghezza può essere misurata in chilometri, micron, miglia, pollici, anni-luce, ma ha sempre dimensione L, indipendentemente dall'unità scelta per misurarla. In ogni caso, le leggi della fisica sono indipendenti dal sistema di unità di misura utilizzato nella loro espressione.

Le dimensioni possono essere trattate come grandezze algebriche, cioè le grandezze possono essere sommate o sottratte fra loro solamente se hanno le stesse dimensioni (non si può sommare un tempo con una velocità). Inoltre, poiché una legge fisica deve essere indipendente dalle unità di misura delle variabili, una semplice conseguenza è che in ogni equazione (o disequazione) fisica i due membri devono avere la stessa dimensione.

Dal punto di vista matematico, i simboli dimensionali, come L, formano un gruppo, che ha la sua identità, L0=1, l'inverso, 1/L o L-1; inoltre L elevato a qualsiasi esponente razionale p è un membro del gruppo, che ha come inverso L-p o 1/L elevato allo stesso esponente p. L'operazione del gruppo è la moltiplicazione, con le normali regole per trattare gli esponenti.

Esiste anche il gruppo 1, quello delle quantità prive di dimensioni. Il gruppo adimensionale è una quantità che descrive un determinato sistema fisico, ed è un numero senza alcuna unità fisica, un numero puro. Esempi di questo gruppo sono il numero di Avogadro in chimica o il numero di Fourier nella conduzione del calore. Tale gruppo viene generalmente definito come prodotto o rapporto di opportune quantità dimensionali, in modo tale che il risultato sia privo di dimensione. In questo modo si ottengono numeri adimensionali che hanno ordine di grandezza unitario e tali che, rapportando due numeri adimensionali qualsiasi, è possibile ottenere una misura dell'importanza relativa dei fenomeni cui i numeri fanno riferimento. Quantità adimensionali si possono ottenere anche integrando alcune equazioni differenziali.

La riduzione o l’eliminazione delle dimensioni è consentita dal teorema di Buckingham, che, nella sua forma più semplice, afferma che ogni legge fisica può essere espressa come una identità che implica solamente combinazioni (rapporti o prodotti) prive di dimensioni delle variabili coinvolte dalla legge. Conseguenza fondamentale del teorema è che possiamo studiare il medesimo problema usando un numero inferiore di variabili, eliminando le dimensioni delle grandezze secondarie, riducendole alle essenziali grandezze numeriche (i "veri" parametri fisici).

Questo è il pregio principale dell’analisi dimensionale: essa consente di verificare la plausibilità di calcoli ed equazioni, ma soprattutto di formulare ipotesi ragionevoli riguardo a problemi fisici complessi, concentrandosi sulle grandezze (e i numeri) davvero fondamentali e non considerando le altre. Essa è largamente utilizzata in gran parte dei settori scientifici: matematica, fisica, chimica, ingegneria, biologia, ecc., ma anche nell’economia e nella finanza.

L’analisi dimensionale è uno strumento fondamentale anche nei problemi di scala, perché tutte le quantità adimensionali (o scalari), e le leggi fisiche che ne derivano, sono invarianti per la scala. Ecco alcuni esempi e qualche considerazione, che riprendo dall’articolo Of Bombs and Boats and Mice and Men. A random tour through some scaling laws di Niall MacKay, che verrà pubblicato su Mathematics Today.

L’energia di Trinity - Poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, la Commissione per l’Energia Atomica americana diffuse un filmato di Trinity, il primo test di una bomba a fissione nucleare, effettuato ad Alamogordo, nel deserto del New Mexico, il 16 luglio 1945, venti giorni prima dell’attacco a Hiroshima. Dopo i lavori di preparazione alla torre su cui era collocata la bomba, dal minuto 8:50 si può vedere la drammatica ripresa dell’esplosione:

 

Nel 1947 furono anche pubblicati dei fotogrammi del filmato dell’esperimento, ciascuno associato dal fisico Julian Ellis Mack a un tempo t dallo scoppio, espresso in millisecondi. La quantità di energia rilasciata rimaneva segreta, anche perché era stata calcolata con molte difficoltà. Gli americani rimasero pertanto assai sorpresi quando, nel 1950, l’esperto britannico di meccanica dei fluidi Geoffrey Taylor pubblicò l’articolo The formation of a blast wave by a very intense explosion, la cui seconda parte conteneva una stima accurata dell’energia rilasciata basandosi semplicemente sulle immagini. L’episodio divenne quasi mitico e fu abbellito da particolari assai dubbi, come l’allarme della CIA, il sospetto che egli potesse essere venuto in possesso di documenti riservati, la perquisizione della sua abitazione nel bel mezzo della notte per rovistare tra le sue carte.


Oggi sappiamo che la tecnica utilizzata da Taylor non aveva nulla di segreto, essendo basata sull’analisi dimensionale. Supponiamo che, al tempo t, il raggio r dell’onda d’urto dipenda solo da t, cioè dal tempo trascorso dalla detonazione, dalla densità dell’aria ρ e dall'energia E rilasciata (indipendentemente dalla natura della sua causa). L’energia equivale a una massa moltiplicata per una velocità al quadrato, in termini dimensionali: [E] = ML2T−2. La densità può essere espressa come una massa divisa per un volume, cioè [ρ] = ML−3. Per cancellare la massa, combiniamo le due espressioni con il rapporto E/ρ. Si ottengono le dimensioni [E/ρ] = L5T−2, in modo che, per ottenere la lunghezza, dobbiamo considerare l’espressione (Et2/ρ)1/5 e, infine,
 
Dove C è una costante adimensionale, universale per questo tipo di onde d’urto, che può essere ottenuta dallo studio delle onde di esplosioni convenzionali. Utilizzata assieme a immagini come quella della figura, che fornisce lunghezze e scale dei tempi, questa formula permise a Taylor di ottenere una buona stima di E, che egli indicò in 16.800 tonnellate di tritolo equivalenti (16,8 chilotoni). Il calcolo, che colpisce particolarmente per l’inaspettata comparsa dell’esponente 1/5, può sembrare semplice, ma l’analisi dimensionale di Taylor fu il frutto di uno studio pluriennale assai più profondo, che comprendeva le equazioni differenziali alle derivate parziali (EDP) e un’attenta analisi della fisica coinvolta.

I tempi di cottura al forno – Un altro esempio di analisi dimensionale riguarda i tempi di cottura. Quanto tempo in più ci vuole per cuocere un tacchino di 5 Kg rispetto a un fagiano di 1 Kg? La maggior parte delle ricette fornisce una formula lineare, con i minuti di cottura in funzione della massa, più un tempo fisso. Tuttavia questa è solo un’approssimazione di un problema di ordine di grandezza che può essere affrontato con l’analisi dimensionale. Supponiamo che i due uccelli siano simili come forma, con carne simile che cuoce allo stesso modo, e che i loro centri raggiungano la stessa temperatura per essere cotti a puntino. Allora il tempo di cottura t dipende dalla distanza l dal centro alla superficie e da un solo parametro fisico, la diffusività termica ĸ. Questa è associata all'unica legge della fisica microscopica che serve per risolvere il problema, l’equazione del calore, un'equazione differenziale alle derivate parziali che modellizza l'andamento della temperatura in una regione dello spazio sotto opportune condizioni. Secondo tale equazione, la velocità di variazione della temperatura è proporzionale (attraverso ĸ) al suo operatore di Laplace, così che [ĸ] = L2T−1 (infatti nel Sistema Internazionale ĸ, come tutti i coefficienti di diffusione, è misurata in m2/s). Non ci interessa conoscere precisamente come ĸ dipenda dalla conducibilità termica, dalla densità e dalla capacità termica della carne. Ci interessa invece che l’equazione del calore ci dà che t l2/ĸ. Siccome la massa degli uccelli è m l3, abbiamo che t = C’m2/3/ĸ, dove C’ è una costante priva di dimensioni. Così, se il tempo di cottura del fagiano tf è ≃ 1h, allora:

 
 e il tempo di cottura del tacchino è 52/3 ≃ 3 ore.

L‘analisi dimensionale è legata in modo sostanziale al concetto di riscalamento, che è fondamentale nella matematica applicata. Ad esempio, supponiamo di voler portare un esperimento chimico di laboratorio alla scala di un processo industriale. Se la reazione produce calore, è evidente che l’apparecchiatura non può semplicemente essere una replica identica e ingrandita di quella di laboratorio, poiché il calore prodotto in più (in proporzione al volume dei reagenti) non sarà compensato dalla capacità di dissiparlo in sicurezza (in proporzione alla superficie laterale del reattore). Piuttosto dovremo identificare le grandezze adimensionali che caratterizzano il problema e mantenerle invariate durante il cambio di scala.

Topi e orsi in caduta - Certe volte nella scienza divulgativa si dà l’idea che l’invarianza di scala sia spesso una proprietà delle reti ramificate. Così, ad esempio, un ramoscello ha la stessa architettura di un albero. In realtà la possiamo trovare in qualsiasi processo che sia invariante nel riscalamento di una grandezza dimensionata. È notevole come scali bene la struttura di base dei mammiferi: il topo (m ∼20 g) e l’orso (∼200 kg, anche se nella foto fa il ritroso) condividono la stessa architettura, sebbene la loro massa differisca di quattro ordini di grandezza.

Quali leggi di scala si possono allora applicare in generale ai mammiferi? In un classico saggio, On being the right size, J. B. S. Haldane (1929) notò che ‘Si può gettare un topo in un pozzo di miniera di mille iarde ed esso, giunto in fondo, dopo un piccolo shock, se ne va via, a patto che il terreno sia abbastanza soffice”. Consideriamo allora la velocità terminale di caduta: quando un corpo cade liberamente in un fluido come l’aria, acquista velocità per effetto dell'accelerazione di gravità. Nel suo procedere in questo moto, il corpo incontra la resistenza del fluido che lo rallenta. Questa resistenza aumenta con il crescere della velocità del corpo. Ad un certo punto si verificherà che la forza di gravità e la resistenza dell'aria avranno la stessa intensità. Da quell'istante in poi il corpo, soggetto ad una risultante di forze nulla, procederà ad una velocità costante, detta appunto velocità terminale di caduta. In che modo essa è in relazione con la massa? 

Supponiamo uno scalamento auto-simile, in modo che per un animale di lunghezza di scala l si abbia m l3. La resistenza dell’aria è proporzionale alla superficie della sezione perpendicolare alla direzione del movimento (cioè a l2) e al quadrato della velocità v. Allora, alla velocità limite, con la resistenza dell’aria che bilancia la gravità, abbiamo l2v2 l3 e quindi v l1/2m1/6. Se la velocità limite dell’orso è più o meno di 67 m/s, allora quella del piccolo roditore è circa 13,5 m/s. Come disse lo stesso Haldane: “Il topo muore, l’uomo si rompe, il cavallo va in pezzi”. Certo che Haldane poteva evitare di pensare di far cadere animali, ma la sensibilità in questo campo dipende dai tempi e dai luoghi in cui si vive.

Niall MacKay (2012). Of Bombs and Boats and Mice and Men: A Random tour through some scaling laws Mathematics Today arXiv: 1210.5067v1

venerdì 5 ottobre 2012

Anderson e la nova scomparsa


ResearchBlogging.orgNella notte del 9 maggio 1923 l’astrofilo scozzese Thomas David Anderson (1853-1932), allora settantenne, stava osservando i campi stellari della costellazione del Cigno quando notò con sorpresa una stella che non aveva mai visto prima. Nei giorni successivi inviò un telegramma a R.A. Sampson, Astronomo reale per la Scozia presso l’Osservatorio di Edimburgo:

Nova Cygni, mezzo grado a Nord, seguendo 70 Cygni, quinta magnitudine. Più luminosa di 70, ma meno di 72. Prima stima della posizione con un binocolo. Ascensione retta 21 gradi, 25 min, 25 sec. Declinazione Nord 37 gradi, 6 min. Anderson, Thurston Mains, Innerwick”

Un analogo telegramma fu inviato all’Osservatorio Reale di Greenwich. Una nova nella Costellazione del Cigno: sembrava l’ennesima grande scoperta di Anderson, che non era nuovo a imprese simili. Inaspettatamente, tuttavia, il giorno seguente l’astronomo di Greenwich W. H. Steavenson, fece alcune fotografie della zona di cielo indicata, ma le lastre non rivelarono alcuna traccia di nuovi oggetti celesti di magnitudine superiore alla dodicesima. Altre fotografie, scattate dagli astronomi di varie parti del mondo nei giorni successivi, non rilevarono alcuna variazione significativa rispetto a ciò che si conosceva. 

L’opinione della maggioranza degli astronomi fu che Anderson aveva preso un abbaglio, fatto che poteva capitare anche a un esperto osservatore del cielo come lui, forse a causa dell’età. Altri, sulla base della reputazione del grande dilettante, non riuscivano neanche a immaginare che un uomo con una così approfondita conoscenza del cielo notturno potesse aver commesso un errore così grossolano. Sì, perché Anderson aveva credibilità da vendere. 

Thomas David Anderson
Anderson era noto nella comunità astronomica britannica e internazionale per aver scoperto tre novae (Nova Aurigae nel 1891, Nova Persei nel 1901 e Nova Aquilae nel 1918), una cometa (17P/Holmes nel 1892, per la quale fu preceduto di soli due giorni dal londinese Edwin Holmes) e più di cinquanta stelle variabili. L’accuratezza e la serietà delle sue osservazioni, condotte nell'arco di una vita interamente dedicata alle stelle, erano fuori discussione. Di famiglia agiata, si era laureato in lettere ed era diventato predicatore della Chiesa Congregazionista scozzese, attività e missione che aveva abbandonato dopo pochi mesi per potersi dedicare completamente alla sua passione astronomica: nella sua lettera di dimissioni aveva scritto di non poter più essere in grado di scrivere i sermoni a causa di una forte miopia! Nel 1902 era stato insignito della medaglia Jackson-Gwilt della Royal Astronomical Society. Quando si recò a Londra per ritirarla, dichiarò di non considerarsi un astronomo ma un appassionato astrofilo. Si diceva che conoscesse a memoria l’intera volta celeste. 

Torniamo agli avvenimenti di quella notte primaverile del 1923, dei quali Anderson fornì un resoconto in una lettera inviata quattro giorni dopo all'Astronomo Reale, sir Frank Dyson: 

(…) con mia grande sorpresa (…), puntando lo strumento verso 69 e 70 Cygni, invece di due stelle ne vidi tre, disposte in linea retta, con l’eccezione di B (quella centrale), che era leggermente spostata verso Sud, e la distanza di ogni stella dalla sua vicina era circa di mezzo grado (…). Si trattava di stelle di magnitudine tra la quinta e la sesta, con A più brillante di B, e B di C.” 

A questo punto il vecchio astrofilo commise allora un banale errore procedurale, che doveva costargli caro:

“Dopo aver subito lo shock inevitabile nelle occasioni in cui si assiste a un grande rivolgimento nella natura, feci una cosa stupida. Mi affrettai in casa, dal sentiero esterno dove stavo, per poter annotare il tempo esatto della mia osservazione (…) invece di accertarmi subito per mezzo delle adiacenti stelle più deboli quali delle tre fossero 69 e 70 e quale la nuova arrivata. Quando tornai di nuovo fuori per scrutare il cielo, tutta la metà del Cigno era, ahimè, coperta di nuvole, che si erano spostate da sud in una lunga e faticosa cavalcata.” 

Dopo aver considerato il problema con l’aiuto di alcuni atlanti e cataloghi stellari, Anderson giunse alla conclusione che la nova era A, la più brillante delle tre stelle che aveva visto. Si decise allora di mandare i telegrammi di cui abbiamo parlato. Poi cambiò idea, e decise che era “abbastanza certo che la nova era C” e inviò una nuova coppia di telegrammi con la posizione ritenuta corretta. 

Esplosione di una nova

La mancanza di prove osservazionali di una nova nella costellazione del Cigno sollevò la discussione riguardo a possibili spiegazioni della sua scomparsa. Con il passare dei giorni, la maggior parte degli astronomi si convinse che Anderson aveva commesso un errore e anche i suoi primi difensori, come Sampson e lo stesso Dyson, dovettero arrendersi all'evidenza dei fatti, almeno alla luce delle conoscenze astronomiche dell’epoca. Il tempo smorzò il dibattito, e, in assenza di ogni prova, la scoperta fu dimenticata. Anderson continuò a dichiararsi convinto di aver visto una nuova stella, sebbene essa “si fosse spenta con miracolosa rapidità”, ma pian piano il suo nome fu dimenticato e la sua morte nel 1932 passò pressoché inosservata. 

Anderson aveva visto un oggetto che egli considerò una stella della quinta o sesta magnitudine, che in 24 ore era scesa a meno della dodicesima: con la terminologia moderna parleremmo di transiente ottico. Egli era convinto di aver visto una nova con velocissimo tempo di spegnimento, il più veloce fino ad allora mai rilevato. In realtà, anche oggi, i tempi di decadimento di una nova sono normalmente considerati dell’ordine di giorni o settimane, pertanto la sua idea può essere tranquillamente scartata. Assai probabilmente non aveva visto una nova, ma, ammettendo per ipotesi che egli non avesse commesso errori macroscopici nella sua osservazione, potrebbe aver visto qualcosa di diverso? Negli anni ’20 del Novecento, oggetti dal così rapido declino erano considerati impossibili, ma le nostre attuali conoscenze astronomiche consentono di considerare plausibili ipotesi alternative: abbiamo imparato a essere molto cauti nell'osservazione del cielo e ad aspettarci scoperte apparentemente anomale. 

Conosciamo infatti alcuni fenomeni astronomici che possono dar luogo a transienti assai rapidi e abbastanza luminosi da poter essere visti. La prima ipotesi è che potrebbe essersi trattato di un super-brillamento (superflare): i super-brillamenti sono violente eruzioni di materia che esplode dalla fotosfera di una stella di tipo solare, con un'energia dell’ordine dei milioni di volte quella riscontrata nei comuni brillamenti solari. Questi fenomeni causano per alcuni minuti aumenti della luminosità della stella interessata da venti a mille volte, con tempi di decadimento dello stesso ordine di grandezza, ma l’aumento è modesto se paragonato a quello della nova di Anderson. 

Superflare

Egli potrebbe allora aver osservato un episodio di microlensing gravitazionale, cioè un fenomeno in cui la presenza di una massa posta tra la sorgente e l'osservatore provoca la deflessione della radiazione emessa. La variazione indotta da un corpo massivo sulla curvatura dello spazio-tempo genera effetti che possono andare dalla deformazione apparente della sorgente, allo sdoppiamento o alla visione multipla della sua immagine, con una separazione angolare così piccola da non poter essere risolta con gli strumenti a disposizione dell’osservatore.. Il microlensing gravitazionale può fare in modo che il corpo celeste interessato si illumini di diversi gradi di magnitudine per periodi di alcuni giorni. Ad esempio, nell'ottobre 2006 una stella poco luminosa nella costellazione di Cassiopea passò da 11,4 a 7,5 nel giro di una settimana, con un analogo tempo di ritorno alla normalità. Anche in questo caso, tuttavia, ampiezza e velocità del fenomeno sono relativamente modesti rispetto a quanto avrebbe visto Anderson, ma è possibile che possano esistere fenomeni più intensi e veloci. 

Microlensing

La spiegazione oggi più plausibile per il transiente ottico osservato da Anderson potrebbe risiedere in una delle più esotiche classi di oggetti conosciuti dalla moderna astrofisica: i Gamma Ray Burst (GRB), o esplosioni di raggi gamma, il fenomeno più energetico finora osservato nell'universo. Un GRB è un intenso lampo di raggi gamma, talvolta visibile anche nel campo ottico, che può durare da pochi millisecondi a diverse decine di minuti. Queste potenti esplosioni, forse causate dall'accrescimento di materia intorno ai buchi neri, avvengono con frequenza (all'incirca uno al giorno) e con distribuzione isotropa (“in ogni angolo del cielo”) in galassie esterne alla Via Lattea e talvolta molto lontane. Dal punto di vista ottico, il più luminoso GRB finora osservato è stato il GRB 080319b nel 2008, che ebbe un picco di magnitudine pari a 5,3 e avrebbe potuto essere visibile a occhio nudo per mezzo minuto da un eventuale osservatore che avesse guardato nella giusta direzione. I tempi di decadimento dei GRB sono dell’ordine delle ore fino al alcuni giorni. 

Gamma Ray Burst (GRB)

Secondo il gruppo di ricerca del radioastronomo olandese Richard Strom, numeri significativi di GRB visibili a occhio nudo potrebbero essere stati osservati nel corso della storia umana e sarebbe opportuno rivisitare le fonti storiche alla ricerca di eventuali registrazioni. Forse in questo catalogo potrebbe avere un posto anche il telegramma di Anderson, astrofilo e grande osservatore dei cieli (watcher of the skies).


Jeremy Shears (2012). The astronomizings of Dr. Anderson and the curious case of his disappearing nova Accepted for publication in the Journal of the British Astronomical Association arXiv: 1209.4057v2


domenica 30 settembre 2012

Qual è il primo primo?

Cosa apparentemente strana, su OEIS ci sono due sequenze di numeri primi. La sequenza A008578 si intitola Prime numbers at the beginning of the 20th century (today 1 is no longer regarded as a prime) e riporta i numeri primi partendo da 1. C’è anche la sequenza A000040The prime numbers, che invece parte con il 2. 



La spiegazione secondo Wikipedia è che, “Nel passato 1 era a volte considerato un numero primo: ad esempio Derrick Norman Lehmer lo incluse nella sua tavola dei numeri primi pubblicata nel 1914. Oggi tuttavia si preferisce escluderlo, in quanto il suo inserimento tra i primi costringerebbe a riformulare in maniera più complessa diversi teoremi (come il teorema fondamentale dell'aritmetica) per tenere conto di questo caso speciale”.

Infatti il teorema fondamentale dell'aritmetica sostiene che ogni numero naturale maggiore di 1 o è un numero primo o si può esprimere come prodotto di numeri primi. La scomposizione in fattori primi di un numero n è unica, se si prescinde dall'ordine in cui compaiono i fattori. “È per garantire l'unicità della fattorizzazione che il numero 1 non viene considerato primo; se 1 fosse primo, ogni numero avrebbe infinite fattorizzazioni diverse. Per esempio: 10 potrebbe essere scritto come 5×2, ma anche come 5×2×1, o ancora 5×2×1×1×...×1; in questo modo la proprietà di unicità non sarebbe rispettata”.

Insomma, 1 non è più il primo numero primo, tuttavia nel passato furono date risposte diverse alla domanda del titolo. In effetti, per trovare il primo numero primo bisogna anche sapere qual è il primo numero naturale, e la risposta non è stata sempre univoca. La storia della primalità di 1 è interessante da ripercorrere, perché è anche un piccolo compendio della storia della matematica. 

Prima di cominciare bisogna però precisare due cose. La prima è che stabilire se un numero (specialmente l’unità) è primo è una questione di definizione, scelta, contesto e tradizione, non di dimostrazione. Ciò nonostante, le definizioni non sono fatte a caso: esse sono legate all'uso che si fa della matematica e, specialmente in questo caso, della notazione usata. Ad esempio, man mano che l’uso dei numeri è cambiato, l’uno (l’unità, la monade), che all’inizio non era generalmente considerato un numero dagli antichi greci, è diventato un numero solamente duemila anni più tardi. Per gran parte del tempo non aveva senso chiedersi se  1 era un numero primo. 

La seconda è che, quando ci atteniamo ai (moderni) interi positivi, non è difficile adattare i nostri teoremi per consentire al numero uno di essere considerato primo. Ad esempio, se si considera quanto dice Wikipedia sul fatto che l’unità è esclusa dal novero dei primi per preservare l’unicità della fattorizzazione, è anche vero che, nel passato, i matematici che definirono l’1 come primo non fecero altro che aggiungere poche parole al teorema fondamentale dell'aritmetica (TFA). Alla versione canonica del TFA è sufficiente aggiungere due caratteri (in rosso): 

Teorema – Per ogni numero naturale n esiste un’unica fattorizzazione,


dove gli esponenti a sono interi positivi e

sono primi. 

Nei primi tempi dello studio dei numeri primi, quelli ad esempio di Euclide, l’unità (uno) non era considerata un numero, così era automaticamente esclusa dal novero dei primi. Nel libro 7 degli Elementi, Euclide dava queste definizioni: 
− Una unità è ciò per cui ogni singola cosa che esiste è chiamata uno. 
− Un numero è una moltitudine composta da unità. 
− Un numero primo è quello che è misurato soltanto dall'unità. 
− I numeri primi tra loro sono quelli che sono misurati soltanto dall'unità come misura comune. 
− Un numero composto è quello che è misurato da qualche numero. 

Euclide (con i suoi contemporanei) non aveva bisogno di dire esplicitamente che l’unità non era un numero primo, perché i primi erano una sottocategoria dei numeri, mentre uno non era un numero. La sequenza dei numeri primi iniziava pertanto con il due. Su questo fatto concordavano anche Aristotele e Teone di Smirne (nel primo libro della Matematica utile per comprendere Platone), con piccole differenze di termini. Escludere l’1 dai numeri pare proprio una regola costante, anche se, come tutte le regole, c’è un’eccezione. Speusippo (IV sec. a C.), nipote di Platone e successore dello zio come scolarca dell’Accademia di Atene, il cui pensiero ci è giunto in frammenti e attraverso ciò che scrisse di lui Diogene Laerzio, non solo considerava l’unità come un numero, ma la indicava come primo. 

Gli scrittori che si occuparono della questione nella tarda antichità concordano nel considerare i numeri primi un sottoinsieme dei numeri dispari, escludendo sia l’uno che il due dal loro novero: per loro il primo numero primo era il tre. Severino Boezio (475-525) scrisse attorno al 505 il De institutione arithmetica, in cui viene illustrato l’aspetto peculiare dell’unità: poiché ciascun numero è preceduto e seguito da due numeri, la cui semisomma è pari al numero stesso, solo l’uno fa eccezione, dal momento che ha un solo termine accanto a sé, il due, di cui è la metà. Come si può vedere, lo zero non è minimamente contemplato. 

Quasi contemporaneo gli fu Marziano Capella, vissuto tra IV e V secolo, pagano e pitagorico, che nell’opera De nuptiis Philologiae et Mercurii, una specie di enciclopedia dell’erudizione classica diffusissima nel Medioevo cristiano, riassume come segue le proprietà dei primi numeri naturali: 

“Abbiamo succintamente discusso i numeri che comprendono le prime serie, le divinità a loro assegnate, e la virtù di ciascun numero: Ora indicherò brevemente la natura del numero stesso, quali relazioni esistono tra gli uni e gli altri, e quali forme essi rappresentano (…): la monade non è un numero, la diade è un numero pari, la triade è un numero primo, sia per ordine sia per proprietà; la tetrade appartiene in pari volte alla classe pari, la pentade è primo (…) 

Nel terzo dei 20 libri delle Etymologiae o Origines, quello intitolato De quatuor disciplinis mathematicis, Isidoro di Siviglia (c. 560-636), dopo aver spiegato il significato della parola aritmetica: “L’aritmetica è la disciplina dei numeri. I Greci chiamano il numero arithmòn, fornisce una definizione di numero, accompagnata da una delle sue fantasiose paraetimologie: “Numero è una moltitudine costituita di unità. Infatti uno è il seme del numero, ma non un numero. Nummus (moneta) ha dato il suo nome a numerus, e per la frequenza del suo uso ha dato origine alla parola”. Naturalmente non si pone il problema se l’unità possa essere un numero primo. 


Le cose incominciarono a cambiare solamente secoli dopo, quando Simon Stevin (Stevino) nel 1585 introdusse una nuova notazione per i numeri decimali, che permetteva di estendere a tali numeri le normali operazioni algebriche sui numeri interi, anziché usare la notazione frazionaria utilizzata fino ad allora. Egli poneva le basi per l’introduzione dell’insieme R dei numeri reali e, per quanto riguarda l’1, evidenziava come non esistesse differenza notazionale o algoritmica tra esso e gli altri numeri. 


I cambiamenti tuttavia avvennero con lentezza, e circa un secolo più tardi, Joseph Moxon, l’autore di Mathematicks made easie, or, A mathematical dictionary explaining the terms of art and difficult phrases used in arithmetick, geometry, astronomy, astrology, and other mathematical sciences, il primo dizionario matematico in lingua inglese, pubblicato postumo nel 1700, affrontava la questione se uno fosse un numero in modo problematico. 

Alla voce “Numero”, Moxon afferma che Uno è comunemente considerato l’origine dei numeri e pertanto non è propriamente un numero. “Tuttavia confesso che ciò (per quanto generalmente accettato) ad alcuni sembra contestabile, perché contro di esso si potrebbe argomentare: una Parte è della stessa natura di ciò che è il suo Intero; un’unità è parte di una moltitudine di numeri; pertanto un’Unità è della stessa natura di una moltitudine di Unità: ma la natura e sostanza dei Numeri è l’Unità; pertanto la sostanza di un’Unità è il Numero. Oppure così: dato un Numero, se dallo stesso si sottrae 0 (nessun Numero), il numero dato rimane invariato: sia 3 il numero dato, e da esso si sottragga 1, ovvero l’Unità (che, come essi dicono non è un Numero), allora il Numero dato, diciamo 3, rimane invariato, il che è assurdo (…)

La ridefinizione dell’unità come numero fece diventare ragionevole la domanda se esso fosse un numero primo, tuttavia il modo in cui si utilizzavano allora i numeri primi non spinse verso alcuna particolare definizione. La fattorizzazione non era ancora vista come argomento d’interesse in se stessa, ma solo come un metodo per trovare i divisori. 

Iniziò allora un periodo confuso, in cui alcuni sostenevano che l’unità non era un numero primo e altri che lo era. Tra i primi si possono citare Mersenne (1625), van Schooten (1657) e Eulero (1770), mentre tra i secondi c’erano Wallis (1685), Prestet (1689), Lambert (1770, Felkel (1776) e Waring (1782). Christian Goldbach (1690 –1764), nell’esporre in una lettera a Eulero del 1742 la sua famosa congettura che ogni numero pari maggiore di 2 può essere scritto come somma di due numeri primi (che possono essere anche uguali), dà per scontato che 1 sia un numero primo. Sembra strano che nessuno si chiedesse se le fattorizzazioni fossero uniche, un concetto che con il senno di poi sembra oggi così ovvio. Comunque i tempi erano maturi perché Carl Friedrich Gauss si mettesse al lavoro. 


Quando, nel 1801, Gauss per primo stabilì e dimostrò parzialmente il TFA nelle Disquisitiones Arithmeticae, non solo aprì la strada per far sì che la fattorizzazione unica sia centrale nella comprensione dei numeri interi, ma discusse una generalizzazione degli interi estendendoli al campo complesso (interi di Gauss), che rese i matematici assai più attenti al ruolo dell’unità nelle fattorizzazioni. Nel testo Gauss non definiva i numeri primi esplicitamente, ma forniva un argomento fondamentale per la loro moderna definizione. 

L’opera del Princeps mathematicorum costituì un vero e proprio spartiacque nella definizione di un numero come primo, ma i matematici incominciarono a convenire solo molto lentamente attorno alla moderna definizione, che esclude l’unità. In molti continuarono a considerare l’unità un numero primo, tra di essi Legendre (1830), Weierstrass (1876), Cayley (1890), Klein (1897), Kronecker (1901) e Lehmer (1914). D’altra parte cresceva il numero di chi la escludeva, come Barlow (1811), Reynaud (1835) Dirichlet (1863), Meissel (1870), Chebyshev (1889), Lucas (1891), Landau (1909) e von Mangoldt (1912). 

Uno sguardo alle varie edizioni della Enciclopædia Britannica pubblicate nei due decenni a cavallo del 1900 conferma questa diversità di vedute. Capita addirittura che lo stesso autore (ad esempio Arthur Cayley, ma non è il solo) consideri l’unità un numero primo in un articolo e poi la escluda in un altro della stessa edizione, a dimostrazione del fatto che spesso l’uso determina la definizione. I compilatori di tavole dei numeri primi furono i più restii ad escludere l’1 dalla sequenza, convinti che un numero possa essere solamente primo (compresa l’unità) oppure composto. Fu questa la ragione dell’inclusione di uno nella storica tavola dei numeri primi di Lehmer pubblicata nel 1914, che la sequenza OEIS A008578 ripropone.

L’ultimo grande matematico a considerare il numero 1 come primo fu G. H. Hardy, che lo incluse nelle prime sei edizioni (dal 1908 al 1933) del suo testo A Course of Pure Mathematics. Hardy presentava la dimostrazione di Euclide che esistono infiniti numeri primi con una sequenza che iniziava con l’1: 

“La dimostrazione di Euclide è la seguente. Ammettiamo che esista solo un numero finito di primi, siano essi 1, 2, 3, 5, 7, 11, … n. Consideriamo il numero 1 + (1× 2×3×5×7×11, … n). Tale numero non è evidentemente divisibile da nessuno dei numeri 2, 3, 5, 7, 11, … n, poiché il resto, diviso da uno qualsiasi di questi numeri è 1. Esso non è pertanto divisibile da alcun primo tranne 1, ed è esso stesso primo, che è contrario alla nostra ipotesi”


Nella settima edizione, del 1938, questa dimostrazione fu riscritta, in modo che il primo numero primo fosse il 2: 

La dimostrazione di Euclide è la seguente. Siano 2, 3, 5, … pn  tutti i numeri primi fino a pn e sia P = (2×3×5 … pn) + 1. Allora P non è divisibile da nessuno dei numeri 2, 3, 5, … pn. Quindi o P è primo, o P è divisibile da un primo p compreso tra pn e P. In entrambi i casi esiste un primo più grande che pn, e quindi un’infinità di primi”.


Eppure ci sono ancora moltissimi testi scolastici che quasi novant’anni dopo considerano 1 un numero primo. Boh.

Caldwell, Chris K.; Xiong Yeng (2012). What Is The Smallest Prime? ArXiv: 1209.2007v2