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giovedì 1 dicembre 2022

Pietre da succhiare

 


C'è una scena in
Molloy, il primo romanzo (1951) della trilogia dell’assurdo di Samuel Beckett, in cui Molloy, un anziano ex vagabondo, racconta di quando si trovava su una spiaggia di ciottoli per raccogliere "sassi da succhiare" quando vagava in bicicletta.

Molloy ora vive in quella che pensa sia la stanza di sua madre, anche se ciò non è verificabile né per Molloy né per il lettore. Non sa come sia arrivato a vivere in questa stanza, ma si occupa di scrivere, e tollera l'intrusione quotidiana di una donna che apre la porta e vi mette accanto il cibo e tira fuori il vaso da notte, così come l'intrusione settimanale di un uomo che viene ogni domenica (Molloy pensa che sia domenica) per ritirare i suoi fogli (Molloy sembra dedicare parte del suo tempo a scrivere), restituire gli scritti della settimana precedente (che appaiono con una serie di segni redazionali) e dargli dei soldi. Molloy aveva in precedenza intrapreso un viaggio errabondo (soprattutto in bicicletta ma alla fine a piedi) per trovare sua madre, ma non ci era riuscito, ed è finito in qualche modo in quella stanza, ormai incapace di muovere le gambe. È la storia di questo viaggio disordinato, un pellegrinaggio senza santuari da raggiungere, che Molloy racconta ai suoi lettori.

Molloy non sa perché scrive o perché si trova nel luogo in cui si trova. Il suo racconto determina i limiti della testimonianza, nel senso che non c'è necessità di una sua estesa autobiografia: è un punto su una mappa narrativa, senza coordinate piuttosto che un personaggio con un luogo e una storia.

Il problema narrato da Molloy, a cui Beckett dedica un paragrafo di cinque pagine, è come distribuire le pietre da succhiare tra le sue quattro tasche in modo da succhiare ogni pietra a turno mentre le fa ruotare intorno nelle sue quattro tasche evitando così il "rischio diabolico" che "solo quattro pietre da succhio, sempre le stesse, girano e rigirano".
“Approfittai della mia permanenza al mare per sdraiarmi in un deposito di pietre da succhiare. Erano sassolini ma io li chiamo pietre. Sì, in questa occasione giacevo su un magazzino considerevole. Le distribuii equamente tra le mie quattro tasche e le succhiavo girando e rigirando”.
Dopo aver fatto una scorta di sedici pietre e averle distribuite equamente nelle sue quattro tasche - vale a dire quattro pietre in ciascuna - Molloy escogita un sistema per succhiarle tutte a turno.
“Preso un sasso dalla tasca destra del mio cappotto, e messolo in bocca, l'ho sostituito nella tasca destra del mio cappotto con un sasso dalla tasca destra dei calzoni, che ho sostituito con un sasso dalla tasca sinistra dei miei calzoni, che ho sostituito con un sasso della tasca sinistra del mio cappotto, che ho sostituito con il sasso che avevo in bocca, appena ho finito di succhiarlo. Quindi c'erano ancora quattro pietre in ciascuna delle mie quattro tasche, ma non proprio le stesse pietre”.

“In questo modo c'erano sempre quattro pietre in ciascuna delle mie quattro tasche, ma non proprio le stesse pietre. E quando la voglia di succhiare mi riprendeva, ho attinto ancora dalla tasca destra del mio cappotto, sicuro di non prendere lo stesso sasso dell'ultima volta. E mentre lo succhiavo riordinavo le altre pietre nel modo che ho appena descritto. E così via. Ma questa soluzione non mi soddisfaceva pienamente. Perché non mi sfuggiva che, per un caso straordinario, le quattro pietre che circolavano così potessero essere sempre le stesse quattro. In tal caso, lungi dal succhiare le sedici pietre che girano e girano, in realtà ne succhiavo solo quattro, sempre le stesse, a turno. Ma le agitavo bene nelle tasche, prima di cominciare a succhiare, e ancora, mentre succhiavo, prima di trasferirle, nella speranza di ottenere una circolazione più generale dei sassi di tasca in tasca. Ma questo era solo un ripiego che non poteva accontentare un uomo come me. Così ho iniziato a cercare qualcos'altro. E la prima cosa che mi venne in mente fu che avrei potuto fare meglio a trasferire i sassi a quattro a quattro, invece che uno a uno, cioè durante la suzione, prendere i tre sassi rimasti nella tasca destra del mio cappotto e sostituirli con i quattro nella tasca destra dei pantaloni, e questi con i quattro nella tasca sinistra dei pantaloni, e questi con i quattro nella tasca sinistra del mio cappotto, e infine questi con i tre nella tasca destra del mio cappotto, più quello, appena ebbi finito di succhiarlo, che avevo in bocca.

Sì, all'inizio mi sembrava che così facendo sarei arrivato a un risultato migliore. Ma a un'ulteriore riflessione dovetti ricredermi e confessare che la circolazione delle pietre quattro per quattro era esattamente la stessa cosa della loro circolazione una per una. Infatti, se ero certo di trovare ogni volta, nella tasca destra del mio cappotto, quattro sassi totalmente diversi dai loro immediati predecessori, restava tuttavia la possibilità di imbattermi sempre nella stessa pietra, all'interno di ogni gruppo di quattro, e di conseguenza di succhiare, non le sedici pietre che girano e girano come avrei voluto, ma in realtà solo quattro, sempre le stesse, che girano e girano. Quindi ho dovuto cercare altrove che nella modalità di circolazione.

Perché, per quanto facessi circolare i sassi, correvo sempre lo stesso rischio. Era ovvio che aumentando il numero delle mie tasche avrei dovuto aumentare le mie possibilità di godermi le mie pietre nel modo che avevo programmato, cioè una dopo l'altra fino ad esaurirne il numero. Se avessi avuto otto tasche, per esempio, invece delle quattro che avevo, allora anche l'azzardo più diabolico non avrebbe potuto impedirmi di succhiare almeno otto dei miei sedici sassi, girando e rigirando. Il nocciolo della questione è che avrei dovuto aver bisogno di sedici tasche per dissipare tutta la mia ansia. E per molto tempo non riuscii a vedere altra conclusione che questa, che senza avere sedici tasche, ciascuna con la sua pietra, non avrei mai potuto raggiungere la meta che mi ero prefissata, senza un rischio straordinario. E se all'occorrenza riuscivo a raddoppiare il numero delle mie tasche, non fosse altro che dividendo ogni tasca in due, con l'aiuto di qualche spilla da balia diciamo, quadruplicarle sembrava essere più di quanto potessi fare. E non mi sentivo incline a prendere tutto quel disturbo per una mezza misura. Perché stavo cominciando a perdere ogni senso della misura, dopo tutto questo lottare e litigare, e dire: o tutto o niente. E se sono stato tentato per un istante di stabilire una proporzione più equa tra le mie pietre e le mie tasche, riducendo le prime al numero delle seconde, è stato solo per un istante. Perché sarebbe stata un'ammissione di sconfitta. E seduto sulla riva, davanti al mare, le sedici pietre distese davanti ai miei occhi, le guardavo con rabbia e perplessità. (...)

E mentre guardavo così le mie pietre, rimuginando su interminabili martingale tutte egualmente difettose, e schiacciando manciate di sabbia, in modo che la sabbia mi scorreva tra le dita e ricadeva sulla spiaggia, sì, mentre tenevo così in sospeso la mia mente e una parte del mio corpo, un giorno all'improvviso la prima si rese conto, vagamente, che forse avrei potuto raggiungere il mio scopo senza aumentare il numero delle mie tasche o ridurre il numero delle pietre, ma semplicemente sacrificando il principio dell'assetto. Il significato di questa illuminazione, che all'improvviso cominciò a cantare dentro di me, come un verso di Isaia o di Geremia, non lo penetrai subito, e in particolare la parola assetto, che non avevo mai incontrato, rimase a lungo oscuro. Alla fine, mi sembrò di capire che questa assetto non poteva significare nient'altro, niente di meglio, che la distribuzione delle sedici pietre in quattro gruppi di quattro, un gruppo in ciascuna tasca, e che era mio rifiuto considerare qualsiasi distribuzione diversa da questa che aveva viziato i miei calcoli fino ad allora e reso il problema letteralmente insolubile. Ed è sulla base di questa interpretazione, giusta o sbagliata che sia, che alla fine sono arrivato a una soluzione, sicuramente poco elegante, ma sana, sana”.
Un'illuminazione. Se Molloy è disposto a sacrificare il principio dell'equa distribuzione - con quattro pietre in ogni tasca - una soluzione è facilmente raggiungibile. Mettendo sei pietre nella tasca in alto a sinistra, cinque in quella in basso a sinistra e cinque in quella in basso a destra, lascia vuota quella in alto a destra. È quindi libero di succhiare uno per uno i primi sei sassi, depositandoli poi nella tasca vuota. Una volta fatto ciò, ogni tasca di pietre può essere ruotata nella successiva, fino a quando quella in alto a sinistra non sarà di nuovo vuota, ripetendo all'infinito.

“C'era qualcosa di più di un principio che ho abbandonato, quando ho abbandonato l'equa distribuzione, era un bisogno corporeo. Ma succhiare i sassi nel modo che ho descritto, non a casaccio, ma con metodo, credo fosse anche un bisogno corporeo. Ecco allora due esigenze corporee incompatibili, ai ferri corti. Queste cose accadono”.
Ciò che mi ha attratto di questo monologo quando l'ho letto qualche giorno fa per la prima volta è quanto sia stranamente familiare. Non le specificità delle pietre, la distribuzione equa o la successiva suzione, ma piuttosto il senso generale di costrizione che comporta. Molloy presenta come un dato di fatto il succhiare pietre, che è un "bisogno corporeo" tanto quanto qualsiasi altro, e quindi la domanda sul "perché" diventa irrilevante. Come respirare, il semplice atto di succhiare pietre è una necessità evidente. Non è nemmeno chiaro se ne tragga una vera gioia.

Ciò che conta è la procedura. Se i sassi devono essere succhiati (e, per quanto riguarda Molloy, lo devono) allora non resta che decidere in che modo, ottenere la massima soddisfazione o efficienza. Che per Molloy sono più o meno la stessa cosa. È qui che il suo senso di costrizione diventa universale, riflettendo al suo interno il modo in cui implementiamo altre pulsioni umane meno aliene.

In realtà Molloy sta eseguendo un rituale, come quello che ha descritto Elvio Fachinelli in La Freccia ferma (Adelphi, 1992), dove “un uomo tenta di annullare il tempo, di rendere non avvenuto quanto gli accade”. Così, come ci sono persone che sentono il bisogno quasi fisico di evitare di calpestare le fughe delle piastrelle, Fachinelli parla del bisogno di un suo paziente di rifare subito al contrario ogni azione che disturba. Ogni azione, ogni parola pronunciata o pensata ha il suo contraltare “peccaminoso” ed ha bisogno di una sua depurazione attraverso un comportamento o un pensiero riparativo che, esso stesso però, può essere frainteso in una azione o pensiero di natura opposta, “peccaminosa”, in un circolo vizioso senza fine che porta inevitabilmente al punto di partenza in un tentativo di annullare il tempo.

Il paziente che Fachinelli descrive arriverà a trovare una soluzione segmentando il tempo in istanti sempre più piccoli sino ad arrivare, come nel paradosso di Zenone, alla conclusione che se il tempo può essere frammentato in segmenti sempre più piccoli, all’infinito, scollegati l’uno dall’altro, ognuno caratterizzato dall’avverbio “ora”, allora esso può essere fermato poiché è impossibile percorrere in un tempo finito spazi infiniti. Anzi, procedendo in senso inverso, si può anche arrivare ad annullare l’azione svolta, come una sorta di rewind in un videoregistratore.


Il tentativo di annullare il tempo alimenta la sensazione onnipotente di essere padrone del tempo. Fachinelli giunge a parlare di come questo meccanismo abbia caratterizzato la civiltà arcaica e non solo. Il tentativo di dominare il tempo e la sua ineluttabile conseguenza: la morte e il bisogno di non essere sopraffatti dal caos inteso come essere in balia degli eventi, attraverso meccanismi ossessivo-compulsivi, attraverso rituali e formule magiche, è sempre appartenuto all’armamentario mentale dell’uomo.

Forse queste cose sembrano lontane dal succhiare pietre su una spiaggia. Tuttavia, anche Molloy non è un individuo ben equilibrato. I suoi bisogni qui sono banali al confronto, eppure è per questo motivo che il bisogno stesso può diventare l'obiettivo principale del monologo. E, per quanto legato a una pratica ossessiva, c’è in Molloy una ricerca di ordine, di “un assetto” di fronte a un mondo privo di significato e incoerente, almeno per un po’:
“In fondo per me era lo stesso se succhiavo ogni volta un sasso diverso o sempre lo stesso sasso, fino alla fine dei tempi. Perché avevano tutti esattamente lo stesso sapore. E se ne avevo collezionati sedici, non era per zavorrarmi in questo o quel modo, o per succhiarli a turno, ma semplicemente per avere un po' di scorta, per non restare mai senza. Ma in fondo a me non importava un bel niente di restare senza, quando se ne fossero andati tutti se ne sarebbero andati tutti, non sarei stato peggio, o quasi. E la soluzione alla quale mi sono mosso alla fine è stata quella di buttare via tutte le pietre tranne una, che tenevo ora in una tasca, ora in un'altra, e che naturalmente presto perdevo, o buttavo via, o regalavo, o ingoiavo”.

sabato 16 giugno 2018

Prima, dopo e intorno al Werther


Nel 1774, Johann Wolfgang Goethe pubblicò Die Leiden des jungen Werthers (I dolori del giovane Werther), il fortunatissimo romanzo che narra di un'infatuazione romantica infelice che finisce nel suicidio. Goethe divenne immediatamente il "primo personaggio letterario in Europa", come Lord Byron lo descrisse 50 anni dopo. Goethe era il principale rappresentante della corrente della letteratura tedesca nota come Sturm und Drang, letteralmente "tempesta e impeto". Werther è, allo stesso tempo, il punto culminante del romanticismo tedesco e contiene quello che è probabilmente il suicidio più famoso della letteratura.

Il romanzo è costituito da fatti biografici e autobiografici. Nel maggio 1772, dietro consiglio del padre, che lo aveva costretto a intraprendere gli studi legali, Goethe si era trasferito nella cittadina di Wetzlar, nella Germania centrale, dove c’era la Corte Imperiale di Giustizia, un tribunale presso il quale si iscrisse come praticante. Egli tuttavia non si occupò di faccende giuridiche, preferendo frequentare la taverna del "Principe ereditario", dove frequentò, fra i tanti, Karl Wilhelm Jerusalem (1747–1772), figlio di un noto teologo, giovane intellettuale inquieto, innamorato non corrisposto di Elisabetta Herd, già sposata, e l'avvocato Johann Christian Kestner (1741-1800). 

Charlotte Buff Kestner
Kestner era fidanzato con una ragazza, Charlotte o Lotte Buff (1753-1828) che, egli scrisse, «non è una bellezza straordinaria, ma è ciò che si dice una bella ragazza e a me nessuna è mai piaciuta più di lei» mentre Goethe, che la conobbe il 9 giugno e la frequentò quasi giornalmente, l’avrebbe definita una «di quelle che sono fatte, se non per ispirare passioni violente, certo per suscitare la simpatia generale»

L'insistente corte di Goethe provocò la reazione di Lotte che, il 16 agosto, gli dichiarò che egli «non può sperare altro che amicizia». Alla fine dell’estate del 1772, Goethe lasciò Wetzlar per tornare a Francoforte, dove ricevette da Kestner la notizia che il comune amico Jerusalem si era ucciso nella notte del 29 o 30 ottobre sparandosi alla testa con una pistola presa in prestito da Kestner. 

Quando Goethe tornò a Wetzlar all'inizio di novembre, profondamente colpito dalla morte di Jerusalem, cercò di scoprire tutto quanto si poteva sulle circostanze e sui possibili motivi del suicidio. Molto di ciò che venne a sapere proveniva da un resoconto dettagliato di Kestner che Goethe forse gli sollecitò.

Maximiliane von La Roche Brentano
Durante un viaggio presso Coblenza, frequentò il salotto letterario che la scrittrice Sophie von La Roche, moglie del cancelliere dell’Elettore di Treviri, aveva aperto a Thal-Ehrenbreitstein, luogo di residenza della famiglia. Come molti degli ospiti, Goethe si innamorò di Maximiliane, Maxe, figlia della padrona di casa, che aveva 16 anni. Nel tredicesimo libro dell'autobiografia Poesia e verità (1811-1833), scrisse: 
"È una sensazione molto piacevole quando una nuova passione inizia in noi prima che la vecchia sia quasi finita - come al tramonto quando vediamo la luna che sorge di fronte e godiamo il ​​doppio splendore di entrambe le luci celesti".
Nel gennaio del 1774, Goethe era a Francoforte e incontrò di nuovo Maximiliane, ora sposata con Peter Anton Brentano, uno dei mercanti più ricchi della città. Brentano aveva vent’anni più di Maximiliane, era vedovo e aveva già cinque figli: Maximiliane gliene avrebbe dati altri dodici. Sarebbe morta nel 1793 all'età di 37 anni. Durante quel gennaio del 1774, Goethe e Maximiliane intrecciarono uno stretto rapporto nonostante lei fosse irraggiungibile in quanto donna sposata: la relazione finì dopo discussioni violente con il marito..

Quando Maximiliane lasciò Francoforte, Goethe si dedicò al suo straordinario romanzo. Nel Werther, scritto di getto nel marzo del 1774, unì nella figura di Lotte sia Charlotte Buff, sia Maxe Brentano, descrivendo anche il suicidio dell’amico Jerusalem.

Nell'autobiografia scrisse:
"Mi ero completamente isolato, anzi avevo proibito ai miei amici di farmi visita. Anche interiormente misi da parte tutto ciò che non apparteneva al mio progetto, ma raccolsi tutto ciò che aveva qualcosa a che fare con esso. Sono andato oltre la mia vita recente, il materiale di cui non avevo fatto uso poetico."
Karl Wilhelm Jerusalem, il "vero" Werther

Il romanzo è composto da una serie di lettere che il protagonista invia al suo amico Wilhelm nel corso di venti mesi (dal maggio 1771 fino alla fine di dicembre dell'anno successivo), in cui le esperienze dello scrittore diventano la storia immortale di Werther, che conosce e frequenta due giovani fidanzati, Charlotte e Albert; s'innamora della ragazza, ma è respinto, perché Lotte è promessa in sposa ad Albert e può concedere a Werther solo la propria amicizia. Werther, tuttavia, non riesce a liberarsi dall'ossessione per Lotte, tanto da baciarla contro la sua volontà durante il loro ultimo incontro in occasione dell'assenza di Albert. Lotte è irrimediabilmente vincolata al futuro marito e non può far altro che intimare all'amico di lasciare la sua casa. Il giorno dopo, al ritorno di Albert, arriva una richiesta scritta di Werther di prestargli le sue pistole, con la motivazione di un viaggio da affrontare a breve; Albert acconsente ed è Lotte stessa a consegnarle, con mano tremante, al servitore dell'amico. Il giovane tormentato, dopo aver ultimato i propri impegni e aver fatto un'ultima passeggiata in campagna, si ritira nella propria abitazione, congeda il servitore e finisce di scrivere la lettera d'addio a Lotte. A mezzanotte in punto, Werther si spara alla tempia con le pistole prestategli da Albert.

La pistola di Kestner con la quale si suicidò Jerusalem
L'opera ebbe un immediato successo continentale. Furono pubblicate traduzioni in francese e inglese, in numerose edizioni. In Germania, dove l’opera generò una mania straordinaria, venti edizioni pirata apparvero entro dodici anni dalla sua prima pubblicazione. La Werthertracht (il “costume di Werther”), giacca lunga blu, panciotto e pantaloni gialli, stivali alti, fu copiato ovunque e indossato alla corte di Weimar quando Goethe la visitò nel 1775. Lo stesso Napoleone era un grande ammiratore del romanzo e pare che l’avesse letto sette volte. Lui e Goethe ne discussero quando si incontrarono a Erfurt nel 1808. L’imperatore francese fece rilevare a Goethe la mancata separazione, in Werther, fra ambizione e amore, che Napoleone sapeva ben distinguere. Werther, al contrario,  ha una coscienza indivisa, proprio perché vive separato dalla realtà: egli avrebbe dovuto "morire nella propria coscienza" per poter vivere senza sofferenze nella realtà.

Il Principe Ernesto Ludovico di Sassonia-Gotha
con il "costume di Werther" nel 1776.
La pubblicazione del romanzo diede inizio a uno dei primi casi di merchandising intensivo in Germania. Scene dal romanzo decoravano porcellane (made in China) e ventagli; circolavano ritratti di Lotte; un profumo prese il nome dall'eroe di Goethe (eau de Werther); e il “costume di Werther” poteva essere visto nelle pagine dei libri di moda. Il successo del romanzo può sembrare esagerato per il lettore del XXI secolo, ma bisogna ricordare che i romanzi costituivano il medium emotivamente più potente in un’epoca in cui non esistevano altri mezzi di comunicazione di massa.

Più marcatamente inquietante dello straordinario successo commerciale del Werther è il fatto che si diceva che in molti paesi le persone erano così suggestionate dal romanzo che, se deluse dall'amore, imitavano il modo di morire di Werther. Secondo Goethe,
"I miei amici ... pensavano che dovevano trasformare la poesia in realtà, imitare un romanzo come questo nella vita reale e, in ogni caso, spararsi; e quello che accadde all'inizio tra pochi si verificò più tardi tra il grande pubblico ..."
Come scrive il poeta, autore e traduttore David Constantine nell'introduzione alla sua traduzione inglese (2004): 
"Romanzi e poesie, che sono finzioni fatte con la materia della vita, cambieranno ancora e ancora il nostro giudizio sulle vite che abbiamo vissuto e stiamo vivendo adesso. Al di là di ogni dubbio, il Werther di Goethe ha trasformato il modo in cui i suoi lettori hanno visto le loro vite; senza dubbio molti vivevano o desideravano vivere diversamente. Ed era una sensazione letteraria”.
Che ci fosse un'imitazione significativa del suicidio di Werther non fu mai dimostrato in modo definitivo, ma sappiamo che varie autorità erano sufficientemente preoccupate da spingerle a vietare il libro, ad esempio, in Italia, a Copenaghen e a Lipsia (dove anche il “costume di Werther” era vietato). A Milano l’Arcivescovo Filippo Maria Visconti si preoccupò di comprare tutte le copie disponibili in città per farle sparire dalla circolazione. Lo stesso Goethe assistette al recupero del cadavere di una ragazza, Christel von Lassberg, che il 16 gennaio 1778 si era gettata nel fiume Ilm a Weimar con in tasca una copia del romanzo. per le centinaia di ammiratori disperati di Werther, Massenet scrisse quest'aria indimenticabile:



Oggi è difficile accertare se ci sia stato un improvviso aumento dei tassi di suicidi di giovani dal cuore spezzato nel XVIII secolo, ma la moderna ricerca psichiatrica e sociologica suggerisce l'esistenza di un cosiddetto “effetto Werther” di contagio suicida in seguito a un suicidio "eccellente", di finzione o non. Secondo il sociologo David P. Phillips, che coniò la definizione in un articolo del 1974 sulla American Sociological Review, l'apparente suicidio di Marilyn Monroe, ad esempio, avrebbe causato un aumento del 12% nei suicidi del 1962. Di conseguenza, molti paesi ora hanno linee guida per i media quando segnalano i suicidi. Si scopre che non è semplicemente la notizia di un suicidio che può influenzare le azioni degli altri, ma il modo, l’enfasi, la durata in cui viene riportata, l’ambiente in cui viene recepita.


Al contrario, i tentativi di prevenire il suicidio con il metodo della segnalazione sono stati recentemente (British Medical Journal, 2010) definiti come “effetto Papageno”, dal nome del personaggio nell'opera di Mozart Il flauto magico. Papageno teme di aver perso il suo amore, Papagena, e sta pianificando la sua morte (per impiccagione) quando gli viene impedito all'ultimo minuto da tre bambini-spiriti, che gli suggeriscono di suonare i suoi campanelli magici per convocare Papagena, che opportunamente appare.



Così l'evidenza aneddotica dei suicidi provocati dalla lettura de I dolori del giovane Werther comincia a sembrare più plausibile. Esiste un ulteriore motivo per la sua credibilità, da aggiungere alle recenti prove della ricerca psichiatrica, e cioè alla tecnica narrativa del romanzo. Il romanzo è composto principalmente da lettere. Ma la forma epistolare di Goethe ha una caratteristica originale, e cioè che mancano le lettere del corrispondente di Werther. Così Werther scrive al suo amico, il pragmatico Wilhelm, ma il lettore non può vedere le sue risposte. Il lettore, quindi, diventa la controfigura di Wilhelm. I lettori del XVIII secolo erano abituati ai romanzi con un chiaro messaggio morale, spesso esplicitato dal narratore. Ma leggendo le parole di Werther dovevano intuire le risposte di Wilhelm sulla base della successiva lettera di Werther. Da nessuna parte questo coinvolgimento con Werther è più intenso di quando, a lungo, giustifica il suicidio nella sua lettera del 12 agosto 1771. Come lettori, immaginiamo la risposta di Wilhelm e consideriamo anche quali potrebbero essere state le nostre strategie persuasive.

Dopo essersi identificati così completamente con Werther, dobbiamo quindi dare un senso all'improvviso e inquietante suicidio di cui l'editore, che appare relativamente tardi nel libro, ci informa alla fine. Proprio questo modo di raccontare la storia ha un effetto così profondo sul lettore. Siamo costretti a cercare di dare un senso al suicidio proprio come Goethe quando Jerusalem si sparò. Dobbiamo, in parte, raccontarci la storia. E alcuni giovani potrebbero averlo fatto in un modo che ha approfondito la loro disperazione.

Goethe nel 1773

C'è un'ultima ironia sullo sfondo del Werther. Mentre molti giovani lettori del romanzo provarono un maggior grado di disperazione per le loro vite, Goethe aveva usato il contenuto del romanzo per liberarsene. Quando concluse l’opera, paragonò il suo umore a quello sperimentato "dopo una confessione generale, gioiosa e libera e chiamata a una nuova vita". Per Goethe l'effetto Werther fu catartico. Non così, a quanto pare, per molti dei suoi lettori.

sabato 20 luglio 2013

Prontuario di clinica letteraria

ad uso degli specializzandi in medicina editoriale


La conoscenza delle sindromi letterarie più comuni è un requisito indispensabile per gli operatori clinici impiegati in strutture pubbliche o private per la cura degli scrittori compulsivi o semplicemente inetti, come ad esempio nelle case di tolleranza letteraria. Questo breve articolo è un invito all'istituzione di un prontuario clinico, con alcuni esempi considerati tra i più significativi.

Bulemia (gr. Βουλή): mania degli scrittori di voler dare consigli di scrittura. Lo scrittore bulemico avverte l’irrefrenabile impulso di dare ricette sul bello scrivere in ogni occasione, salvo poi smentirle, rigettarle, in quella successiva, Al di là di epoche, stili, correnti letterarie o biografie personali, si può sostenere che esistono due tipi di scrittori: quelli che danno consigli su come scrivere e quelli che si fanno giustamente i fatti loro. Gli uni sono convinti di poter dire qualsiasi cosa sulla poesia, sul racconto, sul romanzo, e così via, solo perché hanno avuto la fortuna di imbattersi in un editore compiacente. Gli altri invece non sono mai stati pubblicati, forse perché il loro anonimato deriva dall'inesistenza: l’insieme degli scrittori che non danno consigli è infatti da sempre inesorabilmente vuoto.

Colpo dello Strega: improvvisa e dolorosissima mialgia dorsale che colpisce i favoriti di un premio letterario che poi non lo vincono. Anche scrittori apparentemente indifferenti alle glorie editoriali e mondane ne soffrono. Si narra che al Campiello del 1994, all'annuncio della vittoria di Antonio Tabucchi con Sostiene Pereira, ben due finalisti si accasciarono al suolo colpiti da acuti dolori dorsali. Il c. d. s. si cura con il riposo e una dieta a base di letture di scrittori che ottennero soltanto riconoscimenti postumi. Nel 2012 la sconfitta allo Strega di G. C. causò un c. d. s. così forte al punto che si temette potesse smettere di scrivere. Purtroppo invano.

Displagia (lat. plagium): anormale sviluppo stilistico e lessicale in un testo letterario, consistente in genere in una evidente ripetizione, letterale o in parafrasi, di frasi o concetti di altri autori. Se la ripetizione è smaccatamente evidente si è in presenza di una neoplagia. Non sempre la diagnosi di d. è agevole, anche perché c’è chi ritiene che la storia del pensiero sia oramai così lunga che è stato scritto tutto, pertanto i nuovi autori non possono far altro che ripetere l’esistente, magari con le stesse parole. Per questo motivo non necessariamente la d. è indice di dolo: esistono prove accertate di totale identificazione con un autore da parte di un altro autore. Il caso più noto di questo accidente letterario è quello del francese Pierre Menard, che, nel primo dopoguerra, non volle rifare il Don Chisciotte, né adattarlo all’epoca contemporanea, ma volle identificarsi totalmente con Cervantes e riscrivere parola per parola il Don Chisciotte senza peraltro copiarlo.

È stato inoltre rilevato da recenti studi clinici francesi che il fenomeno si può manifestare percorrendo all'inverso la freccia del tempo; si tratta della cosiddetta displagia per anticipazione, nella quale l’autore che ripete un’opera è vissuto o ha operato precedentemente all'autore considerato l’ispiratore.

Un esempio di questo caso è fornito dall'opera di Arnaldo Biserani (1905-1963), che è stato uno dei più grandi poeti e pittori inventati del ‘900. Esponente di spicco dell’avanguardia romagnola, ha per certi versi anticipato le tematiche e gli stili della beat generation e del gruppo ’63, ma impregnati dello spirito solare della sua terra. Questa sua Maiali nell’alba (1952) è stata da alcuni accostata alla nota Urlo di Allen Ginsberg, che è tuttavia di tre anni posteriore:

Sono andato con la macchina nuova 
all'allevamento dei maiali del Donnini 
su fino a Mirandola, e li ho visti. 
Ho visto le bestie migliori 
della mia generazione 
distrutte dalla follia, ingrassate, nude, 
trascinarsi nei recinti negri all'alba 
in cerca di un sollievo astioso, 
un pastone nel truogolo celeste, 
nella dinamo stellata nel meccanismo 
della notte. Con gli occhi vuoti 
sedevano grugnendo nell'oscurità 
chiedendosi il perché e il come 
di una vita vissuta per diventare 
costine e salami, prosciutti e ciccioli, 
per i Biserani come me, angeli 
sterminatori dell’Apocalisse suina. 

In Milano (1959) qualcuno ha visto echi del Pagliarani di La ragazza Carla:

A Milano in un lungo inverno scuro, quando il sole è cosa di Romagna, 
incontro la cassoela untuosa, le puntine, le cotenne, i salamini 
nella verza accogliente come una vagina innamorata; alla sera mi portano
in un ristorante di pesce a Lambrate, nella sera metallica e nebbiosa 
di treni e di tram e gente che si aggira insonnolita e gelida 
e trovo nel menù il rombo di nuovo, e le sue forme regolari 
e schiacciate di pesce geometrico, con la superficie prodotto 
delle diagonali, quattro lati, paralleli due a due, ingobbiti 
dalla pressione dell’acqua, ma io ordino un gran fritto misto, 
che dicono che qui è più fresco che al porto di Rimini, 
può darsi ma non lo sanno fare e sa di bombolone riscaldato, 
allora prendiamo la macchina e andiamo a bere un digestivo 
in centro, dove i camerieri hanno più puzza sotto il naso 
dei clienti ricchi, industriali e negozianti con il gozzo 
da macellaio che ordinano vischi d’annata per loro e le due-tre
puttane che li accompagnano fumando Muratti e Mercedes. 
Usciamo sotto le colonne e la nebbia è sparita, tira aria di neve, 
allora ci congediamo e ci diamo appuntamento per la mostra 
di Fontana l’indomani, e io sono contento, tra i primi fiocchi 
illuminati dai fanali, di tornare al caldo, mettermi in pigiama, 
e sedermi sul water che mi scappa anche da cagare. 

Labirintite s. f. sing. (gr. λαβύρινθος): sindrome letteraria che colpisce gli imitatori scadenti di Jorge Luis Borges. Lo scrittore labirintitico soffre di mancanza di equilibrio, pertanto utilizza uno stile letterario ricco di riferimenti culturali, vagamente arcano, quando non ce n’è assolutamente bisogno. Fa inoltre un eccessivo uso di metafore, quali quella del labirinto o della biblioteca, di frequente derivanti dai concetti della matematica del Novecento. Il labirintitico utilizza concetti arditi per fatti banali, spesso facendo riferimento a testi inesistenti.

Un esempio di scrittore colpito da questa malattia è il parmigiano Secondo Barezzi (1968), indeciso tra il minimalismo delle sue storie e lo stile inutilmente erudito:

“Tra gli intricati scaffali della Ipercoop, nel reparto Frutta e Verdura, con i prodotti esposti con meticoloso ordine su banconi che ricordano una tassellatura universale dell’orticoltura, Paolo Barani indossò il guanto di plastica trasparente e prese in mano una cipolla. Ricordò che nella Biblioteca Universitaria di Bologna esiste una copia dell’Erbarium Alchemicum del Sangalli su cui, di fianco a una rappresentazione a colori del comune bulbo, una mano coeva scrisse che gli strati della cipolla sono indefiniti e tuttavia non infiniti. Vide la propria immagine riflessa nella parete a specchio, aborrendola come la propria paternità recente. Prese un mazzo di cipolle, lo infilò nel sacchetto e lo pesò sulla bilancia. Schiacciò poi il tasto corrispondente al prodotto, come aveva fatto migliaia di volte nell’interminabile Conad della lontana e ineffabile Fidenza. Appiccicò l’etichetta sul sacchetto, lo ripose nel carrello, le cui ruote disegnavano con il movimento immaginarie e dolorose cicloidi. Passò nel reparto Salumeria e si sentì come Martin Fierro ai confini dell’Uruguay”.

Logotomia, s. f. sing (gr. λόγος e τομή): intervento editoriale d’urgenza per salvare ciò che si può dell’opera letteraria di autori eccessivamente verbosi e barocchi. La l. consiste nell'eliminazione di parole, incisi, frasi, periodi, capitoli considerati non necessari o dannosi, la cui presenza è considerata alla stregua di un arto cancrenoso. Si consideri ad esempio il seguente brano:

“Ci sono luoghi in Campania che sono un buco nero. Sì, un buco nero che attira tutto a sé e non restituisce niente. Tutto, nel buco nero, viene attratto e non esce più: danaro, energie, speranze, illusioni, intelligenza, amore. E questo buco nero in cui finiscono danaro, energie, speranze, illusioni, intelligenza e amore si chiama Camorra. La Camorra è il buco nero della Campania, un oggetto che chiude, che imprigiona, e quindi non è aperto, non libera. Girando vorticosamente su stesso, il buco nero che si chiama Camorra è la maledizione della Campania. Terribile. Insaziabile. La Camorra è terribile, insaziabile, un buco nero nel cuore della Campania.” 

Un intervento di logotomia leggera porterebbe al seguente risultato: “Ci sono luoghi in Campania che sono un buco nero che attira tutto a sé e non restituisce niente. Tutto, nel buco nero, viene attratto e non esce più: danaro, energie, speranze, illusioni, intelligenza, amore. E questo buco nero si chiama Camorra. La Camorra è un oggetto che chiude, che imprigiona. Girando vorticosamente su stesso, il buco nero è la maledizione della Campania. Terribile. Insaziabile. un buco nero nel cuore della Campania.”

Un editore più severo, o più pietoso, attuerebbe questo ulteriore intervento logotomico: “Ci sono luoghi in Campania che sono un buco nero che attira tutto a sé: danaro, energie, speranze, illusioni, intelligenza, amore. E questo buco nero si chiama Camorra. Terribile. Insaziabile.” .

Omeropatia, s. f. sing. (gr. ‘Ομηρος e πάθος): teoria letteraria secondo la quale è sufficiente inserire una parola tratta dall'Iliade o dall'Odissea per fare di un testo qualsiasi un’opera degna di essere letta. Se, ad esempio, si inserisce ίππος (cavallo) ogni diecimila parole scritte da Baricco, si dirà che il racconto è una preparazione omeropatica di grado 4 applicata a Baricco, dove la cifra indica l’esponente negativo della diluizione della parola omerica (1/10.000 = 10−4). I sostenitori dell’omeropatia pensano che la parola omerica inserita sia in grado di modificare il campo testuale, trasferendo ad esso le sue proprietà vibrazionali benefiche. Per alcuni autori sono necessarie elevate concentrazioni di parole omeriche, per cui il testo rischia di contenerne troppe, rendendolo poco agevole la lettura. Gli omeropati considerano indispensabili diluizioni 2 o 3 (1/100 o 1/1.000) per autori come Tamaro o Faletti.


giovedì 8 marzo 2012

Introduzione alla Psicologia Cacopedica

(di Matteo Prati e Patrizia Barchi)


Sindrome da sonnolenza notturna

Si tratta di un disturbo molto diffuso nella popolazione sia maschile che femminile e raggiunge picchi di diffusione pari al 100 per cento. Generalmente insorge alla nascita e rimane presente fino alla vecchiaia inoltrata, per quanto nel corso degli anni si assista ad una risoluzione che tuttavia non diviene mai completa. L’individuo si presenta immobile, all’apparenza privo di vita e con gli occhi chiusi; scientificamente questo stato è definito «sonno». Il disturbo si manifesta ogni giorno, generalmente nelle ore notturne, ma si registrano anche occasionali manifestazioni per esempio nel pomeriggio, specialmente dopo pranzo (in tal caso l’individuo si definisce «in fase di abbiocco» anche se certi manuali psicopatologici parlano di homo pennichellicus). Nella fase acuta del disturbo, cioè quando la persona dorme bene, si può presentare un fenomeno complesso di immagini, sensazioni e percezioni definito dagli esperti «sogno». In particolare, se prima di addormentarsi il paziente ha ricevuto un’affettuosa buonanotte, con molta probabilità andrà incontro ad un «sogno d’oro», evenienza che depone per un decorso sfavorevole del disturbo; nel caso in cui il paziente non ricevesse nessun tipo di buonanotte, dormisse da solo o non avesse digerito, potrebbe andare incontro ad un sogno angoscioso, chiamato tecnicamente «incubo», evenienza questa che depone per un decorso favorevole del disturbo. Durante i sogni può presentarsi irrequietezza motoria, eloquio sconnesso (nomi propri di persona, bestemmie, mugolii), un minore controllo sfinterico, ed infine un fenomeno che altera la respirazione del soggetto chiamato tecnicamente «russamento». Da tenere presente che non si fa diagnosi di SSN nel caso in cui il sonno non si presentasse per almeno 48 ore consecutive; in questo caso si parla di «insonnia» e dunque l’individuo gode di ottima salute.

Disturbo di accrescimento normale

Il disturbo insorge nei primi anni di vita ed è possibile diagnosticarlo fino al compimento del ventesimo anno di età. La caratteristica fondamentale del disturbo consiste nell’adesione pressoché totale del paziente alle principali tappe evolutive. I casi in cui si fa diagnosi sono molteplici: quando un individuo cominciasse a parlare e camminare intorno al primo anno di vita; quando riuscisse ad acquisire il controllo sfinterico intorno ai due anni e mezzo; quando imparasse a leggere e a scrivere in prima elementare; quando raggiungesse la maturità sessuale intorno agli 11-12 anni; e infine quando negli anni successivi si manifestassero insicurezza sociale, contrasti familiari, demotivazione scolastica e fenomeni di coinvolgimento emotivo – chiamasi innamoramento – noi confronti dell’altro sesso, ebbene in tutti questi casi sarà corretto fare diagnosi specificandone il sottotipo (infanzia, pubertà, adolescenza). Paradossalmente gli esiti più preoccupanti del DAN si riscontrano nei genitori degli individui che ne sono affetti, ossessionati dal pensiero che il figlio non stia crescendo bene. Il DAN per questo rientra nella categoria dei disturbi cosiddetti «boomerang», in quanto i sintomi si presentano a carico dei familiari dei pazienti. Sommariamente la sintomatologia riguarda manifestazioni d’ansia (per esempio domandarsi se il figlio ha mangiato dopo che ha mangiato, se ha dormito dopo che ha dormito, se ha studiato dopo che ha studiato e così via), comparazione tra nuclei familiari, contrasti tra coniugi. Per porre la diagnosi è necessario escludere la presenza della sindrome di Peter Pan, ovvero il desiderio di rimanere bambini, nonché aspirazione velleitarie rispetto al proprio sviluppo che fa credere agli individui di essere più adulti di quanto non siano.

Compulsione pneumodinamica

Si tratta di un disturbo che compare appena un individuo emette i primi vagiti e si protrae per tutto l’arco della vita; dalla «culla alla tomba» – from the cradle to the grave – così di solito viene identificato dai maggiori esperti in campo internazionale. A chi osservasse un paziente dall’esterno, il disturbo si presenta con un iniziale ingrandimento e successiva riduzione della gabbia toracica, fenomeno che si realizza ogni quattro-cinque secondi; inoltre, dalla bocca oppure dal naso è possibile osservare, in specie d’inverno, delle nuvolette di vapore che segnalano appunto il disturbo in atto – l’uomo respira. Il disturbo è diffusissimo e per questo gode di un certo credito la teoria che lo vede trasmissibile per imitazione, alla luce anche del fatto che ad oggi rimangono completamente inesplorate le eventuali cause genetiche. Questi pazienti possono andare incontro ad un’alterazione della sintomatologia in più occasioni della vita; si segnala un’alterazione della frequenza compulsiva in occasione di sforzi fisici (corse, coito, saliscendi etc.) e a questo proposito l’individuo emette rantolii con annessa agitazione toracica, fenomeno chiamato tecnicamente «fiatone». Per ciò che attiene alla terapia, sono stati messi a punto vari sistemi capaci di favorire nei pazienti un maggiore controllo della malattia, tra questi citiamo la tecnica yoga e la meditazione zen; invero, una prognosi completamente favorevole del disturbo, stando anche alla più nutrita letteratura scientifica, deve ancora trovare conferma. Di sicuro, il morire rimane ad oggi il sistema più efficace per eliminare completamente ogni sintomo.


L’esperienza della Psicologia Cacopedica nasce con la costituzione del Centro Studi Patologie Inapparenti (CSPI) nel 2006, quando Matteo Prati (noto anche come Matto Guarito) assieme a Patrizia Barchi, che diverrà successivamente la segretaria del CSPI, decisero da far qualcosa per contrastare uno specifico problema che alligna nella psicologia, o meglio nella nosografia psichiatrica, cioè l’espansione delle categorie diagnostiche utilizzate dagli psichiatri per designare il disagio mentale; basti ricordare che nel 1880 esistevano soltanto sette categorie psicopatologiche (mania, melanconia, monomania, paresi, demenza, dipsomania, epilessia) contro le trecento attuali. Di fronte a tanta volontà classificatoria – che certamente paga: le case farmaceutiche, gli psicologi, gli psichiatri, gli psicoanalisti – venne da domandarsi se non fosse possibile l’elaborazione di nuove etichette diagnostiche da attribuire (per scherzo) a taluni «pazienti» prima che la medicina ufficiale potesse farlo sul serio e con intenti non semplicemente propagandistici. Così vennero fissati idealmente i passaggi da seguire per l’elaborazione di una voce diagnostica, a cui possibilmente lo psicologo cacopedico dovrà attenersi durante il proprio lavoro:

- per prima cosa è necessario partire da un comportamento qualsiasi, che non rimandi a nessuna condizione in particolare di un soggetto né che sia legato in maniera significativa a qualche comportamento o pensiero del medesimo;
- poi si tratta di trovare un’espressione che riesca a designare con efficacia solo fonica il comportamento in fase di patologizzazione;
- infine, evasa la parte descrittiva dei sintomi e dei segni fisici inapparenti, si procede con l’analisi a occhio all’individuazione dei legami tra il disturbo e la popolazione generale, attraverso caratteristiche come l’età, la cultura, il sesso.

Tra le prime diagnosi elaborate, che è corretto chiamare diagnosi potenziali – dunque quadri comportamentali atipici relativamente ai quali comincia a farsi sentire opportuna la stigmatizzazione medica – sono da menzionare la Sindrome da sonnolenza notturna (SSN), il Disturbo di accrescimento normale (DAN), il Disturbo da disoccupazione mentale (DDM), il Disturbo dell’inconscio (DI) e la Compulsione pneumodinamica (CPD). Più tardi sono stati identificate diverse altre patologie potenziali, come la Sindrome da marito pensionato (SMP), la Sindrome da risata insufficiente (SRI), il Disturbo del bisogno di culto (DBC), il Disturbo da indipendenza da sostanze (DIS), ecc.


In una fase successiva l’attività del CSPI è andata affinandosi nella direzione di rendere maggiormente sistematica la propria attività, attraverso il Manuale preventivo dei disturbi mentali il cui fine, oltre a fare il verso all’imponente e serio DSM (la bibbia ufficiale d’ogni psichiatra, per esteso: Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), è quello di rappresentare un imprescindibile punto di riferimento per chi si avvicinasse alla psicologia cacopedica. Nel Manuale preventivo i disturbi cacopedici sono raccolti sulla base del quadro comportamentale preso in considerazione; accanto alle diagnosi potenziali, è prevista l’area delle Nuove Dipendenze Patologiche, in cui per esempio è inserita la Dipendenza dall’età anagrafica, nonché l’area della Psicopatologia letteraria, in cui è inserita la Sindrome del bibliofilo inappagato, elaborata da uno dei primissimi collaboratori del CSPI, Paolo Albani.

Nel corso degli anni le iniziative del CSPI si sono ampliate in maniera notevole, dal corso di Laurea in Psicologia Cacopedica alla Scuola elementare per diventare malati di mente di Patrizia Barchi, all’uscita di Come diventare malati di mente di Matteo Prati.

Segnalo solo l’ultima iniziativa in ordine di tempo: a Milano è nato proprio in questi giorni il Centro di Ascolto Filosofico per studenti e persone in difficoltà mentali. Un filosofo cacopedico aiuterà in maniera individualizzata la persona nel suo percorso verso la vera e propria malattia di mente. L’obiettivo è quello di promuovere l’incapacità di filosofare sui problemi e sulle situazioni di disagio che la persona sta vivendo. In generale, saranno rinforzate e potenziate demotivazioni ontologiche e fenomenologiche, problemi in ordine a un sapere universale e definitivo, incapacità di svolgere indagini critiche e di riflettere sui principi fondamentali della realtà e dell’essere, l’impossibilità di farsi delle idee e di avere dei principi che possano ispirare le scelte e la linea di condotta delle persone, per non giungere mai a una serenità d’animo e a una risposta saggia sulla vita. Si può accedere al servizio in qualunque momento, basta il sentirne la necessità, perché il CAF è sempre aperto e rappresenta una possibilità concreta per aggravare e stabilizzare un problema filosofico. Il filosofo cacopedico cercherà di definire e capire adeguatamente il tipo di difficoltà filosofica, affinché possa trasformarsi in un problema irrimediabile nel futuro, ovvero cerca di intervenire tempestivamente nel presente per creare le possibilità di pensare male nel futuro.