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lunedì 12 dicembre 2022

La canzone di Perel’man

 


Il racconto breve Perel’man’s Song della poetessa, scrittrice, accademica e editrice sino-americana Tina S. Chang (1969) è apparso nel numero di febbraio 2008 della rivista Math Horizons. Utilizza una conversazione tra divinità che manipolano universi per informare poeticamente il lettore sulla Congettura di Poincaré. Questo è un esempio dell'uso della finzione matematica per dire, attraverso la metafora, ciò che altrimenti potrebbe essere troppo astratto per essere facilmente trasmesso ai non esperti.

La topologia delle varietà o superfici bidimensionali era ben nota già nel XIX secolo. Esiste infatti un semplice elenco di tutte le possibili superfici lisce compatte orientabili. Qualsiasi superficie di questo tipo ha un genere ben definito g ≥ 0, che può essere descritto intuitivamente come il numero di fori; e due di tali superfici possono essere poste in una regolare corrispondenza biunivoca l'una con l'altra se, e solo se, hanno lo stesso genere.

Ad esempio, una sfera ha genere 0: non ha "buchi". Più rigorosamente, ogni curva chiusa tracciata su di essa la separa in due calotte sferiche; un toro ha invece genere 1: è possibile tagliare il toro lungo una curva chiusa che segue una delle due circonferenze generatrici, ottenendo in ogni caso un cilindro connesso; ogni altro taglio supplementare otterrebbe due superfici non connesse.


La domanda corrispondente nelle dimensioni superiori è molto di più difficile. Henri Poincaré fu forse il primo a tentare di fare uno studio simile sulle varietà tridimensionali. L'esempio più basilare di tale varietà è la sfera unitaria tridimensionale, cioè il luogo di tutti i punti (x,y,z,w) nello spazio euclideo quadridimensionale che hanno distanza esattamente 1 dall'origine:


Poincaré notò che una caratteristica distintiva della sfera bidimensionale è che ogni semplice curva chiusa nella sfera può essere deformata continuamente in un punto senza lasciare la sfera. Nel 1904, fece una domanda corrispondente nella dimensione 3. In un linguaggio più moderno, può essere formulata come segue:

Domanda. Se una varietà tridimensionale compatta M3 ha la proprietà che ogni semplice curva chiusa all'interno della varietà può essere deformata continuamente in un punto, ne consegue che M3 è omeomorfa alla sfera S3?

Egli commentò, con notevole lungimiranza, “Mais cette question nous entraînerait trop loin”. Da allora, l'ipotesi che ogni 3-varietà chiusa semplicemente connessa sia omeomorfa alla 3-sfera è nota come Congettura di Poincaré. Da allora ha ispirato i topologi, e i tentativi di dimostrarla hanno portato a molti progressi nella comprensione della topologia delle superfici.

Detto in parole più semplici (ovviamente tralasciando particolari tecnici e essendo meno rigorosi), esiste un modo per dire con certezza se ci si trova su una sfera o meno, anche senza volare nello spazio per guardarla da lontano. Prendiamo una lunga corda e fissiamone un'estremità nel punto in cui ci troviamo. Quindi camminiamo sulla superficie per una grande distanza, allungando la corda mentre procediamo. Quando alla fine si torna al punto di partenza, prendiamo le due estremità della corda (quella che è rimasta in un punto e quella che abbiamo portato con noi) e le leghiamo in un cappio. Con un nodo del genere, stringendo si può rendere il cappio sempre più piccolo, e su una sfera si può sempre farlo, mantenendo la corda in superficie, ma se stessimo camminando su una ciambella (un toro) allora potrebbe non essere possibile. Immaginiamo di essere su una ciambella e di camminare attraverso il buco e tornare al punto di partenza. In questo caso non saremmo in grado di rimpicciolire il cappio senza tagliare la ciambella. (Possiamo anche camminare intorno al buco, nel qual caso il cappio non può diventare più piccolo del buco senza lasciare la superficie).

Il punto è questo: se abbiamo una superficie e sappiamo che è di dimensioni finite senza bordi, allora se ogni anello sulla superficie può essere ridotto alla dimensione del punto, deve essere una sfera (e, viceversa, non può essere una sfera se c'è un cappio che non può essere ridotto ulteriormente).

La Congettura di Poincaré è l'affermazione che la stessa cosa si può dire anche per gli spazi dimensionali superiori. In particolare, Poincaré affermò che qualsiasi spazio tridimensionale compatto in cui gli anelli possano essere rimpiccioliti in questo modo (cioè sia semplicemente connesso) debba essere la versione tridimensionale di una sfera, chiamata S3. (1) Da allora, l'affermazione è stata generalizzata a qualsiasi numero di dimensioni. Quindi, quando qualcuno oggi parla della Congettura di Poincaré intende dire che uno spazio compatto, n-dimensionale è equivalente alla n-sfera, Sn, se e solo se è un omeomorfismo equivalente.

Questo è stato un problema aperto molto famoso, elencato anche come uno dei problemi del millennio per i quali il Clay Institute ha offerto un premio di 1 milione di dollari. Tuttavia, ora è stato risolto. Sebbene questo programma di ricerca sia stato avviato da Richard Hamilton e anche molti altri geometri abbiano contribuito al programma, il passaggio finale è stato completato da Grigori Perel’man.

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La canzone di Perel’man

A Hamilton e Perel’man e a tutti gli altri matematici le cui ricerche hanno portato alla dimostrazione della Congettura di Poincaré.

C'era un universo amorfo, una varietà tridimensionale seduta radiosamente nella mano di un dio. Anche se questo dio era onnipotente, non era onnipresente, non poteva vedere l'essenza del suo universo. "Non ha singolarità (2), né buchi neri", osservò, sentendo la levigatezza della forma tra le mani. "Pensi che sia una sfera? Non sembra una bella sfera a tre dimensioni, ma forse è una ipersfera deformata e contorta che sembra semplicemente incomprensibile perché l'ho messa insieme in modo così casuale quando è stata creata."

Una dea lì vicino gettò da parte il suo universo e sbirciò da sopra la sua spalla curva. Tracciò pigramente degli anelli nel suo universo, poi li strinse in punti. Lo fece all'infinito. Controllò tutti i possibili anelli che riusciva a disegnare e nessuno si impigliava nel buco di una ciambella. Non ci volle tempo, perché vivevano fuori dal tempo, fuori dalla dimensione, in uno spazio inimmaginabile per l'uomo.

Lei ridacchiò per il suo fastidio quando riportò il suo universo tra le mani chiuse. "Beh, è semplicemente connesso (3)", concluse e prese il suo universo prima che potesse andare alla deriva.

Il suo era un universo toroidale increspato punteggiato di singolarità appuntite. Quando disegnò un anello attorno al buco della ciambella al centro, rimase come un arco luccicante attraverso il minuscolo cielo incapace di stringersi. Altri anelli che disegnava si contraevano in scintille d'oro.

"E come ciò risponde alla mia domanda?" chiese il dio, curioso di come i suoi anelli d'oro potessero far vedere che il suo universo era una 3-sfera. Queste dee onniscienti ma in qualche modo meno potenti spesso avevano assi matematici nella manica. Questa particolare dea inventava sempre nuovi universi con strane equazioni, per governarli.

La dea sorrise. "Qualsiasi varietà 3 chiusa semplicemente connessa è una sfera." Fece scivolare le mani tra le sue per accarezzare il suo universo. "Il tuo è liscio e tridimensionale e… semplicemente connesso" Tracciò un altro anello dorato. Scivolò lentamente attorno alle spire del suo universo e poi su una delle sue estremità simili a un sigaro finché non si strinse fino a diventare un punto sulla punta.

"E perché questo lo rende una 3-sfera?" disse dolcemente, scostandole la mano.

"Uno dei miei abitanti lo ha dimostrato." Lei rise. Toccò con il dito un punto del suo universo, "Perel’man è qui sul bordo di una galassia a spirale." Il suo universo era duro, increspato secondo le sue leggi e completamente invulnerabile al suo tocco. A giudicare dal luccicante arco dorato, non era semplicemente connesso. Né era liscio. Tirò via la mano prima che lei potesse raschiare una delle sue dita su una singolarità.

“Ah, uno dei tuoi abitanti lo ha dimostrato.” la assecondò, chiedendosi come un universo dettato da equazioni potesse avere degli abitanti intelligenti di cui parlare.

"Beh, se non mi credi." lo schernì, “Puoi usare tutte le tue potenti abilità per plasmare quel tuo universo in una sfera. La prova è costruttiva”.

"OK" disse, sollevando la sua varietà tridimensionale nello spazio vuoto tra di loro. "Cosa stai suggerendo esattamente?"

"Prima devi trasformarlo con il flusso di Ricci (4)." iniziò.

"Questa è una delle equazioni della tua varietà adesso..." disse, ricordando che il tensore di Ricci misurava la curvatura dello spazio e dei volumi al suo interno.

"No, la mia è l'equazione di Einstein. Contiene anche il tensore di Ricci. ma è un'equazione d'onda. Il mio universo cambia con le increspature gravitazionali che emanano e si fondono..."

“e causando ogni sorta di singolarità!” obiettò lui.

"Hai paura delle singolarità?" scherzò lei.

"No…"

"Perché potremo creare delle singolarità, ma le taglieremo..."

"Ehi!" Il dio riprese l'universo tra le sue braccia protettive

. "Solo temporaneamente, rimetteremo insieme l'universo quando avremo finito." lei lo rassicurò. “Comunque, il flusso di Ricci è un'equazione parabolica, funziona come il calore, non come le onde. Dissipa la curvatura attraverso l'intero universo rendendolo omogeneo, così che alla fine dovrebbe sembrare un cilindro o una sfera che si restringe..."

"E le parti che hai tagliato via?!"

"Le rimettiamo e sembra ancora una sfera."

"E questo tuo abitante ha inventato tutto questo?"

"Oh. no. Perel’man ha dimostrato che le 3-varietà semplicemente connesse sono sfere, ma il flusso di Ricci è stato sviluppato da Hamilton, e in realtà è la somma totale del lavoro di oltre una ventina di abitanti diversi vissuti in tempi diversi. Anche il tensore di Ricci era complicato da capire per gli esseri tridimensionali."

"E allora cosa ha fatto questo Perel’man?"

"Ha aggiunto una canzone. Ascolta attentamente e sentirai cantare il tuo universo. Cambia la forma e la nota cambia."

Il dio sollevò il suo universo e ne suonò la nota. Ribolliva e si avvolgeva e la nota cantava su e giù scivolando dolcemente in una melodia che poteva controllare.

Poi plasmò il suo universo con il flusso di Ricci e la nota incominciò a salire. La nota suonava sempre più alta mentre le protuberanze si allargavano e le spire si tendevano in lunghi cilindri. Man mano che il suo universo si restringeva, si allungava in una rete di tubi sottili.

"Taglia quello!" la dea indicò un tubo che stava collassando in una corda tesa. "Taglia ciascuno prima che si sviluppi un singolo filo."

Il dio fermò il tempo, il suo universo congelato, timoroso di tagliare il filo. "La canzone di Perel’man dimostra che le singolarità simili a filamenti sono cilindri tridimensionali prima di collassare". disse la dea. “Puoi riparare facilmente la rottura con due tappi dopo il taglio."

Tagliò delicatamente il tubo e, quando sollevò le metà, i loro bordi erano sfere rotonde bidimensionali. Gli porse due palline e lui riempì i bordi sferici vuoti, levigando delicatamente prima di far ripartire il tempo per i due universi che ora teneva davanti a sé.

. La coppia di universi riprese il flusso di Ricci e i loro mezzi filamenti tornarono a posto. Entrambi cantavano ancora, sempre più alti, dossi che si allargavano e spire che si allungavano in nuovi fili.

Lui tagliò il filo sottile successivo e lei gli diede due nuove palline per rattoppare i nuovi pezzi e lui tagliò più fili su pezzi diversi e l'universo si è moltiplicato. Ad ogni taglio il successivo saltava su un registro più alto e poi cantato dolcemente verso l'alto.

"Ad Infinitum?" chiese, quando ebbero completato il loro centesimo taglio.

"No, se è una sfera a tre", disse, osservando gli universi che si svolgevano intorno a loro.

"E se non è una sfera a tre?" chiese mentre esaminava la millesima fetta sferica.

«Poi alla fine smettiamo di tagliare ed esaminiamo la forma collassata a cui si avvicina.» sussurrò, temendo che Perel’man potesse sbagliarsi.

“Ma è una sfera a tre perché è semplicemente connessa.” sorrise, immaginando che l'ultimo taglio fosse vicino.

"E tutti i pezzi." pregò, "dovrebbero diventare 3-sfere che si restringono fino all'estinzione..."

All'improvviso alcuni dei minuscoli universi si arrotondarono in 3 sfere in rapida riduzione. Le raggiunse, raccogliendo il loro flusso prima che potessero uscire dall'esistenza.

I loro occhi si incontrarono momentaneamente. prima che lei indicasse le successive tre parti che si assottigliavano e gli lanciasse sei palle.

Mentre il dio lavorava sempre più velocemente. spezzando nuovi fili e catturando nuove sfere, la nota salì più in alto di qualsiasi tono che la dea avesse mai sentito prima.

Alla fine, accadde: tagliarono il loro ultimo filo e l'ultima coppia di universi si arrotondò in identiche sfere tridimensionali.

Il dio li prese tra le mani e li strinse. Anche lui era immobile, stupito dai milioni di minuscole 3-sfere perfette che fluttuavano intorno a loro.

"Adesso vedi." disse senza fiato. prendendo un paio di sfere nelle sue mani "se rimuovi le palline con cui le abbiamo rattoppate e le unisci di nuovo insieme, puoi vedere che in realtà erano 3-sfere deformate prima che le spezzassimo a metà..."

Rimosse con cura le sfere corrispondenti dalle sfere gemelle e le unì le mani in modo che i bordi emersero vicino alla punta delle sue dita. Quindi, insieme, riformarono l'universo unito in un'unica luminescente 3-sfera tenuta tra le loro mani aperte.

"Incredibile" Il dio sollevò tutti i pezzi in aria all'unisono, rimettendoli al loro posto, aprendoli e fondendo insieme i bordi sferici.

Il suo universo, liberato dal flusso di Ricci, palpitò per alcuni battiti e poi si congelò in una perfetta sfera tridimensionale omogenea che fluttuava tra di loro.

Sedevano insieme, in uno spazio senza tempo, osservandone in silenzio la bellezza. Il dio disegnò un anello d'oro attorno al suo equatore e lo guardò scivolare su per le latitudini e scomparire con una scintilla al polo.

Liberandolo dalla matematica, lo riavvolse dolcemente nella sua forma originale. Ora poteva veramente vedere che era sempre stata una 3-sfera, una ipersfera deformata e contorta, ma ininterrotta.

Si rivolse alla dea..."... e cosa accadrebbe se mettessimo insieme i nostri universi."

"L'unione non sarà semplicemente connessa e non sarà una sfera." Avvicinò il suo universo per fonderlo con quello di lui. "Ma forse, se appianiamo le mie singolarità, possiamo farle confluire in una geometria che non abbiamo mai visto prima."

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Note:

1 -Sfera tridimensionale, o 3-sfera - In matematica, una 3-sfera (detta anche ipersfera) è un analogo dimensionale superiore di una sfera. Può essere visto nello spazio euclideo quadridimensionale come l'insieme di punti equidistanti da un punto centrale fisso. Analogamente a come la frontiera di una palla in tre dimensioni è una sfera ordinaria (o 2-sfera, una superficie bidimensionale), la 3-sfera è una varietà tridimensionale che fa da frontiera alla palla 4-dimensionale. Una 3-sfera è una varietà 3-dimensionale compatta, connessa e senza bordo. Inoltre, è un insieme semplicemente connesso: ogni curva chiusa sulla sua superficie può essere ristretta ad un singolo punto senza lasciare la 3-sfera. Secondo la congettura di Poincaré, dimostrata  da Perel'man, la 3-sfera (a meno di omeomorfismo) è l'unica figura con queste proprietà.



2 - Singolarità - Il concetto di singolarità ha origine in matematica, dove indica in generale un punto in cui un ente matematico, per esempio una funzione o una superficie, "degenera", cioè perde parte delle proprietà di cui gode negli altri punti generici, i quali per contrapposizione sono detti “regolari”. In un punto singolare, per esempio, una funzione o le sue derivate possono non essere definite e nell'intorno del punto stesso "tendere ad infinito".

In fisica, i punti singolari sono quelli in cui si verifica una singolarità matematica delle equazioni di campo, dovuta per esempio ad una discontinuità geometrica del dominio oppure al raggiungimento di un valore limite di un parametro. Benché le soluzioni singolari delle equazioni di campo restino molto utili per descrivere il comportamento fisico fuori della singolarità, esse perdono di significato fisico nei pressi del punto singolare. In pratica il comportamento fisico in tali intorni può essere descritto solo tramite teorie fisiche più complesse in cui la singolarità non si verifica. Un buco nero è una singolarità.

3 - Spazio connesso - In matematica uno spazio topologico si dice connesso se non può essere rappresentato come l'unione di due o più insiemi aperti non vuoti e disgiunti. In maniera poco formale ma abbastanza intuitiva, possiamo dire che la connessione è la proprietà topologica di un insieme di essere formato da un solo "pezzo".

Uno spazio topologico X è connesso per archi (o con terminologia equivalente, connesso per cammini) se per ogni coppia di punti x e y dello spazio esiste un arco che li collega.

Uno spazio topologico è detto semplicemente connesso (o 1-connesso, o 1-semplicemente connesso, se è connesso per cammini e ogni cammino tra due punti può essere continuamente trasformato in qualsiasi altro percorso simile preservando i due punti finali in questione.

Informalmente, un oggetto nel nostro spazio è semplicemente connesso se è costituito da un unico pezzo e non ha "buchi" che lo attraversano completamente. Ad esempio, né una ciambella né una tazza di caffè (con un manico) sono semplicemente collegate, ma una sfera di gomma cava è semplicemente connessa. In due dimensioni, un cerchio non è semplicemente connesso, ma lo sono un disco e una linea. Gli spazi connessi ma non semplicemente connessi sono detti non semplicemente connessi o moltiplicati.


Una sfera è semplicemente connessa perché ogni anello può essere contratto (sulla superficie) in un punto.

La definizione esclude solo i fori a forma di maniglia. Una sfera (o, allo stesso modo, una palla di gomma con un centro cavo) è semplicemente connessa, perché qualsiasi anello sulla superficie di una sfera può contrarsi in un punto anche se ha un "buco" nel centro cavo.

4 - Flusso di Ricci-Hamilton - Nei campi matematici della geometria differenziale e dell'analisi geometrica, il flusso di Ricci, a volte indicato anche come flusso di Ricci-Hamilton, è una particolare equazione alle derivate parziali per una metrica Riemanniana. Si dice spesso che sia analogo alla diffusione del calore e all'equazione del calore, a causa delle somiglianze formali nella struttura matematica dell'equazione. Tuttavia, non è lineare, e mostra molti fenomeni non presenti nello studio dell'equazione del calore.

Il flusso di Ricci, così chiamato per la presenza del tensore di Ricci nella sua definizione, è stato introdotto da Richard Hamilton, che lo ha utilizzato negli anni '80 del Novecento per dimostrare nuovi sorprendenti risultati nella geometria riemanniana. Successive estensioni dei metodi di Hamilton da parte di vari autori portarono a nuove applicazioni alla geometria, inclusa la risoluzione della congettura della sfera differenziabile di Simon Brendle e Richard Schoen.

Seguendo il suggerimento di Shing-Tung Yau che le singolarità delle soluzioni del flusso di Ricci potessero identificare i dati topologici previsti dalla congettura di geometrizzazione di William Thurston, Hamilton produsse negli anni '90 una serie di risultati che erano diretti alla risoluzione della congettura. Nel 2002 e nel 2003, Grigori Perel’man presentò una serie di nuovi risultati fondamentali sul flusso di Ricci, inclusa una nuova variante di alcuni aspetti tecnici del programma di Hamilton. I lavori di Hamilton e Perel’man sono ora ampiamente considerati come una dimostrazione della congettura di Thurston, compresa come caso speciale la congettura di Poincaré, che era un noto problema aperto nel campo della topologia geometrica sin dal 1904. I loro risultati sono considerati un pietra miliare nei campi della geometria e della topologia.


Il flusso di Ricci di solito deforma la varietà verso una forma più rotonda, tranne in alcuni casi in cui allunga la varietà oltre se stessa verso quelle che sono note come singolarità. Perelman e Hamilton, quindi, tagliano la varietà alle singolarità (un processo chiamato "chirurgia"), facendo sì che i pezzi separati assumano forme simili a sfere. I passi principali nella dimostrazione implicano il mostrare come si comportano le varietà quando vengono deformate dal flusso di Ricci, esaminare quale tipo di singolarità si sviluppano, determinare se questo processo chirurgico può essere completato e stabilire che l'intervento chirurgico non deve essere ripetuto infinite volte.

lunedì 4 aprile 2022

Storia del geometra (di Jan Potocki)

 


Mi chiamo Don Pedro Velasquez. Discendo dall'illustre casata dei marchesi di Velasquez, che, dall'invenzione della polvere da sparo in poi, hanno tutti servito nell'artiglieria, e hanno dato alla Spagna i migliori ufficiali che ha avuto in quest'arma. (...) 

Quando il debole individuo che sono vide la luce del giorno, mio ​​padre [Enrique] mi prese tra le sue braccia e, alzando gli occhi al cielo, disse questa preghiera: “O potenza incommensurabile che ha l'immensità per suo esponente! Ultimo termine di tutte le progressioni divergenti, oh! mio Dio, ecco un altro essere senziente che hai lanciato nello spazio. Se deve essere miserabile come lo è suo padre, possa la tua bontà segnarlo con il segno della sottrazione”. Dopo questa preghiera mio padre mi strinse al cuore e disse: “No, povero figlio mio, non sarai infelice come me. Giuro sul santo nome degli dèi che non ti insegnerò mai la matematica, ma conoscerai la Sarabanda, il balletto di Luigi XIV e tutte le futilità che verranno a mia conoscenza”. Poi mio padre mi bagnò con le sue lacrime e mi restituì alla levatrice. Ma vi prego di prestare attenzione alla stranezza del mio destino. Mio padre giurò che mai mi avrebbe insegnato la matematica e di darmi una conoscenza approfondita della Sarabanda. Beh, è il contrario che succede, perché mi capita di avere una grande conoscenza delle scienze esatte, e non ho mai potuto imparare non dico la Sarabanda, che non è più di moda, ma nessun altro ballo. In verità, vedendo danzare le contredanses inglesi, ne trovai due le cui figure potevano essere rappresentate da formule, ma non riuscivo a ballarle io stesso. (...) 

Trascorsero quindici anni, senza che nulla turbasse l'uniformità della nostra vita, che tuttavia era molto varia per mio padre e per me, per le nuove conoscenze di cui ci arricchivamo ogni giorno. Mio padre aveva persino abbandonato con me la sua vecchia riserva. In effetti, non mi aveva insegnato la matematica. Al contrario, aveva fatto tutto il possibile per assicurarsi che conoscessi solo la Sarabanda. Perciò non aveva nulla da rimproverarsi e si arrese senza rimorsi a chiacchierare con me su tutto ciò che aveva a che fare con le scienze esatte. Conversazioni di tal sorta avevano sempre l'effetto di ravvivare il mio zelo e di raddoppiare la mia applicazione. 

Nulla sarebbe mancato alla mia felicità, se avessi avuto ancora mia madre, L'anno scorso una violenta malattia l'ha sottratta alla nostra tenerezza. Mio padre prese poi in casa una sorella della sua defunta moglie, di nome Donna Antonia de Poneras, di vent'anni e rimasta vedova sei mesi fa. 

Questa giovane e graziosa zia s’impossessò quindi dell'appartamento di mia madre, e della gestione della nostra casa, che svolgeva discretamente bene. Soprattutto, aveva molte attenzioni per me. Veniva nella mia stanza venti volte al giorno, mi chiedeva se volevo cioccolato, limonata o simili. 

Queste visite spesso mi erano molto sgradevoli, perché interrompevano i miei calcoli. Quando per caso Donna Antonia non veniva, prendeva il posto la sua cameriera. Era una ragazza della stessa età della sua padrona e dello stesso umore. Il suo nome era Marica. Tuttavia, non sono sempre stato il loro piccione. Avevo preso l'abitudine di sostituire i miei valori non appena una delle due donne entrava nella mia stanza, e riprendevo i miei calcoli non appena se n’era andata. 

Un giorno, mentre stavo cercando un logaritmo, Antonia entrò nella mia stanza e si sedette su una poltrona accanto al mio tavolo. Poi si lamentò del caldo. Si tolse il fazzoletto che aveva sui seni, lo ripiegò e lo mise sullo schienale della poltrona. A giudicare da tutti questi accorgimenti, sarebbe stata una lunga seduta. Interruppi il mio calcolo, chiusi le tavole, e cominciai a fare delle riflessioni sulla natura dei logaritmi e sull'estrema fatica che la preparazione delle tavole doveva essere costata al famoso Don Nepero. Allora Antonia, che voleva solo darmi fastidio, si mise dietro la mia sedia, mi mise le mani sugli occhi e mi disse: “Allora calcola, signor geometra." 

Questa affermazione di mia zia sembrava contenere una vera sfida. Avendo recentemente fatto un ottimo uso delle tavole, molti logaritmi mi erano rimasti impressi. Li conosco, come si suol dire, a memoria. Improvvisamente mi venne in mente di scomporre il numero di cui stavo cercando il logaritmo in tre fattori [loga(xy) = loga(x) + loga(y)]​. Ne trovai tre i cui logaritmi mi erano noti. Li sommai nella mia testa, poi liberandomi improvvisamente dalle mani di Antonia, annotai tutto il mio logaritmo senza perdere una cifra decimale. Antonia ci rimase male. Uscì dalla stanza dicendomi in modo piuttosto scortese: “Stupido d’un geometra”. Forse voleva rimproverarmi che il mio metodo non si può applicare ai numeri primi che non hanno divisori se non l'unità. In questo aveva ragione, ma ciò che avevo fatto mostrava comunque una grande abitudine al calcolo e non era certo il momento di dire che ero uno sciocco. Subito dopo venne la solita Marica, che voleva pizzicarmi e solleticarmi, ma aveva nel cuore l'intenzione della sua padrona, e l'ho mandata via un po' rudemente. 

Una sera stavo lavorando dopo cena e avevo calcolato un’equazione differenziale molto delicata. Vidi entrare mia zia Antonia in camicia da notte. Mi disse: “Mio caro nipote, non posso dormire finché vedo la luce nella tua stanza e poiché la tua geometria è una cosa così bella, voglio che tu me la insegni. "

Non avendo di meglio da fare, acconsentii alla richiesta di mia zia. Presi la mia lavagna e gli mostrai le prime due proposizioni di Euclide. Stavo per passare alla terza quando mia zia, strappandomi la lavagnetta, mi disse: “Nipote mio sempliciotto. La geometria non ti ha insegnato come si fanno i bambini?" 

Le osservazioni di mia zia all'inizio mi sembravano assurde, ma pensandoci pensavo di aver capito che forse mi chiedeva un'espressione generale che rispondesse a tutti i modi di riproduzione impiegati dalla natura, dal cedro al lichene, e dalla balena agli animali microscopici. Ricordavo nello stesso tempo le riflessioni che avevo fatto sul più o meno, cioè sul numero delle idee di ogni animale, di cui avevo trovato la causa prima risalendo alla generazione, alla gestazione, all'educazione. Finalmente mi era venuta l'idea di una notazione particolare, che avrebbe designato per tutto il regno animale, le azioni della stessa specie ma di valori superiori. La mia immaginazione si era improvvisamente accesa. Pensavo di aver intravisto il luogo geometrico delle nostre idee e l'azione che ne risultava. In una parola, la possibilità di applicare il calcolo all'intero sistema della natura. Soffocato dalla folla dei miei pensieri, sentivo il bisogno di respirare più aria libera. Corsi sui bastioni e li girai tre volte senza sapere davvero cosa stessi facendo. (...)

Vi ho detto come, mentre facevo le mie riflessioni sull'ordine che regna in questo universo, avevo creduto di trovare applicazioni del calcolo che prima di me non erano state percepite. Vi ho poi raccontato come mia zia Antonia, con un'osservazione indiscreta e fuori luogo, fece confluire come in un focolare le mie idee sparse e formarsi in un Sistema. Alla fine vi ho detto come, avendo saputo che passavo per un pazzo, ero caduto da un'estrema esaltazione dello spirito in un estremo scoraggiamento. Vi ho accennato che questo stato di sconforto fu lungo e doloroso Non osavo alzare gli occhi su nessuno; i miei simili mi sembravano in lega per respingermi e degradarmi. I libri che erano stati la mia gioia mi provocarono un disgusto mortale. Non vi vedevo altro che un confuso mucchio di inutili verbosità. Non ho più toccato una lavagna e non avevo più fatto un calcolo. Le fibre del mio cervello si erano rilassate, avevano perso la loro primavera, non pensavo più. 

Mio padre si accorse del mio scoraggiamento e mi esortò a scoprire la causa. Ho resistito a lungo. Alla fine gli (... ) confessai di sfuggita il dolore che provavo per aver perso la ragione. 

Mio padre abbassò la testa sul petto e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Dopo un lungo silenzio, mi rivolse occhi compassionevoli e disse. “Oh figlio mio, quindi passi per pazzo e io lo sono stato davvero per tre anni [durante i quali si era ritirato in un convento di Camaldolesi]. Le tue distrazioni e il mio amore per Blanca [colei che aveva amato in gioventù e poi si era sposata con Carlos, il fratello minore vanesio diventato Duca per un malinteso] non sono le cause primarie dei nostri dolori. Il nostro male viene da più lontano. 

La natura è infinitamente fertile e varia nei suoi mezzi. Viene vista infrangere le sue regole più coerenti. Ha fatto dell'interesse personale il motivo di tutte le azioni umane. Ma nella folla degli umani ne produce alcuni dalla forma strana, tra i quali l'egoismo è appena percepibile, perché mettono i propri affetti al di fuori di se stessi: Alcuni sono appassionati di scienza, altri per il bene pubblico. Amano le scoperte degli altri come se le avessero fatte loro, e le istituzioni benefiche per lo stato come se un qualche vantaggio fosse loro maturato. Questa abitudine di non pensare a se stessi influenza tutto il loro destino. Non sanno come volgere gli uomini a loro vantaggio. La fortuna si offre e loro non si sognano di fermarla. 

In quasi tutti gli uomini l'azione dell'io non è mai sospesa: ritrovi il loro ego nei consigli che ti danno, nei servizi che ti rendono, nelle connessioni che cercano nelle amicizie che creano. Appassionati del loro più remoto interesse, indifferenti a tutto il resto. E quando trovano sulla loro strada un uomo, indifferente all'interesse personale, non riescono a capirlo. Lo sospettano di motivi nascosti, affettazione, follia. Lo respingono dal loro seno, lo degradano e lo relegano su una roccia in Africa [il geometra e suo padre abitavano a Ceuta]

Oh! figlio mio, apparteniamo entrambi a questa razza proscritta. Ma abbiamo anche i nostri piaceri e devo farteli conoscere. Ho provato di tutto per renderti un vanesio e uno sciocco: il cielo non ha coronato i miei sforzi, ed eccoti qui con un'anima sensibile e una mente illuminata. Quindi devo insegnarti che anche noi abbiamo i nostri piaceri, sono ignorati e solitari, ma gentili e puri. 

Qual è stata la mia soddisfazione interiore, quando ho visto il Signor Isaac Newton approvare uno dei miei scritti anonimi e il desiderio di conoscerne l'autore. Non mi manifestai, ma, incoraggiato a nuovi sforzi, arricchii la mia intelligenza con una miriade di nuovi pensieri. Ne ero pieno, non potevo contenerli. Sono uscito per rivelarli alla roccia di Ceuta. Li ho affidati alla natura, li ho offerti in omaggio al mio carattere". (...) 

Circa quattro settimane fa Diego Alvarez, figlio dell'altro Alvarez, venne a Ceuta per consegnare a mio padre una lettera della Duchessa Blanca, che diceva quanto segue: 

Signor Don Henrique! 
Queste righe sono per annunciarvi che forse Dio presto chiamerà vostro fratello il duca Velasquez. La costituzione particolare del nostro maggiorato non vi permette di ereditare da un fratello minore e la dignità deve passare a vostro figlio. Mi trovo felice di poter compiere quarant'anni di penitenza, restituendogli i beni che la mia imprudenza vi ha tolto. Quello che non posso restituirvi è la gloria dove il vostro talento vi avrebbe condotto. Ma siamo entrambi alle porte della gloria eterna, e quella del mondo non può più toccarci. Perdonate la colpevole Blanca un'ultima volta. e mandateci il figlio che il cielo vi ha dato. Per due mesi sono stata la badante del Duca. Vuole conoscere il suo erede. 
Blanca di Velasquez 

[Il geometra Pedro Velasquez partì così per Madrid]. Al calar della notte, giunsi ad un edificio vasto e ben costruito ma abbandonato e deserto. Misi il mio mulo nella stalla, e salii in una stanza, dove trovai gli avanzi di una cena, vale a dire un paté di pernice, pane e una bottiglia di vino di Alicante. Non avevo mangiato da Anduhar, e credevo che quella necessità mi desse dei diritti su questo paté che, peraltro, non aveva padrone. Ero anche molto alterato, perché il vino di Alicante mi dava alla testa, e me ne accorsi troppo tardi. 

Nella stanza c'era un letto abbastanza pulito, mi sono spogliato, mi sono sdraiato e mi sono addormentato, ma poi non so cosa mi abbia svegliato di soprassalto. Ho sentito una campana suonare la mezzanotte. Ho immaginato che ci fosse qualche convento nei dintorni e mi sono proposto di andarci il giorno dopo. 

Subito dopo ho sentito un rumore nel cortile. Pensavo fosse arrivata la mia parentela. Ma qual è stata la mia sorpresa quando ho visto entrare mia zia Antonia con la sua serva Marica. Questa portava una lanterna con due candele e mia zia aveva un taccuino in mano. “Mio caro nipote - mi ha detto- tuo padre ci ha mandato a darti questo foglio che dice importante" 

Ho preso il foglio e ho letto sulla busta: Dimostrazione della quadratura del cerchio

Sapevo che mio padre non si era mai preoccupato di questo problema ozioso. Ho aperto il taccuino. Ho scoperto che il problema considerato nel modo più generale includeva l'intero ordine di curve la cui equazione è y esponente m uguale a due a x, meno x esponente m. Questo era abbastanza alla maniera di mio padre, e non avevo dubbi che, anche quando la quadratura lì non si sarebbe dimostrata, si trovavano in questo quaderno tante abili e nuove approssimazioni. Mi parve però, attraverso molte trasformazioni, di riconoscere la quadratrice di Dinostrato

Tuttavia mia zia osservò che, avendo preso l'unico letto che c'era nella locanda, dovevo dargliene metà. Ero così impegnato con il mio taccuino che non sentivo bene quello che mi diceva e le aprii il posto meccanicamente. E Marica si sdraiò ai miei piedi appoggiando la testa sulle mie ginocchia. 

Ho ripreso la mia dimostrazione. Ho perso di vista il difetto che all'inizio credevo di averci visto, e che c'era davvero. Sono passato alla terza pagina. Vi trovai una serie dei più ingegnosi corollari che tendevano a quadrare e rettificare tutte le curve, infine il problema delle isocrone risolto dalle regole della geometria elementare. Felice, sorpreso, stordito credo dall'effetto del vino di Alicante, esclamai “Sì, mio ​​padre ha fatto la più grande delle scoperte”. 

“Ebbene,” disse mia zia, “baciami per la pena che ho patito per attraversare il mare e portarti questo scarabocchio." L'ho baciata. “Quindi (ha detto Marica) non ho attraversato il mare anche io?“ Ho dovuto baciare anche lei. 

Volevo riprendere il problema ma le due compagne nel mio letto mi abbracciarono così forte che mi fu impossibile liberarmene. Non lo volevo più. Ho sentito inestimabili sentimenti affiorare dentro di me. Un nuovo senso si formò su tutta la superficie del mio corpo, in particolare nei punti in cui toccava le due donne, il che mi ricordava alcune proprietà delle curve osculanti. Volevo dare un senso a ciò che provavo ma la mia testa non riusciva più a seguire il filo di nessuna idea. Alla fine le mie sensazioni si svilupparono in una serie divergente all'infinito, seguita dal sonno e poi da un risveglio molto spiacevole (...) 

Per fortuna avevo in mano il mio quaderno, ripresi i miei calcoli. Intanto mi avevano messo su una lettiga e un monaco montato su un mulo mi ha asperso di acqua santa. L'ho lasciato fare, ho preso le mie tavolette e la matita in mano, sono tornato alla presunta integrazione, che conteneva tutto il parallelismo, mi sembrava che mio padre non potesse essere l'autore del taccuino, anche se ho riconosciuto la sua mano nel modo di scrivere i numeri. 

Ecco tutta la storia della mia vita, dubito che potesse interessarvi, ad eccezione di questa bella signora che mi sembra avere per le scienze esatte un gusto che raramente si trova nel suo sesso. 

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da: François Rosset, Dominique Triaire. Jean Potocki. Manuscrit trouvé à Saragosse (1810).: Manuscrits et imprimés originels. 2019. ffhal-02083167ff. Traduzione mia.

giovedì 10 marzo 2022

L’evoluzione regolata dalla geometria di Giovanni Schiaparelli

 


Il saggio Forme organiche naturali e forme geometriche pure dell’astronomo Giovanni Schiaparelli (1835-1910) rappresenta un curioso caso isolato nel dibattito di fine Ottocento sulla teoria dell’evoluzione, perché combina il linguaggio della matematica con una eterodossa interpretazione delle idee di Charles Darwin. 

Pubblicato nel 1898 dall’editore Hoepli, questo studio era ospitato all’interno delle Peregrinazioni antropologiche e fisiche, una raccolta di articoli dell’amico antropologo e filosofo Tito Vignoli (1824-1914), all’epoca direttore del Museo Civico di Storia Naturale di Milano. 


Nel 1863 Vignoli aveva pubblicato il Saggio di una dottrina razionale del progresso, in cui inquadrava l’evoluzionismo in una visione di progresso generale dell’universo, proponendo una catena di trasformazioni che si muove sullo sfondo dell'infinitezza cosmica. Vignoli indicava tre cause prime del processo: il moto, l’evoluzione temporale e la vita. Quest'ultima era il modello delineato più chiaramente nel senso che “da una forma organica, unica primitiva, durante tempi incalcolabili, provennero tutte le maravigliose forme che ora abbellano ed avvivano la terra. Fu quella immensa battaglia della vita, che la stessa vita mutò, variò. diffuse, moltiplicò, crebbe, perfezionò”

Il contributo di Schiaparelli, una memoria di una novantina di pagine, comparve in un momento di accesa discussione, che investiva alcuni nodi ancora irrisolti del darwinismo. Se la teoria di Darwin era generalmente accettata, più complessi erano invece i fattori e le leggi che determinano il processo evolutivo, come il ruolo della selezione naturale o del caso. Oscure erano inoltre, prima della riscoperta delle leggi dell’ereditarietà di Gregor Mendel, le modalità tramite cui avviene la trasmissione dei caratteri tra le generazioni. Questi fattori scatenarono la nascita di diverse teorie che, pur innescate dall’evoluzionismo, andavano spesso in direzioni opposte, in alcuni casi contrarie alle tesi Darwin. 

In questo differenziato e talvolta acceso quadro, il contributo di Schiaparelli fu originale, in primo luogo perché egli non era un biologo o un filosofo, ma un autorevole astronomo, direttore dell’Osservatorio milanese di Brera e noto in tutto il mondo per le sue osservazioni su Marte. 

L’idea di Forme organiche naturali e forme geometriche pure nacque nella primavera 1897, durante una conversazione a proposito dell’ordinamento sistematico degli esseri viventi. Vignoli aveva elaborato una teoria ispirata alla sistematica classificatoria, incentrata su un’idea di evoluzione che avviene solo all’interno dei quattro tipi, o forme fondamentali invariabili (vertebrati, articolati, molluschi, radiati), in cui si organizza in maniera necessaria la materia vivente sulla base di determinate forme geometriche di struttura, esattamente "come le sostanze minerali non cristallizzano in più che sette sistemi di figure poliedriche". Nel sistema di Vignoli, la materia, grazie a precise caratteristiche geometriche, è divisa in quattro gruppi strutturali invariabili tra i quali non può esistere alcun passaggio evolutivo. Schiaparelli rimase colpito da queste idee e confidò a Vignoli che anche lui, ormai da molto tempo, stava riflettendo su questi problemi arrivando a "congetturare relazioni fra le strutture organiche e quella Geometria, che tutto informa il Cosmo, così nel grande come nel piccolo". L’astronomo promise all’amico di scrivere alcuni appunti in proposito e gli fece avere qualche nota. 

Vignoli trovò stimolanti le tesi di Schiaparelli, che considerava una conferma importante delle sue riflessioni. Dopo il primo scambio di idee, il filosofo continuò a seguire da vicino le fasi di gestazione della memoria, preoccupandosi anche di prestare a Schiaparelli le opere di Darwin, insistendo perché pubblicasse qualcosa sull’evoluzionismo. Giocò anche un piccolo colpo basso, perché durante una conferenza del 2 maggio 1897 in cui presentò la sua teoria evolutiva, introdusse brevemente anche le idee dell’amico. L’astronomo era ormai vincolato dall’annuncio fatto da Vignoli, riportato anche un noto quotidiano, che il giorno seguente dava come probabile la pubblicazione da parte di Vignoli di "un largo cenno della nota scientifica del suo illustre amico e cooperatore scientifico". Alla fine di maggio a Schiaparelli non restava che comunicare rassegnato a Vignoli: "Fiat voluntas tua"

Schiaparelli il 13 luglio spedì a Vignoli il risultato del suo lavoro. Come comunicato un mese prima, egli aveva preparato due versioni: una breve, in forma di lettera, di quattordici pagine; l’altra, invece, "un piccolo libro di 90 pagine con 20 figure geometriche, che appena ho il coraggio di farle vedere", anche se "in questa ho potuto spiegarmi assai meglio che nell’altra"

La scelta ovviamente cadde sulla versione più estesa. Il 21 luglio, Vignoli comunicava a Schiaparelli la decisione dell’editore, che era ovviamente interessato a pubblicare qualcosa di uno degli autori più prestigiosi e venduti della sua scuderia: all’inizio del 1898 il volume di Vignoli contenente il saggio di Schiaparelli era nelle librerie. 


Schiaparelli basava la sua teoria, da lui chiamata dell'evoluzione regolata o per tipi fissi, su un’inedita lettura geometrica del mondo vivente, una sorta di "platonismo evolutivo" (Schiaparelli stesso scherzò su questa discendenza filosofica). Nonostante il saggio continuasse a ribadire che tra questo evoluzionismo geometrico e la teoria darwiniana esistevano punti di contatto, Schiaparelli in realtà rifiutava alcuni aspetti centrali della teoria di Darwin. L’astronomo dedicava infatti alcuni capitoli a una puntuale comparazione tra la sua ipotesi e quella del naturalista inglese. 

L’argomentazione di Schiaparelli era articolata come in una dimostrazione matematica. L’intero ragionamento si basava su un’analogia logica tra le curve algebriche e gli enti organici: come l’infinita varietà delle forme geometriche pure dipende dalla variazione dei parametri di una stessa forma fondamentale, da lui chiamata anche principio di costruzione, così gli esseri viventi sono variazioni delle proprietà che caratterizzano uno stesso tipo organico. 
“Una forma geometrica dicesi pura quando tutti i suoi punti derivano da una medesima legge, cioè da un medesimo metodo di costruzione. Così la linea retta (in tutta la sua indefinita lunghezza), il circolo, la parabola, la superficie sferica costituiscono altrettante forme pure; perché tutti i loro punti si costruiscono colla medesima regola, e godono delle stesse proprietà. Invece un poligono rettilineo è una forma mista, perché i tratti rettilinei onde è composto, avendo diverse giaciture e direzioni, i punti dell'uno son descritti con norma diversa da quelli dell'altro. Similmente è una forma mista la superficie di un poliedro qualsiasi, di un segmento di sfera, di un tronco di cono, ecc. 

Carattere essenziale e distintivo di tutte le forme pure è questo: che data una parte quanto si voglia piccola, purché finita, di una forma pura, il resto di essa è intieramente determinato. Così, dato un tratto anche brevissimo di linea retta, si potrà facilmente descriverla tutta intiera, e prolungarla indefinitamente da una parte e dall'altra. Similmente da un piccolissimo arco di circolo si può dedurre la costruzione del circolo intero; e da una piccolissima porzione di superficie sferica, la costruzione di tutta la sfera. Lo stesso dicasi dell'ellisse, della parabola, di un ellissoide qualunque. Tanta grande è il vincolo, che unisce in modo stretto ed assoluto tutte le parti dello forme pure, e ne costituisce un tutto omogeneo ed armonico. 

Lo stesso invece non si potrebbe dire, per esempio di un poligono; del quale la parte data ABC non basta a discriminare il resto, che può essere ARC o AMSC o ANVPC ecc.; e neppure d’un poliedro, né in generale d'una forma mista qualsiasi. 

In tutto quello che seguirà noi ci occuperemo delle sole forme pure, essendo queste le sole, per cui l’uniforme modo di generazione e in stretta correlazione fra le parti permetta una comparazione, sotto qualche riguardo plausibile, cogli organismi della natura. Si potrebbe anzi dire in un certo senso, che anch’esse sono creazioni organiche; nel senso cioè che in ciascuna di esse tutte le parti, anche minime, sono coordinate secondo un medesimo principio”. 

Rispetto all’universo matematico delle curve, nella realtà contingente le cose sono complicate dai fattori dell’evoluzione, che nella spiegazione dell’astronomo rivestono più che altro una funzione perturbatrice. Tuttavia, nonostante questo "limite", per Schiaparelli gli enti della natura sono determinati a priori per “necessità logica”, allo stesso modo in cui in una formula matematica sono implicate tutte le infinite possibili combinazioni. Ogni nuova specie è quindi contenuta in potenza nel proprio tipo di appartenenza, manifestandosi di volta in volta a seconda delle circostanze. La natura come la vediamo non sarebbe altro che una combinazione di caratteri potenzialmente illimitata, un insieme dei frammenti sparsi di uno schema più grande, che non si realizza mai tutto in una volta. 
“L'idea principale del presente studio è di esaminare sotto quali rapporti si possa instituire una comparazione fra un sistema di curve aventi origine da una medesima formula (o da un medesimo principio di costruzione) e un sistema qualunque di enti della natura organica, rispondenti a certi caratteri comuni e classificati quindi sotto una medesima divisione sia poi questa designata col nome di genere, di famiglia. di ordine, di classe, di Regno. Qui si presenta subito alla considerazione la grande diversità che esiste fra una curva e un tipo qualsiasi di organismo naturale. Per la curva ogni studio è contenuto in quello delle pura forma geometrica: negli organismi, oltre all’elemento geometrico della forma, è da considerare la costituzione fisica, chimica, chimica o fisiologica delle parti, e il carattere delle funzioni che costituiscono la loro vita, non escluse le funzioni d’ordine psicologico. La curva deriva da un concetto matematico rigoroso e puramente ideale; per gli organismi non esiste, rappresentato da uno. né da più esemplari, un tipo puro e assoluto; gli individui in cui è tradotto in realtà il concetto che li informa, sono soggetti a mille influenze modificatrici e perturbatrici di effetto temporaneo o permanente. La curva, definita una volta nella legge della sua descrizione e nei suoi parametri, è intieramente immutabile: gli organismi durante il tempo della loro esistenza percorrono diversi stadi o seguono una progressiva evoluzione dallo stato embrionale a quello del loro massimo sviluppo, che si suole più spesso considerare come il loro stato normale. Nessuna di queste differenze deve essere negletta nella considerazioni comparative che si tratta di fare. 

(...) In ogni famiglia di curve ogni forma individuale è distinta dalle altre pel valore speciale che assumono in essa certi elementi fondamentali, detti parametri, Ora questo concetto ed altri parecchi da esso dipendenti io credo che si possano trasportare ai sistemi degli esseri organizzati, malgrado la grande diversità che corre fra questi e le curve. Penso adunque, che i tipi organici naturali, benché variabili sotto l'impero di numerose influenze, sono anch’essi determinati nei loro caratteri da un certo numero di elementi fondamentali secondo una legge o formula definita per ciascuna categoria o divisione. L’identità della formula stabilisce, come per le curve, i caratteri comuni della categoria; come nelle curve, i caratteri propri a ciascuna suddivisione dipendono dalla varietà degli elementi fondamentali. A quel modo che le diverse specie curve d'una stessa famiglia sono determinate dalle varie combinazioni che possono prendere i valori dei parametri, così credo, che dalle varie combinazioni degli elementi fondamentali e dalla maggiore o minor parte che ciascuno di essi può avere nella costituzione e nelle funzioni di ciascun organismo speciale, siano determinate le differenze specifiche entro i limiti della stessa categoria”. 
Così, per Schiaparelli, che concentra la sua attenzione sulle coniche, curve del piano i cui parametri sono dettati da equazioni di secondo grado, se si percorre il piano in una direzione qualsiasi, le forme corrispondenti variano in modo continuo, e non per salti. Quella regione del piano a cui corrispondono tutte le forme di una data specie, deve formare un’area continua. Ogni specie (S, S’, S’’, ecc.) ha un campo determinato, in cui si trovano i punti delle forme che le appartengono e da cui sono escluse le forme appartenenti ad altre specie. Le specie delle curve di secondo grado sono due: le ellissi e le iperboli, oltre che le parabole, che sono un caso limite. Se si esaminano tutti i punti del piano che corrispondono ad ellissi, essi si trovano in una certa parte, mentre nella rimanente sono raccolti tutti i punti che corrispondono a iperboli. Sono questi i campi delle ellissi e delle iperboli. Il confine tra queste regioni appartiene alla forma che costituisce il passaggio tra le ellissi e le iperboli, cioè delle parabole, i cui punti non occupano aree del piano, ma soltanto i punti della linea limite. Quindi non si potrà passare dalle ellissi alle iperboli per successive modificazioni se non attraversando la linea limite, passando cioè per la forma della parabola, che è un tipo di transizione. 


Ogni specie di curva, a cui corrispondono i punti di un determinato campo, può assumere infinite forme (o varietà), ma sempre rispettando i parametri (l’equazione generale) di quella determinata curva. Non possiamo assegnare valori arbitrari ai parametri di una ellissi senza evitare che essa si trasformi in un’altra specie di curva. Le curve i cui punti sono collocati sulla linea di confine sono soltanto forme di transizione, che esistono solo in casi particolari [povere parabole! NdR]. In analogia con le curve algebriche, il passaggio da una specie organica all’altra è, secondo Schiaparelli, consentito solo all’interno delle stesso campo di forme, “essendo separata in modo abrupto dalle circonvicine”

Date queste premesse, Schiaparelli si confrontava direttamente con alcuni temi cardine dell’evoluzionismo, quali il ruolo del caso e della selezione naturale, l’emergenza di nuove variazioni, l’atavismo, le forme intermedie della serie evolutiva, l’unità o la molteplicità dei centri di creazione delle specie. Su questi aspetti propose un’alternativa alla teoria darwiniana, la quale, ai suoi occhi, se spiegava bene alcuni aspetti, ne lasciava in ombra altri: si trattava di carenze della teoria evidenziate dallo stesso naturalista inglese e ancora in discussione a quasi venti anni dalla sua morte. A queste difficoltà avrebbe tentato di dare una risposta con la sua evoluzione regolata, attestandosi in realtà su posizioni anti-darwiniane. 

Per Schiaparelli la natura non può essere guidata dal caso, abbandonata a un processo cieco, ma è il risultato delle variazioni dei parametri propri del tipo organico a cui ciascun individuo appartiene (e che ancora non si conoscono). Su questa base. l’astronomo intendeva quindi ipotizzare una direzionalità nelle trasformazioni in natura. Nel suo modello matematico, bastavano poche leggi, in particolare la legge di discontinuità della materia organica, ricavata grazie a un’analogia con il mondo inorganico dei cristalli e degli elementi chimici, e la legge di correlazione, secondo cui, date certe variazioni, ne sono determinate o escluse altre. Queste poche leggi limitavano e guidavano a priori gli effetti dell’evoluzione. 

Come ribadì più volte, anche dopo la pubblicazione, Schiaparelli era consapevole che, rispetto all’universo matematico, il mondo dei viventi è infinitamente più complicato, non da ultimo per il fattore del tempo, completamente assente nella geometria. Di fronte all’immutabilità imperturbabile delle curve, gli organismi appaiono contingenti, mutevoli, complessi dal punto di vista fisico, fisiologico e psicologico, soggetti a continue modificazioni e perturbazioni esterne. Eppure, al di là di queste differenze, la comparazione sul piano logico era per lui possibile: come emergeva chiaramente nel corso del testo, gli organismi per Schiaparelli mutano seguendo precise traiettorie nel tempo e nello spazio, nel contesto di una natura segnata dall’evoluzione discontinua e dalla separazione netta tra classi zoologiche. Per l’astronomo, "in natura il continuo geometrico non esiste", allo stesso modo in cui la materia è un sistema discontinuo. 
“Quale sia l’importanza di questo fatto così semplice per determinare nel mondo fisico divisioni e classificazioni d’ogni genere, è facile vedere. In primo luogo, si trova. che applicando gradi crescenti di calore ad una porzione di materia, si determinano in essa tre stati e non più; il solido, il liquido e l’aeriforme, dall’uno dei quali si passa a all’altro non per gradi continui, ma per salti; gli stadi intermedi essendo di carattere instabile ed accidentale. Ed in secondo luogo avviene che quando in un corpo solido le molecole si dispongono secondo il loro naturale equilibrio, esso non può che cristallizzare che sotto forme geometriche, classificabili in sette sistemi di poliedri assai semplici e capaci di definizione precisa. E queste sono le forme naturali che si |potrebbero chiamare anche organiche, della materia; l'equilibrio nei corpi amorfi essendo sempre il risultato di azioni perturbatrici e non del libero sviluppo delle loro forze interiori. Ed in terzo luogo osserviamo che le varie forme, in cui può cristallizzare una data sostanza, oltre all’appartenere (generalmente parlando) ad un identico sistema, sono collegate tra loro dalla legge di Haüy, secondo la quale i parametri omologhi di queste forme (quantità che determinano l’inclinazione delle facce del cristallo rispetto ai suoi assi principali) stanno fra loro in rapporti esprimibili con una serie di numeri interi. Ma quando invece di uno si considerano due corpi (o due classi di atomi) e facendoli entrare in combinazione chimica, se ne forma un terzo corpo diverso dai due primi; la proporzione in peso delle parti componenti non sarà arbitraria, come in una miscela qualsiasi: ma dovrà farsi secondo uno od un altro di certi determinati rapporti; e questi rapporti (che soli danno luogo ad un organismo chimico propriamente detto) qualunque sia il loro numero anch’essi sono rappresentabili per mezzo di una serie di numeri intieri (legge delle proporzioni definite e delle proporzioni multiple di Dalton)...” 


Tutti questi fatti ed altri analoghi avvengono soltanto ammettendo che la materia non è continua, ma è costituita da atomi discreti. Anche il sistema chimico consente solo un certo numero di diversi tipi di atomi e non altri: sono gli elementi chimici, che, come Mendeleev ha scoperto, si dispongono in un sistema periodico. 

La spiegazione darwiniana in termini di variazioni casuali, selezione naturale, lotta per la sopravvivenza ed ereditarietà sembrava a Schiaparelli troppo arbitraria e accidentale per rendere conto di fenomeni che ai suoi occhi presentavano invece un rigore quasi matematico. Sotto l’effetto di un’evoluzione libera e senza freni (diremmo al di fuori dei parametri necessari) la natura produrrebbe una popolazione di “mostri”. Darwin aveva dato troppo spazio alle circostanze in cui l’organismo vive e si sviluppa, circostanze complesse che l’astronomo paragonava alle "onde nel mare in burrasca", che allontanano la biologia dalla possibilità di ottenere una conoscenza certa dei viventi. Per comprendere il mondo organico, Schiaparelli guardava allora all’universo della matematica, della fisica classica e delle leggi che regolano il mondo della materia, dalla chimica alla cristallografia. L’evoluzione per lui non era assolutamente libera, "ma è legata ad una formula fondamentale; i suoi risultati sono liberi soltanto entro i limiti concessi da una tal formula; il tipo trasformato si adatterà all’ambiente tanto, quanto da quella gli è concesso"

Il saggio non passò inosservato, come mostrano le recensioni apparse all’epoca su riviste scientifiche nazionali e straniere. Alla discussione sulla teoria dell’evoluzione regolata parteciparono biologi, filosofi e matematici, anti-evoluzionisti ed evoluzionisti di diversi orientamenti. Il dibattito tra i diversi attori fece emergere un educato, ma fermo confronto tra l’impostazione matematico-morfologica di Schiaparelli e quella fisico-biologica dei naturalisti, per lo più dubbiosi riguardo la legittimità di applicare la matematica alla conoscenza della complessità del vivente. Se lo psichiatra Enrico Morselli, pur esprimendo un certo interesse, diceva di non essere affatto convinto che la semplicità della geometria possa davvero cogliere la complessità della sfera organica, il filosofo pragmatista, matematico e storico della scienza Giovanni Vailati. non nascondeva le sue perplessità e non di meno recensì il saggio come un lavoro "denso di preziose suggestioni e di geniali vedute", che aveva il merito di dare un rinnovato impulso alla ricerca evoluzionistica in un momento di difficoltà come quello della fine del secolo. 

Tra coloro che criticarono apertamente la teoria di Schiaparelli, associata a quella di Vignoli, ci fu in particolare il filosofo Erminio Troilo, all’epoca seguace del positivista Roberto Ardigò. Troilo contestò la visione discontinua del processo evolutivo che emerge dal saggio. La questione assumeva "un carattere filosofico universale", che si risolveva nella considerazione che "la legge di discontinuità non si possa applicare nel campo organico, e tanto meno si possa assumere come legge del cosmo. Come legge universale resta, nell’unità, la continuità universale". Per di più, Troilo considerava del tutto illegittimo il passaggio logico dal piano inorganico a quello dei viventi, operato da Schiaparelli: 
“La considerazione della discretezza degli atomi della materia, dei rapporti delle combinazioni chimiche, dei sette tipi di cristallizzazione ecc., non può estendersi alla considerazione del campo dei viventi. Le relazioni che corrono tra il sistema esagonale e il monoclino sono tutt’altro che quelle che corrono per esempio tra il tipo vertebrato e l’invertebrato: e mentre a nessuno viene in mente di dire che la forma cristallografica esagonale è una evoluzione genetica della forma monoclina, la scienza pone invece per i viventi chiaro il problema che il vertebrato si svolga dall’invertebrato”.
Tra i biologi la principale voce critica fu quella dello zoologo dell’Università di Bologna Carlo Emery, autore di uno dei più fortunati manuali di zoologia del tempo. Secondo Emery, la teoria di Vignoli era "una pura astrazione della mente che da una somma di osservazioni concrete ricava un disegno generale, non sempre rispondente al vero". Quanto a Schiaparelli, faceva notare che: 
(...) attribuire a ciascun organismo la sua equazione specifica, alle cui variazioni corrispondano modificazioni dell’organismo stesso, è un pensiero che, nella sua arditezza mi piace: esso tende a creare nuovi simboli, sui quali la mente possa lavorare con ragionamenti astratti, che dovrebbero poi, per non rimanere vana speculazione, essere ricondotti a concetti concreti, quindi suscettibili di controllo empirico”. 
Nel confronto si fecero sentire anche le voci contrarie alla teoria dell’evoluzione. Il filosofo cattolico Lucio Gabelli nel 1900 sosteneva che la "genesi matematica della specie" non mancava certo di seduzione, ma l’errore di Schiaparelli era piuttosto quello dell’evoluzionismo: se le forme geometriche sono tenute insieme da una formula generale e non da un nesso genetico, perché questo non può valere anche per gli esseri viventi? Perché non ammettere che "alla formula unica, all’ordine" non può che conseguire "l’esistenza di un ente ordinatore, che nel caso nostro è Dio creatore?" 

Gli anni del dibattito intorno alle idee di Schiaparelli furono segnati da un vivace interesse intorno alla possibilità di applicare la matematica alla biologia, all’economia e alle scienze sociali. In particolare, fu il matematico e filosofo Vito Volterra, pioniere della biomatematica. Non a caso, quindi, nel 1901 Volterra si richiamava, nel suo discorso intitolato Sui tentativi di applicazione delle matematiche alle scienze biologiche e sociali, anche all’"ardito tentativo del più illustre astronomo dei nostri giorni, lo Schiaparelli, di costruire un modello geometrico atto allo studio delle forme organiche e della loro evoluzione”, equiparato ai modelli meccanici della fisica di Maxwell e Boltzmann. 


Per Volterra, Schiaparelli aveva fatto bene a pubblicare Forme organiche naturali e forme geometriche pure perché un matematico ha il dovere di aiutare le discipline più giovani, in particolare le scienze biologiche e sociali, avendo a disposizione un metodo certo e prezioso che può dissolvere le dense nebbie in cui sono ancora avvolti alcuni problemi. La matematica, utile per ottenere leggi generali e immaginare nuove ipotesi di lavoro, appariva allora come "la chiave che può aprire il varco a molti oscuri misteri dell’Universo, ed un mezzo per riassumere in pochi simboli una sintesi che abbraccia e collega vasti e disparati risultati di scienze diverse". Per muoversi in territori ancora inesplorati, era utile avere dei modelli, come quello di Schiaparelli, che "più che risolvere, apre ed aggiunge una nuova e particolare questione alle tante che già tengono il campo della biologia”

La ricezione del saggio si propagò anche nel nuovo secolo. Il lavoro di Schiaparelli attirò l’attenzione di Agostino Gemelli, il quale nel 1906 nell’introduzione all’edizione italiana del volume del gesuita tedesco Erich Wasmann La biologia moderna e la teoria dell’evoluzione, si richiamava proprio alla teoria di Schiaparelli, indicandola come una via intermedia tra l’ipotesi evoluzionistica e l’invariabilità delle specie. L’interesse da parte di Gemelli rispecchia l’attenzione crescente dei cattolici per una versione più "mite" dell’evoluzione, ripensata (faute de mieux) in senso deterministico e teleologico. 

Il saggio di Schiaparelli fece discutere non solo a cavallo del secolo, ma anche sul lungo periodo, alimentando una tradizione di studi che in Italia cercavano di coniugare biologia e scienze esatte. Nei primi decenni del Novecento, due figure di spicco della zoologia italiana si ispirarono infatti a Schiaparelli in alcuni loro lavori: la zoologa Rina Monti, una delle prime donne in Italia ad avere una cattedra universitaria, e il biologo Daniele Rosa, padre della teoria finalistica dell’ologenesi, secondo cui l’evoluzione degli organismi sarebbe avvenuta per processi interni e preordinati, a partire dagli organismi più semplici. 

Nel 1915 la Monti vedeva nella teoria dell’evoluzione regolata un’affascinante spiegazione fisico-matematica, logica e necessaria, di alcuni nodi problematici dell’evoluzionismo, come la mancanza delle forme intermedie o l’origine delle specie da uno o più antenati comuni. Le idee di Schiaparelli furono riprese e arricchite dal punto di vista biologico da Daniele Rosa, il quale nell’introduzione a Ologenesi del 1918, per avvalorare la sua teoria si richiamava proprio all’opera dell’astronomo. Schiaparelli era già stato chiamato in causa nel 1913 nel discorso intitolato L’Arca di Noè e l’evoluzione, pronunciato da Rosa a Firenze. In questa occasione, per spiegare il concetto di evoluzione predeterminata proprio dell’ologenesi, Rosa utilizzò le parole di Schiaparelli, paragonando le specie presenti in potenza nel primo organismo esistito sulla Terra alle infinite proprietà geometriche contenute a priori in una formula matematica. 

Ad affascinare zoologi come Monti e Rosa era la possibilità di applicare "nuovi metodi fisici allo studio dei fenomeni della vita", cercando anche per il mondo dei viventi leggi certe e necessarie, come quelle della gravitazione universale, della termodinamica o della cristallografia, senza rinunciare all’osservazione diretta o all’esperimento. Ai loro occhi, l’ipotesi di Schiaparelli offriva un modello di scientificità fisico-matematica, una chiave per leggere il mondo dei viventi. 

Nella vasta letteratura evoluzionistica del tempo, Schiaparelli cercava esempi e conferme a sostegno della direzionalità e discontinuità del processo evolutivo. L’astronomo rifiutava il caso e la cieca selezione, da cui, a suo parere, non può nascere alcun ordine, abbracciando l’idea di una "meccanica teleologica", intesa come "un principio da cui tutti gli organismi si possano dedurre per catena di causa ed effetto"

Lo faceva ammettendo la sua ignoranza in biologia, con l’atteggiamento di chi vuol dare una mano da fuori, scrivendo di non sapere valutare neppure lui la portata della propria teoria e di sentirsi "nella curiosa posizione di uno, il quale avendo raccolto nella polvere della strada qualche cosa di luccicante, non sa troppo giudicare quanto valga, ed è obbligato a darlo in mano ai gioiellieri per sapere se è vetro vile, o pietra di qualche pregio".