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martedì 11 aprile 2023

"Le particelle elementari", una storia consistente

 


Distanti ma uniti
- Con Le particelle elementari (1998) Michel Houellebecq ha conosciuto la consacrazione. La dimensione polemica del libro ha indubbiamente giocato un ruolo nel suo successo. In effetti, il romanzo non esita ad affrontare alcuni argomenti tabù con una lucidità e un cinismo a volte gelidi (e anche accuse di pornografia). Una caratteristica che avrebbe potuto provocare anche un perfetto rifiuto dei lettori (come personaggio pubblico Houellebecq ci mette molto del suo per apparire antipatico e indisponente). Ma la forza dell'autore è quella di aver saputo sviluppare nuovi angoli di approccio ai diversi problemi della società, tessendo nuovi parallelismi tra il sistema economico, sessuale, scientifico o addirittura religioso.

Attraverso il destino di due fratellastri a prima vista agli antipodi (ma piuttosto due facce della stessa medaglia, o due particelle con spin opposto), Michel Djerzinski, ricercatore asessuato di biologia molecolare, interamente dedito alla sua scienza ("Nel caso di Djerzinski, il suo uccello gli serviva a pisciare, e basta."), e Bruno Clément, insegnante ossessionato e frustrato, vittima della sua disperata ricerca di sesso, Houellebecq ripercorre la storia dei costumi sessuali e sociali di quarant’anni di storia sociale dell’Occidente.

Si tratta di trasformazioni politiche e sociali in cui il narratore scorge l’origine di una catastrofe mondiale senza via d’uscita, la cui responsabilità principale viene attribuita al movimento del Sessantotto; movimento complesso e oggetto di una enorme quantità di interpretazioni estremamente contrastanti e divergenti. Quella proposta da Houellebecq, condivisibile o meno, ha senz’altro il merito di essere chiara. A suo vedere, se il Sessantotto si è proposto come movimento di liberazione, in particolare nell’ambito sessuale, il problema fondamentale risiede proprio nel senso profondo di questa pretesa emancipazione. Perché attribuendo un valore capitale all’individuo, la liberazione cancella ogni possibilità di «legame» all’interno della società in modo così efficace che i suoi effetti sono tuttora evidenti:
“Fa un certo effetto osservare come spesso tale liberazione sessuale venisse presentata sotto forma di ideale collettivo mentre in realtà si trattava di un nuovo stadio nell’ascesa storica dell’individualismo. Coppia e famiglia rappresentavano l’ultima isola di comunismo primitivo in seno alla società liberale. La liberazione sessuale ebbe come effetto la distruzione di queste comunità intermedie, ultime a separare l’individuo dal mercato. Un processo di distruzione che continua oggigiorno”.
Ma la novità dell’epoca aperta dal Sessantotto è costituita da un trattamento particolare del desiderio. Come afferma Michel, “la società erotico-pubblicitaria in cui viviamo si accanisce ad organizzare il desiderio, a svilupparlo fino a dimensioni inaudite, al tempo stesso controllandone la soddisfazione nel campo della sfera privata. Affinché la suddetta società funzioni, affinché la competizione continui, occorre che il desiderio cresca, si allarghi e divori la vita degli uomini”.

Abbandonati dai rispettivi padri, poco amati in gioventù da una madre hippy e che li considera d’intralcio, né Bruno né il fratellastro Michel, i due protagonisti, riescono a inserirsi nella catena che lega i padri ai figli. Mentre Michel incarna lo scapolo senza figli, Bruno è il tipo del cattivo padre, incapace di recitare il suo ruolo in un mondo in cui la funzione paterna ha perso ogni significato:
“I bambini, invece, erano la trasmissione di uno stato, di regole e di un patrimonio. Questo era naturalmente il caso negli strati feudali; ma anche tra commercianti, contadini, artigiani, in tutte le classi sociali appunto. Oggi tutto ciò non c'è più: sono un dipendente, sono un inquilino, non ho niente da trasmettere a mio figlio. Non ho nessun mestiere da insegnargli, non so nemmeno cosa saprà fare dopo; le regole che ho conosciuto non si applicheranno più a lui, comunque vivrà in un altro universo”.
I passaggi sulla loro infanzia (il “regno perduto” come lo chiama Houellebecq) sono particolarmente commoventi. Evocano questa felicità spensierata, piena e totale, che può abitarci in tenera età:
"Molti anni dopo, quando sarebbe diventato un quarantenne disilluso e amareggiato, avrebbe rivisto questa immagine: lui stesso, quattro anni, che pedalava con tutte le sue forze sul suo triciclo per il corridoio buio, fino alla luminosa apertura del balcone. Probabilmente era in quei momenti che aveva sperimentato la sua più grande felicità terrena.”
Bruno scoprirà la crudeltà dei suoi coetanei durante il suo percorso scolastico e infine i suoi fallimenti sentimentali, mentre Michel si chiuderà nella sua solitudine di scienziato sognante e incapace di emozioni. Morte e follia li attendono in ogni momento, anche se qualche (breve) parentesi di felicità amorosa li placherà durante il loro tragico viaggio. I due sono mossi verso destini ineluttabili, e in molti hanno fatto notare che sembrano mere macchine narrative costruite apposta in funzione delle tesi di fondo sostenute dall’autore.

La prima parte del romanzo, dove vengono raccontate l'infanzia e l'adolescenza dei due fratellastri, è dominata da resoconti di simmetria che rivelano le esperienze vissute dall'uno come un'eco di quelle vissute dall'altro. Entrambi vengono abbandonati dai genitori e accolti dalle rispettive nonne che, attraverso l'amore e il sacrificio di sé, permettono loro di condurre una vita apparentemente normale. La morte della nonna determina l'uscita dal "regno perduto" (titolo della prima parte) e l'inizio di questi "momenti strani" (titolo della seconda parte) che porteranno il disincanto al culmine, mostrando l'inevitabile fallimento di i due fratelli in una società che ha spazzato via le condizioni di possibilità dell'amore come principio di coesione e condivisione. La tardiva relazione di Michel con Annabelle è un'eco ritardata della relazione di Bruno con Christiane. La morte prematura delle due giovani è una conseguenza simbolica dell'atrofia affettiva dei due fratelli: ognuno di loro incarna, in forma diversa, l'incapacità di amare.

L'incontro di Bruno con Christiane è iniziato con un rapporto orale in una vasca idromassaggio in un campo new age. Un momento che trova meraviglioso perché "non c'era alcun elemento di seduzione, era qualcosa di molto puro". La coppia frequenta assiduamente campi naturisti e circoli scambisti. Tuttavia, è presente anche la complicità (anche se non sembra essere il suo criterio primario) e tra loro nasce un vero e proprio attaccamento. Sviluppa qui il suo sogno di un “comunismo sessuale” che ancora chiama “sessualità socialdemocratica”.

Parallelamente, il rapporto con l'ex moglie mostra una visione senza pietà per i corpi "sessualmente imperfetti" (cellulite, smagliature, ecc.) mentre descrive, senza compiacimento, il suo ruolo di padre indegno (facendo scivolare psicofarmaci nella bottiglia di suo figlio per poter andare a masturbarsi davanti al minitel…). Passaggi durissimi e molto lucidi: "In realtà i padri non si sono mai interessati ai figli, non hanno mai provato amore per loro, e più in generale gli uomini sono incapaci di provare amore che è un sentimento a loro totalmente estraneo. Quello che sanno è il desiderio, il puro desiderio sessuale e la competizione tra maschi”.

Houellebecq descrive tutta la crudeltà della "legge del sesso", in particolare nella colonia comunitaria dove alloggia Bruno, il vampirismo di questa frenetica ricerca e il suo aspetto faustiano. “Asciugamano in mano, iniziò un percorso irregolare attraverso il prato; barcollò, per così dire, tra le vagine. ". Ma anche le fitte dell'onanismo nella sua solitudine più sordida: “Si versò un secondo whisky, eiaculò sulla rivista e si addormentò quasi tranquillo”.

A un certo momento Bruno comprende che “l’obiettivo principale della sua vita era stato esclusivamente sessuale; non era più possibile cambiare” e in ciò - sottolinea il narratore - “era un personaggio emblematico della sua epoca”. Ma stando così le cose è possibile considerare Bruno un individuo? È la domanda che si pone il suo fratellastro Michel (la coscienza critica all’interno del romanzo). Da un punto di vista fisico certamente, pensa Michel: “la putrefazione del suo organismo, sì, gli apparteneva individualmente; avrebbe conosciuto a titolo personale il declino fisico e la morte”, ma “d’altra parte […] la sua visione edonista della vita, i campi di forze che strutturavano la sua coscienza e i suoi desideri, quelli appartenevano al complesso della sua generazione”. Dunque, se sul piano fisico poteva apparire come un individuo, “da un altro punto di vista non era altro che l’elemento passivo dello spiegamento di un movimento storico. Le sue motivazioni, i suoi valori, i suoi desideri: nulla di tutto ciò lo distingueva neppure in misura minima dai suoi contemporanei”.


Individualismo e crisi dell'Occidente
- Man mano che si girano le pagine, emerge la visione paradossale e conflittuale della donna, che Michel ammira e odia (senza dubbio anche per l'abbandono 
materno). Non esita a condannare in ogni momento il femminismo (considerato castrante): “In pochi anni sono riusciti a trasformare i ragazzi intorno a loro in nevrotici impotenti e scontrosi”, per chiamare le donne “vecchia puttana” o per prendere in giro la “stupida rassegnazione delle femmine”, mentre poi scrive “A cosa servivano gli uomini? È possibile che in passato, quando gli orsi abbondavano, la virilità potesse aver svolto un ruolo specifico e insostituibile, ma per diversi secoli gli uomini non erano visibilmente serviti quasi a nulla. A volte ingannavano la noia giocando a tennis, che era un male minore, ma talvolta lo ritenevano anche utile per far avanzare la storia, cioè essenzialmente per provocare rivoluzioni e guerre. (…) Un mondo fatto di donne sarebbe infinitamente superiore sotto tutti i punti di vista; evolverebbe più lentamente, ma con regolarità, senza tornare indietro e senza interrogativi dannosi, verso uno stato di felicità comune”. O, anche “Decisamente, le donne erano migliori degli uomini. Erano più carezzevoli, più amorevoli, più compassionevoli e più gentili”. Respinge quindi con queste ultime dichiarazioni ogni sospetto di misoginia.

Al centro di questa riflessione, denuncia l'individualismo e la grande depressione sociale e spirituale di fine Novecento: "Avendo esaurito i godimenti sessuali, era normale che gli individui liberati dalle ordinarie restrizioni morali si rivolgessero ai più ampi godimenti della crudeltà; due secoli prima, Sade aveva seguito un percorso simile. In questo senso, i serial killer degli anni '90 erano i figli naturali degli hippy degli anni '60”.

Deliberatamente posto sotto il segno di Aldous Huxley e del suo romanzo The Brave New World al quale peraltro dedica un capitolo nel suo romanzo, Michel cerca di trovare una via d'uscita alla "malinconia dell'uomo occidentale” secondo la sua espressione. Un esito che, secondo lui, passa attraverso l'eugenetica da lui apertamente propugnata. Si propone così di riflettere sulla possibilità di una mutazione genetica che metta fine alla sofferenza e alla solitudine umana. Inventare una nuova specie che sia finalmente libera dal desiderio sessuale (ma non dal piacere) e dalla morte.
“La mutazione metafisica che ha creato materialismo e scienza moderna ha avuto due grandi conseguenze: il razionalismo e l’individualismo. L’errore di Huxley è stato quello di non aver valutato adeguatamente il rapporto di forza tra queste due conseguenze. In dettaglio, il suo errore sta nell’aver sottovalutato l’aumento di individualismo prodotto da una incrementata coscienza della morte. Dall’individualismo nascono la libertà, il senso dell’io, il bisogno di distinguersi e di essere superiori al prossimo”.
Perciò in ragione di questa libertà individuale, contrariamente a quanto pensava Huxley, sorgono la competizione economica e quella sessuale. Si giunge così ad una esacerbazione del desiderio:
“Perché la mutazione metafisica operata dalla scienza moderna si porta dietro l’individuazione, la vanità, l’odio e il desiderio. Di per sé il desiderio - contrariamente al piacere - è fonte di sofferenza, di odio e di infelicità. E, questo, tutti i filosofi - non solo i buddisti, non solo i cristiani, ma tutti i filosofi degni di questo nome - l’hanno capito e insegnato. La soluzione degli utopisti - da Platone a Huxley passando per Fourier - consiste nell’annientare il desiderio, e le sofferenze connesse, organizzandone l'immediata soddisfazione”.

Verso la post-umanità
- Houellebecq (attraverso Michel) immagina una nuova umanità, liberata dall'individualismo grazie a una mutazione biologica che sappia sfruttare i paradossi della fisica quantistica: la tesi della non separabilità quantistica in particolare è mobilitata per promuovere una nuova ontologia e l'immagine di nuove relazioni tra le persone. Le conoscenze derivate dalla biologia molecolare e dalla fisica quantistica vengono analizzate come strumenti di una revisione ontologica che ha come corollario una nuova concezione dell'evoluzione: lo spostamento verso la post-umanità, che segna l'ingresso nella post-storia, pone fine anche alla “storia naturale” che viene sostituita da una storia “meta-naturale”.

Lo scrittore francese osserva che l'uomo, antropologicamente, è in procinto di essere travolto dal mondo che ha creato: le scienze, infatti, hanno prodotto le condizioni per una mutazione fondamentale facendo dell'umanità "la prima specie animale dell'universo conosciuto" ad essere capace “di organizzare da sé le condizioni della propria sostituzione”. Eppure, questa mutazione è diventata essenziale, se l'uomo vuole sopravvivere al “suicidio occidentale”, diretta conseguenza della metafisica del materialismo che ha dominato il XX secolo. Incompatibile con l'umanesimo, il materialismo ha dato vita a una “cultura del godimento”, basata sull'apologia del desiderio e della liberazione sessuale, che ha come corollari l'individualismo, il consumismo e il mercantilismo. Ma lungi dal fermarsi all'evidenza del disastro storico che fotografa, Houellebecq delinea la possibilità della rigenerazione: poiché il male, la solitudine, viene dalla libertà individuale concessa dalle società moderne, il rimedio va cercato nel modello opposto, in un tipo olistico di società che concede all'individuo solo un valore secondario rispetto al collettivo:

La soluzione di Houellebecq non è né politica né umanista: una volta esaurita la metafisica del materialismo, un'altra metafisica deve sostituirla determinando l'apparizione di una nuova umanità, liberata dall'individualismo e dalla riproduzione sessuata grazie a una rivoluzionaria tecnica di clonazione. Questa mutazione antropologica si basa su due idee chiave: in primo luogo, la dissociazione della procreazione dal sesso, che dovrebbe garantire "la riproduzione della specie umana in laboratorio in condizioni di sicurezza genetica e affidabilità totale. Scomparsa conseguentemente dei rapporti familiari, della nozione di paternità e di filiazione”.

La fine della riproduzione sessuata appare come la logica conclusione di un processo che è già iniziato nell'ordine sociale e che deve trovare il suo prolungamento nell'ordine biologico. La scienza responsabile della creazione delle condizioni materiali per questa mutazione è la biologia molecolare; ma questa non fornisce strumenti abbastanza potenti da distoglierci dall'evidenza del nostro essere-nel-mondo ed è quindi la fisica quantistica che è responsabile della realizzazione del "grande cambiamento". Sta qui la vera originalità del romanzo: non nell'idea di sostituire la genesi con la genetica, ma in un progetto di revisione ontologica basato sui paradossi della fisica quantistica. La difficoltà è che la biologia e la fisica quantistica hanno due linguaggi lontani, tra i quali è difficile stabilire una continuità. È questo campo di ricerca, lasciato incolto dalla scienza, che Houellebecq ha voluto sondare attraverso l'immaginazione: “Mi aspetto molto dai ricercatori che cercano di collegare il mondo quantistico (la vera natura dell'infinitamente piccolo) al mondo macroscopico (il nostro mondo “normale” composto di oggetti). Queste persone stanno cercando di stabilire una continuità. È difficile. Ma è certo che una rivoluzione considerevole scoppierà quando questa continuità sarà stabilita”.

Particelle elementari - Questa sfida è quella che Michel cerca di raccogliere nel romanzo: si chiede come conciliare l'ontologia quantistica con l'esistenza di corpi biologici dotati di identità autonoma e qualità intrinseche. La fisica quantistica, in effetti, ha sconfitto la nozione realistica di una sostanza materiale dotata di permanenza e che sostiene i fenomeni nel più profondo dell'Essere. Le particelle elementari non sono substrati portatori di qualità concrete, ma strutture matematiche prive di sostanza sottostante. Prive di una precisa localizzazione, non corrispondono ad un classico punto materiale ma ad un pacchetto d'onda, cioè ad una sovrapposizione di movimenti potenziali, la cui posizione può essere valutata solo in termini probabilistici. A rigor di termini, si può solo parlare della realtà di una particella al momento dell'osservazione: tra due osservazioni, la funzione d'onda descrive la particella come se fosse sparsa su un'intera porzione di spazio, così che la sua esistenza è del tutto virtuale. Ma durante l'osservazione, la funzione d'onda si riduce ad una delle possibilità che descrive prima di evolvere, una volta fatta l'osservazione, in un nuovo spazio di possibilità. Essendo l'osservazione un evento discreto, senza continuità e senza durata, i costituenti ultimi della materia non possono essere considerati come entità permanenti che possiedono una propria “identità”. Schrödinger proponeva di immaginarli piuttosto come “eventi istantanei”, capaci di passare senza transizione da un'esistenza potenziale non localizzata a un'esistenza concreta localizzata, e viceversa.

Vediamo quanto sia difficile conciliare questa ontologia senza qualità con un'ontologia di corpi viventi che possiedono qualità proprie e un'identità non intercambiabile. La biologia e la fisica quantistica parlano linguaggi lontani, tra i quali possono esistere solo al massimo relazioni complementari. Principio essenziale della fisica quantistica, il principio di complementarità fu enunciato da Niels Bohr nel 1927 per risolvere la contraddizione onda/particella: le particelle elementari ci possono apparire a volte sotto forma di corpuscoli, a volte sotto forma di onde, questi aspetti costituiscono due rappresentazioni "complementari" di una stessa realtà. La fisica quantistica, come sappiamo, ha scoperto il disturbo causato da ogni osservazione: la cosa osservata reagisce a ogni misura che usiamo per osservarla. Dall'osservatore, quindi, dipende la scelta della proprietà corpuscolare o ondulatoria che privilegerà e si può descrivere l'oggetto solo dall'angolazione prescelta in termini di interazioni, correlazioni. Nella mente di Bohr, la contraddizione onda/particella dimostrava l'inadeguatezza del linguaggio naturale a descrivere i fenomeni e la necessità di ricorrere a diversi sistemi interpretativi per formulare punti di vista parzialmente contraddittori in un linguaggio semplice.
“Ma queste due modalità interpretative si completano anche a vicenda, perché in realtà sappiamo da tempo che hanno entrambe ragione, proprio perché la vita esiste. Il problema che la biologia deve affrontare non è quindi chiedersi quale di questi due modi di vedere sia il più corretto, ma semplicemente come la natura li abbia fatti combaciare.” (Bohr citato da Heisenberg).
Questa complementarità dei discorsi è il principio del romanzo, il cui carattere composito si spiega con la volontà di moltiplicare gli angoli di approccio. Essa è il principio della narrazione: Michel e Bruno, i quali incarnano rispettivamente il cammino della scienza e il cammino delle lettere, occupano infatti posizioni speculari nel dispositivo narrativo. Il discorso di Michel tende al distacco e l'impersonalità della scienza, mentre quello di Bruno si nutre dell'esperienza personale, che fornisce la sua materia viva alla letteratura. Michel, lo scienziato, del resto non è mai il narratore della propria vita, è solo colui che enuncia riflessioni teoriche il cui substrato empirico sono le esperienze del fratello. Quanto a Bruno, il letterato, è il narratore delegato della propria storia che racconta successivamente al suo psicanalista, al fratello e a Christiane. È come se le esperienze vissute e raccontate da Bruno alimentassero la maturazione intellettuale di Michel, che vi riflette in termini scientifici e propone la fine della riproduzione sessuata come soluzione ai problemi affettivi ed esistenziali in cui inciampa il fratello. Questa disposizione fa parte di un dispositivo sperimentale che consente di stabilire relazioni complementari tra scienza e letteratura, trasformando così il romanzo in una sorta di laboratorio in cui i fatti dell'esperienza e della teoria si completano a vicenda per lavorare su questo, che è forse il suo vero ambizione: la trasformazione dell'uomo.

Infine, la complementarità permette di inscrivere le traiettorie individuali dei due fratelli nel quadro del futuro collettivo, perché “così come l'installazione di un allestimento sperimentale e la scelta di una o più osservabili consentono di assegnare a un sistema atomico un dato comportamento - a volte corpuscolare, a volte ondulatorio - così Bruno potrebbe apparire come un individuo, ma da un altro punto di vista, era solo l'elemento passivo del dispiegarsi di un movimento storico. Le sue motivazioni, i suoi valori, i suoi desideri: niente di tutto questo lo distingueva, seppur minimamente, dai suoi contemporanei”.

La commistione di fatalità e cecità che governa il destino dei due fratellastri è in linea con la logica di un rigoroso determinismo storico: “Date le condizioni iniziali […], parametrizzata la rete delle interazioni iniziali, gli eventi si sviluppano in un disincantato spazio vuoto; il loro determinismo è inevitabile. Quello che era successo doveva succedere, non poteva essere diversamente; nessuno poteva essere ritenuto responsabile”. Questa visione ha qualcosa di disumano nel suo modo di negare la libertà e la responsabilità individuale, sottoponendo l'uomo alle leggi dell'eredità biologica e sociale. Le Particelle elementari è un romanzo con una tesi: il gusto dell'autore per il presente della verità generale, la durezza dimostrativa e la brutalità assertiva della sua scrittura, il carattere volutamente esemplare della maggior parte dei personaggi a volte tende a racchiuderlo nella retorica di un manifesto filosofico. Ma dietro queste apparenze si nasconde un oggetto strano, complesso, che sperimenta le grandi costruzioni teoriche e scientifiche del suo secolo per delineare i contorni di un mondo tornato finalmente abitabile.


Non località
- Questa disposizione ha l'effetto di collegare le traiettorie dei due fratelli in un modo che evoca la non separabilità quantistica, evidenziata nei primi anni '80 dagli esperimenti di Alain Aspect (premio Nobel per la fisica nel 2022), ai quali peraltro nella finzione del romanzo Michel avrebbe preso parte, che hanno fornito una completa confutazione delle obiezioni sollevate nel 1935 da Einstein, Podolsky e Rosen contro il formalismo quantistico (se non è preveggenza, Houellebecq ha senza dubbio dato prova di grande conoscenza delle ultime novità scientifiche). Conosciute come il paradosso EPR, queste obiezioni furono formalizzate dalle disuguaglianze di Bell, che considerano il sistema formato da due elettroni con spin opposto. Il teorema di Bell afferma che, se separiamo questi due elettroni di spin inverso e li collochiamo in luoghi molto lontani l'uno dall'altro, i loro spin, nonostante la distanza che li separa, continueranno a essere dipendenti: se uno vale +½, l’altro varrà -½. Il teorema di Bell risulta quindi in un paradosso: sebbene apparentemente separate nello spazio e incapaci di comunicare con qualsiasi mezzo fisico noto, le due particelle non sono separate, formano un sistema inseparabile, dotato di proprietà fisiche che non possono essere attribuite a nessuna particella, ma solo all'intero sistema. In seguito alla pubblicazione del lavoro di John Bell, diversi gruppi hanno tentato di verificare le previsioni della fisica quantistica effettuando esperimenti su popolazioni di particelle prodotte in coppia e allontanate l'una dall'altra in due direzioni opposte.

Per il loro test di Bell aggiornato, Aspect e i suoi colleghi hanno installato, per ciascuno di due fotoni entangled, un sistema di commutazione che cambiava in modo casuale il percorso del fotone tra due rami. Ogni ramo aveva un polarizzatore con un orientamento diverso. Il sistema funzionava come uno scambio ferroviario, deviando rapidamente i fotoni tra due "binari" separati, ciascuno con un diverso polarizzatore. Le modifiche erano apportate mentre i fotoni viaggiavano dalla sorgente ai rivelatori; quindi, non c'era abbastanza tempo per il coordinamento tra le presunte variabili nascoste.

Alain Aspect è riuscito a dimostrare che due sistemi quantistici interagenti possono essere rappresentati solo da un sistema con funzione d'onda globale: solo il grande sistema che comprende i due sistemi può avere uno “stato”. Questo fenomeno ha dato luogo a diverse interpretazioni filosofiche evocate nel romanzo:
“Djerzinski stava finendo la sua tesi di dottorato all'Università di Orsay. Come tale, avrebbe partecipato ai magnifici esperimenti di Alain Aspect sulla non separabilità del comportamento di due fotoni emessi successivamente dallo stesso atomo di calcio”. Continua Houellebecq: "Precisi, rigorosi, perfettamente documentati, gli esperimenti di Aspect avrebbero avuto un notevole impatto nella comunità scientifica"
"Restano quindi solo due ipotesi. O le proprietà nascoste che determinano il comportamento delle particelle erano non locali, cioè le particelle potevano avere un'influenza istantanea l'una sull'altra a una distanza arbitraria. O si doveva rinunciare al concetto di particella elementare dotata, in assenza di ogni osservazione, di proprietà intrinseche: ci si trovava allora di fronte a un profondo vuoto ontologico - a meno che non si adottasse un positivismo radicale, e ci si accontentasse di sviluppare il formalismo matematico predittivo di osservabili rinunciando definitivamente all'idea di realtà soggiacente. È naturalmente quest'ultima opzione che ha mobilitato la maggior parte dei ricercatori”.
Riletto alla luce di questi principi, il titolo del romanzo può essere interpretato in un senso diverso da quello che gli è stato generalmente attribuito. Come sottolinea Houellebecq, “particelle elementari” sono state spesso intese come “una società composta da individui che si sentono isolati, separati gli uni dagli altri, che si incrociano in uno spazio neutro". Ma c'è un altro significato: siamo noi stessi composti da particelle elementari, aggregati instabili, in continuo movimento. Passando dal livello individuale al livello infra-individuale, Houellebecq libera le particelle di una materia anonima di cui conserva solo le interrelazioni. Infatti, tra le opzioni ontologiche autorizzate dalla non separabilità, una consiste nel liberarsi radicalmente dall'archetipo del corpo materiale e nel considerare il campo fenomenico come un tessuto costituito dall'interrelazione quantistica dell'intero universo. Ciò presuppone l'esistenza di un mondo dotato di unità organica, privo di parti indipendenti l'una dall'altra: ogni evento è strettamente determinato da tutti gli altri, dipende da una combinazione di circostanze che coinvolge l'intero universo in un dato momento. In particolare, gli eventi che contribuiscono alla preparazione di una data esperienza determinano quale degli eventi dovrebbe essere l'esperienza - determinati da tutti gli eventi che si svolgono nel loro ambiente vicino o lontano.

Negando la concezione classica di un mondo che può essere analizzato in parti dotate di un'esistenza separata e indipendente, la fisica delle particelle la sostituisce con l'immagine di una totalità indivisibile che inscrive l'esistenza individuale all'interno di correlazioni più fondamentali. Di questa unità organica, Michel ha il presentimento in più occasioni. Innanzitutto, durante il matrimonio di Bruno dove si stabilisce nella sua mente un'associazione tra la formula consacrata, "i due diventeranno una sola carne" e le esperienze di Aspect: "quando due particelle sono state unite, formano appena allora un indivisibile intero, che mi sembra del tutto conforme a questa storia di una sola carne”. Non un mondo di oggetti, ma di relazioni.

L'idea della non separabilità fa quindi parte del romanzo su due livelli: determina il rapporto tra i due fratelli, ma fornisce anche il suo principio per il legame che unisce la nuova umanità. Sottoponendo la tesi dell'interdipendenza universale a un diversivo opportunista, Houellebecq immagina un'altra umanità, liberata dall'individualismo e fondata sulla connessione come nuova figura della collettività e della felicità.

La nuova umanità nasce da una regressione all'età precedente la separazione. Spinto dal desiderio di un paradiso unito, un "regno perduto" come ogni paradiso, libera l'uomo dalla responsabilità oltre che dall'individualità. Questa è tutta l'ambiguità del romanzo: la regressione sul piano psichico fa parte di un progetto di rifusione ontologica che, secondo il suo autore, testimonia un “progressismo sconvolgente”.


Ontologia degli stati e storie consistenti -
Secondo il fisico e filosofo della scienza Michel Bitbol, una delle ontologie più naturalmente adattabili alla teoria quantistica è un'ontologia degli stati, così come una delle ontologie più adatte alla teoria relativistica è un'ontologia degli eventi. Uno dei grandi vantaggi di una tale ontologia è che non solo permette di risolvere questioni di individualità, ma le priva di ogni possibilità di essere poste. Le entità costitutive della nuova ontologia, infatti, non sono più particelle, ma vettori di stato. Tuttavia, a differenza delle particelle che possono essere ritenute la causa di eventi discreti e specifici osservati nei dispositivi di misurazione, queste nuove entità sono profondamente inadatte al modello dualistico dell'azione causale. Ciò rende pericoloso qualsiasi tentativo di esprimere l'ontologia quantistica per mezzo del linguaggio naturale. Gli scienziati sono stati così portati a cercare possibilità di connessione tra il mondo così come si manifesta a noi (come una serie di eventi uniti da relazioni causali) e gli elementi della nuova ontologia. Questo è il ruolo assegnato alle teorie della decoerenza, che permette di stabilire una giunzione tra il mondo quantistico e il mondo dell'atteggiamento naturale. Hardcastle, uno dei suoi teorici, propone, ad esempio, di considerare gli oggetti di medie dimensioni che popolano il nostro mondo (tavoli, sedie, strumenti di misura), non come entità dotate di una propria dimensione ontologica, ma come l'ombra percettiva dell'effetto che le vere entità della nuova ontologia producono nel nostro cervello.

Houellebecq si dichiara a favore del “recente progetto di riprogettazione ontologica che aveva preso corpo dai lavori di Zurek, Zeh e Hardcastle: la sostituzione di un'ontologia di oggetti con un'ontologia di stati". Solo un'ontologia di stati, infatti, è stata in grado di restituire la possibilità pratica delle relazioni umane. In un'ontologia di stati, le particelle erano indistinguibili e ci si doveva limitare a qualificarle attraverso un numero osservabile. Le uniche entità suscettibili di essere identificate e denominate in una tale ontologia erano le funzioni d'onda e, attraverso di esse, i vettori di stato: da qui la possibilità analogica di restituire senso e amore”.

I riferimenti di Houellebecq alle teorie della decoerenza di H. Dieter Zeh, alle "storie consistenti" di Griffiths, all'"ontologia degli stati" di Wojciech Zurek non hanno nel romanzo una semplice funzione documentaria, sono attuati per costringere il lettore a partecipare all'elaborazione di una costruzione mentale che destabilizza tutti i suoi schemi cognitivi. La nuova ontologia rompe infatti con i consueti sistemi di rappresentazione, vale a dire anche con il consueto a priori romanzesco. Richiede l'invenzione di un nuovo linguaggio, non più “un linguaggio di oggetti e proprietà” ma “un linguaggio di stati”.

L'ontologia priva di qualità della fisica quantistica è incompatibile con il sostanzialismo del linguaggio naturale, il cui uso principale è quello di applicarsi alle cose oggettivate. Ora, il fatto di qualificare gli oggetti, quindi di usare nomi - propri o comuni - e dotarli di proprietà attraverso aggettivi, deriva da una rappresentazione materialistica del mondo: gli oggetti dovrebbero essere lì, con le loro proprietà, esistere indipendentemente dall'osservazione. Se volessimo fondare un linguaggio corrispondente ad un'ontologia di stati, dovremmo ridurre tutto, non più ad oggetti, ma a movimenti. Una sfida senza dubbio impossibile da vincere, perché richiederebbe la rinuncia alle strutture fondamentali del nostro linguaggio, ma che tuttavia spiega alcune caratteristiche della scrittura di Houellebecq: una scrittura piatta, diretta, senza enfasi, con piccoli aggettivi, una costruzione fluida dove le scene scivolano per giustapposizione, dove si passa senza transizione dal destino personale alla storia collettiva e dove i singoli accadimenti contano meno per se stessi delle dinamiche del tutto. Moltiplicando gli effetti speculari tra i personaggi, scivolando costantemente da una storia all'altra, da un livello all'altro, Houellebecq decostruisce la classica rappresentazione di un mondo analizzabile in parti autonome per sostituirla con una concezione olistica del dispiegamento narrativo. Da questo punto di vista, la storia dei due fratellastri è meno quella di due individui separati, quanto la ricostituzione di un movimento storico globale a partire da due luoghi ontologici interdipendenti. In un'ontologia di stati, infatti, il postulato dell'esistenza di individui autonomi non è altro che un'ipotesi di lavoro, adottata ai fini economici dell'adattamento. Come spiega Michel a suo fratello:
“Hai una consapevolezza di te stesso; questa consapevolezza permette di avanzare un'ipotesi. La storia che riuscite a ricostruire dai vostri stessi ricordi è una storia consistente, giustificabile nel principio di una narrazione univoca. Come individuo isolato, che persevera nell'esistenza per un certo periodo di tempo, soggetto a un'ontologia di oggetti e proprietà, non hai dubbi su questo punto; dobbiamo necessariamente essere in grado di associarti a una storia consistente di Griffiths. Questa ipotesi a priori, la fai per il dominio della vita reale, non la fai per il dominio dei sogni”.
È a questo sogno che il romanzo dà forma, iscrivendo la nuova ontologia nel non-luogo dell'utopia planetaria. Ma nel mondo reale, che è anche quello del lettore, non c'è alternativa al linguaggio naturale, che presuppone l'esistenza di individui autonomi, dotati di qualità proprie e di una storia suscettibile di mutare, da configurare all'interno di una narrazione. La realtà ultima della materia è in ultima analisi pensabile e dicibile solo a partire da un linguaggio che presuppone il suo contrario, cioè un mondo di cose dato in anticipo. Tra realtà dicibile e realtà quantistica ci sono però possibili mediazioni, come le “storie consistenti di Griffiths” che Michel evoca all'inizio del romanzo:
“Le storie consistenti di Griffiths furono introdotte nel 1984 per collegare le misurazioni quantistiche a narrazioni plausibili. Una storia di Griffiths è costruita da una serie di misure più o meno arbitrarie che si svolgono in momenti diversi. […] Da un sottoinsieme di misurazioni si può definire una storia, logicamente coerente, che però non può dirsi vera; può semplicemente essere sostenuta senza contraddizione. Delle possibili storie del mondo in un dato contesto sperimentale, alcune possono essere riscritte nella forma normalizzata di Griffiths; si chiamano allora storie consistenti di Griffiths, e tutto accade come se il mondo fosse composto da oggetti separati, dotati di proprietà intrinseche e stabili. Tuttavia, il numero di storie di Griffiths che possono essere riscritte da una serie di battute è solitamente significativamente maggiore di una”.
Nelle storie consistenti, l'approccio all'interpretazione quantistica è ampiamente compatibile con la meccanica quantistica standard come si trova nei libri di testo. Tuttavia, il concetto di misurazione con cui le probabilità vengono introdotte nella teoria quantistica standard non gioca più un ruolo fondamentale. Invece, tutta la dipendenza quantistica dal tempo è probabilistica (stocastica), con probabilità date dalla regola di Born o dalle sue estensioni. Richiedendo che la descrizione di un sistema quantistico venga eseguita utilizzando uno spazio campionario probabilistico ben definito (chiamato "framework"), questo approccio risolve tutti i ben noti paradossi dei fondamenti quantistici. In particolare, la meccanica quantistica è locale e coerente con la relatività ristretta. La meccanica classica emerge come un'utile approssimazione alla meccanica quantistica più fondamentale in condizioni adeguate. Il prezzo da pagare per questo è un insieme di regole di ragionamento simili, ma anche significativamente diverse da quelle che compongono la logica quantistica. Un'importante implicazione filosofica è la mancanza di un unico stato di cose universalmente vero in ogni istante di tempo.

Le storie consistenti di Griffiths sono sequenze di eventi ricostruiti dal pensiero, in modo tale che il loro verificarsi attestato non avrebbe alterato l'esito della previsione. Questo metodo di ricostruire a posteriori ciò che è accaduto prima della misura ha il pregio di giustificare il discorso spontaneo dei fisici delle particelle che, dall'osservazione di un impatto su un rivelatore, cercano nelle proprietà il filo di una sorta di catena di cause. Permette, in altre parole, di configurare in una narrazione gli eventi istantanei e virtuali che sono costitutivi della fisica quantistica. Tuttavia, la fisica quantistica generalmente consente più di una storia consistente tra due misurazioni.

A essere rigorosi, queste storie devono quindi essere considerate come finzioni che hanno un certo grado di attendibilità (probabilistica) ma non soddisfano il criterio della verità, che richiederebbe l'esistenza di un'unica storia tra due misurazioni reali. È in termini molto simili che la narrazione si riflette nell'epilogo del romanzo: come “ricostruzione credibile basata su ricordi parziali” piuttosto che “riflesso di una verità inequivocabile e attestabile”. La finzione non racconta fatti reali ma li ricostruisce secondo le modalità più generali del possibile e del probabile. Posizionandosi fin dall'inizio nell'inverificabile, la finzione è libera di moltiplicare all'infinito le possibilità di trattamento. Così facendo, non volta le spalle a un'ipotetica realtà oggettiva ma la affronta come un problema irrisolto, avviandosi alla ricerca di una verità meno rudimentale, più congetturale e meno univoca. La finzione può quindi essere un operatore di conoscenza e la fisica quantistica se ne serve, non solo come ultima risorsa, ma come strategia che contribuisce pienamente al suo successo cognitivo. La finzione, infatti, non è l'esposizione romanzata di questa o quella verità, ma una trattazione specifica del mondo che consiste non nell'eludere le regole che la trattazione della verità richiede, ma nell'evidenziare la natura complessa della situazione, che vieta di limitare la questione della verità a quella del verificabile. Di conseguenza, tra scienza e letteratura, si tratta meno di una contrapposizione che di una complementarità: accettando di lavorare nell'inverificabile per rispondere meglio alle esigenze della verità, giocano il gioco della finzione per proporre possibili scenari del nostro futuro.

L'ultima parola è lasciata al successore dell'uomo, in un ultimo omaggio a questa specie che, “per la prima volta nella storia del mondo, ha potuto intravedere la possibilità del proprio superamento; e che, qualche anno dopo, seppe mettere in pratica questo superamento”. Un tributo ambiguo perché reso da questo luogo impensabile che è la storia della post-umanità. Vale a dire dalla post-storia di un'umanità che ha rinunciato ai suoi attributi più specifici: desiderio, soggettività, individualità. Come se l'uomo possa raggiungere l'umanità solo a costo della propria negazione.

mercoledì 7 dicembre 2022

Sul significato quantistico dello zero assoluto 



Nel 1930, i fisici erano affascinati da un numero α chiamato costante di struttura fine o costante di Sommerfeld, la costante di accoppiamento dell'interazione elettromagnetica, di cui esprime l'intensità relativamente alla carica elementare. Fu introdotta da Arnold Sommerfeld nel 1916 come misura della deviazione relativistica delle linee spettrali del modello atomico di Bohr ed è espressa da una relazione fra costanti fisiche nell'ambito dell'elettromagnetismo. Come tutte le costanti di accoppiamento, α è una quantità adimensionale, indipendente dal sistema di unità di misura usato. Essa vale esattamente 1/137, o almeno così si pensava allora.

A detta di Max Born, in The Mysterious Number 137, pubblicato nei Proceedings of the Indian Academy of Sciences nel 1935, la costante «Ha le conseguenze più fondamentali per la struttura della materia in generale». Tale costante definisce la scala degli oggetti naturali: le dimensioni degli atomi e di tutte le cose che sono costituite da atomi, l'intensità e i colori della luce, l'intensità delle forze elettromagnetiche, ecc. In sostanza, controlla e ordina tutto ciò che vediamo. 


La costante di struttura fine è di fondamentale importanza anche per quanto concerne il principio antropico, infatti, questo parametro adimensionale è determinante nel far sì che l'Universo si presenti così com'è, ossia in grado, tra le altre cose, di ospitare forme di vita. Una leggera variazione (del 10-20%) dal suo valore basterebbe infatti a influenzare in modo rilevante le leggi fisiche che governano l'Universo, in quanto si avrebbero cambiamenti nei rapporti tra le forze attrattive e repulsive tra le particelle elementari, con conseguenze dirette sulla costituzione della materia e sull'attività stellare.  

La sua esistenza venne interpretata da alcuni scienziati come un indizio dell'incompletezza del nostro attuale modo di interpretare le leggi della natura. Come mai questo numero è l'esatto inverso di un numero intero?  Alcuni, come Arthur Eddington, che perse molto tempo della sua gloriosa carriera in queste elucubrazioni numerologiche, credettero che questa coincidenza dovesse avere necessariamente un significato mistico. Eddington inizialmente pensava che α valesse 1/136, ma poi cambiò idea per accordarsi ai dati sperimentali, una evidente contraddizione rispetto alla sua idea platonica di derivare le costanti fondamentali della natura da speculazioni esclusivamente numeriche. Altri, come Wolfgang Pauli, interessato alla Kabbalah, che associa un numero a ogni lettera ebraica, fu sconvolto nel notare che il numero che la Kabbalah associa alla parola Kabbalah non è altro che... 137. Il 137 per Pauli fu una vera e propria ossessione (e lo fu anche per il suo amico e sodale lo psicanalista Carl Jung) e tale rimase fino al giorno della sua morte. Morì nella camera numero 137 dell’Ospedale di Zurigo.  


Per prendere in giro questi eccessi numerologici, un giovane fisico, Hans Bethe, che avrebbe ricevuto il Premio Nobel nel 1967, scrisse con altri un articolo [1] in cui affermava di spiegare perché lo zero assoluto della temperatura, lo zero Kelvin, è pari a −273° Celsius.  Questa corrispondenza non è convenzionale, spiegava, perché −273 è uguale a −274 + 1. Tuttavia, 274 è uguale a due volte 137, cioè due volte l'inverso della costante di struttura fine.  Hans Bethe continuava poi questa assurda
ratatouille mescolando alcuni argomenti speciosi, spiegando ad esempio che è l'esistenza del neutrone che richiede l'aggiunta di un "più uno" affinché il calcolo sia corretto. 
“Consideriamo un reticolo cristallino esagonale.  La temperatura dello zero assoluto è caratterizzata dalla condizione che tutti i gradi di libertà sono congelati.  Ciò significa che tutti i movimenti interni del reticolo cessano.  Questo ovviamente non vale per un elettrone su un orbitale di Bohr. Secondo Eddington, ogni elettrone ha 1/α gradi di libertà, dove α è la costante struttura fine di Sommerfeld.  Oltre agli elettroni, il cristallo contiene solo protoni, per i quali il numero di gradi di libertà è lo stesso poiché, secondo Dirac, il protone può essere visto come un buco nel gas di elettroni.  Per ottenere lo zero assoluto dobbiamo quindi rimuovere dalla sostanza 2/α −1 gradi di libertà per neutrone.  (Il cristallo nel suo insieme dovrebbe essere elettricamente neutro; 1 neutrone = 1 elettrone + 1 protone.  Un grado di libertà rimane a causa del movimento orbitale.) Per la temperatura dello zero assoluto otteniamo quindi: 

 T0= −(2/α −1)°. 

Se prendiamo T0 = −273 otteniamo per 1/α il valore di 137 che concorda entro certi limiti con il numero ottenuto con un metodo completamente diverso.  Si può facilmente dimostrare che questo risultato è indipendente dalla scelta della struttura cristallina”. 
Per chiunque abbia basi rudimentali di fisica moderna, l’articolo è privo di senso ed è una evidente parodia di certi tipi di "numerologia" che sono popolari tra pseudoscienziati e invasati.  Per i suoi autori nel 1931 era ugualmente privo di senso; la fisica dello stato solido era meno avanzata di oggi e stava subendo alcuni cambiamenti drammatici causati dalla rivoluzione della fisica quantistica. Tuttavia, c’erano enormi lacune nella logica che avrebbero dovuto essere ovvie per i fisici di quel tempo. 

Ad esempio, α è indipendente dai sistemi di unità di misura, mentre il numero −273 per lo zero assoluto si applica solo ai gradi Celsius; in un altro sistema come i gradi Fahrenheit, lo zero assoluto è a −459° F. Questa è solo la sciocchezza più ovvia nel documento, ma avrebbe dovuto essere sufficiente per gli editori del giornale per capirlo. 

L'articolo fu pubblicato su una rivista molto seria il 9 gennaio 1931.  Tre mesi dopo, il direttore della rivista dovette pubblicare una nota spiegando che questa bufala aveva solo lo scopo di mettere in guardia contro la proliferazione di pubblicazioni che rientrano in quelle che ora vengono chiamate "scemenze".  Inoltre, ora sappiamo che la costante di struttura fine non vale 1/137 ma 1/137.035.999...  Non è il reciproco di un intero, quindi non c'era bisogno di fare tante speculazioni. 

[1] G. Beck, H. Bethe, W. Riezler, "Remarks on the quantum theory of the absolute zero of temperature", Die Naturwissenschaften, 2 (1931) 

lunedì 14 gennaio 2019

Dialoghi in veste di fumetto sull'Universo e tutto quanto


Spesso di dice che un buon libro scientifico sollevi più domande di quante risposte dia, nel senso che i suoi contenuti, il suo linguaggio, il suo stile invitano a saperne di più su uno o più argomenti, innescando un circolo virtuoso di curiosità e sete di conoscenza. Un buon libro invita anche all'introspezione, al desiderio da parte del lettore di porsi in discussione riguardo alle idee e alle certezze precedenti, magari scoprendo lacune da colmare o semplicemente nuovi orizzonti inaspettati da esplorare. Probabilmente non cambia la vita, ma invita a guardarla con occhi diversi da prima. Insomma, un buon libro segna un limite in cui ci si rende conto che esiste un prima e un dopo la sua lettura, un limite che non limita, ma è invece un luogo di partenza, o di ripartenza.

In effetti Dialoghi. Conversazioni sulla natura dell’Universo di Clifford V. Johnson è un libro un po’ sui generis. In primo luogo perché si articola in una serie di 11 dialoghi senza titolo, continuando una tradizione millenaria che annovera tra i suoi esponenti Socrate, Platone, e Galileo. La parola “dialogo” etimologicamente è διά-λογος, composto da dià, "attraverso" e logos, "discorso" e indica l’interazione verbale tra due o più persone come strumento per esprimere pareri e discutere idee o sentimenti. La ragione o il significato affiorano nel rapporto o nella comunicazione tra parti. Soltanto che, in questo caso, la scienza è più mostrata che raccontata.

La seconda importante particolarità del libro è infatti che si tratta di un’opera a fumetti. I protagonisti non agiscono in un contesto astratto, ma sono illustrati con visi, atteggiamenti, sentimenti nel loro contesto. Nell'opera di Johnson i dialoganti sono in genere giovani, che agiscono in luoghi pubblici quali musei, Università, caffetterie, treni, talvolta riprendendo e ampliando il discorso in un capitolo successivo. Alcuni sono ricercatori, ma utilizzano un linguaggio colloquiale per illustrare concetti anche ostici attraverso parole, schemi ed esempi semplici. In Dialoghi lo stile è diretto come in una graphic-novel o, come sostiene il premio Nobel per la fisica Frank Wilczek nella prefazione, in un nuovo sottogenere che chiama “graphic-dialogue”. La sceneggiatura è molto efficace; forse l’unico neo è il disegno dei personaggi, ma lo stesso autore ammette di non essere un grafico professionista.


Gli argomenti dei dialoghi gravitano tra fisica, cosmologia e filosofia e investono le cosiddette questioni fondamentali: la natura dell’universo, la “teoria del tutto”, la relatività, la fisica quantistica, la teoria delle stringhe, le simmetrie, i buchi neri, lo spaziotempo, i limiti fisici e l’impossibilità, l’infinito, Dio, morte e vita, ecc, senza tralasciare aspetti importanti come il metodo scientifico, la curiosità, l’utilità e la bellezza della matematica Ce n’è per suscitare l’interesse e la curiosità di chiunque, soprattutto dei giovani e dei non specialisti. Per questo motivo lo consiglio in modo particolare agli studenti degli ultimi anni delle superiori, alle biblioteche scolastiche e agli studenti universitari, non necessariamente di materie scientifiche. I temi sono affrontati con il necessario rigore e sono aggiornati con le scoperte più recenti: l’autore Clifford V. Johnson, inglese di nascita ma operante negli Usa, è fisico, divulgatore e consulente scientifico di importanti produzioni televisive e cinematografiche.

L’opera, uscita nel 2017 presso la MIT Press di Cambridge, Massachusetts, tradotta in italiano da Andrea Migliori, è stata pubblicata dalle Edizioni Dedalo di Bari nel novembre 2018. Considerando anche la bellezza della veste editoriale, il prezzo di copertina di 25 € è assolutamente onesto (e online si trova a meno).

Clifford V. Johnson, Dialoghi. Conversazioni sulla natura dell'Universo, Edizioni Dedalo, Bari, 2018. pp. 248, prezzo di copertina € 25, ISBN: 9788822057051

lunedì 29 ottobre 2018

Parla il gatto di Schrödinger


Sono un gatto, ma non ho mai provato una poppata dalla mamma, a fare le fusa per una carezza umana, a saltare per cacciare una lucertola o un uccello. In realtà queste cose dovrebbero appartenermi, perché sono nato fornito di ricordi fittizi di un passato inesistente. La verità è che come gatto sono piuttosto strano, e non posso neanche lamentarmi di una sorte che mi consente di vivere senza lettiera, senza pappa e acqua, senza luce, o, meglio, illuminato dal debole bagliore fosforescente di una piccola macchina che contiene una scaglietta di chissà che cosa, ma che nel mio intimo felino trovo abbastanza sinistro. Sono il protagonista di un esperimento mentale, nato dai neuroni di Erwin e costretto a vivere in una scatola per un tempo indefinito, senza sapere se, quando qualcuno aprirà il coperchio, sarò ancora vivo oppure no. In ogni caso ci sarò, perché ciò che è, è per sempre, anche se è stato solo pensato. Sono come l’Ippogrifo di Orlando, come il grifone di Alessandro. Sono il gatto di Schrödinger. 

Il mio orizzonte è limitato: una scatola d’acciaio a forma di parallelepipedo, una parete quasi quadrata, dove è incastrata la macchinetta che vi dicevo, prossima a un congegno che la collega con un martelletto a una seconda fialetta dove è contenuto un gas di cui indovino, grazie ai miei occhi di gatto, un colore vagamente bluastro. Un coperchio come soffitto, saldamente serrato, perché resiste al rullare delle mie zampe artigliate. Null'altro. Erwin non ha neanche pensato a un foro per fare penetrare dell’aria per respirare, confidando che come gatto mentale non ne ho bisogno, ideandomi come immortale finché “morte” non sopravvenga. La cosa strana è che, finché penso, posso dire cartesianamente di esserci, ma, essendo il parto di una mente, potrei continuare a pensare anche senza essermi accorto di essere morto per questo mondo. Sono sempre e comunque il gatto di Schrödinger.

Non sono nato per un capriccio improvviso o per un’intuizione repentina. Erwin è giunto a me dopo una lunga corrispondenza con Albert, con il quale condivide lo scetticismo per la casualità che rimproverano alla meccanica quantistica. All'inizio aveva pensato a una fabbrica di esplosivi, il cui catastrofico scoppio doveva essere affidato al capriccio del caso. Poi gli sono venuto in mente io, magari, e lasciatemi scherzare, annunciato da un angelo soriano con le vibrisse e con le orecchie a triangolo. In fondo sono un gatto, anche se sono quello di Schrödinger. 

L’idea di Erwin è poi diventata famosa e io, che sono della stessa natura dei suoi neuroni e partecipo delle sue sinapsi, ve la posso brevemente esporre. «Si rinchiuda un gatto (che poi sarei io) in una scatola d'acciaio insieme alla seguente macchina infernale (che occorre proteggere dalla possibilità d'essere afferrata direttamente dal gatto): in un contatore Geiger si trova una minuscola porzione di sostanza radioattiva, così poca che nel corso di un'ora forse uno dei suoi atomi si disintegrerà, ma anche, in modo ugualmente probabile, nessuno; se l'evento si verifica il contatore lo segnala e aziona un relais di un martelletto che rompe una fiala con del cianuro. Dopo avere lasciato indisturbato questo intero sistema per un'ora, si direbbe che il gatto è ancora vivo se nel frattempo nessun atomo si fosse disintegrato, mentre la prima disintegrazione atomica lo avrebbe avvelenato. La funzione ψ dell'intero sistema porta ad affermare che in essa il gatto vivo e il gatto morto non sono degli stati puri, ma miscelati con uguale peso». Cioè, in pratica, la mia vita dipende dall'eventuale e casuale decadimento di un atomo radioattivo. Se l’evento si verifica, un dispositivo elettrico aziona il martelletto che rompe la fiala con l’acido cianidrico e io muoio. Se l’atomo non decade, io continuo a essere vivo, sebbene rinchiuso in questa scatola d'acciaio. Nel frattempo, nessuno al di fuori della scatola può dire, prima di aprire il coperchio, se sono vivo o morto: sono parte di un sistema caratterizzato da una sovrapposizione di stati, ugualmente probabili in un intervallo di tempo, che Erwin rappresenta con la funzione d’onda ψ. Sono contemporaneamente vivo e morto, anche se un animale non può essere contemporaneamente vivo e morto. È per questo paradosso che sono diventato famoso come “il gatto di Schrödinger”. 

Non ho ancora detto perché Erwin, invece di scrivere una poesia o risolvere un cruciverba, mi ha creato in funzione del suo esperimento mentale. Erwin, come ho già accennato, è un fisico, un fisico quantistico, uno dei più bravi. Ora, questi umani si occupano di ciò che accade ai costituenti più piccoli della materia, che possono essere considerati contemporaneamente delle particelle e delle onde. Mentre nella meccanica classica, quella di Galileo, di Newton e di Laplace, tutte le grandezze possono assumere un insieme di valori continuo, nella meccanica quantistica è possibile che alcune grandezze assumano solo un insieme discreto di valori multipli di un valore fondamentale, che non si può scomporre a sua volta e viene detto “quanto”. Ad esempio, se devo salire una scala, non posso fare i salti che voglio, ma devo rispettare l’altezza dei singoli gradini. Posso anche saltare due o tre gradini, ma mai mezzo gradino o un gradino e mezzo. L’altezza del gradino è il quanto dell’altezza della scala. Allo stesso modo, l’energia posseduta da un elettrone dentro un atomo può essere solo un multiplo intero di una determinata quantità, parola di gatto che lo sa perché è il gatto di Schrödinger.

Nel mondo dei quanti, poi, spesso non valgono le regole della fisica classica. Se, a livello macroscopico, nelle nostre case, nei laboratori, un oggetto può essere misurato in ogni suo aspetto fisico con la precisione resa possibile dagli strumenti, se ci sono due porte per andare in un’altra stanza, esso passa da una porta o dall'altra, ma non da tutte due (il suono, che è un’onda, può farlo, ma una pallina da tennis no), in quello dei quanti non succede così. Nel mondo dei quanti, dove le particelle sono anche onde, se voi umani sparate delle particelle verso uno schermo con due fenditure, non saprete mai dove una singola particella è passata, anche se esse alla fine disegnano su uno schermo bersaglio la stessa figura di interferenza che lascerebbe un’onda. Anche se mediamente certi fenomeni possono essere previsti con una buona accuratezza (entro certi limiti insuperabili), molte piccole cose avvengono per caso, e questa cosa di non poter prevedere l’esito di una certa misura effettuata in un dato momento in un dato sistema, a molti fisici non va giù. Albert, l’amico di Erwin, ha detto che Dio non gioca a dadi con l’universo. Io, da bravo gatto, non mi preoccupo di questo signor Dio, ma so che, nel nostro mondo, come ha scritto Henri Poincaré, “Una causa piccolissima che sfugga alla nostra attenzione determina un effetto considerevole che non possiamo mancare di vedere, e allora diciamo che l’effetto è dovuto al caso. (…) La previsione diventa impossibile e si ha un fenomeno fortuito”. La nostra incertezza sulla probabilità che si verifichi un evento è dovuta al fatto che non conosciamo il valore di tutte le variabili del sistema, è una probabilità soggettiva, «epistemica», cioè legata a una nostra mancanza di conoscenza. Se qualcuno si stupisce del fatto che io conosca Poincaré, si ricordi che non sono un gatto qualsiasi, ma sono il gatto di Schrödinger. 

Nel mondo dei quanti, invece, la descrizione completa dello stato di un qualunque sistema di particelle è data da una formula che si chiama equazione di Schrödinger, perché l’ha inventata proprio Erwin. Essa descrive la funzione d’onda ψ, un ventaglio di possibilità di cammini nel tempo di un vettore in uno spazio complesso e astratto (spazio di Hilbert), fatto di infinite dimensioni, che alcuni fisici definiscono "spazio delle possibilità". Il suo modulo, elevato al quadrato, rappresenta l’ampiezza di probabilità associata al sistema. La funzione d’onda non ha un significato fisico diretto, ma è solo uno strumento di calcolo. Come tutti i vettori, le funzioni d’onda si possono sommare e moltiplicare secondo regole conosciute. La funzione d’onda ci dà il massimo dell’informazione possibile sul sistema. Questa informazione può essere soltanto probabilistica, perché rispecchia un comportamento intrinsecamente casuale della natura. Si tratta allora di una probabilità «non epistemica», che non è dovuta ad una mancanza di nostra conoscenza dello stato iniziale del sistema, ma è connaturata alla realtà ultramicroscopica, che è casuale: se ripeto tre volte la stessa misura, in certe situazioni ottengo, correttamente, tre valori diversi, anche se tutti entro il campo di probabilità descritto dalla funzione d’onda. Questa idea ad Erwin non piace. Il comportamento casuale potrebbe, pensano lui e Albert, dipendere dalla nostra ignoranza di variabili nascoste, che noi non conosciamo. La nostra incertezza sarebbe epistemica, esattamente come nel mondo macroscopico. Questo è uno dei motivi per cui ha pensato a un esperimento (mentale) macroscopico per un evento microscopico, mescolando volutamente i due mondi tramite me e l’atomo radioattivo. Lui vuole deridere le conseguenze del supporre una casualità intrinseca e non epistemica, e chiede allora: prima di aprire il coperchio in che stato si trova il gatto? Io mi trovo all'interno di un sistema (atomo radioattivo + gatto) in sovrapposizione di stati. Il gatto in questione, che a livello macroscopico dipende da un evento microscopico aleatorio e, in pratica, lo misura, sarei poi io, il gatto di Schrödinger. 

Adesso sono qua dentro, in attesa che qualcuno apra il coperchio e controlli che fine ho fatto. In pratica, qualcuno deve effettuare una misura del sistema. Secondo i fisici, se un sistema quantistico si trova in una sovrapposizione A + B, una sua misura "costringe" il sistema a passare definitivamente nello stato A oppure B. Da quel momento, la sovrapposizione sparisce e si parla di "collasso della funzione d'onda". Quindi, io sarò vivo e morto finché l’apertura del coperchio non mi farà passare a vivo o morto. Ecco un’altra curiosità della meccanica quantistica: la misura può determinare l’esito dell’esperimento, perché il mondo macroscopico irrompe in quello microscopico, che potrebbe tranquillamente farne a meno. Onestamente non vedo l’ora che qualcuno si decida ad aprire la scatola e mi faccia uscire da questa condizione d’incertezza. Tanto mica muoio anche se muoio, perché sono un gatto mentale, il gatto di Schrödinger. 

Mi viene anche un dubbio: non è che questa storia dell’esperimento, creato per criticare alcuni aspetti della fisica dei quanti, sia talmente strana che alla fine faccia pubblicità alla teoria? Ho il sospetto che ora, mentre vi parlo, posso essere sia vivo che morto. Però questo a lui non lo dico, perché magari ci rimane male. Lui è Erwin. Ve l’avevo detto che sono il gatto di Schrödinger?

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[Ringrazio l’amico Giorgio Chinnici per aver scrupolosamente e severamente criticato la prima versione di questo raccontino, piena di errori concettuali. La sua review è stata preziosa, così come la lettura del suo Guarda caso. I meccanismi segreti del mondo quantistico (Hoepli, 2017). Può anche darsi che di errori ce ne siano ancora, ma non ho avuto il coraggio di disturbarlo ulteriormente. Chi ne riscontrasse, può segnalarlo nei commenti.]